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Autore: Gageta    28/01/2014    5 recensioni
John frequenta il liceo Barts: è al suo ultimo anno e tutto sommato le cose vanno bene. Ci sono gli ultimi mesi di duro studio, l'imminente scelta per il proprio futuro, c'è la squadra di rugby e tante ultime feste a cui partecipare, ragazze al suo seguito che uscirebbero volentieri con lui e una in particolare, Mary, con la quale farebbe di tutto pur di avere un appuntamento.
John ha sempre avuto le idee chiare: gli uomini si invaghiscono delle donne, chiedono loro un appuntamento, si innamorano e le sposano. Una cosa elementare, naturale.
John è sempre stato certo di questo, ma poi incontra Sherlock Holmes, e tutto ad un tratto non è più sicuro di nulla.
[teen!lock, Johnlock!AU]
Genere: Fluff, Introspettivo, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het, Slash | Personaggi: John Watson, Quasi tutti, Sherlock Holmes
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Ed eccoci qui con il secondo capitolo…

Dato che è mooolto lungo, cercherò di essere il più breve possibile.

Allora, che dire? Il primo capitolo ha avuto un successo (almeno per i miei standard) che non mi aspettavo per niente. Non so che altro dirvi se non ringraziarvi e sperare che la storia possa continuare a piacervi con la continuazione *^*

Detto questo, avviso che alla fine del testo troverete un po’ di note. Ho pensato fosse doveroso metterle per una maggiore comprensione del testo ;)

Prima di leggere, tuttavia, vi annuncio già che la storia tratterà molto spesso di argomenti riguardanti il rugby. (In questo caso quello a 15 giocatori poiché è il più diffuso in Inghilterra). Per questo vi rimando alla pagina wikipedia dove ne parla: qui.

Per quanto riguarda il prossimo aggiornamento, invece, in questo periodo sono abbastanza impegnata con lo studio quindi potrebbero esserci dei possibili ritardi. Se tutto dovesse andare per il meglio, però, aggiornerò martedì prossimo.

Bene… come al solito: buona lettura!

Gage.

 

 

 

 

Orgoglio e Pregiudizio

Capitolo 2

 

 

A

ppena John se ne fu andato, Sherlock ripensò all’espressione che il ragazzo aveva assunto alle sue parole, confermando le sue teorie e dicendogli che ancora una volta era giunto alle giuste conclusioni.

Compiacendosi di se stesso lasciò che le parole di Lestrade perdessero il loro significato, scivolando via dai meandri della sua mente, mentre un sorriso superbo gli affiorava sul volto sotto lo sguardo attonito dell’altro.

«Ti diverti così tanto a inimicarti le persone?» sbuffò Greg.

Sherlock roteò gli occhi. «Io dico solo la verità. Se poi risulta essere scomoda non è colpa mia…» disse, poi voltò definitivamente le spalle all’altro e si avviò a passi cadenzati verso il lungo tavolo delle bibite.

Puntò verso un the freddo alla pesca e se lo versò in un bicchiere, portandolo poi alle labbra.

Al pensiero di dover rimanere lì ancora per un paio d’ore un vago senso di nausea gli attanagliò lo stomaco e dopo qualche secondo decise che avrebbe abbandonato la festa non appena Greg si sarebbe ributtato nella massa e avrebbe definitivamente perso ogni tipo di controllo su di lui. Mischiandosi al resto dei ragazzi si sarebbe avviato verso l’ingresso, dove avrebbe tranquillamente recuperato il proprio cappotto e la propria sciarpa con qualche scusa, e sarebbe poi uscito fuori, via da tutto e da tutti. Se proprio avrebbe avuto difficoltà nel recuperare il vestiario decise che ne avrebbe fatto a meno: dopotutto fuori non era poi così freddo e lui era ormai abituato a mantenere sbalzi di temperatura improvvisi. L’unico problema che si poneva davanti alla propria fuga era Mycroft: era sicuro che non lo avrebbe fatto entrare in casa prima di una certa ora. E Greg poteva anche non essere una cima d’intelligenza, ma prima o poi se ne sarebbe accorto e avrebbe immediatamente inviato un messaggio a Mycroft per avvisarlo. Odiava quella strana chimica che intercorreva tra l’amico e il fratello e che portava Greg ad ubbidire ciecamente a Mycroft: pareva che non ci fosse nient’altro al mondo da fare per entrambi che tenerlo sotto ferreo controllo. Sapeva che Greg si sentiva nettamente inferiore a suo fratello e odiava Mycroft per come riusciva ad averla vinta solo con un’occhiata minacciosa.

Alla fine del suo lungo ragionamento decise che avrebbe tentato la fortuna con l’amico. Per quanto riguardava il rimanere chiuso fuori di casa, Sherlock non aveva la minima fretta di tornarci e pensò che un giretto nei dintorni non gli avrebbe fatto male: magari avrebbe trovato un assassino per strada.

Quando, però, mezzo minuto dopo abbassò il bicchiere pronto a mettere in atto il suo piano, si ritrovò faccia a faccia con il sorriso affabile di Irene Adler.

«Ciao, Sherlock…» mormorò lei suadente. «Passata una buona serata?»

Il ragazzo non riuscì a trattenere uno sbuffo infastidito.

Irene Adler era una delle ragazze più subdole e intelligenti che avesse mai conosciuto. Si erano parlati per la prima volta durante una noiosa ora di corso al Barts, e da quel momento Irene lo aveva puntato, decisa a prendersi una parte della sua vita. Sherlock ammirava Irene Adler, la ammirava per la sua furbizia e le sue capacità intellettive che di certo non lo superavano ma comunque lo rendevano spesso dubbioso sulle proprie deduzioni. Irene Adler era un’attrice nata e Sherlock non riusciva quasi mai a interpretare il suo comportamento.

Era, con James Moriarty, a capo del Brainy club, il gruppo che comprendeva tutti i ragazzi più intelligenti della scuola, desiderosi di mettersi alla prova con gare di matematica e logica. Più volte gli aveva proposto di entrare a farne parte e Sherlock aveva anche partecipato a un paio di incontri, durante i quali aveva conosciuto Stamford, ma trovava la cosa fin troppo noiosa e alla fine aveva lasciato perdere. Ma Irene no. La ragazza si era naturalmente accorta della propria situazione privilegiata e aveva ormai tentato in tutti i modi di avvicinarlo, con scarso successo.

In quel momento Sherlock desiderò con tutto se stesso che la ragazza decidesse di lasciarlo in pace, o che un qualsiasi altro ragazzo la invitasse a bere qualcosa distraendola da lui, ma non avvenne niente di tutto ciò. Irene non si arrese al silenzio del ragazzo e continuò. «Che noia queste feste, vero?» Si avvicinò al tavolo dove Sherlock si appoggiava e osservò la sala pensierosa. «Scommetto che ti stai annoiando ancora più che nell’ascoltare un qualche nostro incontro del Brainy.» sorrise.

Sherlock appoggiò il bicchiere sul tavolo e la guardò dall’alto in basso.

«E pensare che credevo che le gare di matematica fossero difficili… speravo potessero almeno incuriosirti. Scommetto che declinerai ogni mia altra proposta di unirti a noi, vero?» Irene scosse i lunghi capelli con un sorriso triste ad incurvarle le labbra.

«Sì. Ma le feste sono molto meno noiose.»

Irene si finse sorpresa. «Oh, davvero? Avrei detto esattamente il contrario…»

Sherlock non rispose, spostando lo sguardo sulla sala. Vide distintamente Greg Lestrade parlare dall’altro capo della stanza con un suo compagno di corso.

«A volte mi stupisci Sherlock. Quando credo di averti perfettamente compreso tu mi esci fuori con frasi del genere che mi mandano totalmente in confusione.» disse l’altra, fingendo un tono lamentoso.

Sherlock si spostò lateralmente come a voler raggiungere un tovagliolo di carta sul tavolo, in realtà tenendo d’occhio l’amico da lontano e allo stesso tempo nascondendosi da lui. Irene lo seguì, per niente interessata alle sue mosse.

«Sono abbastanza imprevedibile.» borbottò il moro.

«Abbastanza da essere terribilmente affascinante.» aggiunse l’altra sorridendogli convinta.

Sherlock le lanciò un’occhiata di traverso.

«Visto che questa festa non ti sta annoiando… che ne dici di fare qualche passo insieme?»

Sherlock soppesò le sue parole mentre un pensiero contorto ma fattibile si faceva strada nella sua mente. Vide distintamente Greg porgere un bicchiere di coca cola (oh Greg, davvero?) all’ospite della festa, Clara. Qualcosa gli disse che sarebbe stato impegnato per un po’. Stava per declinare l’offerta quando l’amico gettò un’occhiata nella sua direzione e lo squadrò torvo.

Nel giro di mezzo secondo Sherlock aveva afferrato Irene per un braccio e la tirava verso l’improvvisata pista da ballo, stando ben attento a sorridere come se la ragazza avesse appena detto qualcosa di estremamente divertente. Come previsto, Greg ci cascò in pieno e tornò ad occuparsi dei suoi futili discorsi e di Clara.

Irene gli scoccò le dita davanti agli occhi. «Ma mi stai ascoltando?»

Sherlock si riscosse e la guardò interrogativo.

«Dicevo… sai ballare?»

Il ragazzo si trattenne dallo sbuffare. Certo che sapeva ballare, e anche bene a dir la verità. Aveva passato ore intere a seguire un corso di ballo da sala perché “facciamolo per la mamma”. All’inizio non lo voleva fare, lo considerava un’inutile perdita di tempo, ma poi alla fine era stato costretto a frequentare le lezioni contro la sua volontà, e non aveva mai odiato tanto Mycroft come quando lo aveva obbligato a farlo solo per rendere felice la madre e farsi adorare ancora di più. Tuttavia dopo qualche lezione aveva cominciato a trovare il ballo qualcosa di estremamente interessante e, nonostante dimostrasse tutto il contrario, Sherlock aveva cominciato ad aspettare le lezioni settimanali quasi con ansia. «Sì.» rispose, e presa la ragazza tra le braccia cominciò a muoversi con lei tra le numerose coppiette sulle note di A Thousand Years, titolo che ricordò grazie alla radio che aveva ascoltato poco prima in taxi.

Irene sorrise. «Lo sai che sei strano? Non hai mai avuto ragazze e non vieni mai alle feste… eppure sai ballare e ti piace.»

«Nessuno ha detto che mi piace ballare…»

Greg esplose in una finta risata, probabilmente causata da una delle pessime battute di Clara.

«Oh, andiamo… balli molto bene.»

«Non ho bisogno di complimenti.»

«Ah no? L’orgoglio in persona non vuole complimenti?»

Greg fissava con evidente desiderio la ragazza al suo fianco, ormai completamente dimentico del ragazzo che avrebbe dovuto tenere sotto controllo.

La porta d’ingresso era vicina, ancora un paio di strofe e l’avrebbe raggiunta. «Non ne ho bisogno.»

Irene sospirò. «Chi era la ragazza di prima?»

«Quale ragazza?»

«La biondina che ti si era appiccicata addosso…»

«Harriet Watson.»

«Conosci anche il suo nome? Dovrei essere gelosa?»

La canzone finì e Sherlock si fermò. Con un gesto plateale s’inchinò alla sua dama e le baciò ironicamente il dorso della mano. «Famiglia relativamente povera, orfana di padre, alcolista, in cattivi rapporti con il fratello e abiti dismessi. Direi che puoi farne a meno.» sorrise, e con un lieve cenno del capo si congedò.

Al contrario di quanto aveva pensato non faticò a riprendersi il cappotto e qualche attimo dopo era già per le scale dell’edificio che scese a due a due finché non si ritrovò fuori all’aria fresca di fine autunno.

Tuttavia non fece in tempo a girare l’angolo che il suo cellulare squillò. Con una punta di amarezza Sherlock si guardò intorno e individuò subito una telecamera a circuito chiuso che puntava verso di lui a pochi metri di distanza. Le voltò accuratamente le spalle e s’incamminò per la strada buia, ignorando completamente il messaggio che sapeva essere di Mycroft.

La festa era così noiosa? MH

~*~

Quella sera, quando i fratelli Watson tornarono a casa, trovarono la madre appisolata in sala sul divano-letto con il telecomando in mano e la tv accesa sul notiziario della BBC.

Harriet se la filò immediatamente nella stanza che condivideva con John, mentre quest’ultimo si avvicinò alla donna e, avendo cura di non svegliarla, spense il televisore. I suoi buoni propositi vennero tuttavia infranti quando un forte rumore provenne dalla camera adiacente. In un attimo Jocelyn aveva aperto gli occhi e si guardava intorno spaventata. «Che succede?» biascicò assonnata. «Ah… Johnny. Già di ritorno?»

John si stampò un sorriso in faccia e annuì. «Sì, mamma… e tu come stai? Hai preso le pastiglie?»

«E com’è andata con Sarah? Tutto bene?» chiese invece l’altra, ignorando la domanda del figlio minore.

«Sì bene…» mentì John, poiché aveva sperato in un finale leggermente diverso.

«Harriet?» continuò Jocelyn, mentre si tirava su a sedere stropicciandosi gli occhi con una mano.

Si è ubriacata per l’ennesima volta e sono dovuto andarla a prendere rovinando il mio appuntamento, pensò, ma le parole che gli uscirono di bocca furono tutt’altre. «Tutto a posto. È tornata prima di me. Ora è di là che dorme…»

«E quel rumore?»

John strinse le labbra e, approfittando del dormiveglia della madre sorrise di circostanza e riuscì a sviare il discorso. «Oh… deve essere caduto qualcosa in cucina. Ma ora dormi, è già tardi…» Con un gesto affettuoso sistemò il cuscino e la aiutò a sdraiarsi. «Notte mamma.»

Jocelyn sorrise contenta. «Buona notte figlio mio.»

Come ormai faceva da anni, John evitò anche questa volta di riferirle di Harriet e dei suoi problemi: era una cosa che era sempre riuscito a gestire più o meno da solo, e come sempre ne avrebbe parlato con Harriet, magari l’indomani, quando sarebbero stati entrambi abbastanza lucidi. Si preparò e poi si buttò sul letto, stanco morto.

La famiglia Watson viveva in un piccolo bilocale nella periferia di Londra, dove si era trasferita dopo che il padre se ne era andato. Purtroppo non erano una famiglia agiata e si erano potuti permettere solo un piccolo appartamento in affitto, così che John si era ritrovato a dover condividere la stanza da letto con Harriet, che già di per sé era piccola, figurarsi se dovevano starci in due.

Proprio per questo motivo quella notte John seppe per certo che la sorella non dormì: la sentì rigirarsi in continuazione nel letto prima di addormentarsi e, le poche volte in cui si svegliò durante la notte, la vide stesa supina sul materasso a fissare il soffitto. Quando infine la mattina si alzò per andare a scuola, notò che era già in piedi.

La trovò seduta al tavolo di cucina a rigirarsi tra le mani una tazza di caffè con un paio di profonde occhiaie e il viso pallido di chi non ha chiuso occhio durante la notte. John la osservò con apprensione. «Va tutto bene?» le chiese.

La ragazza sollevò la tazza e bevve un lungo sorso, poi fissò il fratello negli occhi. «Quando mai va tutto bene?» disse acida.

John sospirò. «Potresti per lo meno provare a fare andare tutto bene, ma sembra che non te ne freghi niente della tua vita.»

Harriet scoppiò in una breve risata isterica. «Questa vita non ha un senso, non lo ha mai avuto, e non lo avrà mai. È per questo che vuoi arruolarti nell'esercito, vero? Vuoi allontanarti il più possibile dalla tua vita?»

John roteò gli occhi al cielo e strinse i denti. Era sempre la solita storia, lui che cominciava a parlare pacatamente e Harriet che tirava in mezzo quel discorso di cui avevano già ampiamente discusso. «Piantala.» disse semplicemente, mettendo a bollire il latte.

«Non smetteremo mai di parlarne, John…»

Il ragazzo assottigliò gli occhi. «Ho sognato di entrare nell'esercito fin da piccolo. Ho cominciato a pensarci quando ancora c'era papà…»

«Quando c'era papà era diverso, John. Se lui fosse ancora qui non ci sarebbero così tanti problemi. Ma lui è morto, e ora tu non puoi abbandonarci così.» disse duramente.

John le diede le spalle e cominciò a imburrare una fetta di pane furiosamente, tanto che a metà dell’opera lasciò perdere e buttò il coltello nel lavandino.

«Non puoi andartene. È sbagliato e tu lo sai. Non puoi lasciarci.» continuò Harriet imperterrita.

John si voltò stringendo le mani a pugno. «Sei tu la maggiore, Harriet. Te lo ricordi questo? Tu dovresti tirare avanti la famiglia, tu avresti dovuto prendere il posto di papà e dare un senso a tutto questo! E invece no! Hai preferito annegare nell'alcool e lasciare che fossi io a risolvere i problemi. Ti piace vivere in questa casa in cui a malapena riusciamo a muoverci? Ti piace indossare abiti dismessi della mamma? Eh?» John si rese conto di avere alzato un po’ troppo la voce e si sforzò di darsi una calmata per evitare di svegliare Jocelyn.

Harriet lo fissò tristemente. «Pensi ancora al ragazzo di ieri sera, vero?»

John deglutì a fatica e si lasciò cadere su una sedia. Si passò una mano sul volto. «Scusa…» mormorò afflitto.

Harriet scosse la testa lentamente. «Non devi sempre prendertela se qualcuno ti provoca, John. Vorrei vedere quello Sherlock dopo aver vissuto una vita come la nostra. Per lui deve essere stato facile… circondato dai soldi.»

No, non sono uno dei tanti noiosi ricchi sfondati.

John si disse che Harriet aveva ragione, e la rabbia andò via via scemando. Era incredibile come la ragazza risultasse saggia a volte.

«E poi…» continuò Harriet con una smorfia, «…non aveva tutti i torti a prendersela con te. È stata colpa mia, scusa. Devo aver tentato di baciarlo… mi sembra.»

John strabuzzò gli occhi e per un attimo ebbe pietà per il ragazzo. Aveva visto una sola volta Harriet ubriaca darsi al corteggiamento, e non gli era per niente piaciuto, né a lui né al ragazzo oggetto del suo interesse.

Tornò a guardarla mentre finiva il suo caffè. «Sei sicura di stare bene?»

La ragazza annuì.

«Perché non hai dormito?» insistette, deciso a ricevere una risposta convincente.

Harriet lo guardò con occhi vacui. «Ero… Niente.»

John lanciò un'occhiata all'orologio: si stava facendo tardi. «Senti… Torna a casa oggi, ok? Dopo il lavoro vieni a casa. E questa volta chiederò a mamma se lo hai fatto. Non mentirò.»

Harriet abbassò lo sguardo sconfitta.

«Cerchiamo di tirarci fuori di qui, va bene? Un passo alla volta. Pensa a rimetterti in sesto, Harry.»

La ragazza annuì con una smorfia sul volto. Poco prima che John uscisse lo raggiunse alla porta e dopo averlo osservato mettersi le scarpe lo fermò qualche secondo in più. «Oggi vado a fare la spesa, va bene? Vado al centro…»

John gli lanciò un'occhiata sorpreso. «Da quando in qua vai tu a fare la spesa?»

Harry sbuffò. «Muoviti, o farai tardi.»

~*~

Se c’era una cosa che Harriet odiava, quella era andare a fare la spesa. A dire il vero la giovane Watson odiava in generale occuparsi della sua famiglia, ma quel tipo in particolare di occupazione le era impossibile da accettare. A differenza delle ragazze della sua età (o delle ragazze in generale, dipende dai punti di vista), Harriet non desiderava affatto saper gestire ed occuparsi di una famiglia. La ragazza preferiva di gran lunga lasciar lavorare il fratello “come una femminuccia” e occuparsi d’altro, come, per esempio, portare a casa il proprio stipendio, comunque abbastanza esiguo, mantenendo così la famiglia con il proprio lavoro.

Harriet era del tutto diversa da John: impulsiva e cocciuta, sempre arrogante con tutti coloro che le offrivano il loro appoggio, convinta di poter contare solo su se stessa, ma allo stesso tempo bisognosa dell’aiuto del fratello ogni qual volta si ritrovava barcollante per il troppo alcool ingerito a qualche chilometro da casa. Per questo e molti altri motivi i due Watson non riuscivano ad andare pienamente d’accordo.

Anche se tentava di nasconderlo, molte volte John coglieva il suo lato tenero, come quando, per esempio, tornava a casa e la trovava accoccolata con la madre sul divano, o quando presa da improvvisi moti di gentilezza preparava la colazione per tutta la famiglia.

A parte questi rari momenti, però, era a lui che toccavano tutti i lavori domestici che non svolgeva Jocelyn, come spolverare negli angoli più remoti e irraggiungibili della casa, o apparecchiare per il pranzo e la cena, o stendere e ritirare i panni una volta asciutti, o, per l’appunto, fare la spesa.

Se quel pomeriggio Harriet aveva deciso di rendersi utile di sicuro c’era un motivo ben preciso e ben più importante delle effettive compere.

Dopo aver vagato per Tesco per neanche mezzora, dove aveva comprato in fretta e furia l’essenziale, Harriet si era fermata al Blue Bar, con la scusa di una pausa veloce e un buon caffè.

Si sedette a uno dei tavolini che davano sul corridoio del centro commerciale e prese in mano il menù con aria noncurante, aspettando che qualcuno venisse a prendere l’ordine. Per la verità, aspettando quel qualcuno in particolare che arrivò pochi minuti più tardi.

Clara si avvicinò ad Harriet vestita con la divisa del bar, i capelli stretti in una coda e un palmare per prendere le ordinazioni in mano. Sembrò sorpresa di vederla lì e dopo qualche secondo di esitazione si sedette al tavolino, sprofondando con la testa tra le braccia.

Harriet ridacchiò. «Stanca?»

Clara emerse quel poco per guardarla bene in faccia. «Lavora tu per otto ore ininterrotte perché la tua amica è a casa malata e non c’è nessun’altra a sostituirla.»

Sorrisero entrambe, poi Clara prese il palmare e il pennino. «Allora cosa ordina signorina Watson?»

La ragazza guardò con attenzione il menù. «Lei cosa mi consiglia?»

L’altra sbuffò sonoramente, senza riuscire a trattenere però un sorriso. «Beh… a quest’ora un caffè non ci sta poi tanto male.»

«E quanto viene?»

«Due sterline e cinquanta.»

Harriet ghignò, nascosta dal foglio plastificato che teneva in mano. «Guarda che caso… ho giusto giusto cinque sterline.»

Con un leggero batticuore alzò lo sguardo per puntarlo negli occhi castano chiaro dell’altra che la guardò per un attimo senza capire. Poi alzò un sopracciglio. «Non ci credo…»

Harriet sorrise di circostanza e abbassò del tutto il menù. «Se vuoi, non è…»

Clara balzò in piedi. «Oh figurati! Lo prendo volentieri un caffè… giusto per staccare un attimo. Tanto come vedi non è che abbiamo molti clienti…» disse, facendo un gesto col braccio ad indicare i tavolini vuoti intorno a loro. Poi sorrise ad Harriet e sparì oltre il bancone.

La ragazza tirò un sospiro di sollievo e si posizionò più comodamente sulla sedia, aspettando che l’altra tornasse con i due caffè.

Sorrise tra sé e sé: per una volta ci aveva visto giusto.

~*~

Nonostante il discorso avuto con la sorella, John aveva pensato molto più spesso di quanto avrebbe voluto a Sherlock Holmes. Le sue parole gli risuonavano in testa ogni volta che apriva la porta di casa e guardava stancamente il buco in cui vivevano; ogni volta che vedeva Harriet uscire con un paio di pantaloni sgualciti che ricordava di aver visto molte volte addosso a Jocelyn; ogni volta che indossava uno dei suoi maglioni fatti a mano di cui era sempre andato fiero perché gli davano un aspetto originale rispetto a tutti gli altri. Pensava a lui perfino agli allenamenti di rugby, ma in quei momenti non poteva che ringraziarlo: visualizzava davanti agli occhi la sua espressione altezzosa e ciò gli dava la rabbia necessaria per buttarsi nella mischia.

Una settimana dopo la festa, John era riuscito a dimenticarsi di Holmes grazie all'appuntamento che aveva avuto con Sarah, finito in bellezza con un bacio particolarmente approfondito. Era proprio ad esso che stava pensando quando, quel giovedì pomeriggio, salì al laboratorio di chimica per andare ad aiutare Mike a studiare per un compito relativamente importante.

Se avesse saputo che lì avrebbe incontrato per la seconda volta quello che era stato l'oggetto dei suoi pensieri fino a qualche giorno prima, forse non vi sarebbe andato.

Ma così non fu e John varcò le porte del laboratorio. Mike si girò appena sentì le porte aprirsi, accogliendolo con un sorriso e una delle sue solite pacche sulla schiena da far tremare l'intera cassa toracica. John lo salutò a sua volta e scansandolo si avvicinò al tavolo, ma si bloccò a metà passo, stringendo improvvisamente la spallina dello zaino con ansia.

Sherlock Holmes era chino su una provetta contenente uno strano liquido, e teneva una pipetta di plastica in mano dalla quale fece uscire un paio di gocce con estrema concentrazione.

Per un attimo John si chiese se non fosse un brutto segno e se non dovesse girare i tacchi e andarsene prima di cominciare a prenderlo a pugni. Poi però ripensò alle parole della sorella e si fece forza. Lo ignorò totalmente, approfittando del fatto che l'altro non si fosse apparentemente accorto della sua presenza, e cominciò invece a parlare con Mike, cercando di ricordare cosa dovessero fare quel pomeriggio.

Dopo dieci minuti John si era ormai dimenticato di avere al suo fianco Sherlock Holmes, e studiava tranquillamente con Mike, aiutandolo a fare esercizio sulla nomenclatura chimica.

«Ho bisogno del tuo cellulare, Mike.» La voce profonda di Sherlock interruppe a metà il discorso di John, il quale si bloccò e si voltò distrattamente verso il ragazzo che stava osservando i due amici con aria critica.

Mike sospirò. «Non puoi usare il fisso?» chiese.

Sherlock lo guardò con distacco. «Lo sai che preferisco i messaggi…» ribatté.

Mike si strinse nelle spalle. «Beh, mi dispiace. L'ho lasciato nel giubbotto.»

Benché il discorso non lo interessasse di persona, John si ritrovò ad ascoltare le parole di Sherlock.

Il giovane Watson era sempre stato cortese con tutti, cercando di acquistare la simpatia della maggior parte di coloro con cui entrava in contatto: solo poche volte si era ritrovato a rifiutare una richiesta d'aiuto. Fu in particolare per quella sua più che giusta abitudine che la sua mano corse al proprio cellulare nella tasca dei pantaloni. Quando si accorse di quel suo riflesso incondizionato era ormai troppo tardi e Sherlock se ne era già accorto. John avrebbe benissimo potuto dargli le spalle e riprendere il suo lavoro senza proferire parola, ma il suo stesso istinto gli evitò quella scortesia che, tra parentesi, Sherlock si sarebbe sicuramente meritato, e si costrinse a tendergli il proprio cellulare.

«Ehm… Puoi usare il mio.» disse porgendoglielo.

Sherlock puntò i suoi occhi chiari in quelli di John, il volto che tradiva tutta la sua sorpresa. Per un attimo rimase a guardare il ragazzo con tanto d'occhi, poi fece qualche passo verso di lui e gli prese il cellulare. «Grazie…» disse, distogliendo subito lo sguardo da John, il quale osservò con apprensione l’apparecchio nelle sue mani chiedendosi se fosse stata una buona idea.

Sherlock aprì la tastiera e cominciò a scrivere qualcosa.

Quando John stava per tornare al suo studio venne però bloccato un'altra volta dalla solita voce profonda.

«Afghanistan o Iraq?»

Si voltò di scatto verso Sherlock, strabuzzando gli occhi. «Come scusa?»

Sherlock strinse le labbra per nascondere un sorriso sprezzante. «Tuo padre. È stato ferito in Afghanistan o in Iraq?»

John spalancò le labbra per lo stupore. Si voltò meccanicamente verso Mike, il quale lo guardava a sua volta con un sorrisetto divertito sul volto. «Gli hai parlato di me?» chiese con una punta di rabbia nella voce.

Mike scosse la testa. «Assolutamente no.»

John tornò a osservare Sherlock. «In Afghanistan.» acconsentì. «Chi ti ha parlato di me?»

Sherlock richiuse il cellulare e glielo porse. «Nessuno.»

John spostò il peso da una gamba all'altra. «E allora come fai a sapere tutte queste cose?»

Sherlock lo studiò. «Non le so, le deduco.»

A John venne da ridere, ma sempre per quel suo dannato istinto si limitò a scuotere la testa con sufficienza. «Tu faresti cosa?»

Sherlock alzò il mento, orgoglioso. «Non mi aspetto che tu capisca.» disse, e gli diede le spalle per tornare al suo lavoro.

John represse un moto di rabbia. «Visto che mi sono degnato di darti una risposta gradirei ricevere lo stesso trattamento.» disse duramente.

Sherlock sbuffò e continuando a non guardarlo cominciò a parlare. «L’altra sera alla festa di Clara ti è caduto il portafoglio dalla tasca e si è aperto. Dentro c'era una foto dei tuoi genitori e tuo padre aveva una spalla fasciata. Perché i tuoi genitori? La foto era a colori, per cui non potevano essere i tuoi nonni. Forse degli zii, ma molto più probabile i tuoi. Tua sorella, poi, indossa abiti usati che le vanno anche un po’ larghi, perciò devono appartenere a tua madre. Quindi, tua madre è ancora viva mentre tuo padre no, ecco il perché della foto nel portafoglio.

«In oltre come immagine di sfondo del cellulare hai un'altra foto di tuo padre, questa volta vestito da militare. È anche abbronzato. Abbronzato vuol dire guerra in meridione, guerra in meridione, Afghanistan o Iraq.»

Se la sera precedente John aveva dato ascolto al suo orgoglio ferito, in quel momento non poté evitare di lasciarsi andare allo stupore e all'ammirazione. «Fantastico…» mormorò infatti.

E, per la seconda volta nel giro di pochi minuti, Sherlock alzò nuovamente lo sguardo verso John, sorpreso come poche volte gli capitava di essere. Mai gli era successo di trovarsi di fronte una persona che gli facesse un favore dopo il suo comportamento scortese, ancora più sorprendente che questa persona continuasse a parlargli anche dopo che gli avesse fatto il giochetto che tanti odiavano. «Davvero?» disse, non riuscendo a nascondere l'improvviso moto di gratitudine che quel complimento gli aveva procurato.

John lo osservò con curiosità. «Sì, perché?»

«Non è quello che solitamente mi dicono.»

Il ragazzo non ebbe particolari difficoltà a capirne il motivo. «E di solito cosa ti dicono?»

«Fuori dai piedi.»

E John sorrise a Sherlock Holmes.

~*~

Molly Hooper era una ragazza timida ma molto più sveglia di molte altre ragazze della sua età.

Era sempre silenziosa e stava un po' sulle sue, il più delle volte era sola, ma non perché non avesse amici, anzi. Molly, al Barts, era apprezzata da tutti coloro che la conoscevano o avevano il piacere di parlarci anche solo una volta per errore: era una di quei pochi che passavano pressoché inosservati e che non davano fastidio a nessuno.

Frequentava il suo terzo anno in quella scuola e apparteneva a molti gruppi scolastici, tra cui il Brainy Club, il gruppo di scienze e quello di canto coreografato. Non era molto brava a cantare, lo sapeva anche lei, ma la musica l'aveva sempre in qualche modo appassionata ed entrare nel glee[1] della scuola le era stato particolarmente di aiuto per migliorare le sue abilità canore. Nel Brainy, invece, ci era entrata quasi per errore.

Un giorno del suo secondo anno al Barts era semplicemente seduta in mensa, sola, a mangiare e leggere contemporaneamente un libro di chimica, quando il suo tavolo era stato occupato da un gruppetto di ragazzi che parlavano allegramente tra di loro. Molly aveva subito individuato la capogruppo, Irene Adler, in quanto una delle ragazze più carine della scuola e per questo una delle più famose. Lei non la sopportava, aveva avuto modo di provarlo su se stessa il giorno in cui, in ritardo per l'ora di matematica, aveva corso lungo il corridoio ed era scivolata per colpa di una pozza d'acqua, proprio di fronte ad Irene e al suo gruppo di amiche. Mentre si rialzava raccogliendo le proprie cose da terra, Irene aveva bisbigliato con un tono neanche troppo basso un commento per niente lusinghiero alle altre, facendo arrossire Molly di colpo e procurandole una bella figuraccia davanti a tutte.

Quando Irene si era seduta a quel tavolo, quindi, Molly aveva ponderato l'idea di finire in fretta il suo pranzo e andarsene, ma un ragazzo grassoccio si era seduto di fronte a lei e si era presentato allegramente. «Ciao, mi chiamo Mike. È un libro di chimica, quello?»

Dopo una mezzoretta passata a parlare concitatamente di scuola, Molly era infine entrata a far parte del Brainy grazie a quel ragazzo, al tempo un anno più avanti di lei. Ora lei e Mike erano buoni amici e frequentavano a grandi linee gli stessi corsi.

Era proprio grazie a Mike che era arrivata a conoscere Sherlock Holmes: conservava il ricordo di quel momento come uno dei più belli del suo periodo in quel liceo.

Era seduta tranquillamente al suo posto all'inizio di uno degli incontri del Brainy, quando Mike e Jim Moriarty erano entrati nell'aula, accompagnati da un ragazzo alto, magro e dai lineamenti spigolosi. Molly credeva di essersi innamorata di lui non appena aveva voltato il suo bel viso contornato da riccioli castani verso di lei, fissandola con quei suoi occhi chiari e penetranti.

Sherlock era stato presentato, come di consuetudine, al club da Jim e poi, con grande felicità di Molly, si era seduto al suo fianco. Insieme a Mike si erano presentati e lei aveva passato il resto dell'ora a fissarlo di nascosto, e così tutti gli incontri seguenti, fino a quando un giorno non si era fatta coraggio e alla fine dell'incontro gli si era avvicinata timidamente. «Giornataccia, è?» aveva detto, notando la sua espressione per niente rilassata.

Sherlock aveva scosso la testa pensieroso, senza risponderle.

«Beh… io mi chiedevo se… se ti andasse di prendere un caffè.»

«Sì, nero, con due zollette grazie.» aveva risposto Sherlock, per poi sparire dietro al suo armadietto.

Molly era rimasta leggermente delusa dal suo comportamento, ma glielo aveva comunque portato e in un certo senso aveva passato del tempo con lui quel giorno, tenendogli aperto il laboratorio e aiutandolo con alcuni esperimenti. Molly, infatti, aveva l'incarico di tenere le chiavi dell'aula dove si riuniva il Brainy, ovvero il laboratorio di chimica, oltre l'orario scolastico, per poi restituirle in segreteria al momento della chiusura.

Inutile dire che Sherlock se ne approfittava ogni qual volta ne avesse l'occasione, e Molly acconsentiva sempre, pur di fargli un piacere.

Così successe anche quel pomeriggio. Nonostante Sherlock non facesse più parte del club, infatti, qualche volta passava alla fine degli incontri e usufruiva del laboratorio.

Stavano lavorando per, a detta di Sherlock, un compito di scienze, quando il ragazzo alzò lo sguardo e tra un'operazione e l'altra se ne uscì con una frase che lasciò Molly a dir poco sorpresa.

«Conosci John Watson?»

La ragazza lo guardò imbambolata, non sapendo cosa rispondere. Era la prima volta che il ragazzo le faceva una domanda che non riguardava il laboratorio o uno qualsiasi dei suoi esperimenti.

«È-è… il mediano di apertura[2] dei Blackheath.» balbettò infine, sistemandosi la coda distrattamente e cercando di darsi un tono sicuro.

Sherlock sbuffò. «Questo lo so. È evidente dalla sua postura e dalla maglietta che indossava l'altro ieri in mensa. Dimmi qualcosa di più.»

«Io… perché ti interessa?» chiese.

Sherlock si prese un attimo prima di rispondere, annotando qualcosa sul suo block notes riguardo all'esperimento. «Mike mi ha chiesto di capire con quale ragazza esce.»

«Ma… è il suo migliore amico… lui non dovrebbe saperlo?»

Sherlock fece un movimento disinteressato con la mano. «Me lo dici sì o no?»

Molly fece un sospiro profondo. «Io… credo che esca con Sarah Sawyer, quella del glee… Ha mollato qualche settimana fa quella cheerleader, Janette. Ma si sa che ci prova da sempre con Mary Morstan, il capitano delle cheerleader

«E sua sorella quanti anni ha

Molly lo guardò con tanto d'occhi. «Non volevi mica sapere…»

«Oh così… tanto per curiosità… Sono le uniche cose che non sono riuscito a dedurre.»

«Ma allora…» la voce di Molly si spense quando Sherlock chiuse con uno scatto il block notes, dichiarando che per quel pomeriggio aveva finito.

Del perché Sherlock avesse bisogno delle informazioni che gli aveva appena dato, Molly ne venne a conoscenza solo mesi e mesi più tardi.

~*~

John varcò le porte dello spogliatoio con una voglia di fare gli allenamenti pari a zero, voglia che non fece altro che diminuire quando vide Robert Williams fare mostra dei suoi addominali proprio in mezzo alla stanza. Robert era il pilone sinistro[3] della squadra, uno dei giocatori più bravi tra tutti e per questo anche il più famoso nella scuola, nonché il più carino. Biondo e con occhi castani color del cioccolato, aveva la maggior parte delle ragazze ai suoi piedi e non faceva altro che vantarsene. In quanto a cervello, John si era chiesto più volte se ne avesse uno, ed era arrivato alla conclusione che se lo aveva, lo nascondeva veramente bene. Robert era, da quando era diventato il pilone sinistro, in un continuo tira e molla con Mary Morstan, la ragazza più carina in assoluto della scuola. Al contrario di Robert, però, Mary non era poi così stupida: John aveva avuto più volte l'impressione che si comportasse da oca come le altre solo per attirare l'attenzione degli altri su di sé. In realtà John sapeva che lei era una brava ragazza e in parte per quello, in parte per la sua innaturale bellezza, aveva più volte tentato un qualsiasi tipo di approccio. L'ultima volta era stato a tanto così dal convincerla ad uscire con lui, prima che Robert si mettesse in mezzo chiedendole un appuntamento e dedicandole l'ultimo punto della partita. E Mary aveva ovviamente accettato.

I due stavano per l'ennesima volta insieme da quel giorno.

David Jones interruppe il filo dei suoi pensieri quando si sedette sulla panca vicino a lui, già pronto ad entrare in campo nella sua divisa rossa e nera[4].

«Allora Johnny? Pronto a spaccare?» sorrise, tirandogli una manata amichevole sulla spalla.

John sospirò e scosse la testa. «Non esattamente… oggi non sono un granché in forma.»

«Parla lui…» ridacchiò, mostrandogli le pesanti occhiaie che aveva. «Tu non hai passato fino alle quattro di mattina in giro per Londra.»

John abbassò lo sguardo, giusto per non mostrare la smorfia contrariata comparsa sul suo volto.

David era un ragazzino spigliato, magrolino e con una zazzera di capelli rossi in testa (cosa che gli aveva procurato il soprannome de “il Rosso”). Le numerose lentiggini che aveva sul volto gli davano un'aria simpatica, cosa che non stonava per niente con il suo carattere: David era il piccoletto della squadra, da tutti preso in giro ma in qualche modo rispettato. Il Rosso era simpatico a tutti, a chi più a chi meno, e ne approfittava sempre per intromettersi nei discorsi e prendersi un po' di quella popolarità che abbondava per i suoi compagni. Non era una gran cima nel rugby e per questo non aveva ancora trovato una ragazza "alla sua altezza", ovvero, tradotto in inglese, una cheerleader.

Il fischio dell’allenatore li chiamò tutti a rapporto e John abbandonò definitivamente i suoi pensieri per dedicarsi anima e corpo al suo sport preferito.

Durante una delle pause tra una corsa e l’altra, tuttavia, si ritrovò nuovamente vicino al Rosso. Prima che David potesse iniziare uno dei suoi discorsi adoranti in merito alle cheerleader, però, John attaccò con uno delle prime cose che gli vennero in mente.

«Conosci Sherlock Holmes?»

 

 

 

Note:

[1] In America i club di canto coreografato si chiamano glee club (da cui ovviamente prende nome l’omonimo telefilm). Ho tenuto lo stesso nome anche per gli inglesi, ma non so se li chiamano così anche loro.

[2] Il mediano d'apertura è uno dei ruoli più importanti nel rugby. È lui a decidere le strategie di gioco da attuare durante una partita, tra le quali: calciare la palla per ottenere un vantaggio tattico, passare la palla ai trequarti, passare la palla nuovamente ad un giocatore di mischia o avanzare mantenendo il possesso del pallone. (Per maggiori informazioni qui la pagina wiki)

[3] Altro ruolo nel rugby… qui wiki

[4] Dopo una ricerca neanche tanto difficile ho scoperto che la squadra dei Blackheath esiste davvero (qui il link al sito ufficiale). E i colori sono proprio quelli xD.

   
 
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