Capitolo 18.
Mentre tutto scorreva. Nothin' goes
as planned. Everything will break. Qualcosa non
andava,
qualcosa mi sfuggiva da un po’ di giorni, solo non riuscivo a capire cosa di preciso. Dire che era cambiato
tutto nel giro di un istante
era dire poco e, per quanto mi sforzassi di essere attento, di prendere
in
considerazione ogni singola situazione, non trovavo nessuna soluzione a
quella
strana sensazione di malessere che si era annidata dentro di me,
nascondendosi
nel profondo, ma senza andarsene e facendosi sentire nei momenti meno
opportuni. Da un
po’ Trafalgar si
comportava in modo strano, più
strano, e non sembrava avere l’intenzione di dare spiegazioni
a nessuno,
mantenendosi distante e piazzando ridicole scuse sullo studio e
l’università
per non uscire, rispondere al telefono o anche solo parlare. Si
rinchiudeva in
camera e da lì non usciva se non per strette
necessità, così almeno mi aveva
detto Killer, informato da Penguin, il quale era ancora più
preoccupato. A
detta sua, il medicastro non aveva mai avuto problemi nel prendersi
avanti con
i progetti scolastici e gli esami li aveva passati con ottimi voti. Ma allora,
perché
allontanarsi e isolarsi in quel modo? Mi passai
stancamente
una mano sul viso, scompigliandomi i capelli e cercando di riprendere a
mangiare il mio pasto, ma la verità era che non avevo
affatto fame e l’idea di
ingozzarmi per forza mi dava la nausea, così gettai tutto
nei rifiuti e misi il
piatto nel lavello. Più tardi l’avrei lavato,
quando sarei tornato da lavoro
dato che la mia pausa finiva tra circa un’ora. Quel giorno ero
tornato
a casa perché avevo un brutto presentimento e, quando stavo
in quel modo, non
mi sbagliavo mai. C’era una strana elettricità
nell’aria e mi sentivo
costantemente irrequieto, come se i miei nervi percepissero il
pericolo. Mi
sembrava di essere osservato a volte, ma poi mi guardavo attorno e mi
riscoprivo solo, al sicuro, e allora mi domandavo per quale maledetta
ragione
non riuscissi ad essere del tutto rilassato e menefreghista come al
solito. Mi chiedevo che
razza
di fine avesse fatto Trafalgar e cosa cazzo gli stesse passando per la
testa,
soprattutto cosa significavano tutte quelle balle che mi rifilava per
evitare
di vedermi. L’ultima
volta che
eravamo stati assieme era stato lo scorso venerdì, quando ci
eravamo ritrovati
tutti per la prima volta nel locale dove Ace aveva iniziato a lavorare
e non mi
sembrava che ci fossero stati problemi, anzi, aveva sempre mantenuto la
solita
faccia da schiaffi e l’atteggiamento da irriverente bastardo,
ma oltre a questo
tutto mi era apparso in ordine e a posto. L’unica
possibilità poteva essere stato
il bacio che ci eravamo scambiati, diverso dal solito, ma non nuovo.
Insomma,
non era certo il genere di gesto che ci si aspettava da uno rude e poco
fine
come me, ma ormai avrebbe dovuto conoscermi e capire che, nonostante
tutto, non
ero completamente un insensibile e a volte, rare per chiarezza, non mi
dispiaceva dimostrarglielo, ricordandogli che di me poteva fidarsi. Poi era accaduto
tutto
di fretta: mi ero allontanato un attimo per raggiungere gli altri e,
quando
anche lui si era avvicinato, avevo capito che era successo qualcosa di
brutto.
Andiamo, era impallidito e non gli avevo mai visto
un’espressione seria e
impenetrabile come quella che aveva sfoggiato in quel momento. Sembrava
aver
eretto un muro invalicabile di ghiaccio. Aveva detto di sentirsi poco
bene e
tutti gli avevano creduto, io compreso data la faccia cadaverica che
aveva, ma
non ne volle sapere di farsi riaccompagnare da nessuno, nemmeno da me,
preferendo chiamare un taxi e salirci a bordo senza salutare o
aggiungere altro
oltre che un misero ‘starò
bene’. People say
goodbye in their own special way. Allora avevo
creduto
che non volesse farsi vedere debole o qualche altra stronzata legata al
suo
orgoglio e amor proprio, ma poi la situazione era andata complicandosi
ed ero
ormai convinto che non si trattasse di una malattia, al contrario,
sembrava che
tutto fosse molto più grave. Me lo confermava il suo
silenzio di quei giorni:
non mi aveva mai cercato, nemmeno per avvisarmi che stava meglio o per
chiedermi scusa. Si, perché ero anche piuttosto incazzato
dato il suo
comportamento idiota ed egoista. Che cazzo, contava così
poco la mia opinione?
Non ero forse una delle persone che più gli erano vicine? E,
per essere chiari,
non ero io quel suo stramaledetto
fidanzato che tanto si era divertito a presentare in giro? Volevo sapere che
diavolo stava accadendo e capire come mai, tutto d’un tratto,
decideva di
ignorarmi e fare come se non esistessi; come se non fossi un dannato
nessuno,
quando era chiaro che per lui ero quel tipo
di nessuno. Soprattutto volevo proprio che venisse a dirmi le
cose
chiaramente e direttamente in faccia, senza rinchiudersi nel suo
silenzio e
mutismo e lasciarmele intendere. Perché,
per quanto
assurdo potesse sembrarmi e per quanto cercassi di scacciarla a forza
dai miei
pensieri, l’idea che Trafalgar avesse deciso di non voler
avere più niente a
che fare con me, lentamente, si stava facendo sempre più
presente nella mia
mente e mi stava logorando semplicemente perché non vedevo
altra motivazione
plausibile per il suo comportamento da stronzo. Perché
avrebbe dovuto ignorarmi
così? Perché andarsene in quel modo senza dire
una sola e maledetta parola?
Perché non mi cercava? Cosa avevo fatto di sbagliato? Non lo sapevo e
questo
mi tormentava giorno e notte. L’insicurezza, il fatto che
potesse essersi reso
veramente conto di tutti i miei difetti, che potesse essersi stancato
di avere
a che fare con un testardo e miserabile come me. Dopotutto era lui
quello
intelligente, quello bravo, quello bello e pieno di soldi,
perché perdere tempo,
quindi? Non ero altro che un vandalo, un pezzente se confrontato con
lui. Ma non volevo
ancora
arrendermi del tutto a quella teoria, doveva esserci per forza una
valida
spiegazione a tutto quel casino, senz’altro c’era
ed io, come al solito, ero
troppo cocciuto e stupido per vederla. Allora, perché
Trafalgar non mi sfotteva
e mi spiegava la questione come sempre? Perché quella volta
doveva essere così
diverso? Se solo pensavo alla brutta piega che avrebbe potuto prendere
quella
storia nella peggiore delle ipotesi mi sentivo vagamente male, non
riuscivo a
concentrarmi e ad immaginarmi come avrebbe potuto essere. Era come se
tutto
quello che avevo programmato, dato per scontato, tutto ciò
che fino a poco
tempo prima avevo creduto possibile, in quel momento avrebbe potuto
sgretolarsi
in briciole davanti ai miei occhi e risultare falso, irraggiungibile. All that you
rely on and all that you can fake. Forse era colpa
mia. Forse
era per qualcosa che avevo fatto tempo addietro e che non era
più riuscito a
sopportare, decidendo di darmi una lezione e lasciarmi da solo a
riflettere, ma
non capiva che in quel modo non faceva altro che irritarmi di
più e mandarmi
fuori di testa? Non era esattamente la soluzione migliore quella, lo
preferivo
quando mi faceva entrare in zucca le cose a suon di battutine acide,
insulti e
schiaffi. Oh si, il bastardo usava gli artigli quando voleva, a suo
rischio e
pericolo, e senza troppi scrupoli. Non ricordavo di
aver
mai fatto niente che potesse creare problemi, a parte gli improperi che
gli urlavo
dietro quando ero incazzato; i dispetti; le vendette attuate uno contro
l’altro; il sale nel caffè e l’acqua del
water nel bicchiere dello spazzolino,
questa era stata una sua idea, tutto era regolare. Per noi comportarci
in modo
orribile era normale, quindi non mi capacitavo del perché
del suo comportamento
così assurdo. Certo, non ero
perfetto, non lo ero mai stato, ma se volevamo dirla tutta nemmeno lui
era
l’icona della meraviglia. Andiamo, io sarò anche
stato un disadattato sociale,
un incivile, ma lui era uno psicopatico, malato con la medicina. Tra i
due chi
era quello preso meglio? Nonostante tutto
doveva
essere successo qualcosa che l’aveva in qualche modo turbato,
non c’era altra
risposta. Dopotutto non era strano solo nei miei confronti, persino i
suoi
coinquilini, per quanto stupidi, si erano accorti che qualcosa era
cambiato e,
nel giro di una giornata, mi avevano tutti telefonato chiedendomi
spiegazioni,
scoprendo che persino io non sapevo cosa cazzo avesse quella prima
donna col
ciclo. Avevano quindi
capito
che la colpa, quella volta, non era mia e la scoperta aveva complicato
ulteriormente le cose dato che nessuno aveva la minima idea di come
comportarsi
e come fare per tirarlo fuori da quella stanza prima che decidesse di
lasciarsi
morire. And nobody
here's perfect. Oh, but everyone’s to blame. Il telefono di
casa
suonò in quel momento, riscattandomi dai miei pensieri e dal
torpore che mi
aveva assalito le membra quando mi ero sdraiato sul divano a rodermi il
cervello, così, inciampando nel tappeto e bestemmiando tanto
da far impallidire
tutte le religioni esistenti, raggiunsi l’apparecchio e
risposi con stizza. “Passo
da te tra dieci
minuti” mi avvisò una voce fin troppo famigliare
dall’altro capo, cogliendomi
di sorpresa e lasciandomi senza parole per un minuto buono, durante il
quale
cercai di riprendermi il prima possibile per ribattere per le rime. “Cosa
ti fa pensare che
sia a casa?” risposi burbero, stringendo la cornetta nelle
mani. Finalmente si
era deciso di ritornare tra i vivi. Bene,
si innalzino cori di Alleluia! “Hai
risposto al
telefono” spiegò in tono saccente, “A
tra poco”. E riattaccò senza dire altro,
lasciandomi nella completa confusione per quelle sue stramberie che non
avrebbero smesso mai di stupirmi. Avrei dovuto
essere
sollevato da quella notizia, ma non mi sentivo affatto tranquillo.
Qualcosa nella
sua voce mi aveva allarmato: non stava bene, era chiaro e il tono che
aveva
usato per informarmi era lontano anni luce da quello canzonatorio e
spensierato
con cui soleva sfottermi in casi come quello. Un tempo saremmo rimasti
a
battibeccare per una buona mezz’ora, invece in quel momento
era bastato neanche
un minuto per concludere. Presi un respiro
profondo e mi preparai ad aspettarlo con le braccia incrociate e un
cipiglio
decisamente poco cordiale, il mio tipico assetto da battaglia, quello
con cui
praticamente andavo in giro prima di conoscerlo, quando ancora le
persone, per
quanto buone fossero, non mi stavano affatto simpatiche.
Così aspettai il suo
arrivo, intenzionato ad andare fino in fondo in quella faccenda e a
vederci
chiaro. Scacciai per
l‘ennesima
volta il pensiero che quella fosse la fine. Non avevo motivo per
crederlo, lui
non era il tipo che si comportava in quel modo per una sciocchezza. Era
uno
stronzo, ma non mi avrebbe mai fatto una cosa del genere, non in quella
maniera,
non quando ci eravamo spinti così oltre, non quando avevo
preso una decisione
così importante. Non poteva farlo. Oh you're in
my veins and I cannot get you out. * * * Quella sera mi
sentivo
proprio stanco, tanto che avrei potuto prendere sonno sul bancone e non
mi
sarei stupito affatto se fosse successo davvero dopo una giornata
pesante come
quella che avevo passato. All’università
avevo
avuto lezione le prime ore del mattino, dovendomi alzare abbastanza
presto per
presenziare e non perdermi il nuovo argomento; all’ora di
pranzo avevo fatto in
tempo a mangiare solo una mela perché poi ero schizzato di
tutta fretta, a
piedi per la precisione, alla caffetteria per non arrivare tardi a
lavoro. Era
stato tutti inutile, cinque minuti di ritardo, di nuovo, non me li
levò nessuno
e, nonostante Marco non mi rimproverasse mai per così poco,
mi dispiaceva non
riuscire ad essere efficiente in tutto. Ad ogni modo il pomeriggio ero
stato
totalmente immerso tra i clienti, per la maggior parte ragazzi, dato
che la
notizia del mio nuovo impiego si era sparsa a macchia d’olio
tra le mie
conoscenze e tutti avevano preso a passare da quelle parti per
salutarmi e
curiosare in giro, affezionandosi al posto accogliente, al servizio
impeccabile
e all’ottimo menu, diventando automaticamente nuovi clienti.
Quindi non avevo
fatto altro che volare da un tavolo all’altro con le
ordinazioni, battere
scontrini ed evitare le insinuazioni sessuali di Thatch quando mi
rifugiavo in
cucina per mangiare un boccone di nascosto. Oltre a questo, Marco aveva
ben
pensato di mettermi ai lavori forzati e riordinare l’ala
dedicata alle poesie
in previsione dell’imminente evento che, in quel momento,
stava avvenendo sotto
al mio sguardo annoiato. Fortunatamente non c’era
così tanta gente quella sera
e, con mia grande felicità, nessuno sembrava intenzionato a
ordinare da bere,
lasciandomi il tempo di riprendere le forze nell’angolino
remoto del bar, dove
mi sedetti, appoggiando i gomiti al bancone e accoccolandomi con la
testa su di
essi, sbadigliando sonoramente. Se mi concedevo un riposino di cinque
minuti
non sarebbe morto nessuno, figuriamoci e, se ero fortunato, non si
sarebbero
nemmeno accorti di niente. And
that I find my corner.
Maybe tonight
I'll call you. Il sonno mi colse
non
appena chiusi gli occhi e da quella posizione non mi schiodai per un
pezzo,
inconsapevole dei tentativi di Thatch di spremermi la panna sulla
faccia o di svegliarmi
di soprassalto, tentativi che, per la precisione, vennero tutti
impediti
dall’animo troppo gentile e altruista di Marco che, vedendomi
così esausto,
aveva deciso di lasciarmi riposare e arrangiarsi da solo, tenendo sotto
stretta
sorveglianza il fratello irrequieto fino a quando non fu sicuro di
averlo
sbattuto fuori non appena il bar si fu svuotato. Per quanto mi
riguardava, non avevo fatto altro che dormire placidamente e senza
pensieri. Dei leggeri, ma
insistenti, colpetti alla schiena mi strapparono dal mondo dei sogni,
facendomi
mugugnare qualcosa di indistinto e sbattere le palpebre per scacciare
gli
ultimi residui di sonno, in modo da vederci meglio. La prima cosa che
notai fu
Marco che, sempre tenendomi una mano sulla spalla, mi sorrideva
gentilmente,
blaterando qualcosa riguardo l’ora. Prima di ricollegare il
cervello, mi consessi
un attimo per immaginare come sarebbe stato svegliarmi sempre col suo
sorriso affianco. Notando la poca
luce
all’interno della sala e non udendo il classico
chiacchiericcio delle persone o
il monotono ritmo di quelli che leggevano poesie, una brutta
consapevolezza si
fece strada nella mia mente e fu così che indirizzai lo
sguardo verso
l’orologio appeso alla parete davanti a me, scoprendo che il
mio pisolino era
durato la bellezza di due ore. “Dio,
sono quasi le
tre” mormorai, passandomi le mani sul viso fino ad arrivare
ai capelli,
spostandomeli dalla fronte nel vano tentativo di riprendere almeno un
po’ di
contegno. Se volevo farmi licenziare quella era la strada giusta.
Dormire a
lavoro, fantastico, mi mancava solo quella. “Veramente
sono le tre
e un quarto” mi corresse Marco, appoggiandosi con la schiena
al bancone in modo
da guardarmi in faccia mentre parlava. Non sembrava arrabbiato, non lo
era mai
quando combinavo qualche guaio ma, nonostante tutta la sua pazienza, mi
sentii
veramente uno schifo. Insomma, lui mi offriva un lavoro in cui mi
chiedeva
semplicemente di aiutarlo quando ce n’era più
bisogno ed io che facevo?
Poltrivo, ecco cosa e non volevo che si facesse idee sbagliate su di me
perché
ci tenevo davvero a rendermi utile e a fare del mio meglio per non
deluderlo.
Sembrava però che, per quanto mi impegnassi, il Destino mi
remasse contro. “Sono
un idiota”
dichiarai, guardando dritto di fronte a me perché non sapevo
ancora come fare
per affrontarlo e chiedergli di perdonarmi. Per l’ennesimo
pasticcio. Ridacchiò
prima di
rispondere, togliendosi intanto il grembiule e appoggiandolo dietro di
sé,
“Nah, eri solo stanco, non c’è niente di
male. Non sei ancora abituato a fare
turni del gen…”. “Marco,
ti prego” feci
acido, zittendolo e prendendolo alla sprovvista. Non ce
l’avevo con lui, ma con
me stesso, “Smettila di difendermi, così
è peggio”. Rimase in
silenzio per
un attimo, rispondendomi alla fine con la solita calma. “Va
bene. Che vuoi che
faccia?”. Baciami. “Ma che
ne so!”
sbottai, “Insomma, guarda, non c’è
più nessuno e tu hai già sistemato tutto,
spento le luci, abbassato le serrande e hai persino pulito tutte le
stoviglie!
Quello dovevo farlo io! E a quest’ora avresti potuto essere
già a letto, invece
sei qui a farmi da balia per un mio errore” conclusi,
sentendomi
incredibilmente più leggero, anche se stupido. Dovevo essere
impazzito per
avere una reazione del genere, probabilmente ero ancora mezzo
addormentato o
quello era un brutto sogno. Come poteva anche solo passarmi per la
testa di
rispondere in modo così irrispettoso al mio capo?
D’accordo che, ormai, più che
il mio datore di lavoro era un amico, ma questo non implicava che
avessi il
diritto di comportarmi come uno schizzato. Eppure non mi
sembrava
di aver bevuto, quindi non potevo nemmeno dare la colpa di tutto a una
sbornia
con i fiocchi perché in servizio non mi azzardavo a bere.
Festeggiamenti
indetti da Thatch a parte e indimenticabili figure di merda. After
my blood turns into alcohol. “Dovresti
arrabbiarti”
sussurrai, più a me stesso che a lui, “Me lo
meriterei, dopotutto”. Lo sentii
sbuffare e mi
voltai appena in tempo per vederlo alzare gli occhi al cielo prima che
mi
scompigliasse i capelli con una mano, ridendo della mia espressione
sorpresa e
dandomi dell’idiota. “Sei
proprio un
ragazzino” aggiunse poi, sapendo quanto detestassi quel
nomignolo. Ancora non
gli era chiaro che doveva smetterla di chiamarmi in quel modo. In ogni
caso
rimandai le discussioni perché ci tenevo a chiarire una cosa
che ritenevo
piuttosto importante. “Senti,
sto solo
cercando di dire che non voglio approfittare della tua pazienza,
davvero, e non
voglio nemmeno che tu pensi questo di me. Cioè, puoi pensare
quello che vuoi,
ovvio ma, quello che cerco di spiegarti è che,
praticamente…”. “Ace,
sta zitto” disse
Marco, sorridendomi e guardandomi come se fossi la cosa più
buffa sul pianeta.
Di certo dovevo esserlo per forza dato che quel sorrisetto non gli era
mai
scomparso dalla faccia da quando avevo aperto gli occhi. “Io non
penso affatto
che tu stia approfittando della nostra amicizia, ci mancherebbe, e
credimi
quando ti dico che non hai fatto nulla di grave. Sul serio, se dovessi
scegliere chi sgridare, il primo della lista sarebbe Thatch”. Sorrisi
involontariamente e lui sembrò sollevato, assicurandomi che
era tutto a posto e
che dovevo smetterla di preoccuparmi per sciocchezze come quelle. “Grazie”
feci,
sinceramente grato per tutta la disponibilità che dimostrava
nei miei confronti
e per un sacco di altre cose. In quei giorni avevo scoperto che
lavorare lì mi
piaceva da matti, mi divertivo e non mi annoiavo mai, soprattutto
perché, se
non c’erano clienti, potevo chiacchierare tranquillamente con
Thatch o con
Marco e con loro le risate e il buonumore erano assicurati. Fece un cenno
disinvolto con la mano, “Non c’è di che,
figurati”. E poi avevo
l’opportunità di poterlo guardare ogni volta che
ne avevo voglia; bastava che
mi voltassi a destra o a sinistra e lo trovavo sempre, in alcuni casi
non se ne
accorgeva, mentre in altri lo ritrovavo intento a fissarmi pure lui.
Era come
una specie di calamita: non potevo evitare di cercarlo e di sorridere
ogni
volta che mi rendevo conto che avevamo un sacco di tempo a nostra
disposizione. Non gli avevo mai
detto
quanto mi faceva piacere passare a salutarlo quando ancora non
conoscevo il suo
nome, non ne avevamo mai parlato. A pensarci bene, non sapeva nemmeno
che mi
programmavo tutti i pomeriggi in modo da tenermi libero la maggior
parte del
tempo per riuscire ad andare a trovarlo. Per non parlare di quanto
adorassi la
sua cioccolata o i waffles, ma quelle erano solo piccole cose. Avrei
dovuto
dirgli di come mi ero sentito la prima volta che ci eravamo visti,
quando mi
aveva offerto quella tazza di caffè che ormai consideravo
solo ed
esclusivamente mia. Infatti, da quando lavoravo lì, avevo
pensato bene di
tenerla da parte, come se fosse un qualcosa di speciale. E per me lo
era
davvero, proprio come lo era lui. Mi aveva praticamente stravolto la
vita con
quella espressione apparentemente disinteressata, si poteva dire che
era stato
proprio quel suo comportamento distaccato a mettermi in moto con
l’intento di
riuscire a strappargli un sorriso, una parola, qualsiasi cosa pur di
avere la
sua attenzione, pur di arrivare a valere qualcosa per quel ragazzo che
celava
tutto dietro una facciata di menefreghismo. Forse avrei dovuto anche
spiegargli
com’era stato bello e dannatamente perfetto quel nostro
bacio, anche se aveva
portato con sé un effetto devastante. Avrebbe dovuto sapere
che avevo persino
creduto di odiarlo e mi sembrava carino metterlo al corrente di tutte
le maledizioni
che gli avevo lanciato prima di capire i miei sbagli. Avevo compreso
che le
cose si sarebbero sistemate da sé e così era
stato. Aveva mai provato a
immaginare come mi ero sentito lusingato quando aveva deciso di sua
spontanea
volontà di passare la vigilia di Natale e capodanno con
persone che con la sua
famiglia non c’entravano nulla? Aveva una vaga idea di cosa
aveva significato
per me quell’abbraccio sotto la neve? E chissà se
si era accorto come e con che
occhi lo guardavo a volte. Forse in quel
momento
avrei dovuto essere io ad abbracciarlo. Un semplice gesto per
ringraziarlo come
meritava. No,
I just wanna hold you. Dopo tutto quello
che
avevamo passato, però, ancora non ero abbastanza coraggioso
e così sospirai,
guardando altrove e interrompendo il contatto visivo che, fino ad
allora, era
rimasto intatto. Probabilmente aveva avuto tutto il tempo di leggermi
l’anima,
dato che mi ripeteva spesso che per lui ero un libro aperto. Meglio
così, mi
sarei risparmiato un discorso impacciato e incomprensibile. “Sarà
meglio che vada”
esalai infine, accennando ad un sorriso e alzandomi dallo sgabello,
stiracchiandomi con le braccia verso l’alto e venendo colto
all’improvviso da
un altro sbadiglio mentre il pennuto sghignazzava con ironia. Rivolgendogli
un’infantile linguaccia mi avviai verso la porta e, quando
fui a metà strada,
pensò bene di farmi notare un particolare piuttosto
interessante e necessario
alla mia intenzione di ritornarmene in appartamento. “Ace”
cantilenò, “Il
tuo cappotto”. Cercai di
ignorare
l’effetto che mi fece quella sua espressione da sbruffone e,
a testa bassa, lo
raggiunsi in poche falcate, determinato a non guardarlo per nessuna
ragione al
mondo e a recuperare in fretta la giacca abbandonata nello sgabello
accanto al
mio che prima non avevo notato. Probabilmente prima di svegliarmi aveva
anche
provveduto a lasciarmela a portata di mano. “Allora
b-buonanotte”
borbottai appena gli fui accanto, sporgendomi per prendere il cappotto,
ma non
arrivandoci mai. Proprio in
quell’istante Marco si staccò dal bordo del
ripiano bar, afferrandomi per un
braccio e facendomi fare un passo indietro, verso di lui. Credetti che
il suo
intento fosse quello di abbracciarmi e ne fui sinceramente contento,
quello che
non mi aspettavo, invece, era di sentire le sue mani accarezzarmi
gentilmente
il viso prima che le sue labbra si posassero dolcemente sulle mie,
straziandomi
lentamente mentre si muovevano calme, ma decise. Non era un bacio
prepotente, non mi stava trattenendo, non mi stava nemmeno
costringendo; ancora
una volta si preoccupava per me, lasciandomi libero di colpirlo, di
allontanarlo; lasciandomi la possibilità di scegliere,
di decidere cosa fare. Mi stava dando il tempo per reagire, continuando
a
baciarmi, ma senza pretendere nulla in cambio, infatti la mia
espressione era
ancora stupefatta e incredula, anche se tutto il resto del mio corpo
fremeva
nel desiderio di avere di più. Perché ormai non
mi bastava vederlo due o tre
volte la settimana; non mi bastava parlarci assieme; le nostre
chiacchiere non
mi soddisfavano e i nostri sguardi non erano mai abbastanza. Lavorare
assieme
si era rivelata una bella novità e credevo che sarei stato
contento, invece mi
ero ritrovato a volere, a pretendere
sempre di più. Sempre. Nonostante mi
fossi
ripetuto mille volte che le piccole cose mi sarebbero andate bene, in
quel
momento quello che avevo non era abbastanza, ormai era chiaro, e
ignorare il
fuoco che sentivo bruciare dentro di me ogni volta che ci trovavamo
vicini mi
stava divorando piano, piano. Come in quell’attimo: quel
bacio mi stava distruggendo,
o meglio, l’avrebbe fatto sicuramente se l’avessi
fermato. Give
a little time to me, we'll
burn this
out. Mi
sentii male quando sciolse il contatto, trovandomi ancora
immerso nei miei pensieri e con l‘aria di chi non ha del
tutto realizzato la
situazione. Aprii la bocca per pronunciare anche solo una sillaba, ma
dovetti
chiuderla. E riaprirla. E chiuderla di nuovo. Probabilmente credette
che il mio
comportamento fosse dovuto da un rifiuto, così
lasciò scivolare le braccia
lungo i fianchi e, non senza un certo imbarazzo, tentennò
qualche secondo nello
scegliere cosa dire. Alla fine chiuse gli occhi, volgendo il capo verso
il
soffitto, e sussurrò un’unica parola, sorridendo
amaramente. “Scusami”. “Mi
stai chiedendo di mostrarmi indifferente dopo questo?”
gli domandai in un mormorio sommesso. Temevo di rovinare
tutto se avessi alzato la voce, quando attorno a noi l’unico
rumore erano i
nostri respiri e il battito impazzino del mio cuore che mi rimbombava
in testa
incessantemente. Una cosa era certa: la situazione tra noi era cambiata
di
molto e quella volta non gli avrei permesso di nascondersi,
assolutamente.
Ormai eravamo in bilico, da una parte o dall’altra dovevamo
pur cadere. Perché,
allora, non farlo assieme? Non
sostenne il mio sguardo e lo spostò altrove come faceva
quando ci
trovavamo improvvisamente troppo vicini per sembrare solo
impegnati a conversare. Succedeva spesso quando parlavamo e, non
appena ci accorgevamo di aver superato le distanze stabilite dalla
buona
educazione, non riuscivamo mai a risultare disinvolti. “Non
ci riesco” decretai, non stupendomi nel vederlo fraintendere
le mie
parole, “Non ci riesco proprio”. Prima
che potesse rendersene conto, gli presi il volto tra le mani e lo
baciai, provando di nuovo la fantastica sensazione di ardere. Una
strana euforia esplose dentro di me quando mi sentii afferrare per i
fianchi e avvicinare ulteriormente al suo corpo. Dio, quanto
l’avevo sognato
quel momento. Poi,
quando fu Marco a riprendere il contatto e a renderlo più
profondo,
corsi ad afferrare le sue spalle e pensai semplicemente che quello che
provavo
era fuoco vivo senza ogni dubbio. We'll
play hide and seek to
turn this
around. Tutto
ciò era il
delirio totale, mi sentivo quasi in estasi. Quante volte mi ero chiesto
che
effetto facesse abbracciarlo? Quante? Talmente tante che avevo perso il
conto.
Quel corpo era perfetto, Marco era perfetto, non c’era altro
da aggiungere. Mi
teneva in considerazione, mi ascoltava e non sminuiva le mie trovate, a
detta
mia geniali, ma che al resto del mondo risultavano stupide. Mi
incoraggiava a
mettermi in gioco, a non mollare mai. E così avevo fatto con
lui, nonostante
tutto, non avevo mai smesso di sperare che qualcosa cambiasse, che si
accorgesse di me, che mi considerasse. Solo allora mi ero reso conto
che, in
realtà, l’aveva sempre fatto. Mi allontanai di
qualche centimetro per riprendere fiato e venni investito da uno
sguardo carico
di significati e parole non dette, tanto che ne rimasi incantato.
Intanto le mie
mani non avevano smesso un attimo di stringere il colletto della sua
camicia,
mentre le sue sembravano avere tutta l’intenzione di strapparmela. “Resta
da me” disse in
un sussurro, stringendomi di più a sé e, quasi
automaticamente, il cavallo dei
miei pantaloni diventò misteriosamente più
stretto, tanto che mi ritrovai senza
fiato e risposi con un cenno affermativo del capo per evitare ulteriori
inconvenienti. Dopo aver chiuso
a
chiave l’entrata, dato che io non me ne sarei andato,
spegnemmo le luci
rimanenti e poi lo seguii farmi strada lungo un corridoio sul retro,
arrivando
davanti a delle scale che portavano direttamente al secondo piano. “Beh,
puoi permetterti
il lusso di dormire fino all’ultimo minuto”
scherzai, tanto per alleggerire la
tensione. Sinceramente stavo solo cercando di calmarmi dato che non
escludevo
la possibilità di essere colto da un improvviso infarto,
tanto il mio battito cardiaco
era su di giri. Non sapevo bene come comportarmi e mi sentivo
esattamente come
spesso si divertiva a descrivermi: un ragazzino. “E’
piuttosto comodo,
in effetti” concordò Marco, aprendo la porta di
casa sua e invitandomi ad
entrare con la sua solita tranquillità, perfettamente
padrone di se stesso. Con il cuore in
gola
misi piede dentro l’appartamento, gradendo infinitamente il
calore che emanava
il riscaldamento acceso e sentendomi subito a mio agio, nonostante
l’entrata
fosse buia e priva di illuminazione. Il pennuto provvide subito a
questa
mancanza e fece scattare l’interruttore, illuminando
immediatamente la stanza; dopo
di che mi prese il cappotto e, assieme ad un mazzo di chiavi e alcuni
telecomandi per l’allarme, lo ripose in uno stanzino poco
lontano, incitandomi
a precederlo e ad accomodarmi pure in salotto. Mi piaceva quel
posto,
ce lo vedevo perfettamente aggirarsi tra quelle mura bianche con il
soffitto di
un azzurro sfumato e tutto il resto in ordine, rispecchiava parecchio
la sua
personalità posata e calma. Quanto fosse calmo a letto,
però, ancora non lo
sapevo e mi risparmiavo dal prestare ascolto ai pettegolezzi di Thatch
per
rispetto nei suoi confronti e perché, spesso, erano rivolti
a far arrossire me. Ah,
maledizione, devo smetterla di ascoltare quell’idiota e le
sue storie! pensai,
scuotendo il capo e afferrandomi
il viso con le mani, cercando di non lasciarmi prendere dal panico e di
tranquillizzarmi. Non c’era niente di cui preoccuparsi, ero
con Marco e sarebbe
andato tutto bene. Non era quello che avevo sempre desiderato? Era
arrivato il
mio momento, quindi perché essere nervoso? Davvero non
riuscivo a capirlo e più
ci pensavo più mi sentivo inadeguato. E
se non gli piacessi? Pensa che casino! Magari non, cioè,
forse dovrei, che ne
so, comportarmi in un determinato modo? E domani che
succederà? Dovrò
andarmene? Sul serio, dovrò farlo? Io non… “Ehi”.
Come riuscisse
sempre
ad apparire dal nulla ancora non mi era del tutto chiaro, probabilmente
era una
sua dote naturale, come l’essere dannatamente attraente,
nonostante un taglio
di capelli assurdo. Ad ogni modo non c’era spazio per le
battute, non in quel
momento, non quando cercava di capire se mi sentissi bene o se fosse il
caso di
fermarsi prima di andare troppo oltre. Sapevo che, se
solo
gliel’avessi chiesto, mi avrebbe lasciato andare, ma,
davvero, era l’ultima
cosa che volevo. Quello che mi premeva, in quel momento, era poterlo
baciare
ancora, e ancora, e ancora. And
all I want is the taste that
your
lips allow. Oh,
fanculo tutto. Smisi
di
pensare e crearmi problemi dove non ce n’erano e agii
d’istinto, voltandomi
verso di lui e circondandogli il collo con le braccia senza dargli
tempo di
aggiungere altro, assaggiando di nuovo quelle labbra su cui tanto avevo
fantasticato. “Ace”
mugugnò, cercando di riprendere fiato, “Ne sei
proprio
sicuro?”. “Che
domande!” sbottai, alzando gli occhi al cielo e togliendomi
la maglia da solo, facendolo ridere per la frenesia dei miei gesti. “Hai
così tanta fretta?” scherzò, imitandomi
e sorridendo davanti
alla mia aria sognante quando anche la sua camicia finì alle
sue spalle. “Chiudi
il becco, ti prego”
quasi lo implorai. Non c’era nulla che valesse tanto quanto
quel momento,
nulla. E di certo non avevo intenzione di rinunciarvi. Mi
attirò a sé, portandosi a un soffio dal mio viso,
“Sai una
cosa? Non vedevo l’ora” mi confessò
prima di riprendere da dove avevamo
lasciato. Non
arrivammo mai alla sua camera da letto quella notte, ma non
aveva importanza. Avrei fatto il giro turistico della casa il mattino
seguente,
o quando saremo stati in comodo perché, per quel momento,
avevamo cose ben più
interessanti da fare. Soprattutto, dovevo pur dimostrargli che non ero
affatto
un ragazzino. My
my my my give me love. * * * “No”. “No?”. “No,
semplicemente non
ci credo” dichiarò, incrociando le braccia al
petto senza muoversi di un passo
e fissandomi così intensamente da insinuarsi nella mia testa
e scavarmi fin
dentro nell’anima. Cosa che dovevo assolutamente impedirgli
se volevo togliermi
da quell’impiccio una volta per tutte. “Non
è possibile che
dopo tutto quello che abbiamo passato tu adesso…”. “Passato
cosa, Eustass-ya?” gli
chiesi con voce calma
e distante miglia da quel luogo, risultando comunque il più
sarcastico
possibile, “Abbiamo semplicemente continuato a vederci per
scopare, che altro
c’è da dire? Ti mancherà il sesso? Non
preoccuparti, troverai di sicuro qualcun
altro che sappia soddisfarti”. Doveva pur esserci un modo per
sbarazzarmi di
lui e smetterla con quella storia durata ormai troppo a lungo. Ci
avevamo
provato e d’accordo, era stato divertente
all’inizio, ma ero arrivato al
limite. Ogni cosa finiva, prima o poi. When you try your best but you don't succeed. “E
per quale motivo dovrei andare in cerca di un’altra
puttana, sentiamo?” ribatté scettico, poggiando le
mani sui fianchi e
scoccandomi un’occhiata furente. Perfetto, finalmente si
stava arrabbiando e,
quando questo accadeva, significava che avrebbe presto perso le staffe
e smesso
di ragionare prima di parlare. Ci
avevo riflettuto a lungo su quello che stavo
per fare ed ero arrivato alla conclusione che fosse tra tutte la
soluzione
migliore per ognuno. Certo, non avevo chiesto l’opinione di
nessuno e avevo
deciso tutto da solo, non curandomi affatto di quello che gli altri
avrebbero
avuto da dire, ma facendo semplicemente ciò che mi pareva
più giusto e adatto
alla mia situazione. Dopotutto, non ero mai stato bravo con i rapporti
a lunga
durata. Così
quel giorno avevo deciso che era arrivato il
momento di chiarire bene le cose una volta per tutte e avevo chiamato
quell’idiota montato di Eustass-ya in tutta fretta
perché temevo che, se ci
avessi pensato meglio, mi sarebbe mancata la determinazione per farlo.
Quindi
mi ero precipitato da lui nel giro di qualche minuto, trovandolo
all’ingresso
ad aspettarmi dove, per l’appunto, ci trovavamo in quel
preciso istante,
intenti a scannarci con lo sguardo, uno di fronte all’altro,
come di
consuetudine. C’era, però, una sola e importante
differenza quella volta: non
si trattava dei nostri soliti litigi, più adatti ad una
coppia sposata che a
dei ragazzi della nostra età, ma bensì di
qualcosa di più difficile da
inculcare in testa a quello svitato. “Perché
mi sono stancato” ammisi, trattenendo a
stento l’esasperazione e non curandomi dei suoi occhi
innaturalmente fuori
dalle orbite per lo stupore delle mie parole. Tutto ciò non
mi toccava
minimamente, non mi importava nulla se gli sembrava assurdo o uno
scherzo, perché
non lo era affatto. Quei mesi erano stati uno spreco di tempo prezioso,
l’avevo
capito solo allora e troppo tardi. Mi era tutto indifferente, lui
compreso, e
le sue accuse mi scivolavano addosso senza scalfirmi minimamente. Se la
sarebbe
cavata, senza dubbio, e mi avrebbe dimenticato nel giro di poco tempo
come
avrei fatto io. “Stronzate,
Trafalgar! Dimmi che cazzo significa
tutto questo!” sbottò, intestardito a voler
trovare un significato plausibile a
tutto ciò. Possibile che fosse così ottuso? Non
c’era nulla da capire, a parte
il fatto che, semplicemente, non volevo più continuare quel
malsano rapporto
che era venuto a crearsi tra di noi. Ne avevo avuto abbastanza ed ero
arrivato
al punto in cui stargli dietro era diventato tremendamente stancante.
Era
peggio di un moccioso. Tutto
quello, però, sembrava non volerlo capire.
Quanto a fondo ci eravamo spinti in quella relazione per trovarmi
così in
difficoltà a metterle fine? Non chiedevo altro, solo
concludere in fretta quella
tortura. When you get what you want but not what you need. “Eustass,
fattene una ragione” sputai secco, “Per
me non conti più niente”. Il
colpo fu così veloce e inaspettato che non me
ne resi conto fino a quando non sbalzai contro la parete, ritrovandomi
con uno
zigomo dolorante e due occhi fiammeggianti di rabbia piantati nei miei
senza
lasciarmi via di fuga. Era sempre così, un violento e un
manesco. Ed io,
maledizione, ero così
debole. “Non.
Ti. Credo” sillabò minaccioso. Era
determinato a non accettare le mie decisioni e, se volevo avere la
possibilità
di scrivere una volta per tutte la parola fine,
ero praticamente costretto a sbattergli in faccia la cruda e vera
realtà dei
fatti, sicuro che in quel modo l’avrei ferito
irrimediabilmente e nel modo
peggiore di tutti. Pazienza,
c’erano cose peggiori di un cuore
spezzato. Gli
dedicai il mio ghigno più maligno, mentre il
mio viso assumeva un’espressione di pura sufficienza e
menefreghismo. Volevo
che vedesse chiaramente quanto poco mi importasse di lui e delle sue
stupide ed
inutili lamentele. Così, dopo essermi assicurato di avere
tutta la sua
attenzione, gli rovesciai addosso un’occhiata di disprezzo. “Sono
stato a letto con un altro, caro
Eustass-ya” scandii lentamente e in modo chiaro, con voce
quasi derisoria,
sottolineando il fatto che non me ne importasse minimamente, anzi,
tutto ciò mi
divertiva, “E di te non ho più bisogno”. Il
tempo sembrò fermarsi, scandito solamente dal
suo respiro ansante e dal mio cuore che, incontrollato, batteva a
briglia
sciolta nel mio petto, come se volesse uscire. La
sua espressione era illeggibile, come se il
suo viso fosse stato di pietra e la luce che fino ad allora aveva
brillato come
una fiamma viva nei suoi occhi si spense nell’esatto istante
in cui smise di
tenermi affisso al muro, lasciandomi quindi scivolare con i piedi per
terra
mentre mi dava le spalle, stringendo convulsamente e con forza i pugni
lungo le
braccia. Il
solito
sentimentale. Quando
si voltò quasi mi sentii sprofondare
nell’oblio per la scarica di disgusto che mi rivolse con uno
sguardo micidiale
e carico d’odio, rancore, risentimento e
qualcos’altro di più profondo e
personale. Abbandono, forse? Rifiuto? Mi liberai di quella sgradevole
sensazione con una scrollata di spalle, sentendomi comunque vagamente
stanco e
spossato. Mi ripetevo che quella era la cosa migliore, che non potevo
essermi
sbagliato. Non ero nel torto, non dovevo e non potevo esserlo. When you feel so tired but you can't sleep. Stuck in
reverse. “Vattene”
sussurrò, apparentemente calmo, ma con
l’aria di chi è appena stato svuotato di qualsiasi
emozione o sentimento, “E se
oserai rimettere piede nella mia vita giuro che ti ucciderò
con le mie stesse
mani”. Senza
smettere di ghignare, senza smettere di
apparire intoccabile come sempre, senza perdere il mio disinteresse e
senza
abbassare lo sguardo dal suo, intenzionato a vincere quella partita
fino
all’ultimo, raccolsi la mia giacca e mi avviai verso la porta
a passo lento,
maledicendomi per la debolezza del mio cuore che, incurante delle mie
decisioni,
continuava a battere impazzito, tanto che, da un momento
all’altro, avrei
potuto benissimo ritrovarmelo tra le mani, pulsante, vivo e carico di
sofferenza. Non
una parola uscì dalla sua bocca, tanto meno
dalla mia e, dandogli le spalle dopo un ultimo sguardo, uscii da quella
casa e
raggiunsi l’auto, mantenendo un’espressione
ghignante e uscendo dal quartiere,
immettendomi nella strada principale. Non
sarei tornato subito in appartamento, no,
prima avevo un’altra tappa da fare così, nel giro
di una quindicina di minuti,
raggiunsi un parco pubblico in periferia, spesso molto tranquillo e
silenzioso,
soprattutto a quell’ora in cui tutti se ne stavano a casa a
mangiare o a fare
un pisolino. Solo
dopo che ebbi parcheggiato poco lontano
dalle fronde sempreverdi dei pini ancora innevati, incamminandomi fra
quei
sentieri con le mani affondate nelle tasche nell’intento di
scaldarle,
raggiungendo una vecchia panchina abbandonata, mi permisi di smetterla
con quel
sorriso che tanto mi era costato sfoggiare, facendomi serio e
togliendomi il
cappello, in modo da non celare più i miei occhi al resto
del mondo e sperando
di trovare conforto nel lieve venticello invernale. Solo
allora abbassai completamente le mie difese,
lasciando che la valanga di desolazione che mi ero tenuto dentro fino a
pochi
istanti prima, permettendole di straziarmi nel profondo, mi investisse
senza
pietà, soffocandomi con la sua pesantezza. Ed era
così opprimente, così
dolorosa che persi totalmente il controllo sul mio corpo e sulle mie
emozioni. And the tears come streaming down your face. Le
mie mani tornarono gelide a contatto con
l’aria fredda e, tremanti, corsero a coprire i miei occhi.
Nonostante i miei
sforzi, però, non passò molto prima che mi
ritrovassi con le ciglia, le dita e
le guance inondate d’acqua salata. Un gusto amaro e
famigliare. Mi
sentivo morire, tanto che mi ritrovai accasciato
a terra, senza nemmeno sapere come ci ero finito, con le braccia
intente a
stringermi con forza il petto per la desolazione che provavo e per
cercare di
alleviare almeno in parte quel dolore infernale che sentivo bruciarmi
nell’amina, nei polmoni, nel cuore fino alla testa. Ero
un mostro, un essere orribile e avevo appena
allontanato per sempre dalla mia vita l’unica persona che
avesse mai dimostrato
un po’ di umanità nei miei confronti,
l’unica che non era scappata davanti al
mio passato, l’unica che mi aveva accettato e che non si era
tirata indietro
anche quando aveva saputo quanto schifo facessi come esse umano, come
uomo, e quanto
fossi incapace di esprimermi quando si trattava di sentimenti. L’avevo
abbandonato nel peggiore dei modi e non l’avrei
riavuto mai più. Avevo appena rinunciato a tutto, tutto
ciò per cui valesse la
pena sorridere. Io, che di sorrisi non sapevo nulla, ma che avevo
imparato come
mi facessero sentire bene ogni volta che quel capelli
rossi me ne rivolgeva uno, anche se per un attimo, anche se
poi mi mandava a fanculo. Avevo
perso Kidd e niente avrebbe mai preso il
suo posto. Niente e nessuno. When you lose something you can't replace. Non
avrei mai pensato di ritrovarmi in quelle
condizioni, inginocchiato a terra e appoggiato ad una misera panca,
intento a
piangere tutto il dolore che mi ero portato dentro quei giorni. Non uno
solo,
ma tutti gli sbagli di una vita, della mia vita, a partire
dall’infanzia. Ne
avevo fatta di strada da allora e, crescendo, avevo imparato che al
mondo solo
poche cose meritavano davvero la mia attenzione, o anche un minimo
accenno di
interesse. Fino ad alcuni mesi prima la mia esistenza gravitava
unicamente
attorno alla medicina, alla scienza, al diventare il miglior chirurgo
di tutti
i tempi, ma poi le cose erano cambiate nel giro di una notte,
stravolgendo la
mia vita, me compreso, e ricostruendomi da capo. Perché
era questo che Kidd aveva fatto: mi aveva
svuotato di tutta la merda che mi portavo appresso con una forza e una
determinazione
invidiabili e difficili da attribuire a uno come lui e mi aveva rimesso
a
nuovo, un poco alla volta, con impazienza e con modi alquanto
discutibili, ma
ce l’aveva fatta. Si era offerto come ancora di salvezza ed
io mi ci ero
aggrappato con tutto me stesso nella speranza che forse mi ero
sbagliato, forse
anche io mi meritavo uno spiraglio di felicità dopotutto e
non ero destinato a
vivere nell’oblio del passato. Avevo davvero creduto di
potercela fare, di
poter respirare a pieni polmoni una boccata d’aria pulita e
cancellare con essa
tutto ciò che mi inquinava. Purtroppo,
però, non era così che doveva andare.
Probabilmente qualcuno lassù mi odiava e aveva deciso che
per me era arrivato
il momento di smetterla di vivere in un miraggio, in un qualcosa che,
prima o
poi, doveva svanire e riportarmi alla realtà. Il
risveglio da quel sogno che tanto avevo
desiderato potesse essere vero, sfortunatamente, era avvenuto nel modo
più
orribile, traumatico e pauroso di tutti. Il mio incubo personale aveva
trovato
la via per infettare anche il mio presente con il suo veleno e questo,
questo
era ciò che più mi spaventava. “Sai,
Law, ho riflettuto molto durante questi anni passati in quel buco dove
mi hai
spedito, e ho anche pensato a come distruggerti. Oh, non ti
preoccupare, lo
farò nel modo più divertente e doloroso
possibile, mi conosci. Ho saputo che
condividi un appartamento con Penguin e Bepo, vero? Me li ricordo quei
ragazzini, erano sempre così timidi e impauriti quando mi
incontravano. L’altro
ragazzo, invece, non lo conosco. E’ un tuo nuovo amico? Ho
scoperto che si
chiama Ace e che è il nipote di un ex agente della polizia,
uno di quelli che
spesso venivano a ficcanasare nei miei affari oltretutto. Da quel che
ho
sentito suo fratello è una mina vagante, ma sono entrambi
così giovani! Che
peccato sarebbe se succedesse loro qualcosa. Tu che ne pensi? Non ci
sono
troppi incidenti e troppe vittime al giorno d’oggi? Quante
disgrazie accadono.
Ma non pensiamo al peggio per adesso e raccontami un po’ come
stai, figliolo.
Oh? Non rispondi? Beh, al tuo posto anche io sarei rimasto di pietra,
ma lascia
che ti dica che muoio dalla voglia di conoscere questo Eustass Kidd di
cui ho
tanto sentito parlare. Stando a quello che si dice in giro è
il tuo fidanzato.
Sbaglio? No? Chi tace acconsente. Ho qui alcune sue foto e a prima
vista sembra
proprio un piantagrane. Ha l’aria del tipico rissaiolo, con
quell’espressione
sempre corrucciata. Mi domando come vi sopportiate. Immagino comunque
che
eliminarlo non sarà semplice, ma… Come dici? Devo
stargli lontano? Bingo!
Finalmente una reazione da parte tua, figliolo! Quindi è
proprio vero: hai
ancora un cuore tenero e debole. Molto bene, molto bene! Ora ascoltami
attentamente: se non vuoi che al tuo ragazzo capiti qualcosa di brutto,
come
una bella pallottola in testa, dovrai allontanarlo da te. Fallo uscire
dalla
tua vita, feriscilo, spezzagli il cuore e, di conseguenza, calpesta il
tuo,
Law. In questo modo, con te già distrutto per
metà, la mia vendetta sarà ancora
più godibile”. Questo era il
patto che
avevo stretto col Diavolo quella sera. Dovevo
assicurarmi che
arrivasse ad odiarmi a tal punto da non volermi più vedere,
ne sentire
nominare. Doveva detestarmi e disprezzarmi, cancellarmi per sempre
dalla sua vita.
Doveva dimenticarmi e non cercarmi mai più. E tradire la sua
fiducia, anche se
per finta, era l’unico modo per assicurarmi la sua salvezza,
per tenerlo al
sicuro e lontano dai guai. Non doveva per forza sapere come stavano
realmente i
fatti, non avrebbe mai dovuto scoprirlo; era meglio se mi credeva un
maledetto
bastardo, piuttosto che vederlo prendere parte alla causa e mettersi in
mezzo
in affari che non lo riguardavano. Perché sapevo che
l’avrebbe fatto, sapevo
che avrebbe insistito per starmi vicino e aiutarmi ad affrontare la
cosa, ma
non potevo permetterglielo. Non potevo rischiare di metterlo in
pericolo
continuando a stare con lui, ci tenevo troppo per essere
così egoista e,
soprattutto, non volevo un’altra morte sulla coscienza. Kidd non avrebbe
dovuto
morire, non per colpa mia; io non lo meritavo, non valevo
così tanto come lui
che con quel suo comportamento da stronzo era arrivato a significare
tutto per
me. E questo, quel figlio di puttana che credevo morto,
l’aveva capito e aveva
sfruttato la cosa a suo vantaggio. Se non avessi
preso le
distanze da tutti quelli che amavo lui
li avrebbe uccisi uno ad uno sotto ai miei occhi. When you love someone but it goes to waste. E
faceva male, malissimo sapere di non avere
altra scelta se non quella di arrangiarmi, come avevo sempre fatto.
Affrontare
i demoni del passato di nuovo, più solo che mai, senza
nessuno a cui
appoggiarmi. Ma era un sacrificio che ero pronto a fare. Lui voleva me,
gli
altri non c’entravano. Kidd
non
c’entrava e, ora che non aveva più niente a che
fare con me, sarebbe stato in
salvo, lontano da ogni pericolo. Così doveva essere,
così doveva andare.
Sarebbe andato avanti con la sua vita, sarebbe finito in galera un paio
di
volte, certo, ma sarebbe stato felice e, chissà, forse si
sarebbe innamorato di
nuovo, un giorno, e sarebbe stato felice. Se lo meritava per aver
sprecato il
suo tempo con una causa persa come me. Mi
morsi un labbro con forza per soffocare un
gemito di dolore, ma fu tutto inutile e il respiro mi uscì
come un lamento
straziante. Tremavo, tremavo e non riuscivo a smettere, nemmeno se mi
concentravo e cercavo di tranquillizzarmi. Quella sensazione che per
anni era
stata lontana ora mi sembrava così famigliare che, per un
doloroso istante,
credetti di ritrovarmi nella mia vecchia casa con mia madre senza vita
davanti
ai miei occhi ancora troppo giovani e innocenti per sopportare quella
vista. Non
avrei permesso per nessun motivo al mondo che
accadesse di nuovo. Nessuno avrebbe più dovuto morire per
me. Separarmi
da Kidd era stata la decisione più
difficile che avessi mai dovuto affrontare e, se non fossi stato
così un bravo
attore, non ce l’avrei fatta a sopportare il suo sguardo
duro, ma avrei ceduto
molto prima, raccontandogli tutto e chiedendo perdono,
perché da solo non
potevo farcela. Alla fine ci ero riuscito, l’avevo messo in
salvo, anche se in
quel modo mi ero spezzato a metà e privato di qualsiasi
emozione. Che
cosa strana era l’amore, ti calpestava e ti
lasciava a terra fulminato. Avevo
sempre creduto di essere al di sopra di
certe cose ma, a quanto pareva, nemmeno io ero sfuggito a quel
sentimento così
complesso, eppure capace di scaldarmi il cuore. Could it be worse? Poteva
andare peggio. Presto sarebbe tutto finito
e allora avrei smesso di pensare, di sentire dolore, di soffrire. Il
mio cuore
non avrebbe più battuto all’impazzata per uscirmi
dal petto, si sarebbe
semplicemente fermato una volta per tutte. Sapevo
a cosa andavo in contro, dopotutto quello
che stavo passando era il frutto di una vendetta appena messa in atto
contro di
me e, alla fine, l’ultima punizione sarebbe stata la morte
stessa. Ma
andava bene, davvero, se c’era una cosa che
non mi preoccupava minimamente in quel momento era la Morte.
Figuriamoci,
quello era il minimo e l’avrei accettata a braccia aperte,
accogliendola come
una vecchia amica o come una benedizione, avrei accettato tutto pur di
avere la
certezza che i miei amici e Kidd fossero al sicuro. Respirai
profondamente e una fitta al pezzo mi
mozzò il fiato, tanto che mi strinsi ulteriormente tra le
braccia per placare
quello strazio che sembrava essere solo all’inizio. Ci
si sentiva così quando si perdeva qualcosa? Era
quello l’effetto che facevano i sentimenti? Mi stavo davvero
spezzando come il
mio cuore? E
così, mentre tutto scorreva, io mi sentivo
morire. Lights will guide you home and
ignite your bones. And
I will try to fix you.
Va bene,
ehm, iniziamo dalle cose
semplici. Per fare chiarezza, stavolta mi sono basata tanto sulle
canzoni, sono
state il mio pane quotidiano per una settimana perché ho
tipo scritto tre
capitoli per prendermi avanti.
Uhm,
dunque, partiamo
con Kidd che è preoccupato. Si, preoccupato. Avete presente
quelle brutte
sensazioni che vi prendono lo stomaco e che non riuscite a scacciare?
Quelle che
avvisano l’arrivo di qualcosa di brutto. Ecco, lui si sente
così. E, credetemi,
parlo per esperienza, quelle sensazioni non portano mai niente di
buono. E’
come se sapessi già che tutto sta per andare a puttane. Il
peggio è che, alla
fine, non puoi farci niente. Ed è orribile. Quindi lui sta
passando un
momentaccio e, quando Law chiama, si sente peggio perché
nota il cambiamento.
Alleggeriamo
un po’ il
tutto e passiamo a Ace? Che dite? Si, dai. Allora, ripetiamo i botti di
capodanno dato che, FINALMENTE, è successo qualcosa!
Ow, yep, non avete letto male e le vostre menti poco caste possono
immaginare
tutto ciò che vogliono ** spero solo di avervi soddisfatti,
come ho già detto,
ho un blocco e non riesco a scendere troppo
nei particolari, mi dispiace, scusatemi immensamente. Ad ogni modo
spero solo
che le emozioni compensino, mi affido a quelle. Mhm,
c’è altro? se dimentico
qualcosa fatemelo sapere, va’ ^^
Ritorniamo
alle note
dolenti.
Law.
Ascoltate
la canzone
che ho scelto per lui, vi prego e pensateci. Pensateci
perché c’è una frase
che, mentre scrivevo, mi ha distrutta e avrei voluto prenderlo e
abbracciarlo
fino a farlo smettere di stare in quel modo ma, odiatemi pure, ho
dovuto
lasciarlo così: spezzato.
Chi
credeva che all’inizio
fosse serio, a proposito, quando allontanava Kidd? Volevo mettere la
spiegazione nel prossimo capitolo, ma poi veniva fuori un casino,
quindi eccola
e, sorpresa! Ve lo ricordate il padre che Law ha spedito in carcere?
Bene, è tornato
per vendicarsi, Capitan Ovvio, e la sua idea è quella di
isolare suo figlio per
poi, beh, vedremo per cosa.
A
proposito, è la prima
volta che mi cimento in una cosa del genere perché di solito
sono tutta
farfalle e arcobaleni e unicorni rosa, so
gay **, quindi volevo chiedervi un parere generale sul tutto
perché,
insomma, non vorrei pasticciare ^^
Altro?
Uhm.
Yup, gli
Spoiler Free:
Cercai di capire
cosa stavo provando
in quel momento, muovendomi nella desolazione che mi aleggiava attorno,
scrutando in ogni meandro della mia testa e andando alla ricerca in
mezzo ai
mille pezzi in cui tutto il mio essere era stato dilaniato dal male.
Guardai in
ogni angolo, setacciai ogni buco della mia coscienza, ma non trovai da
nessuna
parte quel sentimento che sembrava sparito.
In me non vi era
la benché minima
traccia di perdono.
*
“Se
gli dovesse…” si bloccò, scuotendo il
capo e correggendosi, “Se vi dovesse
succedere qualcosa, allora quel bastardo avrebbe davvero la vittoria in
pugno e
questo non glielo permetterò anche a costo della mia stessa
vita”.
“E
q-quindi che vuoi f-fare?” balbettai, tirando su col naso e
abbassandomi il
frontino del cappello sugli occhi.
“Gli
darò quello che vuole” concluse atono, alzandosi e
avviandosi per ritornarsene
in camera, lasciandomi con un infinito senso di tristezza e impotenza.
“Me”.
*
Come
potevo, quindi, rischiare che venisse fatto loro del male? Avrebbe
voluto dire
mettere in pericolo anche le vite dei loro cari, come quella di Rufy,
di Zoro e
Sanji, le ragazze e il resto di sbandati che, ne ero certo, non
meritavano la
fine. E poi c’era Kidd nella lista e avrei fatto di tutto
purché non gli
accadesse nulla.
“Siete
dei completi idioti, ma è anche vero che come amici siete i
migliori”.
Spero
davvero di aver
reso l’effetto che volevo, in caso contrario prometto che
cercherò di fare del
mio meglio la prossima volta.
Grazie a
tutti per il
sostegno e per qualsiasi altra cosa. Grazie ai vecchi e ai nuovi
lettori. Grazie.
Un
abbraccio grande e
restate sintonizzati,
See ya,
Ace.