Finalmente ci siamo.
Aspetto di pubblicare questo capitolo fin
dall’inizio della storia ;)
Abbiamo superato la metà, quindi allacciatevi
le cinture perché la strada che ci manca di qui fino alla fine si fa bella tosta.
Se non dovesse tornarvi qualcosa con la caratterizzazione dei personaggi (consiglio di lalla mia straordinaria beta <3 ) vi chiederei di avere pazienza, molte cose verranno
spiegate in seguito e può darsi che i dubbi si risolveranno da sé…
Il prossimo capitolo, giusto per farvi sapere,
è a metà. Potrebbe volerci una settimana piena per finirlo e poi un po’ per betarlo.
E ora non vi trattengo oltre ;)
Buona lettura!
Orgoglio e Pregiudizio
Capitolo 6
U |
n pomeriggio, pochi giorni dopo aver ritrovato la bomboletta
spray vuota, Sherlock era seduto al suo solito posto nel laboratorio, in attesa
di John - che sarebbe venuto, glielo aveva promesso
– e di Molly Hooper.
Il ragazzo aveva chiesto il suo aiuto per alcune operazioni
che voleva svolgere su di essa: aveva la netta impressione che quella bomboletta
non fosse stata lasciata lì per sbaglio. Era intenzionato a scoprirne il proprietario
e non si sarebbe arreso tanto facilmente. Molly poteva dargli una mano con quella
che era una semplice scatola di latta: potevano ricavare molte informazioni da essa,
bastava un’occhiata più approfondita e, Sherlock ne era certo, sarebbe arrivato
vicinissimo alla soluzione.
C’era qualcosa, in tutta quella storia, che non gli tornava.
I suoi pensieri furono interrotti dal rumore della porta
che si apriva. Alzò lo sguardo, speranzoso, e quando vide entrare Molly qualcosa
lo lasciò a bocca asciutta, anche se non avrebbe saputo dire esattamente cosa.
Con sua grande sorpresa vide la ragazza tenere la porta aperta dietro di sé, ma le sue speranze vennero
doppiamente deluse nel vedere che il nuovo ospite non era colui che si aspettava.
Girò la testa, infastidito, mentre Moriarty si guardava intorno con aria incuriosita.
«Allora alla fine ti sei messa d’accordo con Mary?» chiese
il ragazzo, mentre Molly si toglieva la giacca e appoggiava lo zaino sul lungo tavolo.
«Sì…»
Sherlock, che al nome pronunciato dal ragazzo si era fatto
improvvisamente più attento, li osservò con la coda dell’occhio.
Jim era a poca distanza dalla ragazza e la osservava con
una strana espressione negli occhi, quasi innamorata. Molly si girò verso di lui
e gli sorrise timidamente, poco prima che Moriarty
la tirasse verso di sé, depositandole un bacio veloce sulle labbra.
Sherlock distolse velocemente lo sguardo, tornando ad osservare con attenzione la bombolette sul tavolo davanti
a lui.
«E così, Sherlock Holmes, eccoti qua. Molly mi ha parlato molto di te…» Jim gli si avvicinò con aria noncurante, prestando
particolare attenzione all’oggetto che teneva tra le mani. «Alla fine non sei più
venuto al Brainy…»
Sherlock fece una smorfia, scuotendo la testa. «Non m’interessa.»
ribatté freddamente.
L’altro parve non ascoltarlo mentre anche lui prendeva
uno sgabello e si sedeva dall’altra parte del tavolo, sotto lo sguardo stupito e
attento di Molly, che non lo perse di vista neanche per un secondo.
«Che cos’è quella?»
La ragazza spostò gli occhi da uno all’altro, temendo la
reazione del moro. Sapeva che tra i due non scorreva buon sangue, lo aveva sempre
notato dalle espressioni infastidite di Sherlock ogni volta che incrociava il capitano
del Brainy nei corridoi, e sinceramente non riusciva a capire per quale motivo Jim
ci tenesse tanto a scambiare due parole con lui.
Sherlock si passò la lingua tra i denti e non rispose,
limitandosi a guardare il ragazzo più grande negli occhi, intensamente. Rimasero
in quella posizione per qualche secondo, poi Moriarty distolse lo sguardo con un
sorriso divertito sul volto. «Quella è la vernice con cui impiastricciano il tuo
armadietto ogni settimana?» chiese.
Il ragazzo più giovane annuì lentamente, quasi che la sua
affermazione potesse provocare qualcosa di pericolosamente irreversibile.
«Beh, se ti può interessare, so a chi appartiene.»
Sherlock corrugò la fronte, spostando gli occhi sul volto
del capitano freneticamente, come a voler imprimersi nella mente ogni più piccolo
dettaglio.
«Anch’io.» disse infine,
l’espressione impassibile.
Molly si ritrovò a tirare un sospiro di sollievo, mentre la momentanea tensione che l’aveva attanagliata
in precedenza si affievoliva. Moriarty invece osservava Sherlock, serio in viso,
ticchettando ritmicamente con le dita sul piano da lavoro.
«In tal caso perdonami per il disturbo, vi lascio al vostro
lavoro.» Moriarty si alzò, scambiando una veloce occhiata
con Molly sotto lo sguardo vigile di Sherlock che non si perdeva un secondo di quella
strana scenetta.
«Ci vediamo più tardi tesoro.» lasciò un bacio umido sulla
guancia della ragazza e con un ultimo cenno del capo in segno di saluto sparì oltre
la porta.
Solo quando i suoi passi si furono affievoliti lungo il
corridoio Sherlock si azzardò a riportare la sua attenzione sull’oggetto
che aveva tra le mani, ragionando freneticamente. «Da quando in qua fai la cheerleader?»
Molly, che si stava avvicinando al ragazzo per cercare
di capire cosa voleva da lei, alle sue parole si fermò di botto con il cuore in
gola: se ne era accorto alla fine. «Da un po’… perché?»
Sherlock non le rispose, ponendole invece un’altra domanda.
«Perché?» spostò i suoi occhi cristallini su di lei e la fissò intensamente.
La ragazza parve insicura di quale risposta dare, poi si
fece coraggio e alzò il mento, fiera. «Perché mi andava. Volevo mettermi alla prova
e diventare qualcosa di più della semplice e timida Molly Hooper.»
Il moro portò le mani a congiungersi sotto il mento, pensieroso.
«E lui non c’entra niente con tutto questo?»
La ragazza vacillò sul posto mentre un colorito rossastro
andava ad imporporarle le guance. «Perché dovrebbe questo avere qualcosa a che fare con Jim?
È stata una mia decisione.» Guardò il compagno con aria
infastidita, poi spostò la sua attenzione sulla bomboletta spray. «E comunque non sono affari tuoi. Che cosa volevi che facessi?» rispose, tentando di deviare il discorso.
Sherlock tamburellò con le dita sul piano, come Moriarty
aveva fatto fino a qualche minuto prima, e sorrise delicatamente. Guardò prima l’orologio
che portava al polso, poi la porta, con aria sconsolata. «Da quanto tempo state
insieme?»
Molly esitò. «Qualche settimana.» Non voleva parlare di
questo con Sherlock. Per un anno intero gli era andata dietro, lo aveva guardato e ammirato
da lontano, lo aveva accontentato quando voleva solo per poterlo sentire un po’
più vicino a sé, per tentare un approccio con lui. Aveva avuto una cotta per lui
fin dal primo momento in cui lo aveva visto e, forse, quel sentimento di forte affetto
nei suoi confronti non se ne era ancora andato. Discutere con lui di Jim Moriarty,
il suo nuovo ragazzo, era troppo strano e in un certo senso imbarazzante; senza
contare che tra i due ragazzi non scorreva buon sangue.
Quando Sherlock guardò per l’ennesima volta la porta, qualche
secondo più tardi, Molly non poté fare a meno di portare il pensiero verso l’oggetto
della sua attenzione. Non era una ragazza stupida, capiva ciò che vedeva, sapeva
elaborare le informazioni e farsi una propria idea. Abbassò lo sguardo, sconfitta.
«Io… io lo so cosa si prova.»
Sherlock alzò lo sguardo sorpreso, interrompendo di colpo
il suo tamburellare. «Che cosa?»
La ragazza deglutì. «So… so
cosa si prova a sentirsi
soli.»
Il moro sollevò un sopracciglio e rimase in silenzio, in
attesa di qualcosa in più.
Molly distolse lo sguardo, lievemente imbarazzata. «Tu sei triste, quando… quando pensi che a lui non importi
niente di te.»
«Lui chi?»
Prese un respiro profondo. «John. Lo stai aspettando vero? Non fai altro che guardare
l’orologio. Hai paura che con Mary si sia dimenticato di te.»
Sherlock si sentì improvvisamente sprofondare mentre assimilava
le parole della compagna.
«Hai paura che non ti veda più, troppo occupato a pensare a lei. Io lo so, Sherlock.
Non dire di no, so che è così.» continuò; ora che aveva iniziato
sembrava che non riuscisse più a fermarsi.
«Per-perché?» si odiò per l’esitazione nella sua voce,
non avrebbe voluto dimostrarle che ciò che stava dicendo era vero. O almeno, lo
era? Di sicuro era vero che continuava a guardare l’orologio: John era in ritardo
di mezzora, gli aveva promesso che sarebbe arrivato non appena finita la scuola perché Mary aveva gli allenamenti da cheerleader
e non potevano stare insieme. Glielo aveva promesso,
John manteneva sempre le
sue promesse.
Eppure non era ancora arrivato e Sherlock non stava del
tutto bene per questo. Si sentiva molto strano, più del solito. Da quando aveva
conosciuto John qualcosa in lui era cambiato, se ne era accorto,
e ora quasi non riconosceva più alcuni aspetti di se stesso, come in quel momento.
Che cos’era quell’improvvisa voglia di uscire di
lì e andarlo a cercare? Certo,
aveva appena scoperto qualcosa di estremamente
interessante e voleva dirglielo,
ma fino a qualche mese prima non aveva avuto bisogno di dire niente a nessuno. Per
non parlare del fatto che il vecchio Sherlock non si sarebbe mai disturbato ad andare
a cercare qualcuno che sdegnava la sua compagnia. Fino a qualche mese prima non
aveva neanche avuto una compagnia.
«Perché è la stessa cosa che succede a me, sempre.» disse
Molly, decisa. «Lo vedo. Tu sei triste quando nessuno ti guarda.»
«Ma tu mi stai guardando…» Sherlock
puntò i suoi occhi chiari su di lei, confuso, e la ragazza parve un attimo rattristarsi.
«Io… io non conto. È diverso…» ammise.
Il ragazzo la fissò attentamente, come se il solo guardarla
potesse dargli tutte le risposte che cercava. «Perché lui dovrebbe contare, invece?»
Molly questa volta esitò. «Non lo so… io non posso saperlo. Dovresti dirmelo tu…» le ultime parole furono un mormorio indistinto.
Sherlock distolse lo sguardo, chiudendo gli occhi. Perché
John Watson sarebbe dovuto essere diverso?
«Forse… forse hai un certo tipo di rapporto con lui. Più… approfondito?» si morse un labbro, temendo di essersi spinta
troppo in là, ma Sherlock ripeté le sue parole sottovoce, senza guardarla.
«Perché Moriarty dovrebbe volere stare con te?» disse infine,
sotto lo sguardo attonito dell’altra.
«Cosa vorrebbe dire?»
Sherlock si alzò dallo sgabello e radunò le sue cose con
un’aria vagamente infastidita. «Esattamente quello che sembra.»
Molly strinse un pugno. «Forse perché mi trova carina? Forse perché
è l’unico ad avermi notato in tutto questo tempo?» Il risentimento si fece sentire attraverso le sue parole.
Il ragazzo si girò verso di lei, fermandosi per qualche
istante. «Moriarty non è il tuo tipo, decisamente. Ti consiglio apertamente di lasciarlo.»
«Che cosa? No!»
«E grazie della chiacchierata, ma non mi servi più. Ho già
trovato quello che cercavo…» disse, e uscì dalla stanza,
lasciando la ragazza sconvolta e irritata al suo posto.
~*~
Sherlock mise più piani possibili tra lui e il laboratorio,
camminando a tutta velocità per i corridoi senza una meta precisa. In testa gli
frullavano mille pensieri, più del solito: oggetti, indizi, luoghi, dialoghi e volti
si accavallavano uno sull’altro, impedendogli di concentrarsi. Voleva risolvere
troppe cose contemporaneamente ma in quel modo non faceva altro che più confusione.
Si fermò in mezzo al corridoio, chiuse gli occhi e portò
le dita alle tempie, respirando piano.
Suddivise ogni informazione nelle tre categorie più rilevanti,
separandole nettamente quando sembravano legarsi tra loro – a quello ci avrebbe
pensato dopo – quindi analizzò con cura le tre opzioni.
Controllò l’ora: John era in ritardo da più di mezzora
pertanto era certo che non sarebbe venuto. Ignorando quel qualcosa alla bocca dello
stomaco lo archiviò, insieme al laboratorio e al discorso con Molly, nella stanza
a piano terra del suo palazzo mentale, là dove teneva quelle cose che richiedevano
urgente attenzione.
Carl Powers. Il ragazzo era morto quasi sicuramente avvelenato,
qualcuno doveva averlo ucciso, ne era sicuro. Eppure continuava a pensare che c’era
qualcosa che gli sfuggiva. Aveva osservato a lungo intorno a sé in quei mesi dalla
sua morte, aveva guardato attentamente ogni studente che gli capitava sotto tiro ma non era mai riuscito a ricavare niente da tutto ciò.
Eppure…
Archiviò anche quell’argomento, chiudendolo in un cassetto
esattamente sotto all’altro, e si concentrò invece su quei pensieri che premevano
per uscire ed essere analizzati.
Jim Moriarty.
Il discorso avuto nel laboratorio non era stato per niente
casuale, Sherlock lo sapeva, e sapeva anche che quel ragazzo era pericoloso in un
modo o nell’altro. Ripensò alla bomboletta che aveva avuto tra le mani, alla vernice
gialla che aveva imbrattato numerose volte il suo armadietto personale, esponendo
scritte quali “sfigato”, “gay”, “verginello”, e un sacco di altri insulti. Aveva sempre pensato che l’autore dovesse essere
un giocatore della squadra dei Blackheath, nessuno sembrava volersi mettere in mostra
più di loro, ma, a dir la verità, il suo pensiero si era rivolto per
lo più verso i membri di spicco, quali Smith, Anderson e Moran – coloro che oltre
agli insulti aggiungevano anche molestie fisiche – e non aveva mai considerato veramente
quella possibilità.
Moriarty aveva un alibi perfetto: era uno degli studenti modello, era diligente in classe e partecipava a molti club extrascolastici
quale il Brainy, di cui era capo, insieme alla squadra di rugby. Non prendeva mai
parte a risse, non arrivava mai in ritardo, non mancava mai un giorno da scuola;
era lo studente perfetto, colui che era ammirato da tutti i professori e che aveva
ottime possibilità di essere eletto a migliore studente dell’anno. Nessuno faceva
caso a lui.
Eppure Sherlock fin dalla prima volta che lo aveva incontrato
aveva avuto un pensiero per lo più negativo nei suoi confronti, anche se non aveva
molte informazioni al riguardo. Quella era stata una delle rarissime volte che si
era affidato al suo intuito e non alle sue tanto amate deduzioni.
Aprì gli occhi e si appoggiò al muro, ripercorrendo nella
sua mente il discorso avuto poco prima. Moriarty sapeva che il suo armadietto era
continuamente impiastricciato, sapeva che il colore era sempre il giallo acceso,
sapeva che quella era la bomboletta usata dall’autore degli insulti. Non ci voleva
un genio per capire che l’unica spiegazione era che il ragazzo conosceva il suo
aggressore.
«Beh, se ti può interessare, so a chi appartiene.»
Oppure…
Si bloccò, spalancando gli occhi. Portò il palmo di una
delle mani a contatto con la parete liscia dietro di sé, aprì le dita e, flettendole,
cominciò a muoverle su e giù, battendole ritmicamente. No, non ritmicamente. Mignolo,
anulare, medio, indice, pollice. Cinque dita? Sì.
Si concentrò sui suoi ricordi, focalizzando il movimento della mani di Moriarty.
Mignolo, anulare, medio, indice, pollice, mignolo. Sei dita.
Pausa.
Mignolo, anulare, medio, indice. Quattro dita.
Pausa.
E così via.
Nel giro di qualche secondo riuscì a ricostruire il ritmo
delle dita di Moriarty e mezzo secondo dopo lo aveva già collegato al resto.
Il movimento era stato di cinque, sei, quattro e infine
sei dita. Aveva ripetuto la mossa esattamente tre volte, sicuramente
per assicurarsi che Sherlock riuscisse a memorizzarla. E l’unica cosa che poteva
essere ricollegata a quel codice, era la combinazione per aprire il suo armadietto.
Nel suo palazzo mentale si spalancò un cassetto, rivelando
il suo contenuto; i ricordi scivolarono fuori, s’ingarbugliarono tra loro fino ad unirsi, fino a creare un puzzle perfetto.
E Sherlock capì.
Spalancò gli occhi e con il cuore che gli batteva a mille
per l’eccitazione si precipitò lungo il corridoio,
correndo verso il piano superiore, salendo i gradini della scale a due a due fino
a quando non si ritrovò davanti al suo armadietto intonso, ansimante.
Con le dita che quasi gli tremavano per la felicità dell’aver
risolto il problema girò i numerini del codice fino a sentire lo scatto della serratura
che si apriva, e spalancò l’armadietto.
Fece scorrere lo sguardo all’interno di esso mentre un sorriso gli compariva sulle labbra nel vedere
un paio di scarpe da ginnastica, usate, da ragazzo, piazzate nel bel mezzo dello
spazio disponibile, ricavato accatastando i libri di testo tutt’intorno.
Tuttavia non fece in tempo a toccarle che dei passi leggeri
risuonarono per il corridoio deserto e una voce femminile lo richiamò all’attenzione.
«Sherlock!»
Il ragazzo si girò di scatto, chiudendo l’anta di metallo
dietro di sé come a voler nascondere la presenza delle scarpe, e fissò la cheerleader che si stava avvicinando. «Mary…»
La bionda si fermò con eleganza e lo osservò, torva. «Sherlock.»
ripeté, perentoria. «Dov’è John?»
Il moro, ancora col pensiero rivolto alla sua nuova scoperta,
rimase un attimo imbambolato a fissarla. «John? Non è con me…»
La ragazza sbuffò, seccata. «Possibile che debba sparire così nel nulla da un momento
all’altro? È da ore che lo cerco. Non c’è né al campo di rugby, né in biblioteca,
né al bar o alla mensa. Sarah non l’ha visto, Molly al laboratorio mi ha detto di
venire a cercare te, John ha detto che doveva venire da te questo pomeriggio. Possibile
che sia tornato a casa senza dirmi nulla? Aveva detto che saremmo andati al parco
più tardi…»
Improvvisamente la confusione che alleggiava nella sua
testa sparì del tutto e Sherlock si ritrovò a spalancare l’ennesimo cassetto, riversando
altri ricordi e strane sensazioni accumulati nel corso di quei mesi.
Con un colorito terreo in viso si voltò verso il proprio
armadietto, fissando come da molto lontano la propria mano ancora appoggiata sul
freddo metallo, mentre una nuova idea si faceva
strada nella sua mente.
Le sorprese non erano ancora finite.
Molly, il discorso in laboratorio con Moriarty, John in
ritardo per l’ennesima volta, la bomboletta, le scarpe miracolosamente ritrovate:
era tutto collegato.
Spalancò le labbra e gli occhi mentre tutto tornava al
suo posto e una paura cieca si faceva all’improvviso strada dentro di lui.
Carl Powers era morto nella piscina della scuola, solo
pochi mesi prima, e le scarpe che aveva
appena ritrovato erano le
sue. Non c’erano altre vie di scampo.
Cominciò a correre all’improvviso, facendo prendere un
colpo a Mary che lo osservò sparire dietro l’angolo con la sorpresa dipinta in volto,
prima che si decidesse a seguirlo, rincorrendolo per i corridoi deserti, chiamandolo
ad alta voce per farsi dare una spiegazione.
Ma Sherlock non aveva altri pensieri che John in quel momento,
e niente poteva distrarlo dal suo obiettivo.
Scese le scale saltando deliberatamente scalini anche cinque
alla volta, fino ad arrivare al piano interrato, dove sfrecciò attraverso le palestre
e gli spogliatoi, fino a precipitarsi contro le porte d’emergenza con i maniglioni
antipanico, spingendo con tutte le sue forze ed entrando come una furia sul pavimento
piastrellato della piscina.
Rimase fermo per qualche istante, ansimando, il cuore che
gli batteva a mille nel petto e il terrore che lo attraversava da capo a piedi.
Udì subito il rumore di acqua spostata, il suono degli
spruzzi e la flebile richiesta d’aiuto proveniente dal centro della piscina, dove
Sherlock andò immediatamente a posare gli occhi cristallini.
Non ci pensò due volte.
«JOHN!»
Con una spinta
di gambe si precipitò a bordo
piscina, si tolse le scarpe con un movimento veloce e, datosi lo slancio con le
braccia, si tuffò. Ruppe la superficie dell’acqua con un sonoro scroscio e cominciò
a muoversi agilmente, nuotando più veloce che poteva verso il centro piscina.
Mentre nell’edificio risuonava l’urlo terrorizzato di Mary,
Sherlock raggiunse l’amico che continuava a ricadere sotto la superficie, come se
non riuscisse a rimanere a galla. S’immerse totalmente e, evitando le braccia del
ragazzo che si agitavano freneticamente, gli cinse il busto con le proprie, spingendolo
verso l’alto.
Il ragazzo più grande boccheggiò, muovendo le gambe in
cerca di equilibrio, mentre Sherlock riaffiorava quel poco che gli permetteva di
respirare e, tenendo John con un braccio, cercava di trascinarlo verso il punto
da cui si era appena tuffato.
Con fatica riuscirono a raggiungere il bordo della piscina
e, con l’aiuto della ragazza, Sherlock riuscì ad
issare l’amico verso l’alto,
portandolo in salvo sul pavimento.
John si trascinò oltre il bordo camminando carponi e cominciò
a tossire, sputando acqua e inspirando quanta più aria poteva, mentre Mary ripeteva
senza fiato il suo nome come una lenta litania con l’orrore dipinto in volto.
Anche Sherlock uscì dall’acqua e raggiunse l’amico. «John! John!»
Il ragazzo interpellato si lasciò cadere a terra supino,
distrutto, e chiuse gli occhi, respirando piano.
Il moro gli si avvicinò e cominciò a sbottonargli la camicia
con l’intenzione di togliergliela per facilitargli la respirazione quando John spalancò
gli occhi e gli prese i polsi, allontanandoli con gentilezza. «Va… va tutto bene…» Aveva la voce roca per il troppo tossire e
Sherlock si lasciò convincere, notando però, da quella distanza, un piccolo foro
alla base del suo collo. Allungò una mano verso di esso e lo sfiorò con la punta
delle dita, poi poggiò l’altra mano sulla guancia del ragazzo per tenerlo fermo
e si avvicinò al forellino, osservandolo attentamente. «Che cos’è?»
Mary alzò lo sguardo verso Sherlock, terrorizzata. «Che
cosa?»
John si agitò, cercando di liberarsi dalla presa dell’amico,
e fece forza su un gomito per sollevarsi quel tanto che bastava per riuscire a parlare. «Non- non lo so.» si fermò, inspirando
una nuova boccata d’aria e deglutendo. «Mi hanno preso da dietro e mi hanno ficcato
qualcosa nel collo. Quando mi sono risvegliato, ero lì dentro.» Fece un cenno verso la piscina e chiuse gli
occhi per un improvviso giramento di testa.
«Chi? Chi è stato?» Mary si avvicinò e accarezzò
il volto del suo ragazzo con le lacrime agli occhi. «Chi potrebbe fare qualcosa del genere? Saresti potuto morire!
Oddio…»
Sherlock osservò come da molto lontano la coppia mentre
tentava inutilmente di rimettere ordine tra i propri pensieri. C’era qualcosa che
lo bloccava, qualcosa che gli impediva di fermarsi, concentrarsi e ragionare razionalmente.
«Sherlock.» Uscì come un rantolo dalle labbra di John,
ma bastò per attirare la sua attenzione.
«John…»
Un debole sorriso gli spuntò sulle labbra mentre respirava
a fondo per l’ennesima volta. «Grazie…»
Il ragazzo distolse lo sguardo e fece forza sulle braccia
per alzarsi, barcollando sul posto una volta tiratosi in piedi del tutto. Sentiva
la testa girargli, sicuramente per lo sforzo appena compiuto, ma c’era anche qualcos’altro.
«Dobbiamo dirlo a qualcuno. Cazzo John, mi hai fatto prendere un colpo…» Mary aiutò il ragazzo ad alzarsi e lo prese
per le spalle, evitando di abbracciarlo solo per non bagnarsi a sua volta. Lo baciò
velocemente sulle labbra con le mani che le tremavano per la paura. «Va tutto bene
Mary, sto bene ora.»
Sherlock tremava. Quando se ne rese conto sollevò le braccia e si guardò le mani: tremavano, incontrollabili,
e non era per il freddo. Barcollò un attimo sul posto mentre qualcosa di molto simile
al panico lo artigliava.
Ignorando i richiami di John si allontanò dal luogo, prima
con un’andatura lenta, poi sempre più velocemente, fino a correre, scivolando e
incespicando, diretto verso il primo bagno a portata di mano.
Spalancò la porta di quello dei maschi al primo piano e
si avvicinò con furia al lavandino, afferrando i bordi con forza e sporgendosi verso
lo specchio di fronte. Guardò attentamente il proprio riflesso, scrutando il proprio
volto alla ricerca di quegli indizi che gli avrebbero confermato i propri pensieri.
Esalò un debole respiro che andò ad appannare il vetro
per poi ritrarsi con sgomento e con le gambe che improvvisamente sembravano non
riuscire più a reggerlo in piedi. Indietreggiò fino alla porta di uno dei gabinetti,
appoggiandosi ad essa di schiena con tutto il suo peso e prendendosi
la testa tra le mani, passandosi le dita tra i capelli fradici. Respirò lentamente,
cercando di regolarizzare i battiti del proprio cuore, ma il ricordo
di ciò che aveva appena visto non fece altro che peggiorare la situazione.
Deglutì un paio di volte e si ostinò a concentrarsi sull’immagine
del suo volto nello specchio, il proprio volto
pallido e… gli occhi. Gli
occhi dicevano tutto, più del suo respiro e dei suoi battiti accelerati. Quegli
occhi chiari, quelle pupille dilatate.
Un brivido freddo lo
percorse dalla testa ai piedi
quando si rese conto di quello che stava realmente succedendo e, alzato ancora una
volta lo sguardo verso lo specchio, osservò il suo corpo magro scosso da tremiti
incontrollabili sotto gli abiti inzuppati e le proprie mani tremare visibilmente.
Con un gesto seccato si passò il dorso della mano sulla fronte, scacciando nervosamente
le gocce d’acqua che la imperlavano e imponendosi di tranquillizzarsi.
Proprio in quel momento la porta si spalancò un’altra volta
e John entrò nel bagno, guardandosi intorno con la preoccupazione dipinta in volto. «Sher…»
Quando lo vide appiattito lungo il legno ramato, i suoi
occhi si spalancarono e rimase fermo sul posto per qualche secondo, con una pila
di asciugamani in una mano. Ne aveva uno sulle spalle e si era tolto la camicia, probabilmente per evitare di inzuppare anche
quello.
Tentò un debole sorriso e gli si avvicinò lentamente, gli
asciugamani tesi in avanti come ad
invitarlo a prenderne uno.
«È meglio se ti spogli e ti copri o rischi di prenderti qualcosa… la squadra ha
degli abiti di ricambio che puoi mettere.»
Il moro si appiattì ancora di più alla porta dietro di
sé, guardando un punto fisso dello specchio davanti a lui pur di non guardarlo negli
occhi.
«Ehi…» la voce di John tradiva una nota di panico ma risuonava
calda e rassicurante, al che Sherlock chiuse gli occhi, poggiando la nuca contro
il suo sostegno e prendendo alcuni respiri profondi. Qualche secondo dopo la mano
di John strinse la sua e il suo tocco bruciò sulla sua pelle, tanto che si ritrovò
a spalancare le palpebre di colpo. Tuttavia non si staccò, nonostante il suo cuore
avesse cominciato a battere, se possibile, ancora più rapidamente.
«Ehi… guardami.»
Con il cuore in gola voltò di poco la testa, ritrovandosi
l’amico a poche decine di centimetri di distanza.
«Va tutto bene, ok? Sto bene…»
John guardava con una certa preoccupazione il suo migliore
amico: non lo aveva mai visto in uno stato del genere. Sherlock era sempre stato
quello sprizzante di energia, quello che andava dritto in faccia al pericolo senza
preoccuparsi delle conseguenze, quello che sembrava non avere paura di nulla e non
provare altre emozioni oltre all’eccitazione per qualcosa di elettrizzante. Gli
venne naturale prenderlo per mano, cercando di infondergli quel poco
di sicurezza e vicinanza che poteva. In fondo erano entrambi lì, salvi, e oltre
al grande spavento preso non c’era nient’altro a poterli turbare.
Tuttavia, nonostante tutte le sue buone intenzioni, Sherlock
sembrò diventare ancora più a disagio, arrossendo violentemente e voltando la testa
dall’altra parte.
«Sherlock, va tutto bene. Sei terrorizzato…»
«Non sono terrorizzato.» la voce gli uscì bassa, leggermente
roca, ma ferma.
«Va bene, non lo sei.» Sospirò e aprì uno degli asciugamani
portandolo poi dietro le sue spalle, coprendolo. Gli sbottonò la camicia, invitandolo
a togliersela, e Sherlock obbedì finendo il lavoro mentre John prendeva un altro
asciugamano e glielo metteva in testa, frizionando poi con le mani per asciugargli
almeno un po’ i capelli.
«Senti… va tutto bene, davvero. Del resto ci preoccuperemo dopo, ok? Ora va tutto bene, puoi tranquillizzarti.»
«Io…»
John deglutì e lo costrinse a guardarlo negli occhi. «Non dirmi che non sei spaventato, stai tremando come una
foglia. Prendi un paio di respiri profondi, ok? Siamo qui sani e salvi, entrambi,
non è successo niente, non mi è
successo niente. Sii razionale.»
Sherlock non poteva sopportare quella vicinanza, non poteva e cercò di divincolarsi dalla sua stretta ma John lo tenne
fermo davanti a sé, facendolo arrossire ancora di più.
«Lasciami… per favore…»
Una stretta allo stomaco mentre il giovane Watson coglieva
l’espressione disperata dell’amico e il tono lievemente lamentoso e spaventato che
aveva assunto la sua voce. «Che cos’hai?» chiese, smettendo di strofinargli l’asciugamano
in testa e mantenendo il suo sguardo.
Sherlock fu scosso da un leggero tremore mentre percorreva
con gli occhi la bocca dai lineamenti morbidi che si era appena mossa a pochi centimetri
di distanza da lui. Provò un’improvvisa e irresistibile voglia di allungarsi e toccare
quelle labbra dolci e accoglienti, di sfiorarle con un dito per saggiarne la consistenza,
di toccarle con le proprie e…
Si riscosse alla presa leggermente più forte delle sue
dita, accorgendosi di non aver ascoltato una sola parola di quello che l’altro aveva
detto nel frattempo.
«…è normale che tu ti sia spaventato, hai solo avuto paura per me. Ma ora è tutto a posto, ok? Sherlock?»
Il moro boccheggiò in cerca d’aria e tentò di allontanarlo
da se stesso. Prese un altro paio di respiri profondi, cercando di non pensare a
come potesse essere baciare John, a come si sarebbe sentito se l’altro avesse ricambiato,
a che cos’era quell’ondata di calore che gli lambiva il petto e il volto e che aumentava
improvvisamente la sua sudorazione corporea. «Non… Non sono spaventato.»
Il ragazzo più grande sorrise cordialmente. «Va bene, non lo sei. Allora cosa?»
Sherlock scosse la testa, passandosi la lingua sulle labbra
e chiudendo nuovamente gli occhi. «I-io…»
«Uhm…?»
Tenendo gli occhi serrati si costrinse a parlare. «Ho…»
deglutì, non sapendo come spiegarsi.
Non voleva dirgli quello che stava provando in quel momento,
non voleva ma allo stesso tempo avrebbe voluto
che John capisse e che si
staccasse, che lo lasciasse solo con i propri pensieri e con quelle emozioni che
sembravano essere improvvisamente impazzite.
«Sherlock, cosa c’è? Dimmelo, vedrai che andrà meglio… posso aiutarti.»
Ebbe un tuffo al cuore e si rese conto che le gambe avrebbero
potuto benissimo cedergli da un momento all’altro. Riaprì gli occhi, tentato, e
fissò quegli occhi blu che lo guardavano sinceri
e apprensivi, quegli occhi che lasciavano intravvedere una devozione e un’amicizia
profonda. John voleva veramente aiutarlo, lo aveva seguito nel bagno perché aveva
temuto per la sua reazione, quando era fuggito dalla piscina di colpo, senza una
parola o una spiegazione.
Sherlock ricordò il contatto tra la guancia di John e il
palmo della sua mano, la sensazione di quella pelle liscia e compatta, la carezza
che involontariamente gli aveva dato per fargli tenere ferma la testa. Ricordò i
suoi occhi spaventati e lievemente appannati dalla droga che avevano usato per addormentarlo,
il sollievo che gli aveva disteso i muscoli del volto nel vederlo sopra di lui,
come se la sola vista di Sherlock avesse potuto rassicurarlo sulla sua sorte. Il
moro si sentì vagamente girare la testa mentre la sua mente non sembrava far altro
che regalargli il ricordo di tutte quelle volte in cui era entrato in contatto con
John, un lieve sfregamento di mani o anche soltanto un fugace sguardo nella mensa.
Possibile che quello che sentiva nei suoi confronti fosse più che semplice amicizia?
Sherlock non aveva mai provato niente di simile in vita sua, non aveva altro con
cui paragonare la sua situazione e cominciava quasi ad averne paura.
Avrebbe voluto lasciar
perdere tutto quello che sentiva dentro di sé, avrebbe voluto affidarsi alla sua tanto
amata ferrea logica e poterci ragionare su con calma, ma non poteva dimenticare
le sue pupille dilatate, il suo battito cardiaco accelerato. Il suo poteva benissimo
essere un sintomo di paura, ma non aveva mai provato un terrore così radicale, per
niente: evidentemente solo John era riuscito a farlo preoccupare a tal punto da
arrivare al bagno in quello stato. Lo stesso John che ora lo teneva fermo, attaccato
a una porta, a pochi centimetri di distanza dal suo viso.
John osservava Sherlock, passando lo sguardo su quel volto
bagnato, sul colorito pallido della sua fronte. Sentiva il corpo gracile dell’amico
sotto le sue dita tremare lievemente e vedeva con chiarezza il disagio sul suo volto,
ma non riusciva a capirne il perché. Lui era sano e salvo, non gli era successo
niente di grave e Sherlock non avrebbe dovuto perdere il controllo per una sciocchezza
del genere. Che cosa gli stava succedendo?
«John…» Quello di Sherlock fu solo un debole sussurro che
colpì John proprio per il suo tono basso e quasi stanco.
«Sì?» Il ragazzo deglutì a forza mentre qualcosa gli si
agitava nel profondo.
«I-io…» Gli occhi di Sherlock vagarono freneticamente
sul viso dell’altro, in cerca di una rassicurazione che non riusciva a trovare.
Si concentrò sul tocco di John sulla sua nuca, del calore che sentiva nella vicinanza
con il suo corpo.
Aprì nuovamente le labbra per parlare ma dalla gola non
uscì alcun suono.
E poi, avvenne.
Successe tutto nel giro di pochi secondi e in seguito Sherlock
sarebbe riuscito a ricordarli precisamente in ogni loro millesimo.
In quell’istante ogni più piccolo pensiero che vorticava
nella testa del giovane sembrò sparire, ogni porta del suo palazzo mentale si chiuse
di scatto, ogni possibilità di controllo sembrò sparire in una bolla di sapone.
Un attimo prima era attaccato alla porta, spaventato e
insicuro, un attimo dopo si era spinto in avanti, annullando ogni distanza, occupando
l’aria fra loro, ricercando un contatto che non aveva mai avuto ma che in quel momento
sembrava desiderare con tutto se stesso.
Le labbra dei due ragazzi si scontrarono dolcemente.
Sherlock sentì un brivido percorrerlo da capo a piedi,
sentì il calore delle labbra dell’altro sulle sue e qualcosa partire dal suo petto
e irradiarsi per tutto il resto del corpo. Più che la sensazione del bacio in sé,
Sherlock riuscì a focalizzare la sensazione di essere lì, di starlo facendo, di
star baciando John. Era lui il suo unico problema, era lui che, con la sua presenza,
faceva in modo che fosse speciale. In seguito Sherlock avrebbe capito che con nessun
altro una cosa del genere avrebbe potuto funzionare.
John, del canto suo, colse appena il movimento improvviso
dell’amico e ne rimase a dir poco sorpreso. Un attimo prima lo stava guardando,
un attimo dopo lo aveva praticamente addosso.
Il suo cuore perse un battito non appena le labbra di Sherlock
si posarono sulle sue e, nella momentanea sorpresa, John non riuscì a far altro
che spalancare gli occhi e rimanere immobile. Sentì le labbra dell’amico premere
contro le sue e tutto quello cui riuscì a pensare fu a che cosa diavolo stesse succedendo.
Rimase bloccato sul posto, incapace di fare alcun che, lasciando che le loro labbra
rimanessero a contatto, in un bacio che era solo un lieve tocco, una morbida carezza.
Non era niente, ma nel frattempo era tutto.
Rimasero nella stessa posizione per qualche secondo, poi
John sembrò riscuotersi improvvisamente e con una lieve spinta delle mani allontanò Sherlock da sé, lo spinse verso la
porta con poca gentilezza e fece un passo indietro.
Il moro sbatté lievemente la testa contro il legno, annaspando
per l’improvviso spostamento d’aria e sentendo tutto il calore del corpo di John
svanire in un attimo, lasciandolo preda di un’aria che non gli era mai sembrata
più fredda.
Rimasero a fissarsi immobili, Sherlock che realizzava improvvisante
le conseguenze delle sue azioni e John che sentiva il proprio corpo irrigidirsi,
quasi che temesse una nuova mossa poco desiderata dell’altro.
Il giovane Watson si vide passare davanti mesi e mesi d’insulti, di occhiate, di sguardi distolti all’ultimo
secondo, di momenti d’imbarazzo e di parole, discorsi, dicerie. Lui che aveva fatto
di tutto perché Sherlock potesse non essere più preso in giro, lui che aveva pensato
che tutto dovesse essere solo un pensiero distorto di persone che non riuscivano
a capire e comprendere a fondo il suo amico. Lui che aveva fatto di tutto per Sherlock,
che lo aveva aiutato, che gli aveva tenuto compagnia, che gli era stato affianco nonostante quello che gli gridavano
dietro. Sentì qualcosa di molto simile alla rabbia salirgli addosso mentre realizzava
quanto appena successo.
Sherlock lo aveva baciato.
Lui, un ragazzo, era stato baciato da un altro ragazzo.
Sherlock, a dispetto di tutto quello che aveva creduto
in quei mesi, era gay. Era attratto da lui.
In seguito ci avrebbe pensato, avrebbe indugiato su quel
particolare momento della sua vita, avrebbe capito molte cose e non ne avrebbe capite
altre, ma in quel momento tutto quello che riuscì a fare fu compiere alcuni passi
indietro, allontanarsi dal suo amico e raggiungere la porta.
Sherlock spalancò la bocca in un muto richiamo, il volto
improvvisamente pallido, ma prima che potesse dire qualcosa, John si era già girato
ed era sparito nel corridoio.
La porta si richiuse con un sonoro schiocco e Sherlock
scivolò lungo la porta, fino a sedersi a terra, tremante, più confuso che mai.
E lì rimase.
Note:
5646. Nella tastiera di un cellulare il codice di apertura
dell’armadietto di Sherlock corrisponde alle lettere J O H N.
*corre via più veloce della luce*