Capitolo 2
Yamato
Ishida si chiuse la porta alle spalle, furibondo: aveva aspettato
Taichi tutto
il pomeriggio e lui non si era fatto vedere. Ma appena
l’avesse visto gliene avrebbe
dette di cotte e di crude. Insomma, poteva almeno avvertire se non
aveva intenzione
di venire, no?
-
Yamato,
metti da parte quel tuo muso lungo, per favore. Non vorrai spaventare i
nostri
nuovi vicini? –
Il
padre di Yamato era un uomo alto sulla cinquantina, capelli castani e
viso dai
tratti marcati. Chiunque avesse visto la coppia avrebbe affermato che
il
ragazzo doveva aver preso tutto dalla madre. Eppure il loro legame era
saldo e
non litigavano quasi mai: forse perché entrambi
impegnatissimi, uno con la
scuola e la band e l’altro con gli studi televisivi, oppure
perché avevano un
carattere molto simile.
-
Onestamente
non vedo tutta questa fretta di fare le presentazioni. –
-
Non
te l’ho detto? – fece l’uomo.
Dall’espressione
del figlio capì di non averne neppure accennato. Ed ecco che
emergeva il
principale difetto del signor Ishida: a momenti era terribilmente
distratto,
tanto che colui che si occupava della casa era sempre stato il ragazzo,
anziché
il genitore.
-
Kitamura
è uno dei fotografi più famosi di tutto il
Giappone, a mio avviso il migliore
in circolazione. Mi è capitato di vedere una mostra delle
sue opere: davvero
stupefacente! Ha una tecnica sopraffina e il suo stile è
ineguagliabile! –
-
Non
ti avevo mai sentito lodare tanto il lavoro di qualcuno.-
commentò, sarcastico.
L’altro
sollevò le spalle: a quanto pare il figlio era proprio di
malumore.
-
Beh,
te ne accorgerai tu stesso se ci mostrerà qualcosa.
– dettò ciò suonò il
campanello.
La
porta si aprì e sulla soglia si presentò un uomo
sorridente. Yamato giudicò che
doveva avere su per giù l’età di suo
padre e come lui era alto e dai capelli
castani, qua e la striati di grigio. Però la somiglianza
finiva lì: la persona
che avevano davanti aveva un fisico non troppo muscoloso, il viso dai
lineamenti delicati coperto da un po’ di barba e caldi occhi
nocciola. Sembrava
un attore di Hollywood e sorrideva amabilmente. Il signor Ishida fece
le
presentazioni, velatamente imbarazzato: i convenevoli non erano il suo
forte.
-
Ehm,
buona sera signor Kitamura, ci scusi se la disturbiamo a
quest’ora di sera.
Siamo i suoi nuovi vicini e pensavamo di fare un salto per presentarci.
Mi
chiamo Eichi Ishida e questo è mio figlio Yamato. –
-
Piacere.-
salutò educatamente il giovane.
-
Piacere
mio, il mio nome è Hiroshi Kitamura. Mi fa piacere che siate
venuti. Prego,
entrate. –
-
Non
vorremmo disturbare… - protestò
l’altro, piuttosto debolmente a giudizio del
ragazzo.
-
Nessun
disturbo! Sarei felice che vi fermaste per un drink o un the. Immagino
abbiate
già cenato.–
Detto
questo li fece entrare.
-
Mi
scuso per il momentaneo disordine, ma non c’è
ancora stato modo di mettere
tutto in ordine. –
-
Si
figuri – commentò Yamato – noi ci siamo
trasferiti quattro anni fa e abbiamo
ancora un paio di scatoloni nascosti nell’armadio! –
Il
loro ospite sorrise divertito.
-
Beh,
quand’è
così…vorrà dire che non
dovrò preoccuparmi di invitarvi a cena qualche
volta! –
Entrarono
nel salotto e Kitamura non fece quasi in tempo ad aprire bocca, che il
padre di
Yamato si era già avvicinato a una fotografia incorniciata e
appesa alla
parete.
-
Vedo
che le interessano i miei lavori. – commentò il
fotografo.
-
Non
sono un esperto, ma ammetto di aver visto una sua mostra… e
di esserne rimasto
affascinato. –
-
La
ringrazio del complimento. –
Poi
si voltò.
-
E
tu che ne pensi, Yamato? –
Evidentemente,
pensò il ragazzo, il fotografo era abituato ad interagire
col pubblico. Perciò
si sforzò di mostrare per le sue opere lo stesso educato
interesse che l’ospite
aveva manifestato nei suoi confronti. Si avvicinò e
osservò l’immagine con
attenzione. Raffigurava una distesa d’acqua grigia dai
riflessi smorzati, che
suscitava una sensazione di freddo. Su tutto incombeva un cielo fatto
di nuvole
bigie. Il sole era una debole macchia di luce lontana.
-
È
bella. – commentò.
-
E
a cosa ti fa pensare? – lo incalzò
l’altro, gentilmente.
-
Suppongo
che rappresenti un mare d’inverno e che il suo intento fosse
di trasmettere
sensazioni fredde, forse la solitudine. Tuttavia non è a
questo che mi fa
pensare… piuttosto mi dà una sensazione di pace e
piacevole silenzio. –
Kitamura
parve soddisfatto, perché gli sorrise. Suo padre si
guardò attorno, percorrendo
la stanza con gli occhi, fino a che il suo sguardo si fermò.
-
Mi
scusi, ma quelle fotografie… -
Si
avvicinarono e qualcosa in Yamato fremette.
-
I
paesaggi sono il mio lavoro – spiegò, osservando
la figura con un’espressione
d’affetto sul volto – ma nel tempo libero, anche se
poco, amo ritrarre il mio
soggetto preferito. –
Il
giovane, dal canto suo, distolse lo sguardo, turbato:
quell’immagine aveva
scosso qualcosa dentro di lui. Istintivamente si ritrovò a
parlare.
-
Preferisco
le foto dei paesaggi. Sono più sinceri e…
immacolati. –
-
Cosa
vorresti insinuare?! –
Yamato
si voltò e trattenne a stento la sorpresa nel ritrovarsi di
fronte il soggetto
che stava contemplando sulla parete giusto un attimo prima.
-
Vi
presento la mia musa ispiratrice, nonché mia figlia. Rumiko,
questi sono… -
-
Non
mi interessa chi sono. – sbottò lei alterata
– Voglio sapere che intendeva dire
questo arrogante. –
-
Sono
sicuro che il nostro vicino non… -
-
Ah,
è pure un vicino! Quando si dice la fortuna…
– commentò.
-
Se
te la prendi tanto è perché sai che ho ragione.
–
-
C-
cos’hai detto, scusa?! –
-
Yamato…
- tentò il padre, ma il ragazzo lo ignorò.
-
Io
ho solo dato la mia opinione, non ti conosco perciò non vi
è nulla di
personale. – disse, e in parte era vero.
-
Mi
stai dando dell’ipocrita?! – ora era davvero livida.
-
Non
ho detto questo – le fece notare.
-
Ma
è quel che pensavi, non è vero?! –
-
E
chi lo sa? –
Lei
tremò per la rabbia repressa, il bel volto leggermente
arrossato. Poi parve
avere un’illuminazione.
-
Ora
ho capito chi sei: ti chiami Yamato Ishida, vero? Il cantante.
–
-
Devo
dedurne che sei una mia fan? – la pizzicò lui.
-
Non
t’illudere – sorrise lei, malignamente –
Ho solo sentito parlare di te in TV
qualche tempo fa. –
-
Sembra
che ti sia rimasto impresso bene nella mente. – le sorrise,
provocatorio.
-
Yamato,
smettila di… -
-
Non
tu, ma la tua canzone. Ricordo che
ho
pensato “non capisco come abbia potuto raggiungere un simile
successo con
simile musica ”.
– disse con un velo
di disgusto.
-
Che
vuoi dire? – si fece serio.
-
Che
i gusti musicali devono essere davvero bassi da queste parti, se
c’è qualcuno che
apprezza la tua musica. –
-
E
tu che ne sai? Sei forse un critico musicale? –
-
Ti
assicuro che ho viaggiato abbastanza da farmi un buon bagaglio
culturale e
musicale. Ed è ovvio che la tua popolarità deriva
solo dal tuo bel faccino,
visto che di musica ci capisci ben poco. –
-
Rumiko!
– la richiamò il padre, ma lei continuò
imperterrita.
-
Pensi
che comporre significa solo mettere insieme due note che rendano il
pezzo
orecchiabile e scribacchiare una canzoncina piena di frasi fatte? Non
avessi
parlato della nascita del gruppo avrei pensato fossi un idol uscito da
un
programma spazzatura. –
-
Ma
senti chi parla: miss “nel stamparmi un sorrisetto carino in
faccia e prendere
in giro il mondo intero sono una professionista”! –
-
Non
accetto simili offese da uno che fa lo spaccone con musica da schifo!
–
-
Se
non altro non indosso una maschera di ipocrisia che nemmeno il solvente
per
unghie potrebbe levarmi dalla faccia! –
-
Invece
dicono che agli sbruffoni la levi in un secondo! Ne ho una boccetta in
bagno,
proviamo?! –
-
Ora
basta Rumiko! –
-
Anche
tu Yamato! Vi state comportando come bambini! –
Nel
sentirsi riprendere in quel modo, i ragazzi si bloccarono
d’improvviso, ancora
scossi per la litigata. Lei si morse le labbra, sentendosi umiliata, si
voltò e
si chiuse nella sua stanza. Subito dopo fu il turno
dell’altro abbandonare il
salotto, le mascelle contratte, chiudendosi il portone numero 17 alle
spalle.
Rimasti soli, i due genitori sospirarono.
-
Mi
spiace, signor Ishida. Mia figlia è una brava ragazza,
glielo assicuro, ma
quando perde le staffe non c’è modo di fermarla.
–
-
Non
si deve scusare. Yamato non avrebbe dovuto provocarla in quel modo.
–
-
Beh,
diciamo che è stato uno scambio di idee
piuttosto… -
-
Assordante.
–
Sospirarono
ancora e poi si salutarono, concordando che l’invito a cena
era da rimandare a
quando le acque si fossero calmate.
Yamato era seduto per terra, nella penombra della sua stanza. Non
ricordava
quando era stata l’ultima volta che si era infuriato a tal
punto.
Chi diavolo credeva di essere quella
per parlargli in quel modo? E poi che cavolo andava a sparare sentenze,
lei che di musica non ci capiva di
sicuro più della sua professoressa di fisica? Lei,
che non era altro che una ragazzina viziata e ipocrita, in
grado di mentire perfino all’obiettivo di suo padre.
Guardando quell’immagine, infatti, il ragazzo si era accorto
della falsità di
quel sorriso. Bastava osservare lo sguardo. Si dice che gli occhi sono
lo
specchio dell’anima: ebbene, quelle iridi viola gli erano
parse… sporche, come
se fossero state contaminate da qualcosa. Quando se l’era
trovata davanti, poi,
ne aveva avuto la conferma: la rabbia che aveva mostrato non era altro
che un
modo per dissimulare il turbamento che le sue parole avevano generato.
Una via
di fuga.
Storse la bocca. Si era fatto insultare da una bugiarda e per di
più codarda.
Aveva permesso che criticasse la musica, la sua
musica. Ma se era la guerra che voleva, allora l’avrebbe
accontentata.
Serrò i pugni fino a far sbiancare le nocche. Non avrebbe
dovuto farlo
arrabbiare.
Rumiko era stesa sul letto, il viso rivolto al soffitto.
Come si era permesso di dirle quelle cose? L’aveva giudicata,
esprimendo il suo
pensiero sulla base di una fotografia. Non ne aveva alcun diritto. Non
la
conosceva, non sapeva niente, niente!
Una morsa le attanagliò il cuore. Era già
abbastanza doloroso così convivere
con quei ricordi, ingoiando ogni lacrima, figuriamoci se ci si metteva
di mezzo
un vicino presuntuoso e sputa sentenze. L’aveva guardata
dall’alto in basso, l’aveva
umiliata davanti a suo padre… e per questo lo odiava. Per
questo, e perché sapeva
che aveva ragione, le suggerì una vocina petulante nella sua
testa.
Però anche lei aveva detto il vero: la sua musica era
orecchiabile, nulla di
più. Non era in grado di suscitare alcuna emozione e per
questo era vuota. Lei
glielo aveva detto e lui era saltato su, poiché quello
doveva essere il suo
punto debole: l’incapacità di scuotere i cuori
della gente attraverso le sue canzoni.
C’era chi non ne era in grado e chi aveva paura
di farlo, temendo che i propri pensieri e le proprie emozioni
non venissero
accettati. Lui, evidentemente, apparteneva alla seconda categoria,
altrimenti
non avrebbe reagito a quel modo. Ricordava ancora di esser rimasta
piuttosto
contrariata dalla sua esecuzione, del tutto impersonale, ma aveva
supposto che
si trattasse di una persona estremamente arida e non fosse capace di
molto di
più. Invece il giovane che si era trovata di fronte le era
sembrato l’esatto
opposto: un tumulto di emozioni, anche se a suo avviso estremamente
caotiche.
L’aveva accusata di essere falsa, lui
che ogni volta che saliva sul palco e strimpellava qualche canzoncina
melensa
abbindolava centinaia di ragazze!
Sorrise, senza allegria. Una cosa era certa: quello schifoso sbruffone,
sputa
sentenze, ingannatore di masse non l’avrebbe passata liscia!
Non avrebbe avuto
pace, finché non l’avesse implorata di perdonarlo
per le offese che le aveva
rivolto. Magari l’avrebbe costretto a comporre una squallida
canzoncina di
scuse!
Ridacchiò.
In fondo l’aveva detto anche a Taichi: con era una buona idea
mettersi contro
di lei.
Continua…