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Autore: afterhour    09/03/2014    9 recensioni
Sakura Haruno aveva una meta precisa nella vita, diventare ricca, e per questo non intendeva perdere tempo frequentando poveracci e perdenti.
Non che avesse niente di personale contro di loro, o contro Sasuke Uchiha (a parte il fatto che assieme a tutti i ragazzi del quartiere era sospettato di avere messo incinta sua sorella, un crimine orrendo che non avrebbe perdonato mai), era solo che aveva tutto pianificato.
Ma il destino ha uno strano modo di prendersi gioco di noi, dei nostri piani e delle nostre certezze.
AU OOC, triangolo: SasuSakuSaso
Genere: Commedia, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Akasuna no Sasori, Sakura Haruno, Sasuke Uchiha | Coppie: Sasuke/Sakura
Note: AU, OOC | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Nessun contesto
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Eccomi qui!  
Manca poco alla fine ormai, questo è il terzultimo capitolo, ma in compenso è più lungo degli altri...e in ogni caso spero vi piaccia!

Ancora grazie mille per tutte quelle recensioni, mi state abituando troppo bene.:)




19.



 L’appuntamento era vicino alla fioreria, all’angolo tra due strade, come ogni volta, e solo alla vista di quell’angolo mi veniva un po’ d’ansia e le labbra si piegavano automaticamente in una piega severa: non mi piaceva quell’angolo.
Mi faceva schifo.
Cominciamo bene.

E poi, quando lo vidi arrivare con un’automobile nuova, una Ferrari rossa, il massimo della sobrietà, lo stomaco mi si chiuse del tutto, perché non volevo vederlo, non volevo proprio.

 - Ascolta – iniziai non appena salita in macchina.

 - Aspetta – mi fece dandomi un bacio sulle labbra, e trattenni la tentazione di pulirmele con il palmo della mano, perché quel bacio in quel momento mi disgustava – prima andiamo a fare un giro, va bene? –

No, non andava bene, avevo bisogno di parlare, ma come sempre con lui entravo in un mondo più ovattato in cui mi muovevo con mille attenzioni, e quella patina formale mi pesava particolarmente quel giorno, perché avevo appena visto Sasuke, ed ero ancora piena di lui, della forza della sua persona, della sua coerenza, del suo senso di ciò che è giusto.

 - Come va? – mi chiese riprendendo a guidare.

 - Male – buttai lì improvvisamente insofferente, quasi per metterlo alla prova – mia madre ha scovato dove nascondevo i soldi e me li ha presi –

Lo vidi sorridere, e quasi mi offendevo, non che non facesse ridere la cosa, ma faceva ridere solo una determinata categoria di persone, quelli che non avevano certi problemi per spiegarsi.

 - Mia madre ama interferire nella mia vita – e forse era un tentativo di consolarmi, forse era solo che gli piaceva tanto parlare di se stesso – per quello sono andato a vivere da solo che ancora non lavoravo –

Ma che bravo. Mica aveva problemi a pagare l’affitto, lui, con mamma e papà che sganciavano.

Per un attimo pensai di spiegargli quanto era importante per me avere il mio gruzzoletto, ma solo per un attimo, ci rinunciai subito: non credevo che fosse in grado di capire una realtà così distante dalla sua, e comunque proprio non ci riuscivo, non con lui, così lasciai che parlasse lui, come sempre, e ascoltai mentre mi raccontava un paio di episodi di cui era protagonista sua madre, che pareva una viperetta con una gran puzza sotto il naso.
Me la immaginai a setacciare la mia vita sotto una lente d’ingrandimento, immaginai la sua espressione superiore e il suo disprezzo nei confronti di una poveraccia come me, il tutto nascosto da sorrisi finti e macchinazioni sotterranee.

In quel momento, in quell’esatto istante, decisi che non volevo quella vita, che non volevo vivere in quel modo, costretta in quella recita che ormai non mi bastava più, sempre sola in mezzo agli altri.

Magari me ne sarei pentita, ma non lo credevo perché se c’era una cosa che avevo imparato era che non bastavano i soldi per mettersi al riparo dai dolori, tantomeno dalla vita: non era solo un luogo comune, era vero che non potevo comprarmi la felicità, e neppure la serenità purtroppo, ma bastava accettarlo per sentirsi già un po’ più liberi.

Lo sbirciai mentre parlava, e non ero mai stata così consapevole che non lo volevo più, non lo volevo proprio più, che non mi interessava veramente e neanche mi piaceva, e che dovevo dirglielo.
Subito.

Non mi faceva neppure pena, perché il mio bisogno di liberarmi di quella relazione sovrastava tutto il resto.

Non aspettai di scendere dalla macchina, condii la nuda verità con belle parole, ambigue se non false, ma fui irremovibile, e ascoltai con un orecchio solo le sue parole, le sue spiegazioni che non mi interessavano, i suoi inutili tentativi di farmi cambiare idea, di farmi riconsiderare tutto, e la sua assicurazione che se non aveva lasciato la tipa era solo perché non l’aveva più vista, ma che le aveva già accennato per telefono le sue intenzioni, che era deciso, che non aveva dubbi.
Il problema era che anch’io non avevo dubbi.

Alla fine, presa per sfinimento, gli assicurai che naturalmente ci saremmo visti e sentiti ancora, che mi faceva piacere vederlo come amico e non volevo smettere di avere a che fare con lui, ma era una grossa bugia, perché se fosse dipeso da me non lo avrei rivisto mai più, e già pensavo di cancellare il suo numero dal cellulare, non so neppure il perché, forse solo per provare a cancellare quella parentesi non esattamente esaltante della mia vita.

Non fu facile rimandarlo a casa, voleva rimanere con me, per parlare diceva, e non aveva tutti i torti vista tutta la strada che aveva dovuto percorrere per sentirsi dire che non lo volevo più, però non ne avevo proprio voglia, così mi inventai che dovevo vedere mia madre per chiarire, come se avessi davvero questo bisogno impellente, e dal momento che insisteva ancora aggiunsi che mia madre si era molto agitata, che ero davvero preoccupata per il suo stato di salute e dovevo andare. Suonava come una scusa ineccepibile, per quanto fosse falsissima.

Mi lasciò andare riluttante, e purtroppo volle anche accompagnarmi a casa, cortesia questa cui avrei rinunciato volentieri dal momento che non era tardi e avrei potuto arrangiarmi.
Scesi da quella macchina che si notava da lontano un miglio sentendomi addosso un notevole numero di sguardi, e già sapevo che la notizia si sarebbe sparsa in un batter d’occhio e sarebbe giunta fino a Sasuke, il che mi disturbava parecchio dal momento che avrebbe smascherato la mia piccola bugia, e ancora di più mi irritava che provassi quel fastidio, perché non avrebbe dovuto importarmi così tanto, non aveva neppure senso giunti a questo punto, tanto non cambiava niente.

Appena in casa mia madre mi chiamò e andai da lei quasi in automatico, per abitudine: era a letto con la sua nuova tv, la ladra, ma tremava visibilmente, e mi disse affannata che si sentiva male, che dovevamo andare all’ospedale perché le mancava il respiro e aveva paura di morire.
Ero sicura che non fingesse, che si sentisse davvero male, credo che a modo suo soffrisse per la situazione e non conoscesse altro sistema per esternare quel disagio se non attraverso la malattia.

Era solo una povera donna incapace di vivere.

 - Ti preparo qualcosa di caldo, vedrai che starai meglio –

Non avevo usato un tono gentile, ma avevo comunque ristabilito il nostro rapporto, avevo ribadito i nostri ruoli nel gioco stupido che era la nostra relazione, e sapevo che si sarebbe calmata.
Tanto ormai l’arrabbiatura mi era passata, ed era sempre mia madre, non volevo che soffrisse, avrei solo voluto che capisse ma non ne era in grado, non potevo farci niente.

Dormii molto meglio quella notte, libera da quel peso insopportabile che avevo portato per mesi, e domenica mi svegliai sentendomi molto più leggera, con la sensazione di essere finalmente intera.

Almeno fino a quando non realizzai che Sasuke se ne sarebbe andato e non tornai a terra.

Avevo voglia di vederlo, di raccontargli che avevo chiuso con quel finto principe azzurro, di stringerlo a me e sentirlo vicino finché potevo, ma non volevo essere sempre io quella che lo cercava e non potevo rompergli le scatole continuamente, così mi trattenni eroicamente e studiai barricata in camera, senza parlare a quelle due, il che non era così difficile dal momento che mia madre se ne stava chiusa in camera a sua volta con la nuova tv e la nuova rete (per quel che mi riguardava poteva rimanere lì per sempre, meno la vedevo meglio era), e mia sorella era in giro da qualche parte.

I giorni successivi erano trascorsi senza avvenimenti eclatanti, era già la seconda settimana ma non volevo pensarci, e man mano che passavano le ore avevo sempre più bisogno di vederlo.
Non avrebbe dovuto chiamarmi lunedì?

Probabilmente adesso aveva ben altro per la testa ed ignorai la stupida vocina dentro di me che mi sussurrava che forse non gli importava così tanto di me, non volevo certo iniziare a piangermi addosso e ridurmi come una di quelle povere creaturine patetiche che avevo sempre disprezzato.
Ma quel pensiero importuno faceva male, se faceva male…

L’ultimo dell’anno me lo ero passato a letto, Moegi era ad un festino a casa di una sua amica, avrebbe dormito fuori, mia madre aspettava la mezzanotte davanti alla tv, ed io non avevo voglia di vedere nessuno, tanto meno di uscire con Ino, così mi ero messa un cuscino in testa quando erano iniziati i botti pensando che il nuovo anno si prospettava peggiore di quello vecchio, il che di per sé era già un record.  

Sapevo che i Dead Leaves suonavano da qualche parte, non ricordavo neppure dove, e probabilmente avrei detto comunque di no, ma Sasuke non mi aveva invitata.

Il giorno dopo mi ero svegliata dicendomi che in realtà quel nuovo anno era esattamente uguale al vecchio, che mi aspettavo? Forse solo un pochettino più triste.
Almeno lui aveva risposto ai miei auguri, sai lo sforzo, sempre ammesso che sapesse che ero io.
Di tutti gli altri auguri non me ne fregava niente.
_

In quei giorni avevo aiutato ogni volta mia madre ad alzarsi, le avevo preparato la colazione (anche se non se lo meritava proprio), e se mi ero rifiutata di fare conversazione nonostante i suoi evidenti tentativi di stabilire un contatto, non ero mai stata sgarbata. Questo, unito al fatto che mi fossi occupata di lei, mi pareva abbastanza.

Mia sorella dopo avermi chiesto chi era quello ricco che mi accompagnava a casa ed averlo liquidato, a ragione, come non abbastanza importante per interessarsene, aveva ripreso a raccontarmi le sue patetiche giornate da ragazzina svanita, mentre nel frattempo Sasori continuava a chiamarmi (gli rispondevo raramente, proprio quando non ne potevo più, sperando la smettesse presto).

In compenso non avevo più sentito Sasuke, l’unico che avevo voglia di sentire.
Mi sfogliavo accuratamente e ripetutamente tutte le chiamate e gli innumerevoli messaggi di quell’altro nel timore che mi fosse sfuggito qualcosa, esasperata dall’assurdità della situazione (se solo avessi avuto il mio gruzzoletto avrei cambiato numero di telefono per non subire più quella persecuzione), ed ero un po’ delusa, lo ammetto, non tanto per il denaro che mi aveva promesso, sapevo di non poterlo accettare anche se ci avevo fatto un pensierino (sono venale, lo so), quanto per il fatto che se ne fosse dimenticato così in fretta.

Pazienza, neppure lo volevo il suo denaro, e probabilmente lo aveva detto nella foga del momento e poi ci aveva ragionato su e aveva cambiato idea, per cui cercai di farmela passare, solo che a causa di quella faccenda non potevo neppure chiamarlo io: non volevo mettergli pressione o fargli credere di essere lì ad aspettare i suoi soldi.
Quello che mi rompeva veramente era la vastità del tempo perso, tempo che non avevamo e si assottigliava sempre di più, ma non sapevo bene come comportarmi, e mi dicevo che forse era meglio così.

Non mi ero mai sentita così fragile.

Finalmente giovedì, mentre non c’era nessuno in fioreria e mi dilettavo a cancellare i messaggi di Sasori senza leggerli, Sasuke mi aveva mandato un sms in cui mi chiedeva di vederci.
Era il primo, cioè, il primo che inviava di sua iniziativa, e mi sentivo ridicolmente eccitata, neanche avesse fatto chissà che, ma non potevo farci niente, ormai mi accontentavo delle piccole cose.
Come mi ero ridotta, completamente in balia di un uomo e delle sue scelte.

Risposi subito di sì spiegando che tornavo tardi da lavoro, e per l’intero pomeriggio, il mio umore capovolto come un calzino, sorrisi bendisposta a tutti i clienti.

Il lungo viaggio di ritorno non mi era mai parso così infinito, e quando mi mandò un altro sms chiedendo a che ora arrivavo (era il secondo ed ormai ero stupidamente gongolante) risposi con un sorriso così ampio che mi sentivo dolere la mascella.
Subito dopo avevo inviato un messaggio anche a mia sorella per informarla che avevo un imprevisto e sarei tornata molto tardi, e poi mi limitai a seguire il filo dei miei pensieri, a tratti intrisi di malinconia.

All’uscita del metrò era lì che mi aspettava.

Nel vedermelo provai un moto di felicità così intenso che il cuore fece un balzo nel petto, neanche fossero passati mesi dall’ultima volta in cui l’avevo visto, non pochi giorni.
Ma era venuto a prendermi, come potevo non essere felice, e subito non badai alla sua espressione un po’ cupa, tutta presa dalla gioia di essere lì con lui.

 - Sei venuto a prendermi – mormorai con quello che sapevo essere un sorriso estasiato.

 - A piedi duchessa, niente Ferrari –

Ecco, lo sapevo che qualcuno glielo avrebbe riferito, accidenti alle linguacce che giravano per il quartiere.

 - Penso che mi accontenterò, hai altre doti – replicai accondiscendente mentre lo seguivo ancora raggiante.

 - Nervosetto? – domandai poco dopo dal momento che non mi guardava.

Nessuna risposta.

  - E’ per causa mia? –

 - No –

Non sapevo se credergli, e confesso che un po’ mi piaceva l’idea che fosse geloso per quella storia della macchina, era così carino quando era geloso.

- Davvero? –

Neanche mi aveva risposto.

 - Per tua madre allora? – provai tentando di stare al suo passo, nonostante il tacco.

 - No –

 - Il patrigno? –

 - No…senti, basta –

 - Tuo padre? – insistetti con quel diritto di sapere che mi arrogavo sempre con lui.

 - No! –

 - Il gruppo? – ormai avevo esaurito le domande.

 - Non puoi farti i cazzi tuoi? –

 - Non ci riesco, ho bisogno di sapere…cosa c’è? –

 Nemmeno mi rispose questa volta.

  - Puoi rallentare per favore…è tuo fratello? – buttai lì del tutto a casaccio, ricordavo il ragazzino della foto e mi pareva che qualcuno mi avesse parlato di un fratello, se non l’avevo sognato.

Lo vidi irrigidirsi, e non mi sfuggì l’ombra che gli attraversò il volto.

 - Allora hai davvero un fratello! L’ho visto nella foto ma quasi pensavo fosse una leggenda metropolitana! –
 
A questo punto ero davvero curiosa ed ignorai il suo sguardo non esattamente amichevole: Sasuke Uchiha non mi faceva per niente paura, sapevo che non mi avrebbe mai fatto del male, o meglio, sapevo che me ne avrebbe fatto molto, ma quello era un altro discorso.

- Dai, ormai manca solo lui – mi ostinai dal momento che non rispondeva – l’ultimo segreto e dopo non ho più materiale per stressarti…devi dirmelo prima di andartene, è come la chiusura del cerchio, se no non posso dirti addio –

Sorrisi amara e nascosi abbastanza bene il fatto che anche un accenno scherzoso alla sua partenza mi faceva male.

Lui non pareva per niente divertito e probabilmente avrei dovuto smetterla, perdevo un po’ i freni inibitori con lui, neanche il desiderio di conoscerlo, di appropriarmi di ogni parte di lui, mi desse tutti i diritti.
A mia difesa devo dire che non avevo mai sentito quel bisogno prima, per cui non sapevo come gestirlo.

 - Di lui non ho voglia di parlare adesso – rispose finalmente, ed era già qualcosa, un appiglio.

 - Ma… –

 - Senti…lasciami in pace, va bene? –

No, non andava bene, ma non avevo molta scelta.
Arrivammo a casa sua senza più parlare e sempre in silenzio mi indicò una busta sul tavolo, senza neppure degnarmi di uno sguardo.

 - I tuoi soldi – mi concesse finalmente una parola mentre si toglieva il giubbotto – li ho avuti solo oggi –

Mi dava le spalle e lo guardai quasi offesa.
Già avevo i miei dubbi prima, figuriamoci se me li buttava in faccia in malo modo.

 - Non voglio i tuoi soldi – replicai indignata.

 - Ti ho detto che sono tuoi, per me la questione è chiusa –

Lo guardai aprire il frigorifero e prendersi una birra, e lo fissai adombrata mentre se l’apriva e beveva un paio di sorsi a canna.

 - E’ solo una birra, ho sete – mi fece, perché aveva capito benissimo cosa stavo pensando, capiva sempre tutto benissimo, anche quello che non avevo ancora capito io, tutto a parte che ero innamorata di lui, tutto a parte che avevo bisogno di lui.

Appoggiò la bottiglia sul piano della cucina e rimanemmo a fissarci per alcuni secondi senza parlare.
Non riuscivo neppure a far finta di arrabbiarmi.
Dio, come mi piaceva.

 - Vieni qui – mi fece con un accenno di sorriso, ed ero già sciolta.
 
Lo raggiunsi, lasciai che mi cingesse la vita con le braccia ed appoggiai il capo direttamente sulla sua spalla, dal momento che avevo dei tacchi vertiginosi.

 - Dovresti essere più carino con me, mi hai sedotta e abbandonata – mormorai.

 - Pfffh…come no –

 - E’ così – replicai convinta.

Mi scostai appena e feci scorrere la mano sul suo torso, un brivido che mi percorreva il corpo.

 - Credevo fossi tu quella che mi ha sedotto –

 - Forse – concessi – ma sicuramente sei tu quello che mi abbandona – aggiunsi amara.

 - Perché, hai una proposta migliore? – replicò sarcastico.

Smisi di toccarlo e mi strinsi a lui senza parlare, senza guardarlo, un po’ agitata: non sapevo cosa rispondere, non sapevo neppure cosa volesse dire.

Rimanemmo così per alcuni secondi, in silenzio, poi lasciai riluttante che si staccasse, e lo guardai mentre apriva il frigorifero.

 - Hai fame? – chiese – Non ho ancora cenato –

Aveva abilmente abbandonato l’argomento, ma lo capivo, faceva male anche a me.

 - Cosa offre la casa a parte i toast? – con quelli avevo già dato.

Mi ero sfilata il cappotto che ancora indossavo e lo appoggiai sulla spalliera del divano prima di avvicinarmi di nuovo a lui e studiarmelo attenta, come facevo spesso ultimamente, per imprimermi nella memoria ogni particolare del suo volto, ogni sua espressione.

 - Non molto – ammise.

 - Latte e corn flakes? – domandai speranzosa, quello era un classico in ogni casa.

Alla sua risposta affermativa mi misi a cercare i cornflakes dentro gli armadietti e li sistemai sopra il tavolo.
Non era la mia marca preferita, ma me ne sarei fatta una ragione.

Con la coda dell’occhio notai che la busta era ancora lì, al lato estremo della tavola, bella gonfia, invitante, ma non la degnai di una vera attenzione, e mentre mi giravo per prendere il latte dal frigo incrociai lo sguardo di Sasuke.
Sembrava pensieroso.

 – A proposito, non mi hai ancora detto niente di tuo fratello…sto aspettando, mica mi dimentico – buttai lì con la mia notoria grazia.

Mi guardò infastidito.

 - Potrei iniziare anch’io a tormentarti con domande cui non vuoi rispondere –

 - Nessun problema –

 - Ma davvero –

 - Davvero, prova – lo sfidai mentre riempivo di latte le due tazze che mi aveva passato.

E vai, latte e cornflakes per tutti e due.

Non rispose, e devo dire che conoscevo bene quello sguardo aggressivo, era la sua corazza, una corazza piuttosto spessa, ma non era niente rispetto alle mie.

 - Dai, spara…non ho segreti, io – lo provocai.

Poteva chiedermi quanto voleva di mio padre, mia madre, mia sorella e parentado intero, tanto le cose peggiori gliele avevo raccontate subito, per cui sostenni il suo sguardo con sfida.

- Fai sesso col tipo della Ferrari? – mi chiese bruscamente.
 
Oddio.
Mi bloccai, la schiena irrigidita.
Non mi aveva mai chiesto niente di Sasori, si arrabbiava quando ne parlavo, ed ora, all’improvviso…

 - Io… – biascicai.

Non riuscii ad aggiungere altro e mi lasciai cadere sulla sedia, orribilmente imbarazzata: credo che fosse riuscito a beccare l’unico argomento che avrei preferito evitare, e l’ironia della cosa non mi divertiva affatto.

 - Sei andata a letto con lui? – ripeté fissandomi, e il suo sguardo ora era come un fuoco che mi divorava, e faceva paura – E’ semplice no?! sì o no? –

 - Io… – ripetei puntando gli occhi sulla tazza, di lato, ovunque tranne dov’era la sua faccia.

Cercavo di valutare il da farsi in fretta.
Dovevo davvero dirglielo?
Non potevo tenermelo per me e magari dimenticarmelo?
E lui non poteva immaginarselo da solo, voleva proprio sentirselo dire in faccia? Perché?
Mi pareva assurdo.

Avevo le mani sudate e in realtà non ero così brava a mentire guardando negli occhi, diciamo che nonostante le apparenze non ero una gran bugiarda se qualcuno mi osservava bene (non che la gente osservasse bene).

Accidenti, per qualche motivo il cuore batteva come impazzito e sudavo freddo.
Al diavolo.

 - …sì – mi decisi ad ammettere, e anche se non si trattava di una bugia non riuscivo a guardarlo in faccia.

Ma era inutile girarci intorno, e poi credo lo sapesse già.

Nonostante mi ostinassi a fissare la tazza senza vederla sapevo che aveva continuato a scrutarmi, e lo sbirciai appena prima di riabbassare la testa, ma mentre lo facevo, nel preciso istante in cui lo facevo, avevo letto il dolore nei suoi occhi e mi ero sentita morire, perché era come se mi avesse sbattuto in faccia che anche lui pagava per la mia stupidità, e lo sapevo questo, lo avevo sempre saputo, eppure…eppure non lo avevo neppure mai messo in conto.
Ero proprio egoista.

Non so come avessi potuto pensare che la sua gelosia fosse divertente, era orribile.

Rimanemmo così per interminabili secondi, o minuti, non so, io che guardavo le mie mani sopra il tavolo, lui in piedi, in silenzio, finché non mi alzai per affrontarlo.
Non ce la facevo più.

Era ancora in piedi vicino al frigo, sembrava calmo, aveva già ripreso il controllo, e mi affrettai a fare altrettanto.
Non capivo perché fosse così difficile.

 - Senti… - iniziai titubante.

 - Lascia stare, non devi giustificarti – mi interruppe bruscamente, ma era lui adesso che non mi guardava – puoi fare quello che vuoi, non mi devi niente, sei sempre stata chiara in questo con me –

Mi chiesi come potevo essere stata chiara con lui quando non ero ben chiara neppure con me stessa, e mi accorsi solo ora che avevo gli occhi lucidi.

- Non lo vedo più – mi affrettai a spiegare – l’ho scaricato, era uno stupido, e aveva anche la fidanzata – e mi veniva davvero da piangere, come una sciocca, come una bambina – è…è per questo che stai male? –

Tirò fuori un pacchetto di quei suoi fazzoletti economici dalla tasca, me lo passò e lo accettai grata: chi se ne fregava in fondo di quanto costavano, erano fazzoletti, servivano allo scopo.

 - No, ti ho detto che non c’entri – ripose mentre mi soffiavo rumorosamente e non molto elegantemente il naso.
Con Sasori non avrei mai osato, ma con Sasori non avrei mai neppure pianto così.

 - Mi dispiace – riuscii solo a dire tamponandomi sotto gli occhi con un altro fazzoletto per salvare il salvabile, odiavo il trucco colato.

 E dal momento che non sapevo che fare, che non c’era altro da dire, niente che non fosse una ridicola scusa o un rigirare il coltello nella piaga, lo raggiunsi e lo abbracciai forte.
Avevo un bisogno disperato di contatto.

 - Mi vuoi lo stesso? – sussurrai pateticamente, ma il cuore mi batteva ancora troppo veloce nel petto e non potevo farci niente se avevo paura.

Mi cinse a sua volta tra le braccia ed alzai la testa a guardarlo con gli occhi di nuovo colmi di lacrime.

Non disse niente, sollevò una mano e mi accarezzò la guancia con le dita, e mi chiedevo se lo sapesse che mi piaceva tanto quando faceva così, che con quel gesto così semplice era come se mi dicesse che gli importava.
Lo guardai tra le lacrime, piena d’amore, e lui, lui mi fissava senza rancore, solo con un’ombra di quella tristezza che conoscevo bene, e con quel fuoco al di sotto delle iridi scure che aveva solo per me, fino a quando non chinò il capo per appoggiare le labbra sulle mie.

Mi baciò lentamente, la lingua che si muoveva sinuosamente dentro la mia bocca e mi torturava obbligandomi a seguire un ritmo lento, sensuale, terribilmente eccitante, e capivo che era come se in quel modo volesse controllarmi, dominarmi, come se volesse farmi sentire che ero sua.

Ci staccammo ansimanti e lo strinsi forte forte, il battito del cuore che rallentava pian piano mentre mi sforzavo di arginare la paura, quella paura di perderlo che ormai da giorni mi stava divorando e non riuscivo a contenere, a razionalizzare come avrei voluto.

- Rimani qui questa notte? – mi sussurrò.

Sentii quel calore familiare che mi invadeva, era la prima volta che me lo chiedeva lui, e adesso, in questo momento, significava tutto.

 - Sì – risposi solo.

Non parlammo più di Sasori, probabilmente non ne avremmo parlato mai più, e quella notte, a letto, Sasuke accarezzò e baciò ogni centimetro della mia pelle, in una lentissima tortura che mi infiammava il corpo e mi faceva girare la testa.
Sapevo che era un modo per appropriarsi di ogni singola parte di me, un tentativo di renderla sua, solo sua.

Quando finalmente era entrato in me ero già al limite da un pezzo e l’orgasmo mi travolse immediatamente.

 - Sono tua, sai – bisbigliai poi senza fiato, mentre ancora spingeva dentro di me, così piano che non mi aveva sentita.   

 Non dormimmo molto, io ancora meno di lui.

Rimasi sveglia a lungo a guardarlo e ad accarezzargli i capelli, e la pienezza che provavo non poteva essere confusa con nient’altro: amavo quella persona, l’amavo tanto, e l’amore era una forza spaventosa che poteva racchiudere il mondo in un abbraccio, ma faceva male, così male, perché era anche un vortice che mi risucchiava l’aria dai polmoni, che confondeva i pensieri, che si prendeva ogni cellula vitale e se la portava via, lontano da me, fino a dov’era lui, dove sarebbe andato lui un giorno, via, lontano.
Lontano da me.

Ed io…io avrei dovuto trascinare quel guscio vuoto che mi sarebbe rimasto, e nascondere il vuoto dietro tutte quelle maschere che non avevo più voglia di indossare.
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