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Autore: Je91    20/06/2008    2 recensioni
Cinque ragazze, come noi, come me, come te, come gli altri. Avevano cinque vite diverse eppure erano unite. Erano solamente cinque e volevano cambiare il mondo. O forse, semplicemente la loro vita.
Genere: Romantico, Malinconico, Drammatico | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: Incompiuta
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Note del capitolo: Mi scuso per il ritardo, ma ho avuto bisogno di un po' di tempo per trovare le parole giuste a questo personaggio. Ringrazio ancora Xamia per la recenzione: i particolari sul futuro di Dafne li potrai leggere nell'epilogo.
Buona lettura!!

III - Elettra la Ribelle

Era l’ennesimo lunedì mattina per Elettra. L’ennesima mattinata buttata al vento per andare al tribunale. «Elettra! Alzati», strilla la madre dalla cucina. La ragazza si gira velocemente dentro il letto, fingendo di non averla sentita. Si chiedeva cosa mai importasse alla madre di una nuova causa in tribunale, dalla quale sarebbe uscita indenne. Osservava il muro bianco sporcato dalla sua penna. C’erano frasi di libri, canzoni, le firme delle sue migliori amiche. Lei era come quel muro, un posto da sporcare. Ma preferiva farlo da sola, nessuno doveva sporcarla.

Mentre quei pensieri le annebbiavano il cervello, la madre entrò nella camera.

«Maledetto impiastro! Hai intenzione di non presentarti?», aveva sbraitato quella levando le coperte di dosso alla figlia. Elettra sbuffa per mettersi su a sedere nel letto.

«Che cazzo ti frega? Esci dalla mia stanza, cinque minuti e andiamo!», tuona la ragazza cacciando via la donna dalla stanza. Fugace richiude la porta e ci si appoggia contro. Sospira. Si avvicina alla sedia con sopra i vestiti di ieri e li prende ad uno ad uno. Alcuni tornano sulla sedia, altri vengono gettati sul letto.

Va in bagno e si sciacqua il viso, ancora assonnato. Erano iniziate le vacanze e lei doveva già alzarsi presto. Ma la colpa non era sua, era della sua lesbica insegnante di inglese che ha cercato di farsi la sua preda. Prima regola della caccia: non si toccano le prede altrui. Quel ragazzo era la nuova preda di Elettra, non dell’insegnante. Ripensando a ciò, il sangue le bolle attraverso le vene.

Osserva l’orologio, ha solamente altri due minuti per prepararsi. Sbuffa e con la velocità di un fulmine si infila i jeans stretti, la maglietta scollata, lega i lunghi capelli neri in due grosse trecce, infila le scarpe da ginnastica ed è pronta. Esce scattante dalla sua stanza arrivando in cucina, dove la madre l’attendeva sorseggiando il caffè.

«Finalmente!», esclama quella vedendo la figlia comparire sulla porta. Elettra non fiata, prende semplicemente la borsa dall’attaccapanni e segue la madre in macchina. La donna nel mentre minaccia la figlia, ripetendole che questa è la volta buona che la espellono dalla scuola, che se accade ciò non avrà più un tetto sopra la testa, che può sognarsi l’estate di libertà… E un sacco di altre stronzate, ad opinione di Elettra.

Alle nove spaccate arrivano in tribunale. Ad attenderle nell’ingresso c’è il loro avvocato, un vecchio amico della madre, dei tempi del liceo.

«Oh eccovi, perfetto! Tocca a noi, fra poco», dice quello gentile. Elettra lo guarda appena poi torna a guardarsi intorno. Non le importava dell’ennesima causa vissuta in prima persona, c’era abituata. Voleva solamente essere lasciata in pace.

Seguiva i due adulti ovunque andassero, senza fiatare. Non aveva voglia di dare spettacolo. Finchè vide delle persone uscire dall’aula del giudice. L’amico della madre sorrise incoraggiante.

«Avanti! Tocca a noi!», disse sorridente. Elettra e la madre lo seguirono dentro.

Iniziò la causa, aringhe, cavilli, e tutto ciò che poteva riguardare un tribunale. Elettra non ascoltava minimamente, si limitava ad osserva il giudice una donna dalla faccia quadrata, piena di rughe, ma con due occhi buoni ed espressivi. Notò subito che provava una certa simpatia per la ragazza. La cosa le fece piacere, infondo era lei che avrebbe decretato la sua punizione.

I due avvocati parlavano. La madre stava attenta a non perdersi nemmeno una parola. Elettra sognava. Sognava cosa avrebbe fatto uscita dal tribunale, certa che fuori ad attenderla ci fossero state le sue amiche, insieme erano le inseparabili cinque. Lei era in classe con Fiore, al liceo linguistico della loro città. Si erano conosciute così, tra compagne di classe. Elettra e Fiore erano in classe insieme dai tempi dell’asilo, alle medie incontrarono Mirella che però si iscrisse al liceo scientifico, dove incontrò Viola, amica da sempre di Dafne. Erano insieme perché il destino aveva voluto così.

Elettra osserva nervosamente l’orologio. Erano già le dieci e mezza, e non capiva perché la cosa durasse così tanto. Sbuffa e si accascia sulla panca. La madre, notando l’atteggiamento della figlia, le colpì le ginocchia con il tacco a spillo della scarpa.

«Elettra, smettila! Complichi solo le cose», mormorò a denti stretti la donna. La ragazza sospirò e si rimise in posizione composta. Finalmente la voce del giudice dichiarò la fine della tortura.

Elettra andò a stringere la mano al suo avvocato, insieme alla madre, come sempre accadeva. L’insegnante di inglese della ragazza era arrabbiata di non aver avuto il risarcimento chiesto, ma alla ragazza non importava. Uscì dall’aula di tribunale facendole l’ennesima linguaccia. Fuori c’erano le sue amiche: Dafne, Fiore, Mirella e Viola. Erano lì ad attenderla. Elettra le raggiunse velocemente.

«Allora, qual è il verdetto?», chiese Viola non stando più nella pelle. La ragazza sorrise radiosa.

«Due mesi di pulizie al museo, non è andata male», disse soddisfatta di se. Nel mentre la madre della ragazza scrutò una ad una le amiche della figlia, per poi fermarsi con sguardo spregevole su Elettra.

«Te la sei cavata come sempre, ma non con me», minacciò la donna. La ragazza annuì e rimase sola con le sue amiche.

Andarono fugaci al parco, per rilassarsi, fumare le loro sigarette, ridere e scherzare, sognare della loro estate imminente.

«Dai ragazze! E’ fantastico, un’ estate al fresco di un museo… Mentre voi morirete di caldo qui al parco», asserisce Elettra divertita. Mirella la guarda bonariamente.

«Tutta invidia la tua, Ele… Noi staremo qui a spassarcela, mentre tu sarai tra i resti del museo a togliere polvere», dice Ella. Le ragazze ridono.

«Sapete oggi vado a pranzo con mia madre…», si intromette Dafne pensierosa. Elettra la squadra.

«Tua madre? Quella che sposa uomini politici e li tradisce con altri, divorzia con la stessa frequenza con cui cambia le mutande, veste Chanel e vive di gossip?», dice d’un fiato Elettra. La bionda la fulmina con uno sguardo.

«Ti ricordo che stai parlando di mia madre…», mormora Dafne. Mirella interviene e cambia rapidamente argomento.

«Stasera che si fa?», domanda quest’ultima salvando la situazione. Fiore alza le spalle, Viola osserva Dafne, Mirella guarda Elettra.

«Ok, ho capito… Nottata al covo segreto! Chi porta da bere?», dice quella alzando le braccia al cielo. Fiore sorride entusiasta.

«Io ho del resto di erba…», propone Fiore. Mirella arriccia leggermente il naso.
«Erba? No grazie, per me solo alcol», asserisce fermamente. Viola si propone per l’alcol. Dafne porta le candele, Elettra le pile per le torce. Per quella sera era tutto sistemato.

La mattinata vola e così arriva per tutte l’ora di ritirarsi. Dafne sparisce per il ristorante, dove l’aspetta la madre. Mirella torna a casa, insieme a Viola. Fiore resta in giro fino alle due e mezza del pomeriggio, dice che ha bisogno di una dose prima di pranzo. Elettra decide di affrontare il leone prima di notte.

Torna a casa fischiettando per le strade della città, osservando le case, i negozi, le persone che vi sono. Sa che quella è l’unica casa che avrà per il resto dei suoi giorni, nonostante sogni di scappare via. Quella città è casa sua. Scende nella strada che conduce verso casa, il figlio dei vicini gioca a pallone.

«Ciao Marco!», esclama la ragazza vedendo il bambino giocare. Questo si volta e le sorride.

«Ciao Elettra… Sai che tua mamma ha raccontato alla mia quello che hai fatto?», dice dolce. La ragazza sorride.

«Ah sì? E cosa le ha detto?», domanda curiosa abbassandosi davanti il bambino. Marco la osserva sincero e leale.

«Che sei una disgraziata e che ti metterà in punizione…», racconta fugace annuendo. Elettra gli accarezza la testa e sospira, pronta allo scontro.

«Su Marco, vai a casa che a momenti tua madre ti chiamerà per dirti che è pronto in tavola…», dice pacata lei. Il bambino annuisce, raccoglie la palla e scappa correndo a casa.

Elettra osserva i piedi veloci e leggeri di Marco, sperando che un giorno i suoi figli possano averli come quelli. Lei non ha mai avuto la possibilità di correre e volare verso la propria casa, con la speranza di ricevere una carezza, un abbraccio, un bacio dalla madre. Lei era la figlia del peccato.

Sale pacata le scale del condomino, finchè arriva al secondo piano. Cerca le chiavi nella borsa. Non appena le trova, le inserisce nella toppa e gira la chiave. Entrando sente odore di ragù proveniente dalla cucina. Probabilmente per lei vi sarà solo una misera porzione, è stata una bambina cattiva non merita di mangiare più di quanto farebbe un cane. Elettra è sempre la bambina cattiva.

«Sono a casa!», esclama quella gettando la borsa su un divano all’ingresso. Dalla cucina compare la madre della ragazza, sul volto un espressione arrabbiata.

«Eccoti finalmente, disgraziata che non sei altro! Tu e le tue amiche, a fare chissà cosa tutta la mattinata… Ma da oggi non più, sei messa ai ferri corti cara mia! Non puoi più sfuggirmi», tuona la donna in tono minaccioso. Elettra sbuffa.

«Ma’ non mi va di parlarne, dammi da mangiare e sparisco… Va bene?», dice esasperata la ragazza. Ma la madre non ha alcuna intenzione di interrompere il litigio proprio in quel momento.

«Invece tu mi stai a sentire, signorina! Ho chiamato i tuoi nonni e sono disposti a prenderti con loro, per tutta l’estate», annuncia la donna trionfante, felice di liberarsi di un peso inutile come sua figlia.

Elettra non appena realizza che i suoi nonni abitano a cento chilometri di distanza da casa sua, inizia ad agitarsi. Osserva furtiva tutti gli oggetti preziosi della madre e cerca di reprimere la rabbia, ma non ce la fa. Reprimere le emozioni, non fa parte dell’anima di Elettra.

«Cosa!? Perché vuoi spedirmi lontano da qui? Ti prometto che mi cercherò una casa, un lavoro e mi manterrò da sola, ma non mandarmi via da qui… Ti prego!», urla la ragazza ingoiando le lacrime. La donna sembra fermamente convinta della sua decisione.

«Non mi importa Elettra, tu non saresti mai dovuta nascere, e ora io ne pago le conseguenze», dice ferma e cattiva. Il volto della ragazza inizia a rigarsi di lacrime.

«Come puoi dirlo, mamma? Sono tua figlia! Tua Figlia! Te ne rendi conto?», urla disperata Elettra. Poi riprende acida: «Ma certo! Come scordare? Io sono la figlia del peccato, quella che è venuta per sbaglio… Tu dovevi diventare una modella, io ti ho rovinato la carriera… Perdonami mamma, potevi anche uccidermi prima!», completa con la sua lingua biforcuta. La donna le molla uno schiaffo diritto in faccia. Elettra la guarda, poi si porta la destra sulla guancia colpita. I suoi occhi di ghiaccio erano velati da lacrime amare, che aveva ingoiato troppe volte. Ma era al limite, non poteva più sentirsi ripetere che era un demonio e non doveva nascere. Perché diamine l’ha tenuta allora? Perché le ha inferto questo dolore? Perché? Queste erano le domande che si poneva Elettra, in quel preciso istante.

La osserva per l’ultima volta, poi si volta verso l’ingresso, afferra la borsa ed esce di casa, sperando di non doverci più tornare.

Corre per le strade della città, senza guardare dove realmente sta andando. Gli occhi sono pieni di lacrime, non l’è possibile vedere oltre l’opaco. Senza accorgersene arriva a casa di Mirella. La ragazza è affacciata alla finestra della sua stanza, che fa bolle di sapone. Non si accorge minimamente della presenza di Elettra.

«Ella…», mormora quella in direzione della ragazza. Quest’ultima abbassa lo sguardo e vede l’indifesa quanto forte amica, singhiozzare come se avesse quattro anni. Le muore il cuore nel petto.

Elettra resta sotto la finestra dell’amica, vedendola correre dentro casa. Teme che non scenda. Teme che la lasci sola, con il suo dolore. Teme di restare sola a vita.

Mirella scende fugace sotto la sua finestra. Abbraccia senza chiedere niente l’amica. Elettra si lascia cullare dalle braccia troppo magre di Ella.

«Mi ha cacciato di casa, Ella… Cacciata! Io, sua figlia», dice la nera tra le lacrime. Mirella la tiene stretta a se, lei e le altre ci saranno sempre. Era uno dei loro innumerevoli patti.

«Resta da me Elettra, chiama chi vuoi, riprenditi… Stasera abbiamo la riunione, non preoccuparti: sistemeremo tutto! Noi possiamo tutto», cerca di consolarla la rossa. Elettra scuote la testa.

«Ha parlato quella che si è messa all’asta, o sbaglio Mirella? Sbaglio o tu ti sei lasciata fregare l’anima da un ragazzo?», ribatte acida la nera. Ella si morde il labbro inferiore, sa che quelle parole gliele suggerisce la rabbia e che la sua Elettra non le direbbe mai.

«Fai ciò che credi, Ele… Noi ci siamo», disse tranquilla Ella. La ragazza scappa via anche dall’amica. Vuole stare sola, com’è sempre stata.

Oramai sono le tre del pomeriggio e deve decidere cosa fare. Deve valutare le varie opzioni. Andare dai nonni o vivere come fuggitiva nella sua città? Sapeva benissimo qual’era la risposta migliore.

Se fosse andata dai suoi nonni, non avrebbe più avuto problemi, di alcun tipo. Loro la amavano, a differenza della madre. Ma se se ne fosse andata, allora avrebbe dovuto dire addio alle sue amiche, le sue uniche amiche. Dafne, Mirella, Viola e Fiore. Insieme formavano una persona sola. Non poteva lasciarle, non voleva lasciarle. Ma cosa avrebbero fatto loro al suo posto? Cosa le avrebbero detto?

Mentre si poneva quelle domande, vide Viola, seduta su una panchina nel Parco. Le si avvicinò e la studiò appena. Aveva pianto anche lei, come se stessa. Avevano entrambe gli occhi rossi e gonfi dalle lacrime. Erano entrambe vittime di qualcosa in cui non c’entravano niente.

«Viola…», mormora Elettra. La ragazza alza appena gli occhi e sorride.

«Ciao Ele, tutto ok?», domanda con una strana allegria nella voce. La nera scuote la testa, poi si accasci accanto l’amica.

«Affatto, Viola. Affatto», disse senza guardarla. Le raccontò fugace tutto quello che era successo. Di sua madre, della visita da Ella, dei suoi nonni che amava. Viola rimase in silenzio ad ascoltarla, non la interruppe neanche una volta.

«Cosa dovrei fare, Viola? Cosa faresti tu?», domanda infine Elettra sconvolta. La mora sorrise.

«Ricomincerei», disse gentile. La nera sentì il cuore sprofondarle nel petto. Ricominciare. Era una bella parola. Elettra sognava tutte le notti di ricominciare e ora poteva. Poteva realizzare il suo sogno.

Si alzò fugace dalla panchina, abbracciò Viola e andò verso una cabina telefonica. Compose un numero che conosceva bene e a memoria. Avevano ragione le sue amiche, doveva concedersi un’altra possibilità, doveva farlo. Per il suo bene.

«Pronto? Ciao nonno, sono Elettra».

  
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