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Grazie
ancora a tutti per le recensioni, anche se non riesco a rispondere come
vorrei le leggo tutte e ne traggo beneficio per tornare verso la
sfolgorante luce dell'ispirazione, quando scrivevo pagine e pagine in
un'ora, ahimé, adesso se riesco a stare cinque minuti al pc prima che il
gatto mi salti sulla testa perché vuole mangiare, che mi chiamino dal
lavoro o che debba fare qualche cosa in casa è un miracolo - _____
-
Grazie
per la comprensione, vostra affezionatissima Mel Kaine.
The Heart of Everything
25 -
/ Neverending sorrow /
Harry sedeva a terra, accanto al suo nuovo letto.
Ricordava perfettamente una sera simile, quello che sembrava tanto
tempo fa, in cui era rimasto seduto contro la porta della cucina dei
suoi zii cercando di piangere il più silenziosamente possibile.
Anche adesso stava piangendo ed il fatto che non fosse per la fame o le
botte non lo consolava poi tanto.
La camera dove si trovava era la sua stanza nuova, ma Harry non la
voleva.
Era scura, anche se aveva una finestra grande, e tutto sembrava vecchio
e triste. Triste come lui.
Aveva un letto anche qui, ma nessuno gli aveva detto se poteva salirci
così era rimasto in terra.
Adesso tutto ricominciava come un brutto sogno dal quale non ci si
poteva svegliare.
Non sapeva cosa aspettarsi da quei due signori, non conosceva le loro
regole, non sapeva se l’avrebbero picchiato, se l’avrebbero fatto
lavorare o se lo avrebbero fatto morire di fame.
Venir portato via dal castello era stato terribile.
L’uomo con i capelli più scuri aveva cercato più volte di prendergli la
mano, ma Harry non glielo aveva permesso.
Non gli avrebbe dato né la mano, né un nome tutto suo, neppure a costo
di essere picchiato.
Il signore si era presentato, gli aveva detto di chiamarsi “S e
qualcosa”, ma Harry non aveva ascoltato. Sapeva di essere stato
maleducato, ma non era riuscito a comportarsi bene.
Gli avrebbe risposto solo ‘Sì, signore’ e ‘No, signore’, come a casa
dei suoi zii. E solo ‘signore’ sarebbe rimasto.
Perché non aveva nomi nella sua testa per chi lo aveva portato via dal
suo maestro Sevreus.
Erano usciti dal castello e poi avevano preso uno strano treno e poi un
altro.
L’altro signore dai capelli più chiari era rimasto silenzioso tutto il
tempo ed ogni volta che per caso il loro sguardo s’incontrava gli
sorrideva. Sembrava gentile, ma Harry sapeva bene che non poteva
fidarsi, perché i sorrisi dei grandi non erano quasi mai veri.
La casa dove erano entrati era buia e sporca, faceva paura e
scricchiolava come le sedie quando zio Vernon si sedeva.
Il cameriere-elfo del signore era ancor più brutto di quello del
maestro Sevreus e lo guardava fisso borbottando cose che Harry non
riusciva a sentire, ma che sembravano brutte parole.
Poi era stato condotto nella sua stanza nuova e lì era rimasto fino a
quel momento.
Le lacrime si erano appena seccate quando la porta si aprì ed Harry si
preparò al suo destino.
Appena lo vide Sirius spalancò le braccia, anche se aveva compreso
dalla loro esperienza pomeridiana che il figlio di James non sarebbe
corso da lui come un qualsiasi figlioccio con il proprio padrino.
Ma non importava, lo fece comunque perché non poteva contenere la
propria emozione.
Era felice di aver avuto la sua vittoria su quel lurido Slytherin e di
avere il figlio di James finalmente con sé.
Esattamente dove doveva essere, con il suo padrino.
Adesso tutto sarebbe andato bene.
“Oh, ecco il nostro giovanotto! Harry come sei cresciuto, sai che ti
ricordavo piccolo piccolo in braccio a Lily?”
Il bambino lo guardava con un’espressione strana, a metà fra il
disinteresse e la… diffidenza.
Era certamente singolare trovare sentimenti del genere in un bambino
così piccolo, ma Sirius non se ne preoccupò più di tanto.
Harry si sarebbe abituato a vivere con loro, adesso probabilmente era
spaesato e stanco e chissà cosa gli era stato detto da quel maledetto
Death Eater, chissà quali bugie si era inventato il piagnucoloso
Snivellus per metterlo in cattiva luce.
Oh, ma le cose sì che sarebbero cambiate.
“Allora Harry, vieni, andiamo a tavola, sto morendo di fame e tu? Hai
fame?”
Il piccolo Harry non sapeva cosa rispondere.
In casa dei suoi zii avrebbe saputo che doveva dire di no, con il suo
amato maestro avrebbe saputo che poteva dire la verità, ma qui non
sapeva cosa era giusto dire, cosa quei due signori volevano che lui
dicesse.
Quindi rimase in silenzio, a torcersi le manine.
Quando il signore dai capelli più scuri fece un passo avanti Harry non
poté trattenersi e ne fece uno indietro. Per un istante ci fu silenzio.
Poi il signore scoppiò a ridere.
“Non temere Harry, sei al sicuro ora. Qui non ci sono più maghi
cattivi, brutti e neri come quello con cui stavi per sbaglio. Ora sei
qui con noi, questa è la tua vera casa, con me. E adesso andiamo a
mangiare. Remus prendi una bottiglia di buon vino, dobbiamo
festeggiare!”
E fu incredibile, ma per la prima volta Harry alzò gli occhi su un
grande che non era il maestro e gli rispose.
“Il maestro non è brutto. Il maestro non è cattivo!”
Il suo cuoricino batteva fortissimo per la paura, ma non aveva proprio
potuto resistere. Nessuno poteva dire quelle cose sul suo uomo-Sevreus.
Stare con l’uomo-Sevreus non era stato uno sbaglio, era stata la cosa
più bella di tutta la sua vita ed Harry lo avrebbe detto, anche a costo
di essere picchiato e chiuso in cantina.
La faccia del signore si fece seria per un lungo, terrificante momento.
‘Adesso mi picchierà sicuramente…’ pensò il piccolo Harry, ma il tempo
passava e così fece l’ombra scura sul viso del signore.
“Bah, ho ancora i miei dubbi, lo conosco bene, sai… comunque andiamo a
mangiare prima che si raffreddi”.
Il piccolo Harry s’imbronciò ancor di più. Come faceva il signore a
dire che conosceva bene il maestro? Harry aveva vissuto nelle stanze
del maestro per parecchio tempo e non aveva mai visto il signore venire
a trovarlo quindi il signore aveva detto una bugia per dire male del
maestro.
Ad Harry non piaceva proprio il signore, per niente.
Mentre pensava queste cose il signore dai capelli chiari si avvicinò
leggermente e gli fece cenno di seguirlo.
Per non far arrabbiare anche lui Harry lo seguì anche se non voleva
mangiare con loro, non voleva proprio.
Nelle sue stanze nemmeno una luce a rischiarare i suoi pensieri così
come nessuna speranza rimaneva nel suo animo.
Il suo ritrovato cuore non era altro che uno zerbino che tutti si
sentivano in diritto di calpestare. E questo Sirius Black lo sapeva
così bene, lui che ci aveva stazionato sopra per pulirsi la coscienza
dal fango delle sue colpe.
Dannazione! MILLE VOLTE DANNAZIONE!
Un lieve rintocco risuonò battendo le nove.
Il suo sguardo nero e vuoto si volse improvvisamente verso il corridoio.
Ma nessuna testolina arruffata sarebbe spuntata dall’ombra per venire a
bere il latte della sera.
Era solo, adesso.
Remus si ritirò nella sua stanza augurando a tutti una buona notte.
Aveva ancora molto su cui pensare. La cena era stata uno strano
monologo di Sirius intervallato dalle laconiche risposte di Harry.
Sempre le stesse due. Sì e no e poi quel ‘signore’. Sirius si era
presentato ad Hogwarts e di nuovo a casa, sia come Sirius Black, sia
come suo padrino, eppure Harry non lo chiamava che ‘signore’. Remus
sapeva che la cosa irritava Sirius e sperava che, ambientandosi, il
bambino abbandonasse quell’abitudine.
Quello che non riusciva a comprendere era stato l’avvertimento di Snape.
Sì, Albus aveva portato loro il bambino e si erano diretti verso
l’uscita quando dall’ombra una voce l’aveva fermato.
Sirius era andato avanti, seguito dal bambino. Remus aveva indugiato un
secondo e quell’attimo aveva dato modo a Severus Snape di uscire
dall’oscurità delle scale dove, a quanto pare, aveva atteso il loro
passaggio.
“Lupin, devo
parlarti, ora”.
Remus aveva
sospirato.
“Sai bene cosa
succederà se Sirius ti dovesse vedere…”
“Non importa
Lupin, ascoltami e basta”.
“Sai anche che non
posso fare niente. E’ Sirius che ha deciso e poi non vedo perché dovrei
intercedere in tuo favore…”
“Non si tratta di
questo, dannazione, fammi parlare Remus!”
L’uso del suo nome
proprio, con tutta probabilità mai pronunciato prima da quelle labbra
lo aveva sconvolto.
Snape aveva
approfittato di quell’attimo di smarrimento per parlare, con tono
conciso e denso di… emozioni? Impossibile, quello era Snape…
“Devi promettermi
che qualsiasi cosa il bambino faccia, anche la più sensazionalmente
stupida ed idiota, se anche foste al limite della vostra sopportazione
non alzerete le mani su di lui. E’ importante Lupin. Promettimelo.
Promettimi che terrai a bada quel cane rabbioso che vive con te. E non
provare a raccontarmi favole. Sappiano tutti e due che nessuno lascia
Azkaban senza… cicatrici. Promettilo!”
Quindi tacque.
La sua voce si era
spenta in un sussurro, ma tale era la forza ed il sentimento con i
quali aveva parlato che Remus si era chiesto se i suoi occhi non lo
stessero ingannando, non poteva realmente avere davanti la figura nera
ed ammantata del maestro di Pozioni.
Per un lungo
momento non seppe cosa rispondere.
Quella richiesta,
avanzata da lui, lui fra tutti, lui che avrebbe dovuto volere la
sofferenza della progenie di James…
Quell’attimo di
riflessione, comunque, fu di troppo.
Da lontano Sirius
lo chiamava. Doveva andare.
Snape aspettava
ancora. Il volto cinereo semicoperto dalle ombre che morbidamente
accoglievano il suo corpo sottile. I suoi occhi attenti, fissi su di
lui, sembravano bruciare come carbone acceso nelle tenebre.
Remus sapeva di
dovergli una risposta.
Ma non poteva
promettere qualcosa che non capiva, che ancora gli sfuggiva.
“Farò del mio
meglio. Devo andare”.
Il ricordo sfumava nei dubbi e nei nuovi interrogativi che adesso
accompagnavano la sua solitaria sera.
Il suo fine udito aveva sentito distintamente la porta della stanza di
Harry aprirsi e chiudersi.
Sicuramente Sirius aveva mandato il bambino a letto.
Non era tardi, ma comprendeva come lo scarso autocontrollo del suo
amico fosse già stato messo a dura prova. Troppe emozioni contrastanti
in un solo giorno per qualcuno che – e poteva ammetterlo almeno a se
stesso – non era affatto stabile. Non ancora.
Remus lo conosceva bene.
Erano stati compagni di gioco, amici poi complici, fratelli, compagni.
Credeva in lui, sapeva che poteva uccidere i fantasmi che la notte
venivano a fargli visita e che si potevano scorgere nelle sue pupille
vuote.
Era giunta quell’ora della sera e Sirius aveva allontanato il bambino.
Gli voleva bene, certo.
Avrebbe avuto cura di lui, certo, ma era per lui, per Harry o era solo
un favore, un ultimo, imperante dovere nei confronti dell’amico che
aveva disertato?
E Snape? Cos’era quella luce nei suoi occhi, oltre la determinazione?
Cosa lo… preoccupava? Lo strano rapporto che aveva percepito fra lui ed
Harry non trovava una spiegazione nella semplice simpatia reciproca.
Snape non provava simpatia, non l’aveva mai provata. Questo era certo.
Allora cosa l’aveva spinto a nascondersi come una serpe e a parlargli
in segreto? Tutta quella necessità nella sua voce di sentirlo
promettere di non far del male al bambino… dannazione. Veniva da
chiedersi se Snape avesse effettivamente capito che il bambino era
figlio di James, di James, il suo mortale nemico, e della donna che
Snape amava.
Sì, Remus lo sapeva, era stato lui il primo ad accorgersene. Lui lo
aveva detto a Sirius.
Provava dispiacere al pensiero di non avergli potuto dare la propria
parola. Aveva avuto una parte importante nel rendere gli anni di scuola
di Snape un vero inferno e adesso non era riuscito a fare nemmeno
questo per mondarsi da quei peccati.
Eppure qualcosa non tornava, nella sua mente tutto scompariva un
istante prima di connettersi e la visione d’insieme gli sfuggiva.
Quando sentì anche Sirius salire le scale per coricarsi decise di
smettere di pensare. Prima o poi la comprensione di quegli eventi
sarebbe giunta.
Opprimente sensazione di vuoto. Giorno dopo giorno dopo giorno.
Lasciare le fondamenta della scuola per andare a fare lezione era
troppo per le sue forze. Ogni giorno era come trascinare un corpo di
nervi morti che non desiderava muoversi, ma affondare nell’oblio.
Niente aveva più nessuna importanza.
L’occasione del riscatto, del sentimento mai provato, della… pace
(finalmente, finalmente, finalmente) era semplicemente sparita.
Le ore di luce e di buio erano scandite dalle abitudine ormai perdute.
L’ora della scatola dei compiti, l’ora dello spuntino, l’ora del
pranzo, dell’uscita in giardino, della lettura, della merenda, del
riposo, della cena, del latte della sera, delle sue ginocchia occupate
da quindici chili di occhi verdi e domande ed insicurezze. L’ora di
dormire insieme per scacciare l’uno gli incubi dell’altro.
Niente.
Più.
Niente.
Afferrò una delle confezioni gialle e blu di quel cibo Muggle e la
scagliò contro il muro.
Il suono del vetro in frantumi lo calmò un solo, misericordioso istante
prima che il dolore sordo nella sua testa e nel suo sterno lo
ricoprisse come una cappa scura di irrespirabile desolazione.
Il piccolo Harry si svegliò di colpo. Una sensazione bruttissima lo
prese subito quando si rese conto che non era stato un sogno, non era
stato uno di quegli incubi che il maestro era così bravo a mandare via.
No.
Non c’era nessuno con lui.
Gli era stato detto che poteva andare ovunque in quella casa, meno che
in soffitta. Harry non aveva nessuna intenzione di andarci, sapeva che
le soffitte erano come le cantine, brutte, buie e piene di cose
polverose e di mostri.
La sua stanza era triste ed Harry non voleva passare le giornate seduto
in terra a guardare quella finestra tutta scrostata. La sala da pranzo
poi era stretta e lunga, il tavolo era lunghissimo, sicuramente il più
lungo che Harry avesse mai visto, ma anche lì tutto era avvolto dalla
penombra e poi c’era il cameriere-elfo del signore che lo guardava male
ogni volta. In bagno, anche se adesso gli era permesso andarci, non
poteva certo restare e così alla fine aveva trovato quella stanza. Era
buia e triste anche quella certo, ma lì si sentiva più… in pace.
Perché c’erano libri, libri ovunque, su alte librerie, come quelle del
maestro, ma con molta più polvere.
Quella stanza e quei libri gli ricordavano il maestro, la casa del
maestro dove Harry era stato così felice. E restava ore lì, accucciato
in terra accanto ad una poltrona vecchia e pensava al maestro Sevreus,
a cosa stava facendo adesso con le sue pentole giganti e la sua piuma
di piccione.
Era tutto così… brutto.
Lì dove si trovava non c’era una scrivania abbastanza piccola e bassa
per lui, non c’era la sua scatola dei compiti, non gli era permesso
toccare i libri aveva detto il signore e nessuno gli leggeva niente,
nessuno gli insegnava niente e si sentiva solo.
Almeno prima dai suoi zii non aveva mai avuto un amico, un maestro.
Tutto era terribile e triste anche lì certo, ma almeno non aveva avuto
qualcuno che poi aveva perso. Sapere com’era avere qualcuno che dormiva
con lui, che gli leggeva le storie, che gli dava da mangiare, che lo
portava in giardino e poi improvvisamente doversene separare forse era
peggio che non sapere proprio. Sì, Harry pensava questo, anche se il
tempo con il suo uomo-Sevreus gli aveva lasciato tanti bei ricordi ora
voleva non averli perché lo facevano stare male nel desiderio di
ritornare dall’uomo-Sevreus.
I suoi pensieri vennero interrotti dall’arrivo del cameriere-elfo che
gli diceva che i signori lo aspettavano a tavola. Harry lo seguì anche
se non voleva per niente andare a tavola.
Ecco, quella era un’altra cosa veramente difficile.
Il piccolo Harry aveva provato la fame e sapeva che era una cosa molto
brutta e che faceva piangere e anche se non gli piaceva era grato che
il signore gli desse da mangiare senza farlo ancora lavorare, ma quello
che il signore gli dava da mangiare era… troppo.
Harry non aveva mai visto dei piatti così pieni prima. Ed il signore
pretendeva – ah, questa parola gliel’aveva insegnata il maestro – che
Harry mangiasse tutto. Ma Harry non poteva. Il giorno prima ci aveva
provato, ma poi era dovuto correre in bagno ed aveva vomitato e poi era
stato male.
Invece con il maestro Harry mangiava spesso e mai così tanto tutto in
una volta e non si era mai sentito male dopo, tranne il giorno della
zuppa grigia, ma lì era stata colpa sua…
Anche quel giorno il suo piatto era davvero pieno ed Harry prese a
mangiare sapendo cosa l’aspettava.
“Mangia, Harry. Vedi Remus? Vedi com’è magro? Sono sicuro che l’ha
affamato! Per vendicarsi di James”.
“Via, Sirius. Questo sarebbe troppo anche per lui. E’ un bambino”.
“Tsk e questo dovrebbe fermarlo? Lo sai anche tu che un Deat…”
Lupin lo interruppe, serio.
“Ora basta Sirius, per favore. Non davanti ad Harry”.
Black chiuse gli occhi un attimo per calmarsi poi si volse verso il suo
figlioccio.
“Ti piace, Harry? E’ buono?”
“Sì, signore. Grazie, signore”.
Sirius sospirò e Lupin si preparò al peggio.
“Quante volte ti ho detto che mi puoi chiamare padrino o meglio ancora
Sirius? Se vuoi puoi chiamarmi anche zio, in fondo io e tuo padre
eravamo come fratelli, si può dire”.
Al sentire quella parola ecco che tutto si fece chiaro.
Zio.
Ormai Harry sapeva cosa aspettarsi dagli zii.
Ecco perché era stato portato via, ecco perché gli aveva tolto l’unica
cosa bella della sua vita e presto l’avrebbe anche picchiato e fatto
lavorare, Harry lo sapeva, poteva sopportarlo, se almeno avesse potuto
rivedere l’uomo-Sevreus anche solo un momento…
Alzò la testa, disperato.
“Quando potrò vedere di nuovo il maestro, signore?”
La stanza cadde in un silenzio profondo, come quando zia Petunia
toglieva la voce alla tv per rispondere al telefono.
Il signore si fece di nuovo scuro in volto e non disse niente per
diverso tempo, poi, senza guardarlo, gli disse solo:
“Non ora, mangia adesso”.
Ed Harry mangiò tutto, anche se sentiva lo stomaco fargli male e quando
si poté alzare andò in bagno e di nuovo vomitò il pranzo.
Si lavò per bene la bocca come gli aveva insegnato il maestro e tornò
nella sala con i libri per poi sedersi di nuovo accanto alla poltrona
fino alla sera.
Guardò i libri finché la vista non si appannò tutta e continuò a
guardarli anche se le lacrime non glieli facevano vedere per bene.
Dov’era il suo maestro? Dov’era?
Continua…
Nota grammaticale: per mia decisione personale in
questa fanfic tutti i nomi propri ed alcuni altri di vario genere sono
mantenuti originali, quindi con i termini inglesi, non solo per
rispetto alla signora Rowling che così li ha creati, ma anche perché
non approvo la dilagante malattia del
‛traduzionismo-sempre-e-comunque’. Per correttezza nei confronti di chi
è in disaccordo con me alla fine di ogni capitolo metterò i termini
italiani corrispondenti. Grazie mille.
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