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Autore: AxXx    09/02/2014    4 recensioni
Salve, popolo di EFP e amanti della Percabeth in particolare. Questa storia parla di un mondo senza genitori divini, Dei o mostri vari a cui dare peso.
Annabeth è una ragazza ricca che desidera diventare architetto, ma un giorno la sua vita cambia radicalmente e lei si ritrova isolata dal mondo, senza memoria e senza nulla che glielo faccia ricordare. Solo una persona la aiuta: un ragazzo di nome Percy Jackson.
Il passato, però, torna sempre a tormentarci e lei lo scoprirà nel modo peggiore.
[Percabeth]
Genere: Azione, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Annabeth Chase, Luke Castellan, Percy Jackson, Quasi tutti
Note: Lime | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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                                                  CONOSCENZE

 

 

 

 

Il ritorno di Percy fu tanto veloce, quanto inaspettato: erano circa, le due del pomeriggio, quando la porta si aprì, facendolo entrare in casa, ancora sudato per gli allenamenti. Probabilmente aveva mangiato fuori, ma non mi spiegai quel ritardo così assurdo, finché non tirò fuori dal borsone una busta che mi porse.

“Ho visto che i tuoi… vestiti non sono messi benissimo. Ti ho comprato un cambio, così, almeno, potrai coprirti come si deve.” Spiegò guardando fuori dalla finestra, quasi volesse nascondere il fatto che voleva aiutarmi.

A me, però, non interessava. Finalmente la giornata stava prendendo una buona piega: Non avevo la memoria, ma avevo avuto la fortuna a capitare in un posto amichevole, con un ragazzo gentile e che un po’ ci pensava, anche se era un cafone e mi aveva dato della svampita. Non seppi resistere e gli detti un bacio sulla guancia.

“Grazie.”

Percy arrossì così tanto che sembrò sul punto di prendere fuoco, facendo scoppiare Talia a ridere.

“Ehi! Non prendere troppa confidenza!” Mi canzonò una voce femminile, divertita, dietro il ragazzo.

Solo allora mi resi conto che alle sue spalle c’era un’altra ragazza, dai capelli che erano una cascata di ricci rosso fuoco. Aveva anche lei gli occhi verdi ed indossava un paio di short di jeans e una maglietta che sembrava imbrattata in più punti da vari colori di vernice. Anche lei portava uno zaino.

“Rachel!” La salutò Talia, dandole un buffetto affettuoso sulla guancia, per poi avviarsi verso la porta. “Mi raccomando, la lascio nelle vostra dolci manine. Ci vediamo, Annabeth, spero rimarrai ancora un po’, fa arrossire quel pesce lesso.”

Detto questo, dette anche a me un buffetto sulla guancia, indicando Percy e se ne andò, mentre io la salutavo confusa e anche un po’imbarazzata, mentre la nuova arrivata  si sedeva accanto a me.

“Allora… posso controllare la tua ferita?” Mi chiese, spiccia, senza nemmeno presentarsi.

Ero un po’ preoccupata e, istintivamente, mi voltai per osservare Percy, che, però, mi fece un cenno di assenso.

“Rachel mi ha aiutato a medicarti. È un ottima dottoressa.” Spiegò, senza la minima variazione del volto.

“La smetti di dire che sono una dottoressa!? Io sono una veterinaria. V-E-T-E-R-I-N-A-R-I-A! è diverso! E potrei aggiungere che sono solo al secondo anno di studi.”

Fantastico, quindi ero stata curata da una che non era qualificata a curare gli uomini, per di più inesperta. Dannato testone cafone, ma perché mi era capitato lui!? Ma no, non era nemmeno colpa sua, la sua amica aveva fatto un ottimo lavoro, inoltre un uomo è un animale, non c’è poi così tanta differenza.

Mi voltai, lasciando che la ragazza mi controllasse la ferita, mentre canticchiava una canzone che non riconobbi.

“Mmmmh… sei fortunata che quel testone mi abbia chiamato. Una botta del genere sarebbe potuta essere fatale.” Disse, infine, dopo aver sciolto la benda.

In effetti sentii la testa farsi più leggera, ma subito, il sangue iniziò a correre, facendomi spaventare. Temetti di cadere di nuovo nel buio, dimenticandomi di nuovo, tutto quel poco di vita che avevo. Mi imposi la calma, non potevo mettermi ad urlare come una ragazzina isterica.

“Credi… credi che sia grave?” Cercai di controllare la mia voce, anche se non ero per nulla certa di esserci riuscita.

“Come ti ho già detto, lo era, ma solo perché perdevi sangue. Adesso è tutto sotto controllo. Certo che chi ti ha ferita, doveva essere un bestione.” Commentò, noncurante, mentre la sentivo versare qualcosa, probabilmente una pomata o un coagulante, nella ferita.

“Mi stai dicendo… che sono stata aggredita?” Faticai a registrare quell’informazione. Chi era stato? Perché l’aveva fatto? La mia mente iniziò a formulare un numero di ipotesi infinite su queste domande, ma nulla fece tornare a galla qualche ricordo. Ero ancora nel vuoto totale.

“Dubito che sia una ferita da caduta… è troppo profonda. Devi essere stata spinta.” La sentii irrigidirsi un po’, mentre lo diceva. Forse non voleva traumatizzarmi. “Secondo me, sei stata aggredita, poi il tipo ti ha spinta, ma è stato preso dal panico, vedendoti morta ed è scappato via.”

“Questo non spiega come mai non abbiamo trovato né documenti, né nient’altro, insieme a lei.” Fece notare Percy, che aveva messo a posto il suo zaino e ci osservava con la schiena appoggiata al muro.

Per diversi minuti, un lungo silenzio riempì la stanza: io non parlavo, mentre riflettevo su quanto ero successo. Avrei voluto essere da aiuto, ma nulla usciva da quel vortice nero che si trovava al posto di quella che avrebbe dovuto essere la mia vita passata. Sembrava che quel giorno avessi cominciato a vivere, ma sapevo che non era vero. Il problema era che non capivo se fosse un bene o no. Non potevo dire: “è il più brutto giorno della mia vita”, perché la mia vita, per me, era iniziata quella stessa mattina.

Provai ad immaginare il mio passato, ma le parole di Talia mi rimbombavano nella mente come un eco insopportabile: “Qui tu non ci sei.”
Perché i miei non mi stavano cercando? Mi odiavano? Ero scappata di casa? Mi trattavano bene o male? Mi avevano cacciata? Nella mia mente si fece strada il dubbio che forse erano stati proprio loro ad aggredirmi, ma non volli pensarci, il solo pensiero mi faceva piangere.  

“Ecco fatto. Ora è di nuovo a posto.” Disse, infine, Rachel, sistemandomi la benda.

In quel momento la porta si aprì di nuovo ed entrò un altro ragazzo sui vent’anni: aveva la pelle scura, era vestito con jeans lunghi ed una maglietta verde con su scritto Salva un albero per te stesso con sotto il disegno che doveva corrispondere ad un’associazione ambientalista. Aveva i capelli neri, lunghi e una barbetta simpatica che gli cresceva disordinata sul mento. Aveva gli occhi castani che ricordavano la corteccia di un albero.

“Annabeth, ti presento il mio migliore amico: Grover Underwood, era con me, quando ti abbiamo trovata.” Lo presentò Percy con un sorriso, anche se non sembrava felice che la casa si stesse affollando in quel modo.

“Così ti chiami Annabeth, eh? Sono felice di vedere che stai bene.” Disse lui, sorridendo, facendomi arrossire.

“Ehm… piacere… solo… puoi evitare di guardarmi?” Chiesi, cercando di coprirmi di nuovo. Avendo avuto a che fare solo con altre ragazze, mi ero quasi dimenticata che la mia camicetta era a brandelli. Ora, invece, avrei davvero preferito un po’ di privacy.

Lui sembrò capire, perché si voltò, senza, però, abbandonare il suo sorriso.

“Sarà meglio che mi cambi.” Proposi, prendendo i vestiti che mi aveva preso Percy.

“Certo… il bagno è lì, vai pure.” Mi disse il ragazzo, con un cenno del capo.

Lo ringraziai ed entrai. Era un locale davvero piccolo: c’era solo lo spazio sufficiente per una doccia, un lavandino ed un gabinetto. Mi guardai allo specchio e mi resi conto di avere un aspetto orribile: oltre la camicetta strappata e i pantaloni sporchi, la mia pelle aveva dei lividi, uno particolarmente evidente sulla guancia. I polsi erano feriti, ma non volli sapere come me lo fossi fatto. I miei occhi erano arrossati e la pelle era pallida. I capelli erano appiccicaticci e pieni di nodi.

‘Sembro uno zombie…’ Pensai, mentre cercavo di darmi una sistemata.

“Posso usare la doccia?” Chiesi dall’altra parte della porta.

“Sì! Fai pure! Gli accappatoi sono lì vicino, a destra della doccia.” Rispose Percy.

Sollevata mi spogliai in fretta e presi uno dei due accappatoi appesi, posandolo sul lavandino. Accesi l’acqua calda e mi posizionai sotto il getto. I miei muscoli si rilassarono subito. Sentii lo sporco scivolare lontano da me, così come  lo stress che avevo accumulato durante tutta la mattina. La sensazione di acqua calda mi fece venire i brividi dal piacere e il suo scorrere tra i capelli mi permise di sciogliere i nodi. La feci scorrere sul viso, sentendo tutti i dolori farsi meno intensi.

Mi ripulii velocemente, anche se indugiai per un minuto sotto il getto, beandomi di quella sensazione così piacevole, ma sapendo che non potevo sfruttare così a lungo il bagno, non mi trattenni oltre.

Mentre mi asciugavo, Percy e i suoi amici discutere.

“Devi portarla alla polizia!”

“Lo sai che il comandante Grace non mi sopporta! Mi accuserà di averle messo le mani addosso!”

“Ma non è vero, non avrebbe nemmeno le prove.”

“Mi tratterrebbe… da quando sono sulla sua lista nera, non vede l’ora di sbattermi dentro.”

Poi intervenne Rachel, che sembrava più incoraggiante che arrabbiata: “Percy, smettila! Non puoi tenerla qui per sempre e poi, se l’hanno… se le hanno fatto del male, la polizia dev’essere informata! Hai visto i tagli sui polsi? Sembra che sia stata ammanettata o legata. Non so perché, ma DEVI andare alla polizia.”

Non sentii la risposta, ma intuii che Percy aveva dei problemi e non si fidava delle autorità.

Decisi di fare in fretta, così mi avvolsi nell’accappatoio e usai l’asciugacapelli. Quando fui certa di aver rimosso ogni traccia di sporco dal mio corpo, mi concentrai sui vestiti che Percy mi aveva preso. Mi sentii un po’ in colpa a fargli spendere soldi per me, quando lui faceva fatica ad andare avanti, ma cercai di scacciare quella convinzione.

‘Appena ricorderò qualcosa, lo ripagherò… spero di poterlo fare, almeno.’ Mi dissi, indossando i jeans e il maglione. Ero felice di poter indossare qualcosa di nuovo e pulito. I pantaloni non erano troppo stretti, e il maglione era caldo e comodo. Allo specchio avevo ancora i lividi e le ferite, ma gli occhi erano tornati di un colorito normale e lo sporco era sparito.

Mi sentii sollevata, anche se ero ancora in ansia per quel vuoto che invadeva la mia memoria.

Uscii e vidi che Rachel stava prendendo le sue cose.

“Oh, eccoti… Annabeth, senti, io devo andare. Se avessi bisogno di me, chiamami, Percy, lasciale il telefono e non fare il geloso come al solito.” Mi disse, quando mi vide sulla porta, ammiccando verso l’amico.

Lui scrollò le spalle sospirando. “Lo farò, ci sentiamo Rachel.”

“Ci sentiamo e prenditi cura di lei!” Salutò la rossa, prima di sparire, anche lei, oltre l’ingresso.

Per un attimo, rimasi ferma sulla porta del bagno senza sapere, esattamente cosa fare. I due ragazzi mi squadravano con attenzione, quasi volessero passarmi ai raggi X

“Stai benissimo. Una fortuna che io abbia indovinato le misure.”

Percy aveva un sorriso radioso stampato in faccia che, per poco, non mi fece sciogliere, ma mi imposi un minimo di contegno. Non volevo apparire svenevole, certo che però, era mi sentivo molto più sicura con lui accanto.

Mi avvicinai e mi sedetti sul divano, mentre Grover lanciava un fischio, intuendo che fosse un assenso alle parole dell’amico.

Sentii Percy sedermisi accanto ed io ebbi l’irrazionale impulso di abbracciarlo, ma mi trattenni. Sentivo che doveva dirmi qualcosa di importante.

“Allora… te la senti di andare dalla polizia?”

 

 

 

“Per raggiungere il distretto più vicino ci mettemmo quasi mezz’ora tra camminata e metropolitana, dopotutto Percy non aveva una macchina, solo una moto, che, però, non era lì. Grover mi spiegò che lui preferiva lasciarla a suo cugino: Nico di Angelo, che faceva il meccanico e che custodiva il prezioso veicolo con cura in un garage.

“È gelosissimo di quella moto, secondo me crede che sia la sua fidanzata.” Scherzò il ragazzo, facendo scoppiare a ridere, mentre Percy arrossiva. Adoravo quello scintillio che gli illuminava gli occhi quando era imbarazzato.

“Non è vero!” Sbottò, mentre scendevamo nella metropolitana sotterranea.

Quando ci lasciammo il sole alle spalle mi irrigidii. Capii che non mi piacevano gli spazi bui e chiusi. Poi c’erano tutte quelle persone…
Mi sentii spintonare in più direzioni, mentre seguivo i due lungo quel fiume di gente sconosciuta che mi faceva quasi paura. Per un attimo mi feci prendere dal panico, ma poi sentii la mano di Percy sulla mia.

“Ehi… sei pallida, stai male?” Chiese preoccupato. “Vuoi tornare a casa?”

Scossi la testa, non volevo apparire debole: “No… andiamo.”

Il panico mi aveva presa perché non ricordavo di essere mai stata in un posto così affollato. Tutto, lì, mi era sconosciuto. Era come imparare a camminare di nuovo, ma non mi feci abbattere. Ripresi la calma e stetti dietro ai due.

Una volta all’interno del veicolo Percy ed io ci sedemmo accanto, mentre Grover rimaneva in piedi, dicendo che si sarebbe dovuto fermare al prossimo scalo, così, appena le porte si aprirono di nuovo ci salutammo, lasciandomi sola con l’amico.

Avrei voluto chiedergli tante cose: il suo viso era una maschera impassibile, ma iniziavo a vedere oltre tutta la sua forza di vivere e la sua volontà che riusciva a tenere a bada la tristezza. Avrei voluto poterlo aiutare, ma come potevo, se non sapevo nemmeno come aiutare me stessa?

 

 

 

Al distretto di Polizia fu Percy ad irrigidirsi. Sembrava che quel posto fosse legato a ricordi poco felici. Ci fermammo in portineria, dove un agente prese le sue credenziali, dato che lui raccontò della mia perdita di memoria. Dopo aver fatto questo, fece una telefonata e ci disse di andare nell’ufficio dell’agente Tomas, al secondo piano.

Usammo l’ascensore per raggiungere un ampio stanzone, dove erano allineate una decina di scrivanie, ognuna delle quali ospitava un agente di polizia, intento a ricevere telefonate o a studiare fascicoli di qualche caso. Ogni tanto cercai di buttare un occhio qua e là, alla ricerca del mio volto in una foto, ma non vidi niente che mi somigliasse.  

Entrati nel suo ufficio, lui ci fece delle domande, ma fu prevalentemente Percy a rispondere, pur mantenendo quella postura rigida che aveva da quando era entrato.

“Quindi… signorina, sicura che non ricorda assolutamente nulla?” Chiese l’agente, alla fine, rivolto a me.

“No signore… come ho detto, non ricordo nulla di nulla.” Risposi scuotendo la testa. La domanda mi seccò un po’, dato che era più o meno la quarta volta che lo chiedeva.

“Capisco… signor Jackson, come mai non ha chiamato l’ospedale?”

“Era messa malissimo, non avrebbero fatto in tempo, così ho chiesto ad un’amica che abitava vicino a me di darmi una mano. Come può vedere, sta bene.” Sbottò lui, sempre più rigido. Sembrava che la sua pelle fosse diventata di legno.

“Ha notato qualche particolare, sul posto dove l’ha trovata? Tracce di pneumatici, impronte?”

“Sì, ma erano talmente leggere che non ho idea di che tipo fossero, inoltre nevicava e le tracce sarebbero sparite a breve. Ho pensato prima a lei.” Rispose.

Ha pensato prima a me. Quelle parole mi fecero sentire stranamente felice. Il fatto che Percy si preoccupasse per me era un sollievo. Era stata la prima persona che avevo visto dalla mia perdita di memoria e la prima a darmi una mano. Avrei voluto abbracciarlo.

“Capisco… firma qui, ragazzo.” Concluse l’agente, porgendogli una trascrizione dell’interrogatorio.

Mentre lui scriveva, l’agente mi accompagnò in un laboratorio vicino, dove una donna in divisa medica isolante, mi fece dei veloci prelievi di campioni e delle foto alle ferite delle mani e ai lividi.

“È per capire se sono state provocate da un arma. Se sì, lo scopriremo, inoltre analizzando il tuo sangue potremmo cercare qualche riscontro sui nostri database, è la procedura standard.” Spiegò, mentre mi tamponava la pelle ferita dall’ago.

Non ero molto felice di essere ferita di nuovo, ma almeno sarebbe servito a qualcosa. Mi tirai su di nuovo le maniche del maglione fino ai polsi e mi lasciarono uscire. Percy mi torno a fianco, ansioso di uscire di lì, ma quando fummo a pochi passi dall’ascensore, una voce imperiosa, profonda e marziale ci fermò.

“Jackson, fermo lì!”

Ci voltammo entrambi, per vedere un uomo alto e ben piantato farsi avanti. Al contrario degli altri agenti, indossava un abito da uomo elegante: pantaloni, scarpe da sera, giacca e cravatta. Il volto era squadrato e i capelli neri. Gli occhi erano azzurri elettrici e minacciosi, come un fulmine in una tempesta.

Sentii Percy irrigidirsi ancora di più e lo vidi stringere i denti, mentre sussurrava: “Gioven Grace.”

Grace…

Grace…

Talia Grace! Ecco dove avevo già sentito quel nome!

Osservai di nuovo quell’uomo possente farsi avanti, fino a fermarsi davanti a noi: era il capo della polizia ed era anche il padre di Talia.

 

 

 

 

 

 

 

 

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  [Angolo dell’autore]

Rieccomi! In tempo record aggiorno, tornando alla carica con un nuovo capitolo. Finalmente Annabeth si rilassa, nonostante le migliaia di preoccupazione che la attraversano, poverina.

Così si scopre che il capo della polizia è il padre di Talia (Da notare che Gioven, sarebbe Giove, cioè, il nome latino di Zeus, scusate, ma non avevo molte idee ;) )

Chissà quali altre sorprese riserveranno il futuro di Annabeth. Riuscirà mai a ricordare chi è veramente?

AxXx

PS: in ringraziamento particolare a Ramosa12, Alex_Logan e Cloud_Jas che hanno recensito! Non siate timidi e recensite anche tutti voi che seguite la storia ^_^

  
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