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Autore: ___Ace    01/02/2014    11 recensioni
“Non è serata, Evidenziatore, torna un’altra volta”.
Osservai quell’energumeno che avevo avuto la sfortuna di incontrare: i capelli in disordine e un orrendo paio di occhiali con le lenti spesse era appoggiato sulla fronte, tenendo quei ciuffi rosso vermiglio alzati verso l’alto; la maglia sporca di nero, pantaloni neri, scarponi neri. Praticamente avevo davanti a me l’Uomo Nero in persona.
Avrebbe potuto spaventare i mocciosi qui intorno.
*
Ecco, lui sembrava infiammato. Costantemente. Sembrava sempre avere qualcosa da dire, da fare o da vedere; non stava mai fermo e si muoveva in continuazione; a volte sembrava calmarsi ed essere colto da un’improvvisa quiete e sonnolenza, ma si riprendeva subito dopo; adorava i fuochi d’artificio e il fuoco lo affascinava. Diceva che era caldo, e quindi apprezzato dalle persone, ma allo stesso tempo temuto perché poteva bruciare e fare del male. Questi aspetti contrastanti gli piacevano immensamente, tanto da suscitare anche la mia curiosità e facendo si che, ogni volta che passava, mi ritrovassi chino sul bancone ad ascoltare le sue stramberie per nulla annoiato.
Ace era certamente così: bello, scoppiettante e caldo. Era il fuoco.
*
Kidd/Law. Ace/Marco. Penguin/Killer. Accenni Zoro/Nami.
Genere: Fluff, Song-fic | Stato: completa
Tipo di coppia: Shonen-ai | Personaggi: Eustass Kidd, Marco, Portuguese D. Ace, Trafalgar Law, Un po' tutti | Coppie: Eustass Kidd/Trafalgar Law
Note: AU | Avvertimenti: Violenza
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Capitolo 18. Mentre tutto scorreva.

 

Nothin' goes as planned. Everything will break.

 

Qualcosa non andava, qualcosa mi sfuggiva da un po’ di giorni, solo non  riuscivo a capire cosa di preciso. Dire che era cambiato tutto nel giro di un istante era dire poco e, per quanto mi sforzassi di essere attento, di prendere in considerazione ogni singola situazione, non trovavo nessuna soluzione a quella strana sensazione di malessere che si era annidata dentro di me, nascondendosi nel profondo, ma senza andarsene e facendosi sentire nei momenti meno opportuni.

Da un po’ Trafalgar si comportava in modo strano, più strano, e non sembrava avere l’intenzione di dare spiegazioni a nessuno, mantenendosi distante e piazzando ridicole scuse sullo studio e l’università per non uscire, rispondere al telefono o anche solo parlare. Si rinchiudeva in camera e da lì non usciva se non per strette necessità, così almeno mi aveva detto Killer, informato da Penguin, il quale era ancora più preoccupato. A detta sua, il medicastro non aveva mai avuto problemi nel prendersi avanti con i progetti scolastici e gli esami li aveva passati con ottimi voti.

Ma allora, perché allontanarsi e isolarsi in quel modo?

Mi passai stancamente una mano sul viso, scompigliandomi i capelli e cercando di riprendere a mangiare il mio pasto, ma la verità era che non avevo affatto fame e l’idea di ingozzarmi per forza mi dava la nausea, così gettai tutto nei rifiuti e misi il piatto nel lavello. Più tardi l’avrei lavato, quando sarei tornato da lavoro dato che la mia pausa finiva tra circa un’ora.

Quel giorno ero tornato a casa perché avevo un brutto presentimento e, quando stavo in quel modo, non mi sbagliavo mai. C’era una strana elettricità nell’aria e mi sentivo costantemente irrequieto, come se i miei nervi percepissero il pericolo. Mi sembrava di essere osservato a volte, ma poi mi guardavo attorno e mi riscoprivo solo, al sicuro, e allora mi domandavo per quale maledetta ragione non riuscissi ad essere del tutto rilassato e menefreghista come al solito.

Mi chiedevo che razza di fine avesse fatto Trafalgar e cosa cazzo gli stesse passando per la testa, soprattutto cosa significavano tutte quelle balle che mi rifilava per evitare di vedermi.

L’ultima volta che eravamo stati assieme era stato lo scorso venerdì, quando ci eravamo ritrovati tutti per la prima volta nel locale dove Ace aveva iniziato a lavorare e non mi sembrava che ci fossero stati problemi, anzi, aveva sempre mantenuto la solita faccia da schiaffi e l’atteggiamento da irriverente bastardo, ma oltre a questo tutto mi era apparso in ordine e a posto. L’unica possibilità poteva essere stato il bacio che ci eravamo scambiati, diverso dal solito, ma non nuovo. Insomma, non era certo il genere di gesto che ci si aspettava da uno rude e poco fine come me, ma ormai avrebbe dovuto conoscermi e capire che, nonostante tutto, non ero completamente un insensibile e a volte, rare per chiarezza, non mi dispiaceva dimostrarglielo, ricordandogli che di me poteva fidarsi.

Poi era accaduto tutto di fretta: mi ero allontanato un attimo per raggiungere gli altri e, quando anche lui si era avvicinato, avevo capito che era successo qualcosa di brutto. Andiamo, era impallidito e non gli avevo mai visto un’espressione seria e impenetrabile come quella che aveva sfoggiato in quel momento. Sembrava aver eretto un muro invalicabile di ghiaccio. Aveva detto di sentirsi poco bene e tutti gli avevano creduto, io compreso data la faccia cadaverica che aveva, ma non ne volle sapere di farsi riaccompagnare da nessuno, nemmeno da me, preferendo chiamare un taxi e salirci a bordo senza salutare o aggiungere altro oltre che un misero ‘starò bene’.

 

People say goodbye in their own special way.

 

Allora avevo creduto che non volesse farsi vedere debole o qualche altra stronzata legata al suo orgoglio e amor proprio, ma poi la situazione era andata complicandosi ed ero ormai convinto che non si trattasse di una malattia, al contrario, sembrava che tutto fosse molto più grave. Me lo confermava il suo silenzio di quei giorni: non mi aveva mai cercato, nemmeno per avvisarmi che stava meglio o per chiedermi scusa. Si, perché ero anche piuttosto incazzato dato il suo comportamento idiota ed egoista. Che cazzo, contava così poco la mia opinione? Non ero forse una delle persone che più gli erano vicine? E, per essere chiari, non ero io quel suo stramaledetto fidanzato che tanto si era divertito a presentare in giro?

Volevo sapere che diavolo stava accadendo e capire come mai, tutto d’un tratto, decideva di ignorarmi e fare come se non esistessi; come se non fossi un dannato nessuno, quando era chiaro che per lui ero quel tipo di nessuno. Soprattutto volevo proprio che venisse a dirmi le cose chiaramente e direttamente in faccia, senza rinchiudersi nel suo silenzio e mutismo e lasciarmele intendere.

Perché, per quanto assurdo potesse sembrarmi e per quanto cercassi di scacciarla a forza dai miei pensieri, l’idea che Trafalgar avesse deciso di non voler avere più niente a che fare con me, lentamente, si stava facendo sempre più presente nella mia mente e mi stava logorando semplicemente perché non vedevo altra motivazione plausibile per il suo comportamento da stronzo. Perché avrebbe dovuto ignorarmi così? Perché andarsene in quel modo senza dire una sola e maledetta parola? Perché non mi cercava? Cosa avevo fatto di sbagliato?

Non lo sapevo e questo mi tormentava giorno e notte. L’insicurezza, il fatto che potesse essersi reso veramente conto di tutti i miei difetti, che potesse essersi stancato di avere a che fare con un testardo e miserabile come me. Dopotutto era lui quello intelligente, quello bravo, quello bello e pieno di soldi, perché perdere tempo, quindi? Non ero altro che un vandalo, un pezzente se confrontato con lui.

Ma non volevo ancora arrendermi del tutto a quella teoria, doveva esserci per forza una valida spiegazione a tutto quel casino, senz’altro c’era ed io, come al solito, ero troppo cocciuto e stupido per vederla. Allora, perché Trafalgar non mi sfotteva e mi spiegava la questione come sempre? Perché quella volta doveva essere così diverso? Se solo pensavo alla brutta piega che avrebbe potuto prendere quella storia nella peggiore delle ipotesi mi sentivo vagamente male, non riuscivo a concentrarmi e ad immaginarmi come avrebbe potuto essere. Era come se tutto quello che avevo programmato, dato per scontato, tutto ciò che fino a poco tempo prima avevo creduto possibile, in quel momento avrebbe potuto sgretolarsi in briciole davanti ai miei occhi e risultare falso, irraggiungibile.

 

All that you rely on and all that you can fake.

 

Forse era colpa mia. Forse era per qualcosa che avevo fatto tempo addietro e che non era più riuscito a sopportare, decidendo di darmi una lezione e lasciarmi da solo a riflettere, ma non capiva che in quel modo non faceva altro che irritarmi di più e mandarmi fuori di testa? Non era esattamente la soluzione migliore quella, lo preferivo quando mi faceva entrare in zucca le cose a suon di battutine acide, insulti e schiaffi. Oh si, il bastardo usava gli artigli quando voleva, a suo rischio e pericolo, e senza troppi scrupoli.

Non ricordavo di aver mai fatto niente che potesse creare problemi, a parte gli improperi che gli urlavo dietro quando ero incazzato; i dispetti; le vendette attuate uno contro l’altro; il sale nel caffè e l’acqua del water nel bicchiere dello spazzolino, questa era stata una sua idea, tutto era regolare. Per noi comportarci in modo orribile era normale, quindi non mi capacitavo del perché del suo comportamento così assurdo.

Certo, non ero perfetto, non lo ero mai stato, ma se volevamo dirla tutta nemmeno lui era l’icona della meraviglia. Andiamo, io sarò anche stato un disadattato sociale, un incivile, ma lui era uno psicopatico, malato con la medicina. Tra i due chi era quello preso meglio?

Nonostante tutto doveva essere successo qualcosa che l’aveva in qualche modo turbato, non c’era altra risposta. Dopotutto non era strano solo nei miei confronti, persino i suoi coinquilini, per quanto stupidi, si erano accorti che qualcosa era cambiato e, nel giro di una giornata, mi avevano tutti telefonato chiedendomi spiegazioni, scoprendo che persino io non sapevo cosa cazzo avesse quella prima donna col ciclo.

Avevano quindi capito che la colpa, quella volta, non era mia e la scoperta aveva complicato ulteriormente le cose dato che nessuno aveva la minima idea di come comportarsi e come fare per tirarlo fuori da quella stanza prima che decidesse di lasciarsi morire.

 

And nobody here's perfect. Oh, but everyone’s to blame.

 

Il telefono di casa suonò in quel momento, riscattandomi dai miei pensieri e dal torpore che mi aveva assalito le membra quando mi ero sdraiato sul divano a rodermi il cervello, così, inciampando nel tappeto e bestemmiando tanto da far impallidire tutte le religioni esistenti, raggiunsi l’apparecchio e risposi con stizza.

“Passo da te tra dieci minuti” mi avvisò una voce fin troppo famigliare dall’altro capo, cogliendomi di sorpresa e lasciandomi senza parole per un minuto buono, durante il quale cercai di riprendermi il prima possibile per ribattere per le rime.

“Cosa ti fa pensare che sia a casa?” risposi burbero, stringendo la cornetta nelle mani. Finalmente si era deciso di ritornare tra i vivi.

Bene, si innalzino cori di Alleluia!

“Hai risposto al telefono” spiegò in tono saccente, “A tra poco”. E riattaccò senza dire altro, lasciandomi nella completa confusione per quelle sue stramberie che non avrebbero smesso mai di stupirmi.

Avrei dovuto essere sollevato da quella notizia, ma non mi sentivo affatto tranquillo. Qualcosa nella sua voce mi aveva allarmato: non stava bene, era chiaro e il tono che aveva usato per informarmi era lontano anni luce da quello canzonatorio e spensierato con cui soleva sfottermi in casi come quello. Un tempo saremmo rimasti a battibeccare per una buona mezz’ora, invece in quel momento era bastato neanche un minuto per concludere.

Presi un respiro profondo e mi preparai ad aspettarlo con le braccia incrociate e un cipiglio decisamente poco cordiale, il mio tipico assetto da battaglia, quello con cui praticamente andavo in giro prima di conoscerlo, quando ancora le persone, per quanto buone fossero, non mi stavano affatto simpatiche. Così aspettai il suo arrivo, intenzionato ad andare fino in fondo in quella faccenda e a vederci chiaro.

Scacciai per l‘ennesima volta il pensiero che quella fosse la fine. Non avevo motivo per crederlo, lui non era il tipo che si comportava in quel modo per una sciocchezza. Era uno stronzo, ma non mi avrebbe mai fatto una cosa del genere, non in quella maniera, non quando ci eravamo spinti così oltre, non quando avevo preso una decisione così importante. Non poteva farlo.

 

Oh you're in my veins and I cannot get you out.

 

* * *

 

Quella sera mi sentivo proprio stanco, tanto che avrei potuto prendere sonno sul bancone e non mi sarei stupito affatto se fosse successo davvero dopo una giornata pesante come quella che avevo passato.

All’università avevo avuto lezione le prime ore del mattino, dovendomi alzare abbastanza presto per presenziare e non perdermi il nuovo argomento; all’ora di pranzo avevo fatto in tempo a mangiare solo una mela perché poi ero schizzato di tutta fretta, a piedi per la precisione, alla caffetteria per non arrivare tardi a lavoro. Era stato tutti inutile, cinque minuti di ritardo, di nuovo, non me li levò nessuno e, nonostante Marco non mi rimproverasse mai per così poco, mi dispiaceva non riuscire ad essere efficiente in tutto. Ad ogni modo il pomeriggio ero stato totalmente immerso tra i clienti, per la maggior parte ragazzi, dato che la notizia del mio nuovo impiego si era sparsa a macchia d’olio tra le mie conoscenze e tutti avevano preso a passare da quelle parti per salutarmi e curiosare in giro, affezionandosi al posto accogliente, al servizio impeccabile e all’ottimo menu, diventando automaticamente nuovi clienti. Quindi non avevo fatto altro che volare da un tavolo all’altro con le ordinazioni, battere scontrini ed evitare le insinuazioni sessuali di Thatch quando mi rifugiavo in cucina per mangiare un boccone di nascosto. Oltre a questo, Marco aveva ben pensato di mettermi ai lavori forzati e riordinare l’ala dedicata alle poesie in previsione dell’imminente evento che, in quel momento, stava avvenendo sotto al mio sguardo annoiato. Fortunatamente non c’era così tanta gente quella sera e, con mia grande felicità, nessuno sembrava intenzionato a ordinare da bere, lasciandomi il tempo di riprendere le forze nell’angolino remoto del bar, dove mi sedetti, appoggiando i gomiti al bancone e accoccolandomi con la testa su di essi, sbadigliando sonoramente. Se mi concedevo un riposino di cinque minuti non sarebbe morto nessuno, figuriamoci e, se ero fortunato, non si sarebbero nemmeno accorti di niente.

 

And that I find my corner. Maybe tonight I'll call you.

 

Il sonno mi colse non appena chiusi gli occhi e da quella posizione non mi schiodai per un pezzo, inconsapevole dei tentativi di Thatch di spremermi la panna sulla faccia o di svegliarmi di soprassalto, tentativi che, per la precisione, vennero tutti impediti dall’animo troppo gentile e altruista di Marco che, vedendomi così esausto, aveva deciso di lasciarmi riposare e arrangiarsi da solo, tenendo sotto stretta sorveglianza il fratello irrequieto fino a quando non fu sicuro di averlo sbattuto fuori non appena il bar si fu svuotato.

Per quanto mi riguardava, non avevo fatto altro che dormire placidamente e senza pensieri.

Dei leggeri, ma insistenti, colpetti alla schiena mi strapparono dal mondo dei sogni, facendomi mugugnare qualcosa di indistinto e sbattere le palpebre per scacciare gli ultimi residui di sonno, in modo da vederci meglio. La prima cosa che notai fu Marco che, sempre tenendomi una mano sulla spalla, mi sorrideva gentilmente, blaterando qualcosa riguardo l’ora. Prima di ricollegare il cervello, mi consessi un attimo per immaginare come sarebbe stato svegliarmi sempre col suo sorriso affianco.

Notando la poca luce all’interno della sala e non udendo il classico chiacchiericcio delle persone o il monotono ritmo di quelli che leggevano poesie, una brutta consapevolezza si fece strada nella mia mente e fu così che indirizzai lo sguardo verso l’orologio appeso alla parete davanti a me, scoprendo che il mio pisolino era durato la bellezza di due ore.

“Dio, sono quasi le tre” mormorai, passandomi le mani sul viso fino ad arrivare ai capelli, spostandomeli dalla fronte nel vano tentativo di riprendere almeno un po’ di contegno. Se volevo farmi licenziare quella era la strada giusta. Dormire a lavoro, fantastico, mi mancava solo quella.

“Veramente sono le tre e un quarto” mi corresse Marco, appoggiandosi con la schiena al bancone in modo da guardarmi in faccia mentre parlava. Non sembrava arrabbiato, non lo era mai quando combinavo qualche guaio ma, nonostante tutta la sua pazienza, mi sentii veramente uno schifo. Insomma, lui mi offriva un lavoro in cui mi chiedeva semplicemente di aiutarlo quando ce n’era più bisogno ed io che facevo? Poltrivo, ecco cosa e non volevo che si facesse idee sbagliate su di me perché ci tenevo davvero a rendermi utile e a fare del mio meglio per non deluderlo. Sembrava però che, per quanto mi impegnassi, il Destino mi remasse contro.

“Sono un idiota” dichiarai, guardando dritto di fronte a me perché non sapevo ancora come fare per affrontarlo e chiedergli di perdonarmi. Per l’ennesimo pasticcio.

Ridacchiò prima di rispondere, togliendosi intanto il grembiule e appoggiandolo dietro di sé, “Nah, eri solo stanco, non c’è niente di male. Non sei ancora abituato a fare turni del gen…”.

“Marco, ti prego” feci acido, zittendolo e prendendolo alla sprovvista. Non ce l’avevo con lui, ma con me stesso, “Smettila di difendermi, così è peggio”.

Rimase in silenzio per un attimo, rispondendomi alla fine con la solita calma. “Va bene. Che vuoi che faccia?”.

Baciami.

“Ma che ne so!” sbottai, “Insomma, guarda, non c’è più nessuno e tu hai già sistemato tutto, spento le luci, abbassato le serrande e hai persino pulito tutte le stoviglie! Quello dovevo farlo io! E a quest’ora avresti potuto essere già a letto, invece sei qui a farmi da balia per un mio errore” conclusi, sentendomi incredibilmente più leggero, anche se stupido. Dovevo essere impazzito per avere una reazione del genere, probabilmente ero ancora mezzo addormentato o quello era un brutto sogno. Come poteva anche solo passarmi per la testa di rispondere in modo così irrispettoso al mio capo? D’accordo che, ormai, più che il mio datore di lavoro era un amico, ma questo non implicava che avessi il diritto di comportarmi come uno schizzato.

Eppure non mi sembrava di aver bevuto, quindi non potevo nemmeno dare la colpa di tutto a una sbornia con i fiocchi perché in servizio non mi azzardavo a bere. Festeggiamenti indetti da Thatch a parte e indimenticabili figure di merda.

 

After my blood turns into alcohol.

 

“Dovresti arrabbiarti” sussurrai, più a me stesso che a lui, “Me lo meriterei, dopotutto”.

Lo sentii sbuffare e mi voltai appena in tempo per vederlo alzare gli occhi al cielo prima che mi scompigliasse i capelli con una mano, ridendo della mia espressione sorpresa e dandomi dell’idiota.

“Sei proprio un ragazzino” aggiunse poi, sapendo quanto detestassi quel nomignolo. Ancora non gli era chiaro che doveva smetterla di chiamarmi in quel modo. In ogni caso rimandai le discussioni perché ci tenevo a chiarire una cosa che ritenevo piuttosto importante.

“Senti, sto solo cercando di dire che non voglio approfittare della tua pazienza, davvero, e non voglio nemmeno che tu pensi questo di me. Cioè, puoi pensare quello che vuoi, ovvio ma, quello che cerco di spiegarti è che, praticamente…”.

“Ace, sta zitto” disse Marco, sorridendomi e guardandomi come se fossi la cosa più buffa sul pianeta. Di certo dovevo esserlo per forza dato che quel sorrisetto non gli era mai scomparso dalla faccia da quando avevo aperto gli occhi.

“Io non penso affatto che tu stia approfittando della nostra amicizia, ci mancherebbe, e credimi quando ti dico che non hai fatto nulla di grave. Sul serio, se dovessi scegliere chi sgridare, il primo della lista sarebbe Thatch”.

Sorrisi involontariamente e lui sembrò sollevato, assicurandomi che era tutto a posto e che dovevo smetterla di preoccuparmi per sciocchezze come quelle.

“Grazie” feci, sinceramente grato per tutta la disponibilità che dimostrava nei miei confronti e per un sacco di altre cose. In quei giorni avevo scoperto che lavorare lì mi piaceva da matti, mi divertivo e non mi annoiavo mai, soprattutto perché, se non c’erano clienti, potevo chiacchierare tranquillamente con Thatch o con Marco e con loro le risate e il buonumore erano assicurati.

Fece un cenno disinvolto con la mano, “Non c’è di che, figurati”.

E poi avevo l’opportunità di poterlo guardare ogni volta che ne avevo voglia; bastava che mi voltassi a destra o a sinistra e lo trovavo sempre, in alcuni casi non se ne accorgeva, mentre in altri lo ritrovavo intento a fissarmi pure lui. Era come una specie di calamita: non potevo evitare di cercarlo e di sorridere ogni volta che mi rendevo conto che avevamo un sacco di tempo a nostra disposizione.

Non gli avevo mai detto quanto mi faceva piacere passare a salutarlo quando ancora non conoscevo il suo nome, non ne avevamo mai parlato. A pensarci bene, non sapeva nemmeno che mi programmavo tutti i pomeriggi in modo da tenermi libero la maggior parte del tempo per riuscire ad andare a trovarlo. Per non parlare di quanto adorassi la sua cioccolata o i waffles, ma quelle erano solo piccole cose. Avrei dovuto dirgli di come mi ero sentito la prima volta che ci eravamo visti, quando mi aveva offerto quella tazza di caffè che ormai consideravo solo ed esclusivamente mia. Infatti, da quando lavoravo lì, avevo pensato bene di tenerla da parte, come se fosse un qualcosa di speciale. E per me lo era davvero, proprio come lo era lui. Mi aveva praticamente stravolto la vita con quella espressione apparentemente disinteressata, si poteva dire che era stato proprio quel suo comportamento distaccato a mettermi in moto con l’intento di riuscire a strappargli un sorriso, una parola, qualsiasi cosa pur di avere la sua attenzione, pur di arrivare a valere qualcosa per quel ragazzo che celava tutto dietro una facciata di menefreghismo. Forse avrei dovuto anche spiegargli com’era stato bello e dannatamente perfetto quel nostro bacio, anche se aveva portato con sé un effetto devastante. Avrebbe dovuto sapere che avevo persino creduto di odiarlo e mi sembrava carino metterlo al corrente di tutte le maledizioni che gli avevo lanciato prima di capire i miei sbagli. Avevo compreso che le cose si sarebbero sistemate da sé e così era stato. Aveva mai provato a immaginare come mi ero sentito lusingato quando aveva deciso di sua spontanea volontà di passare la vigilia di Natale e capodanno con persone che con la sua famiglia non c’entravano nulla? Aveva una vaga idea di cosa aveva significato per me quell’abbraccio sotto la neve? E chissà se si era accorto come e con che occhi lo guardavo a volte.

Forse in quel momento avrei dovuto essere io ad abbracciarlo. Un semplice gesto per ringraziarlo come meritava.

 

No, I just wanna hold you.

 

Dopo tutto quello che avevamo passato, però, ancora non ero abbastanza coraggioso e così sospirai, guardando altrove e interrompendo il contatto visivo che, fino ad allora, era rimasto intatto. Probabilmente aveva avuto tutto il tempo di leggermi l’anima, dato che mi ripeteva spesso che per lui ero un libro aperto. Meglio così, mi sarei risparmiato un discorso impacciato e incomprensibile.

“Sarà meglio che vada” esalai infine, accennando ad un sorriso e alzandomi dallo sgabello, stiracchiandomi con le braccia verso l’alto e venendo colto all’improvviso da un altro sbadiglio mentre il pennuto sghignazzava con ironia.

Rivolgendogli un’infantile linguaccia mi avviai verso la porta e, quando fui a metà strada, pensò bene di farmi notare un particolare piuttosto interessante e necessario alla mia intenzione di ritornarmene in appartamento.

“Ace” cantilenò, “Il tuo cappotto”.

Cercai di ignorare l’effetto che mi fece quella sua espressione da sbruffone e, a testa bassa, lo raggiunsi in poche falcate, determinato a non guardarlo per nessuna ragione al mondo e a recuperare in fretta la giacca abbandonata nello sgabello accanto al mio che prima non avevo notato. Probabilmente prima di svegliarmi aveva anche provveduto a lasciarmela a portata di mano.

“Allora b-buonanotte” borbottai appena gli fui accanto, sporgendomi per prendere il cappotto, ma non arrivandoci mai.

Proprio in quell’istante Marco si staccò dal bordo del ripiano bar, afferrandomi per un braccio e facendomi fare un passo indietro, verso di lui. Credetti che il suo intento fosse quello di abbracciarmi e ne fui sinceramente contento, quello che non mi aspettavo, invece, era di sentire le sue mani accarezzarmi gentilmente il viso prima che le sue labbra si posassero dolcemente sulle mie, straziandomi lentamente mentre si muovevano calme, ma decise.

Non era un bacio prepotente, non mi stava trattenendo, non mi stava nemmeno costringendo; ancora una volta si preoccupava per me, lasciandomi libero di colpirlo, di allontanarlo; lasciandomi la possibilità di scegliere, di decidere cosa fare. Mi stava dando il tempo per reagire, continuando a baciarmi, ma senza pretendere nulla in cambio, infatti la mia espressione era ancora stupefatta e incredula, anche se tutto il resto del mio corpo fremeva nel desiderio di avere di più. Perché ormai non mi bastava vederlo due o tre volte la settimana; non mi bastava parlarci assieme; le nostre chiacchiere non mi soddisfavano e i nostri sguardi non erano mai abbastanza. Lavorare assieme si era rivelata una bella novità e credevo che sarei stato contento, invece mi ero ritrovato a volere, a pretendere sempre di più. Sempre.

Nonostante mi fossi ripetuto mille volte che le piccole cose mi sarebbero andate bene, in quel momento quello che avevo non era abbastanza, ormai era chiaro, e ignorare il fuoco che sentivo bruciare dentro di me ogni volta che ci trovavamo vicini mi stava divorando piano, piano. Come in quell’attimo: quel bacio mi stava distruggendo, o meglio, l’avrebbe fatto sicuramente se l’avessi fermato.

 

Give a little time to me, we'll burn this out.

 

Mi sentii male quando sciolse il contatto, trovandomi ancora immerso nei miei pensieri e con l‘aria di chi non ha del tutto realizzato la situazione. Aprii la bocca per pronunciare anche solo una sillaba, ma dovetti chiuderla. E riaprirla. E chiuderla di nuovo. Probabilmente credette che il mio comportamento fosse dovuto da un rifiuto, così lasciò scivolare le braccia lungo i fianchi e, non senza un certo imbarazzo, tentennò qualche secondo nello scegliere cosa dire. Alla fine chiuse gli occhi, volgendo il capo verso il soffitto, e sussurrò un’unica parola, sorridendo amaramente.

“Scusami”.

“Mi stai chiedendo di mostrarmi indifferente dopo questo?” gli domandai in un mormorio sommesso. Temevo di rovinare tutto se avessi alzato la voce, quando attorno a noi l’unico rumore erano i nostri respiri e il battito impazzino del mio cuore che mi rimbombava in testa incessantemente. Una cosa era certa: la situazione tra noi era cambiata di molto e quella volta non gli avrei permesso di nascondersi, assolutamente. Ormai eravamo in bilico, da una parte o dall’altra dovevamo pur cadere. Perché, allora, non farlo assieme?

Non sostenne il mio sguardo e lo spostò altrove come faceva quando ci trovavamo improvvisamente troppo vicini per sembrare solo impegnati a conversare. Succedeva spesso quando parlavamo e, non appena ci accorgevamo di aver superato le distanze stabilite dalla buona educazione, non riuscivamo mai a risultare disinvolti.

“Non ci riesco” decretai, non stupendomi nel vederlo fraintendere le mie parole, “Non ci riesco proprio”.

Prima che potesse rendersene conto, gli presi il volto tra le mani e lo baciai, provando di nuovo la fantastica sensazione di ardere.

Una strana euforia esplose dentro di me quando mi sentii afferrare per i fianchi e avvicinare ulteriormente al suo corpo. Dio, quanto l’avevo sognato quel momento.

Poi, quando fu Marco a riprendere il contatto e a renderlo più profondo, corsi ad afferrare le sue spalle e pensai semplicemente che quello che provavo era fuoco vivo senza ogni dubbio.

 

We'll play hide and seek to turn this around.

 

Tutto ciò era il delirio totale, mi sentivo quasi in estasi. Quante volte mi ero chiesto che effetto facesse abbracciarlo? Quante? Talmente tante che avevo perso il conto. Quel corpo era perfetto, Marco era perfetto, non c’era altro da aggiungere. Mi teneva in considerazione, mi ascoltava e non sminuiva le mie trovate, a detta mia geniali, ma che al resto del mondo risultavano stupide. Mi incoraggiava a mettermi in gioco, a non mollare mai. E così avevo fatto con lui, nonostante tutto, non avevo mai smesso di sperare che qualcosa cambiasse, che si accorgesse di me, che mi considerasse. Solo allora mi ero reso conto che, in realtà, l’aveva sempre fatto.

Mi allontanai di qualche centimetro per riprendere fiato e venni investito da uno sguardo carico di significati e parole non dette, tanto che ne rimasi incantato. Intanto le mie mani non avevano smesso un attimo di stringere il colletto della sua camicia, mentre le sue sembravano avere tutta l’intenzione di strapparmela.

“Resta da me” disse in un sussurro, stringendomi di più a sé e, quasi automaticamente, il cavallo dei miei pantaloni diventò misteriosamente più stretto, tanto che mi ritrovai senza fiato e risposi con un cenno affermativo del capo per evitare ulteriori inconvenienti.

Dopo aver chiuso a chiave l’entrata, dato che io non me ne sarei andato, spegnemmo le luci rimanenti e poi lo seguii farmi strada lungo un corridoio sul retro, arrivando davanti a delle scale che portavano direttamente al secondo piano.

“Beh, puoi permetterti il lusso di dormire fino all’ultimo minuto” scherzai, tanto per alleggerire la tensione. Sinceramente stavo solo cercando di calmarmi dato che non escludevo la possibilità di essere colto da un improvviso infarto, tanto il mio battito cardiaco era su di giri. Non sapevo bene come comportarmi e mi sentivo esattamente come spesso si divertiva a descrivermi: un ragazzino.

“E’ piuttosto comodo, in effetti” concordò Marco, aprendo la porta di casa sua e invitandomi ad entrare con la sua solita tranquillità, perfettamente padrone di se stesso.

Con il cuore in gola misi piede dentro l’appartamento, gradendo infinitamente il calore che emanava il riscaldamento acceso e sentendomi subito a mio agio, nonostante l’entrata fosse buia e priva di illuminazione. Il pennuto provvide subito a questa mancanza e fece scattare l’interruttore, illuminando immediatamente la stanza; dopo di che mi prese il cappotto e, assieme ad un mazzo di chiavi e alcuni telecomandi per l’allarme, lo ripose in uno stanzino poco lontano, incitandomi a precederlo e ad accomodarmi pure in salotto.

Mi piaceva quel posto, ce lo vedevo perfettamente aggirarsi tra quelle mura bianche con il soffitto di un azzurro sfumato e tutto il resto in ordine, rispecchiava parecchio la sua personalità posata e calma. Quanto fosse calmo a letto, però, ancora non lo sapevo e mi risparmiavo dal prestare ascolto ai pettegolezzi di Thatch per rispetto nei suoi confronti e perché, spesso, erano rivolti a far arrossire me.

Ah, maledizione, devo smetterla di ascoltare quell’idiota e le sue storie! pensai, scuotendo il capo e afferrandomi il viso con le mani, cercando di non lasciarmi prendere dal panico e di tranquillizzarmi. Non c’era niente di cui preoccuparsi, ero con Marco e sarebbe andato tutto bene. Non era quello che avevo sempre desiderato? Era arrivato il mio momento, quindi perché essere nervoso? Davvero non riuscivo a capirlo e più ci pensavo più mi sentivo inadeguato.

E se non gli piacessi? Pensa che casino! Magari non, cioè, forse dovrei, che ne so, comportarmi in un determinato modo? E domani che succederà? Dovrò andarmene? Sul serio, dovrò farlo? Io non…

“Ehi”.

Come riuscisse sempre ad apparire dal nulla ancora non mi era del tutto chiaro, probabilmente era una sua dote naturale, come l’essere dannatamente attraente, nonostante un taglio di capelli assurdo. Ad ogni modo non c’era spazio per le battute, non in quel momento, non quando cercava di capire se mi sentissi bene o se fosse il caso di fermarsi prima di andare troppo oltre.

Sapevo che, se solo gliel’avessi chiesto, mi avrebbe lasciato andare, ma, davvero, era l’ultima cosa che volevo. Quello che mi premeva, in quel momento, era poterlo baciare ancora, e ancora, e ancora.

 

And all I want is the taste that your lips allow.

 

Oh, fanculo tutto.

Smisi di pensare e crearmi problemi dove non ce n’erano e agii d’istinto, voltandomi verso di lui e circondandogli il collo con le braccia senza dargli tempo di aggiungere altro, assaggiando di nuovo quelle labbra su cui tanto avevo fantasticato.

“Ace” mugugnò, cercando di riprendere fiato, “Ne sei proprio sicuro?”.

“Che domande!” sbottai, alzando gli occhi al cielo e togliendomi la maglia da solo, facendolo ridere per la frenesia dei miei gesti.

“Hai così tanta fretta?” scherzò, imitandomi e sorridendo davanti alla mia aria sognante quando anche la sua camicia finì alle sue spalle.

“Chiudi il becco, ti prego” quasi lo implorai. Non c’era nulla che valesse tanto quanto quel momento, nulla. E di certo non avevo intenzione di rinunciarvi.

Mi attirò a sé, portandosi a un soffio dal mio viso, “Sai una cosa? Non vedevo l’ora” mi confessò prima di riprendere da dove avevamo lasciato.

Non arrivammo mai alla sua camera da letto quella notte, ma non aveva importanza. Avrei fatto il giro turistico della casa il mattino seguente, o quando saremo stati in comodo perché, per quel momento, avevamo cose ben più interessanti da fare. Soprattutto, dovevo pur dimostrargli che non ero affatto un ragazzino.

 

My my my my give me love.

 

* * *

 

“No”.

“No?”.

“No, semplicemente non ci credo” dichiarò, incrociando le braccia al petto senza muoversi di un passo e fissandomi così intensamente da insinuarsi nella mia testa e scavarmi fin dentro nell’anima. Cosa che dovevo assolutamente impedirgli se volevo togliermi da quell’impiccio una volta per tutte.

“Non è possibile che dopo tutto quello che abbiamo passato tu adesso…”.

“Passato cosa, Eustass-ya?” gli chiesi con voce calma e distante miglia da quel luogo, risultando comunque il più sarcastico possibile, “Abbiamo semplicemente continuato a vederci per scopare, che altro c’è da dire? Ti mancherà il sesso? Non preoccuparti, troverai di sicuro qualcun altro che sappia soddisfarti”. Doveva pur esserci un modo per sbarazzarmi di lui e smetterla con quella storia durata ormai troppo a lungo. Ci avevamo provato e d’accordo, era stato divertente all’inizio, ma ero arrivato al limite. Ogni cosa finiva, prima o poi.

 

When you try your best but you don't succeed.

 

“E per quale motivo dovrei andare in cerca di un’altra puttana, sentiamo?” ribatté scettico, poggiando le mani sui fianchi e scoccandomi un’occhiata furente. Perfetto, finalmente si stava arrabbiando e, quando questo accadeva, significava che avrebbe presto perso le staffe e smesso di ragionare prima di parlare.

Ci avevo riflettuto a lungo su quello che stavo per fare ed ero arrivato alla conclusione che fosse tra tutte la soluzione migliore per ognuno. Certo, non avevo chiesto l’opinione di nessuno e avevo deciso tutto da solo, non curandomi affatto di quello che gli altri avrebbero avuto da dire, ma facendo semplicemente ciò che mi pareva più giusto e adatto alla mia situazione. Dopotutto, non ero mai stato bravo con i rapporti a lunga durata.

Così quel giorno avevo deciso che era arrivato il momento di chiarire bene le cose una volta per tutte e avevo chiamato quell’idiota montato di Eustass-ya in tutta fretta perché temevo che, se ci avessi pensato meglio, mi sarebbe mancata la determinazione per farlo. Quindi mi ero precipitato da lui nel giro di qualche minuto, trovandolo all’ingresso ad aspettarmi dove, per l’appunto, ci trovavamo in quel preciso istante, intenti a scannarci con lo sguardo, uno di fronte all’altro, come di consuetudine. C’era, però, una sola e importante differenza quella volta: non si trattava dei nostri soliti litigi, più adatti ad una coppia sposata che a dei ragazzi della nostra età, ma bensì di qualcosa di più difficile da inculcare in testa a quello svitato.

“Perché mi sono stancato” ammisi, trattenendo a stento l’esasperazione e non curandomi dei suoi occhi innaturalmente fuori dalle orbite per lo stupore delle mie parole. Tutto ciò non mi toccava minimamente, non mi importava nulla se gli sembrava assurdo o uno scherzo, perché non lo era affatto. Quei mesi erano stati uno spreco di tempo prezioso, l’avevo capito solo allora e troppo tardi. Mi era tutto indifferente, lui compreso, e le sue accuse mi scivolavano addosso senza scalfirmi minimamente. Se la sarebbe cavata, senza dubbio, e mi avrebbe dimenticato nel giro di poco tempo come avrei fatto io.

“Stronzate, Trafalgar! Dimmi che cazzo significa tutto questo!” sbottò, intestardito a voler trovare un significato plausibile a tutto ciò. Possibile che fosse così ottuso? Non c’era nulla da capire, a parte il fatto che, semplicemente, non volevo più continuare quel malsano rapporto che era venuto a crearsi tra di noi. Ne avevo avuto abbastanza ed ero arrivato al punto in cui stargli dietro era diventato tremendamente stancante. Era peggio di un moccioso.

Tutto quello, però, sembrava non volerlo capire. Quanto a fondo ci eravamo spinti in quella relazione per trovarmi così in difficoltà a metterle fine? Non chiedevo altro, solo concludere in fretta quella tortura.

 

When you get what you want but not what you need.

 

“Eustass, fattene una ragione” sputai secco, “Per me non conti più niente”.

Il colpo fu così veloce e inaspettato che non me ne resi conto fino a quando non sbalzai contro la parete, ritrovandomi con uno zigomo dolorante e due occhi fiammeggianti di rabbia piantati nei miei senza lasciarmi via di fuga. Era sempre così, un violento e un manesco. Ed io, maledizione, ero così debole.

“Non. Ti. Credo” sillabò minaccioso. Era determinato a non accettare le mie decisioni e, se volevo avere la possibilità di scrivere una volta per tutte la parola fine, ero praticamente costretto a sbattergli in faccia la cruda e vera realtà dei fatti, sicuro che in quel modo l’avrei ferito irrimediabilmente e nel modo peggiore di tutti.

Pazienza, c’erano cose peggiori di un cuore spezzato.

Gli dedicai il mio ghigno più maligno, mentre il mio viso assumeva un’espressione di pura sufficienza e menefreghismo. Volevo che vedesse chiaramente quanto poco mi importasse di lui e delle sue stupide ed inutili lamentele. Così, dopo essermi assicurato di avere tutta la sua attenzione, gli rovesciai addosso un’occhiata di disprezzo.

“Sono stato a letto con un altro, caro Eustass-ya” scandii lentamente e in modo chiaro, con voce quasi derisoria, sottolineando il fatto che non me ne importasse minimamente, anzi, tutto ciò mi divertiva, “E di te non ho più bisogno”.

Il tempo sembrò fermarsi, scandito solamente dal suo respiro ansante e dal mio cuore che, incontrollato, batteva a briglia sciolta nel mio petto, come se volesse uscire.

La sua espressione era illeggibile, come se il suo viso fosse stato di pietra e la luce che fino ad allora aveva brillato come una fiamma viva nei suoi occhi si spense nell’esatto istante in cui smise di tenermi affisso al muro, lasciandomi quindi scivolare con i piedi per terra mentre mi dava le spalle, stringendo convulsamente e con forza i pugni lungo le braccia.

Il solito sentimentale.

Quando si voltò quasi mi sentii sprofondare nell’oblio per la scarica di disgusto che mi rivolse con uno sguardo micidiale e carico d’odio, rancore, risentimento e qualcos’altro di più profondo e personale. Abbandono, forse? Rifiuto? Mi liberai di quella sgradevole sensazione con una scrollata di spalle, sentendomi comunque vagamente stanco e spossato. Mi ripetevo che quella era la cosa migliore, che non potevo essermi sbagliato. Non ero nel torto, non dovevo e non potevo esserlo.

 

When you feel so tired but you can't sleep. Stuck in reverse

 

“Vattene” sussurrò, apparentemente calmo, ma con l’aria di chi è appena stato svuotato di qualsiasi emozione o sentimento, “E se oserai rimettere piede nella mia vita giuro che ti ucciderò con le mie stesse mani”.

Senza smettere di ghignare, senza smettere di apparire intoccabile come sempre, senza perdere il mio disinteresse e senza abbassare lo sguardo dal suo, intenzionato a vincere quella partita fino all’ultimo, raccolsi la mia giacca e mi avviai verso la porta a passo lento, maledicendomi per la debolezza del mio cuore che, incurante delle mie decisioni, continuava a battere impazzito, tanto che, da un momento all’altro, avrei potuto benissimo ritrovarmelo tra le mani, pulsante, vivo e carico di sofferenza.

Non una parola uscì dalla sua bocca, tanto meno dalla mia e, dandogli le spalle dopo un ultimo sguardo, uscii da quella casa e raggiunsi l’auto, mantenendo un’espressione ghignante e uscendo dal quartiere, immettendomi nella strada principale.

Non sarei tornato subito in appartamento, no, prima avevo un’altra tappa da fare così, nel giro di una quindicina di minuti, raggiunsi un parco pubblico in periferia, spesso molto tranquillo e silenzioso, soprattutto a quell’ora in cui tutti se ne stavano a casa a mangiare o a fare un pisolino.

Solo dopo che ebbi parcheggiato poco lontano dalle fronde sempreverdi dei pini ancora innevati, incamminandomi fra quei sentieri con le mani affondate nelle tasche nell’intento di scaldarle, raggiungendo una vecchia panchina abbandonata, mi permisi di smetterla con quel sorriso che tanto mi era costato sfoggiare, facendomi serio e togliendomi il cappello, in modo da non celare più i miei occhi al resto del mondo e sperando di trovare conforto nel lieve venticello invernale.

Solo allora abbassai completamente le mie difese, lasciando che la valanga di desolazione che mi ero tenuto dentro fino a pochi istanti prima, permettendole di straziarmi nel profondo, mi investisse senza pietà, soffocandomi con la sua pesantezza. Ed era così opprimente, così dolorosa che persi totalmente il controllo sul mio corpo e sulle mie emozioni.

 

And the tears come streaming down your face. 

 

Le mie mani tornarono gelide a contatto con l’aria fredda e, tremanti, corsero a coprire i miei occhi. Nonostante i miei sforzi, però, non passò molto prima che mi ritrovassi con le ciglia, le dita e le guance inondate d’acqua salata. Un gusto amaro e famigliare.

Mi sentivo morire, tanto che mi ritrovai accasciato a terra, senza nemmeno sapere come ci ero finito, con le braccia intente a stringermi con forza il petto per la desolazione che provavo e per cercare di alleviare almeno in parte quel dolore infernale che sentivo bruciarmi nell’amina, nei polmoni, nel cuore fino alla testa.

Ero un mostro, un essere orribile e avevo appena allontanato per sempre dalla mia vita l’unica persona che avesse mai dimostrato un po’ di umanità nei miei confronti, l’unica che non era scappata davanti al mio passato, l’unica che mi aveva accettato e che non si era tirata indietro anche quando aveva saputo quanto schifo facessi come esse umano, come uomo, e quanto fossi incapace di esprimermi quando si trattava di sentimenti.

L’avevo abbandonato nel peggiore dei modi e non l’avrei riavuto mai più. Avevo appena rinunciato a tutto, tutto ciò per cui valesse la pena sorridere. Io, che di sorrisi non sapevo nulla, ma che avevo imparato come mi facessero sentire bene ogni volta che quel capelli rossi me ne rivolgeva uno, anche se per un attimo, anche se poi mi mandava a fanculo.

Avevo perso Kidd e niente avrebbe mai preso il suo posto. Niente e nessuno.

 

When you lose something you can't replace.

 

Non avrei mai pensato di ritrovarmi in quelle condizioni, inginocchiato a terra e appoggiato ad una misera panca, intento a piangere tutto il dolore che mi ero portato dentro quei giorni. Non uno solo, ma tutti gli sbagli di una vita, della mia vita, a partire dall’infanzia. Ne avevo fatta di strada da allora e, crescendo, avevo imparato che al mondo solo poche cose meritavano davvero la mia attenzione, o anche un minimo accenno di interesse. Fino ad alcuni mesi prima la mia esistenza gravitava unicamente attorno alla medicina, alla scienza, al diventare il miglior chirurgo di tutti i tempi, ma poi le cose erano cambiate nel giro di una notte, stravolgendo la mia vita, me compreso, e ricostruendomi da capo.

Perché era questo che Kidd aveva fatto: mi aveva svuotato di tutta la merda che mi portavo appresso con una forza e una determinazione invidiabili e difficili da attribuire a uno come lui e mi aveva rimesso a nuovo, un poco alla volta, con impazienza e con modi alquanto discutibili, ma ce l’aveva fatta. Si era offerto come ancora di salvezza ed io mi ci ero aggrappato con tutto me stesso nella speranza che forse mi ero sbagliato, forse anche io mi meritavo uno spiraglio di felicità dopotutto e non ero destinato a vivere nell’oblio del passato. Avevo davvero creduto di potercela fare, di poter respirare a pieni polmoni una boccata d’aria pulita e cancellare con essa tutto ciò che mi inquinava.

Purtroppo, però, non era così che doveva andare. Probabilmente qualcuno lassù mi odiava e aveva deciso che per me era arrivato il momento di smetterla di vivere in un miraggio, in un qualcosa che, prima o poi, doveva svanire e riportarmi alla realtà.

Il risveglio da quel sogno che tanto avevo desiderato potesse essere vero, sfortunatamente, era avvenuto nel modo più orribile, traumatico e pauroso di tutti. Il mio incubo personale aveva trovato la via per infettare anche il mio presente con il suo veleno e questo, questo era ciò che più mi spaventava.

“Sai, Law, ho riflettuto molto durante questi anni passati in quel buco dove mi hai spedito, e ho anche pensato a come distruggerti. Oh, non ti preoccupare, lo farò nel modo più divertente e doloroso possibile, mi conosci. Ho saputo che condividi un appartamento con Penguin e Bepo, vero? Me li ricordo quei ragazzini, erano sempre così timidi e impauriti quando mi incontravano. L’altro ragazzo, invece, non lo conosco. E’ un tuo nuovo amico? Ho scoperto che si chiama Ace e che è il nipote di un ex agente della polizia, uno di quelli che spesso venivano a ficcanasare nei miei affari oltretutto. Da quel che ho sentito suo fratello è una mina vagante, ma sono entrambi così giovani! Che peccato sarebbe se succedesse loro qualcosa. Tu che ne pensi? Non ci sono troppi incidenti e troppe vittime al giorno d’oggi? Quante disgrazie accadono. Ma non pensiamo al peggio per adesso e raccontami un po’ come stai, figliolo. Oh? Non rispondi? Beh, al tuo posto anche io sarei rimasto di pietra, ma lascia che ti dica che muoio dalla voglia di conoscere questo Eustass Kidd di cui ho tanto sentito parlare. Stando a quello che si dice in giro è il tuo fidanzato. Sbaglio? No? Chi tace acconsente. Ho qui alcune sue foto e a prima vista sembra proprio un piantagrane. Ha l’aria del tipico rissaiolo, con quell’espressione sempre corrucciata. Mi domando come vi sopportiate. Immagino comunque che eliminarlo non sarà semplice, ma… Come dici? Devo stargli lontano? Bingo! Finalmente una reazione da parte tua, figliolo! Quindi è proprio vero: hai ancora un cuore tenero e debole. Molto bene, molto bene! Ora ascoltami attentamente: se non vuoi che al tuo ragazzo capiti qualcosa di brutto, come una bella pallottola in testa, dovrai allontanarlo da te. Fallo uscire dalla tua vita, feriscilo, spezzagli il cuore e, di conseguenza, calpesta il tuo, Law. In questo modo, con te già distrutto per metà, la mia vendetta sarà ancora più godibile”.

Questo era il patto che avevo stretto col Diavolo quella sera.

Dovevo assicurarmi che arrivasse ad odiarmi a tal punto da non volermi più vedere, ne sentire nominare. Doveva detestarmi e disprezzarmi, cancellarmi per sempre dalla sua vita. Doveva dimenticarmi e non cercarmi mai più. E tradire la sua fiducia, anche se per finta, era l’unico modo per assicurarmi la sua salvezza, per tenerlo al sicuro e lontano dai guai. Non doveva per forza sapere come stavano realmente i fatti, non avrebbe mai dovuto scoprirlo; era meglio se mi credeva un maledetto bastardo, piuttosto che vederlo prendere parte alla causa e mettersi in mezzo in affari che non lo riguardavano. Perché sapevo che l’avrebbe fatto, sapevo che avrebbe insistito per starmi vicino e aiutarmi ad affrontare la cosa, ma non potevo permetterglielo. Non potevo rischiare di metterlo in pericolo continuando a stare con lui, ci tenevo troppo per essere così egoista e, soprattutto, non volevo un’altra morte sulla coscienza.

Kidd non avrebbe dovuto morire, non per colpa mia; io non lo meritavo, non valevo così tanto come lui che con quel suo comportamento da stronzo era arrivato a significare tutto per me. E questo, quel figlio di puttana che credevo morto, l’aveva capito e aveva sfruttato la cosa a suo vantaggio.

Se non avessi preso le distanze da tutti quelli che amavo lui li avrebbe uccisi uno ad uno sotto ai miei occhi.

 

When you love someone but it goes to waste.

 

E faceva male, malissimo sapere di non avere altra scelta se non quella di arrangiarmi, come avevo sempre fatto. Affrontare i demoni del passato di nuovo, più solo che mai, senza nessuno a cui appoggiarmi. Ma era un sacrificio che ero pronto a fare. Lui voleva me, gli altri non c’entravano. Kidd non c’entrava e, ora che non aveva più niente a che fare con me, sarebbe stato in salvo, lontano da ogni pericolo. Così doveva essere, così doveva andare. Sarebbe andato avanti con la sua vita, sarebbe finito in galera un paio di volte, certo, ma sarebbe stato felice e, chissà, forse si sarebbe innamorato di nuovo, un giorno, e sarebbe stato felice. Se lo meritava per aver sprecato il suo tempo con una causa persa come me.

Mi morsi un labbro con forza per soffocare un gemito di dolore, ma fu tutto inutile e il respiro mi uscì come un lamento straziante. Tremavo, tremavo e non riuscivo a smettere, nemmeno se mi concentravo e cercavo di tranquillizzarmi. Quella sensazione che per anni era stata lontana ora mi sembrava così famigliare che, per un doloroso istante, credetti di ritrovarmi nella mia vecchia casa con mia madre senza vita davanti ai miei occhi ancora troppo giovani e innocenti per sopportare quella vista.

Non avrei permesso per nessun motivo al mondo che accadesse di nuovo. Nessuno avrebbe più dovuto morire per me.

Separarmi da Kidd era stata la decisione più difficile che avessi mai dovuto affrontare e, se non fossi stato così un bravo attore, non ce l’avrei fatta a sopportare il suo sguardo duro, ma avrei ceduto molto prima, raccontandogli tutto e chiedendo perdono, perché da solo non potevo farcela. Alla fine ci ero riuscito, l’avevo messo in salvo, anche se in quel modo mi ero spezzato a metà e privato di qualsiasi emozione.

Che cosa strana era l’amore, ti calpestava e ti lasciava a terra fulminato.

Avevo sempre creduto di essere al di sopra di certe cose ma, a quanto pareva, nemmeno io ero sfuggito a quel sentimento così complesso, eppure capace di scaldarmi il cuore.

 

Could it be worse? 

 

Poteva andare peggio. Presto sarebbe tutto finito e allora avrei smesso di pensare, di sentire dolore, di soffrire. Il mio cuore non avrebbe più battuto all’impazzata per uscirmi dal petto, si sarebbe semplicemente fermato una volta per tutte.

Sapevo a cosa andavo in contro, dopotutto quello che stavo passando era il frutto di una vendetta appena messa in atto contro di me e, alla fine, l’ultima punizione sarebbe stata la morte stessa.

Ma andava bene, davvero, se c’era una cosa che non mi preoccupava minimamente in quel momento era la Morte. Figuriamoci, quello era il minimo e l’avrei accettata a braccia aperte, accogliendola come una vecchia amica o come una benedizione, avrei accettato tutto pur di avere la certezza che i miei amici e Kidd fossero al sicuro.

Respirai profondamente e una fitta al pezzo mi mozzò il fiato, tanto che mi strinsi ulteriormente tra le braccia per placare quello strazio che sembrava essere solo all’inizio.

Ci si sentiva così quando si perdeva qualcosa? Era quello l’effetto che facevano i sentimenti? Mi stavo davvero spezzando come il mio cuore?

E così, mentre tutto scorreva, io mi sentivo morire.

 

Lights will guide you home and ignite your bones. And I will try to fix you.

 

 

 

 

 

 

 

Angolo Autrice:
Va bene, ehm, iniziamo dalle cose semplici. Per fare chiarezza, stavolta mi sono basata tanto sulle canzoni, sono state il mio pane quotidiano per una settimana perché ho tipo scritto tre capitoli per prendermi avanti.
Uhm, dunque, partiamo con Kidd che è preoccupato. Si, preoccupato. Avete presente quelle brutte sensazioni che vi prendono lo stomaco e che non riuscite a scacciare? Quelle che avvisano l’arrivo di qualcosa di brutto. Ecco, lui si sente così. E, credetemi, parlo per esperienza, quelle sensazioni non portano mai niente di buono. E’ come se sapessi già che tutto sta per andare a puttane. Il peggio è che, alla fine, non puoi farci niente. Ed è orribile. Quindi lui sta passando un momentaccio e, quando Law chiama, si sente peggio perché nota il cambiamento.
Alleggeriamo un po’ il tutto e passiamo a Ace? Che dite? Si, dai. Allora, ripetiamo i botti di capodanno dato che, FINALMENTE, è successo qualcosa! Ow, yep, non avete letto male e le vostre menti poco caste possono immaginare tutto ciò che vogliono ** spero solo di avervi soddisfatti, come ho già detto, ho un blocco e non riesco a scendere troppo nei particolari, mi dispiace, scusatemi immensamente. Ad ogni modo spero solo che le emozioni compensino, mi affido a quelle. Mhm, c’è altro? se dimentico qualcosa fatemelo sapere, va’ ^^
Ritorniamo alle note dolenti.
Law.
Ascoltate la canzone che ho scelto per lui, vi prego e pensateci. Pensateci perché c’è una frase che, mentre scrivevo, mi ha distrutta e avrei voluto prenderlo e abbracciarlo fino a farlo smettere di stare in quel modo ma, odiatemi pure, ho dovuto lasciarlo così: spezzato.
Chi credeva che all’inizio fosse serio, a proposito, quando allontanava Kidd? Volevo mettere la spiegazione nel prossimo capitolo, ma poi veniva fuori un casino, quindi eccola e, sorpresa! Ve lo ricordate il padre che Law ha spedito in carcere? Bene, è tornato per vendicarsi, Capitan Ovvio, e la sua idea è quella di isolare suo figlio per poi, beh, vedremo per cosa.

A proposito, è la prima volta che mi cimento in una cosa del genere perché di solito sono tutta farfalle e arcobaleni e unicorni rosa, so gay **, quindi volevo chiedervi un parere generale sul tutto perché, insomma, non vorrei pasticciare ^^
Altro? Uhm.
Yup, gli Spoiler Free:
 
Cercai di capire cosa stavo provando in quel momento, muovendomi nella desolazione che mi aleggiava attorno, scrutando in ogni meandro della mia testa e andando alla ricerca in mezzo ai mille pezzi in cui tutto il mio essere era stato dilaniato dal male. Guardai in ogni angolo, setacciai ogni buco della mia coscienza, ma non trovai da nessuna parte quel sentimento che sembrava sparito.
In me non vi era la benché minima traccia di perdono.
*
“Se gli dovesse…” si bloccò, scuotendo il capo e correggendosi, “Se vi dovesse succedere qualcosa, allora quel bastardo avrebbe davvero la vittoria in pugno e questo non glielo permetterò anche a costo della mia stessa vita”.
“E q-quindi che vuoi f-fare?” balbettai, tirando su col naso e abbassandomi il frontino del cappello sugli occhi.
“Gli darò quello che vuole” concluse atono, alzandosi e avviandosi per ritornarsene in camera, lasciandomi con un infinito senso di tristezza e impotenza.
“Me”.
*
Come potevo, quindi, rischiare che venisse fatto loro del male? Avrebbe voluto dire mettere in pericolo anche le vite dei loro cari, come quella di Rufy, di Zoro e Sanji, le ragazze e il resto di sbandati che, ne ero certo, non meritavano la fine. E poi c’era Kidd nella lista e avrei fatto di tutto purché non gli accadesse nulla.
“Siete dei completi idioti, ma è anche vero che come amici siete i migliori”.
 
Spero davvero di aver reso l’effetto che volevo, in caso contrario prometto che cercherò di fare del mio meglio la prossima volta.
Grazie a tutti per il sostegno e per qualsiasi altra cosa. Grazie ai vecchi e ai nuovi lettori. Grazie.
Un abbraccio grande e restate sintonizzati,
See ya,
Ace.
  
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