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Autore: Gageta    10/03/2014    9 recensioni
John frequenta il liceo Barts: è al suo ultimo anno e tutto sommato le cose vanno bene. Ci sono gli ultimi mesi di duro studio, l'imminente scelta per il proprio futuro, c'è la squadra di rugby e tante ultime feste a cui partecipare, ragazze al suo seguito che uscirebbero volentieri con lui e una in particolare, Mary, con la quale farebbe di tutto pur di avere un appuntamento.
John ha sempre avuto le idee chiare: gli uomini si invaghiscono delle donne, chiedono loro un appuntamento, si innamorano e le sposano. Una cosa elementare, naturale.
John è sempre stato certo di questo, ma poi incontra Sherlock Holmes, e tutto ad un tratto non è più sicuro di nulla.
[teen!lock, Johnlock!AU]
Genere: Fluff, Introspettivo, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het, Slash | Personaggi: John Watson, Quasi tutti, Sherlock Holmes
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Finalmente ci siamo.

Aspetto di pubblicare questo capitolo fin dall’inizio della storia ;)

Abbiamo superato la metà, quindi allacciatevi le cinture perché la strada che ci manca di qui fino alla fine si fa bella tosta.

Se non dovesse tornarvi qualcosa con la caratterizzazione dei personaggi (consiglio di lalla mia straordinaria beta <3 ) vi chiederei di avere pazienza, molte cose verranno spiegate in seguito e può darsi che i dubbi si risolveranno da sé…

Il prossimo capitolo, giusto per farvi sapere, è a metà. Potrebbe volerci una settimana piena per finirlo e poi un po’ per betarlo.

E ora non vi trattengo oltre ;)

Buona lettura!

 

 

 

 

Orgoglio e Pregiudizio

Capitolo 6

 

U

n pomeriggio, pochi giorni dopo aver ritrovato la bomboletta spray vuota, Sherlock era seduto al suo solito posto nel laboratorio, in attesa di John  - che sarebbe venuto, glielo aveva promesso – e di Molly Hooper.

Il ragazzo aveva chiesto il suo aiuto per alcune operazioni che voleva svolgere su di essa: aveva la netta impressione che quella bomboletta non fosse stata lasciata lì per sbaglio. Era intenzionato a scoprirne il proprietario e non si sarebbe arreso tanto facilmente. Molly poteva dargli una mano con quella che era una semplice scatola di latta: potevano ricavare molte informazioni da essa, bastava un’occhiata più approfondita e, Sherlock ne era certo, sarebbe arrivato vicinissimo alla soluzione.

C’era qualcosa, in tutta quella storia, che non gli tornava.

I suoi pensieri furono interrotti dal rumore della porta che si apriva. Alzò lo sguardo, speranzoso, e quando vide entrare Molly qualcosa lo lasciò a bocca asciutta, anche se non avrebbe saputo dire esattamente cosa.

Con sua grande sorpresa vide la ragazza tenere la porta aperta dietro di sé, ma le sue speranze vennero doppiamente deluse nel vedere che il nuovo ospite non era colui che si aspettava. Girò la testa, infastidito, mentre Moriarty si guardava intorno con aria incuriosita.

«Allora alla fine ti sei messa d’accordo con Mary?» chiese il ragazzo, mentre Molly si toglieva la giacca e appoggiava lo zaino sul lungo tavolo. «Sì…»

Sherlock, che al nome pronunciato dal ragazzo si era fatto improvvisamente più attento, li osservò con la coda dell’occhio.

Jim era a poca distanza dalla ragazza e la osservava con una strana espressione negli occhi, quasi innamorata. Molly si girò verso di lui e gli sorrise timidamente, poco prima che Moriarty la tirasse verso di sé, depositandole un bacio veloce sulle labbra.

Sherlock distolse velocemente lo sguardo, tornando ad osservare con attenzione la bombolette sul tavolo davanti a lui.

«E così, Sherlock Holmes, eccoti qua. Molly mi ha parlato molto di te…» Jim gli si avvicinò con aria noncurante, prestando particolare attenzione all’oggetto che teneva tra le mani. «Alla fine non sei più venuto al Brainy…»

Sherlock fece una smorfia, scuotendo la testa. «Non m’interessa.» ribatté freddamente.

L’altro parve non ascoltarlo mentre anche lui prendeva uno sgabello e si sedeva dall’altra parte del tavolo, sotto lo sguardo stupito e attento di Molly, che non lo perse di vista neanche per un secondo.

«Che cos’è quella?»

La ragazza spostò gli occhi da uno all’altro, temendo la reazione del moro. Sapeva che tra i due non scorreva buon sangue, lo aveva sempre notato dalle espressioni infastidite di Sherlock ogni volta che incrociava il capitano del Brainy nei corridoi, e sinceramente non riusciva a capire per quale motivo Jim ci tenesse tanto a scambiare due parole con lui.

Sherlock si passò la lingua tra i denti e non rispose, limitandosi a guardare il ragazzo più grande negli occhi, intensamente. Rimasero in quella posizione per qualche secondo, poi Moriarty distolse lo sguardo con un sorriso divertito sul volto. «Quella è la vernice con cui impiastricciano il tuo armadietto ogni settimana?» chiese.

Il ragazzo più giovane annuì lentamente, quasi che la sua affermazione potesse provocare qualcosa di pericolosamente irreversibile.

«Beh, se ti può interessare, so a chi appartiene.»

Sherlock corrugò la fronte, spostando gli occhi sul volto del capitano freneticamente, come a voler imprimersi nella mente ogni più piccolo dettaglio.

«Anch’io.» disse infine, l’espressione impassibile.

Molly si ritrovò a tirare un sospiro di sollievo, mentre la momentanea tensione che l’aveva attanagliata in precedenza si affievoliva. Moriarty invece osservava Sherlock, serio in viso, ticchettando ritmicamente con le dita sul piano da lavoro.

«In tal caso perdonami per il disturbo, vi lascio al vostro lavoro.» Moriarty si alzò, scambiando una veloce occhiata con Molly sotto lo sguardo vigile di Sherlock che non si perdeva un secondo di quella strana scenetta.

«Ci vediamo più tardi tesoro.» lasciò un bacio umido sulla guancia della ragazza e con un ultimo cenno del capo in segno di saluto sparì oltre la porta.

Solo quando i suoi passi si furono affievoliti lungo il corridoio Sherlock si azzardò a riportare la sua attenzione sull’oggetto che aveva tra le mani, ragionando freneticamente. «Da quando in qua fai la cheerleader

Molly, che si stava avvicinando al ragazzo per cercare di capire cosa voleva da lei, alle sue parole si fermò di botto con il cuore in gola: se ne era accorto alla fine. «Da un po’… perché?»

Sherlock non le rispose, ponendole invece un’altra domanda. «Perché?» spostò i suoi occhi cristallini su di lei e la fissò intensamente.

La ragazza parve insicura di quale risposta dare, poi si fece coraggio e alzò il mento, fiera. «Perché mi andava. Volevo mettermi alla prova e diventare qualcosa di più della semplice e timida Molly Hooper.»

Il moro portò le mani a congiungersi sotto il mento, pensieroso. «E lui non c’entra niente con tutto questo?»

La ragazza vacillò sul posto mentre un colorito rossastro andava ad imporporarle le guance. «Perché dovrebbe questo avere qualcosa a che fare con Jim? È stata una mia decisione.» Guardò il compagno con aria infastidita, poi spostò la sua attenzione sulla bomboletta spray. «E comunque non sono affari tuoi. Che cosa volevi che facessi?» rispose, tentando di deviare il discorso.

Sherlock tamburellò con le dita sul piano, come Moriarty aveva fatto fino a qualche minuto prima, e sorrise delicatamente. Guardò prima l’orologio che portava al polso, poi la porta, con aria sconsolata. «Da quanto tempo state insieme?»

Molly esitò. «Qualche settimana.» Non voleva parlare di questo con Sherlock. Per un anno intero gli era andata dietro, lo aveva guardato e ammirato da lontano, lo aveva accontentato quando voleva solo per poterlo sentire un po’ più vicino a sé, per tentare un approccio con lui. Aveva avuto una cotta per lui fin dal primo momento in cui lo aveva visto e, forse, quel sentimento di forte affetto nei suoi confronti non se ne era ancora andato. Discutere con lui di Jim Moriarty, il suo nuovo ragazzo, era troppo strano e in un certo senso imbarazzante; senza contare che tra i due ragazzi non scorreva buon sangue.

Quando Sherlock guardò per l’ennesima volta la porta, qualche secondo più tardi, Molly non poté fare a meno di portare il pensiero verso l’oggetto della sua attenzione. Non era una ragazza stupida, capiva ciò che vedeva, sapeva elaborare le informazioni e farsi una propria idea. Abbassò lo sguardo, sconfitta.

«Io… io lo so cosa si prova.»

Sherlock alzò lo sguardo sorpreso, interrompendo di colpo il suo tamburellare. «Che cosa?»

La ragazza deglutì. «So… so cosa si prova a sentirsi soli.»

Il moro sollevò un sopracciglio e rimase in silenzio, in attesa di qualcosa in più.

Molly distolse lo sguardo, lievemente imbarazzata. «Tu sei triste, quando… quando pensi che a lui non importi niente di te.»

«Lui chi?»

Prese un respiro profondo. «John. Lo stai aspettando vero? Non fai altro che guardare l’orologio. Hai paura che con Mary si sia dimenticato di te.»

Sherlock si sentì improvvisamente sprofondare mentre assimilava le parole della compagna.

«Hai paura che non ti veda più, troppo occupato a pensare a lei. Io lo so, Sherlock. Non dire di no, so che è così.» continuò; ora che aveva iniziato sembrava che non riuscisse più a fermarsi.

«Per-perché?» si odiò per l’esitazione nella sua voce, non avrebbe voluto dimostrarle che ciò che stava dicendo era vero. O almeno, lo era? Di sicuro era vero che continuava a guardare l’orologio: John era in ritardo di mezzora, gli aveva promesso che sarebbe arrivato non appena finita la scuola perché Mary aveva gli allenamenti da cheerleader e non potevano stare insieme. Glielo aveva promesso, John manteneva sempre le sue promesse.

Eppure non era ancora arrivato e Sherlock non stava del tutto bene per questo. Si sentiva molto strano, più del solito. Da quando aveva conosciuto John qualcosa in lui era cambiato, se ne era accorto, e ora quasi non riconosceva più alcuni aspetti di se stesso, come in quel momento. Che cos’era quell’improvvisa voglia di uscire di lì e andarlo a cercare? Certo, aveva appena scoperto qualcosa di estremamente interessante e voleva dirglielo, ma fino a qualche mese prima non aveva avuto bisogno di dire niente a nessuno. Per non parlare del fatto che il vecchio Sherlock non si sarebbe mai disturbato ad andare a cercare qualcuno che sdegnava la sua compagnia. Fino a qualche mese prima non aveva neanche avuto una compagnia.

«Perché è la stessa cosa che succede a me, sempre.» disse Molly, decisa. «Lo vedo. Tu sei triste quando nessuno ti guarda.»

«Ma tu mi stai guardando…» Sherlock puntò i suoi occhi chiari su di lei, confuso, e la ragazza parve un attimo rattristarsi.

«Io… io non conto. È diverso…» ammise.

Il ragazzo la fissò attentamente, come se il solo guardarla potesse dargli tutte le risposte che cercava. «Perché lui dovrebbe contare, invece?»

Molly questa volta esitò. «Non lo so… io non posso saperlo. Dovresti dirmelo tu…» le ultime parole furono un mormorio indistinto.

Sherlock distolse lo sguardo, chiudendo gli occhi. Perché John Watson sarebbe dovuto essere diverso?

«Forse… forse hai un certo tipo di rapporto con lui. Più… approfondito?» si morse un labbro, temendo di essersi spinta troppo in là, ma Sherlock ripeté le sue parole sottovoce, senza guardarla.

«Perché Moriarty dovrebbe volere stare con te?» disse infine, sotto lo sguardo attonito dell’altra.

«Cosa vorrebbe dire?»

Sherlock si alzò dallo sgabello e radunò le sue cose con un’aria vagamente infastidita. «Esattamente quello che sembra.»

Molly strinse un pugno. «Forse perché mi trova carina? Forse perché è l’unico ad avermi notato in tutto questo tempo?» Il risentimento si fece sentire attraverso le sue parole.

Il ragazzo si girò verso di lei, fermandosi per qualche istante. «Moriarty non è il tuo tipo, decisamente. Ti consiglio apertamente di lasciarlo.»

«Che cosa? No!»

«E grazie della chiacchierata, ma non mi servi più. Ho già trovato quello che cercavo…» disse, e uscì dalla stanza, lasciando la ragazza sconvolta e irritata al suo posto.

~*~

Sherlock mise più piani possibili tra lui e il laboratorio, camminando a tutta velocità per i corridoi senza una meta precisa. In testa gli frullavano mille pensieri, più del solito: oggetti, indizi, luoghi, dialoghi e volti si accavallavano uno sull’altro, impedendogli di concentrarsi. Voleva risolvere troppe cose contemporaneamente ma in quel modo non faceva altro che più confusione.

Si fermò in mezzo al corridoio, chiuse gli occhi e portò le dita alle tempie, respirando piano.

Suddivise ogni informazione nelle tre categorie più rilevanti, separandole nettamente quando sembravano legarsi tra loro – a quello ci avrebbe pensato dopo – quindi analizzò con cura le tre opzioni.

Controllò l’ora: John era in ritardo da più di mezzora pertanto era certo che non sarebbe venuto. Ignorando quel qualcosa alla bocca dello stomaco lo archiviò, insieme al laboratorio e al discorso con Molly, nella stanza a piano terra del suo palazzo mentale, là dove teneva quelle cose che richiedevano urgente attenzione.

Carl Powers. Il ragazzo era morto quasi sicuramente avvelenato, qualcuno doveva averlo ucciso, ne era sicuro. Eppure continuava a pensare che c’era qualcosa che gli sfuggiva. Aveva osservato a lungo intorno a sé in quei mesi dalla sua morte, aveva guardato attentamente ogni studente che gli capitava sotto tiro ma non era mai riuscito a ricavare niente da tutto ciò. Eppure…

Archiviò anche quell’argomento, chiudendolo in un cassetto esattamente sotto all’altro, e si concentrò invece su quei pensieri che premevano per uscire ed essere analizzati.

Jim Moriarty.

Il discorso avuto nel laboratorio non era stato per niente casuale, Sherlock lo sapeva, e sapeva anche che quel ragazzo era pericoloso in un modo o nell’altro. Ripensò alla bomboletta che aveva avuto tra le mani, alla vernice gialla che aveva imbrattato numerose volte il suo armadietto personale, esponendo scritte quali “sfigato”, “gay”, “verginello”, e un sacco di altri insulti. Aveva sempre pensato che l’autore dovesse essere un giocatore della squadra dei Blackheath, nessuno sembrava volersi mettere in mostra più di loro, ma, a dir la verità, il suo pensiero si era rivolto per lo più verso i membri di spicco, quali Smith, Anderson e Moran – coloro che oltre agli insulti aggiungevano anche molestie fisiche – e non aveva mai considerato veramente quella possibilità.

Moriarty aveva un alibi perfetto: era uno degli studenti modello, era diligente in classe e partecipava a molti club extrascolastici quale il Brainy, di cui era capo, insieme alla squadra di rugby. Non prendeva mai parte a risse, non arrivava mai in ritardo, non mancava mai un giorno da scuola; era lo studente perfetto, colui che era ammirato da tutti i professori e che aveva ottime possibilità di essere eletto a migliore studente dell’anno. Nessuno faceva caso a lui.

Eppure Sherlock fin dalla prima volta che lo aveva incontrato aveva avuto un pensiero per lo più negativo nei suoi confronti, anche se non aveva molte informazioni al riguardo. Quella era stata una delle rarissime volte che si era affidato al suo intuito e non alle sue tanto amate deduzioni.

Aprì gli occhi e si appoggiò al muro, ripercorrendo nella sua mente il discorso avuto poco prima. Moriarty sapeva che il suo armadietto era continuamente impiastricciato, sapeva che il colore era sempre il giallo acceso, sapeva che quella era la bomboletta usata dall’autore degli insulti. Non ci voleva un genio per capire che l’unica spiegazione era che il ragazzo conosceva il suo aggressore.

«Beh, se ti può interessare, so a chi appartiene.»

Oppure…

Si bloccò, spalancando gli occhi. Portò il palmo di una delle mani a contatto con la parete liscia dietro di sé, aprì le dita e, flettendole, cominciò a muoverle su e giù, battendole ritmicamente. No, non ritmicamente. Mignolo, anulare, medio, indice, pollice. Cinque dita? Sì.

Si concentrò sui suoi ricordi, focalizzando il movimento della mani di Moriarty.

Mignolo, anulare, medio, indice, pollice, mignolo. Sei dita.

Pausa.

Mignolo, anulare, medio, indice. Quattro dita.

Pausa.

E così via.

Nel giro di qualche secondo riuscì a ricostruire il ritmo delle dita di Moriarty e mezzo secondo dopo lo aveva già collegato al resto.

Il movimento era stato di cinque, sei, quattro e infine sei dita. Aveva ripetuto la mossa esattamente tre volte, sicuramente per assicurarsi che Sherlock riuscisse a memorizzarla. E l’unica cosa che poteva essere ricollegata a quel codice, era la combinazione per aprire il suo armadietto.

Nel suo palazzo mentale si spalancò un cassetto, rivelando il suo contenuto; i ricordi scivolarono fuori, s’ingarbugliarono tra loro fino ad unirsi, fino a creare un puzzle perfetto.

E Sherlock capì.

Spalancò gli occhi e con il cuore che gli batteva a mille per l’eccitazione si precipitò lungo il corridoio, correndo verso il piano superiore, salendo i gradini della scale a due a due fino a quando non si ritrovò davanti al suo armadietto intonso, ansimante.

Con le dita che quasi gli tremavano per la felicità dell’aver risolto il problema girò i numerini del codice fino a sentire lo scatto della serratura che si apriva, e spalancò l’armadietto.

Fece scorrere lo sguardo all’interno di esso mentre un sorriso gli compariva sulle labbra nel vedere un paio di scarpe da ginnastica, usate, da ragazzo, piazzate nel bel mezzo dello spazio disponibile, ricavato accatastando i libri di testo tutt’intorno.

Tuttavia non fece in tempo a toccarle che dei passi leggeri risuonarono per il corridoio deserto e una voce femminile lo richiamò all’attenzione. «Sherlock!»

Il ragazzo si girò di scatto, chiudendo l’anta di metallo dietro di sé come a voler nascondere la presenza delle scarpe, e fissò la cheerleader che si stava avvicinando. «Mary…»

La bionda si fermò con eleganza e lo osservò, torva. «Sherlock.» ripeté, perentoria. «Dov’è John?»

Il moro, ancora col pensiero rivolto alla sua nuova scoperta, rimase un attimo imbambolato a fissarla. «John? Non è con me…»

La ragazza sbuffò, seccata. «Possibile che debba sparire così nel nulla da un momento all’altro? È da ore che lo cerco. Non c’è né al campo di rugby, né in biblioteca, né al bar o alla mensa. Sarah non l’ha visto, Molly al laboratorio mi ha detto di venire a cercare te, John ha detto che doveva venire da te questo pomeriggio. Possibile che sia tornato a casa senza dirmi nulla? Aveva detto che saremmo andati al parco più tardi…»

Improvvisamente la confusione che alleggiava nella sua testa sparì del tutto e Sherlock si ritrovò a spalancare l’ennesimo cassetto, riversando altri ricordi e strane sensazioni accumulati nel corso di quei mesi.

Con un colorito terreo in viso si voltò verso il proprio armadietto, fissando come da molto lontano la propria mano ancora appoggiata sul freddo metallo, mentre una nuova idea si faceva strada nella sua mente.

Le sorprese non erano ancora finite.

Molly, il discorso in laboratorio con Moriarty, John in ritardo per l’ennesima volta, la bomboletta, le scarpe miracolosamente ritrovate: era tutto collegato.

Spalancò le labbra e gli occhi mentre tutto tornava al suo posto e una paura cieca si faceva all’improvviso strada dentro di lui.

Carl Powers era morto nella piscina della scuola, solo pochi mesi prima, e le scarpe che aveva appena ritrovato erano le sue. Non c’erano altre vie di scampo.

Cominciò a correre all’improvviso, facendo prendere un colpo a Mary che lo osservò sparire dietro l’angolo con la sorpresa dipinta in volto, prima che si decidesse a seguirlo, rincorrendolo per i corridoi deserti, chiamandolo ad alta voce per farsi dare una spiegazione.

Ma Sherlock non aveva altri pensieri che John in quel momento, e niente poteva distrarlo dal suo obiettivo.

Scese le scale saltando deliberatamente scalini anche cinque alla volta, fino ad arrivare al piano interrato, dove sfrecciò attraverso le palestre e gli spogliatoi, fino a precipitarsi contro le porte d’emergenza con i maniglioni antipanico, spingendo con tutte le sue forze ed entrando come una furia sul pavimento piastrellato della piscina.

Rimase fermo per qualche istante, ansimando, il cuore che gli batteva a mille nel petto e il terrore che lo attraversava da capo a piedi.

Udì subito il rumore di acqua spostata, il suono degli spruzzi e la flebile richiesta d’aiuto proveniente dal centro della piscina, dove Sherlock andò immediatamente a posare gli occhi cristallini.

Non ci pensò due volte.

«JOHN!»

Con una spinta di gambe si precipitò a bordo piscina, si tolse le scarpe con un movimento veloce e, datosi lo slancio con le braccia, si tuffò. Ruppe la superficie dell’acqua con un sonoro scroscio e cominciò a muoversi agilmente, nuotando più veloce che poteva verso il centro piscina.

Mentre nell’edificio risuonava l’urlo terrorizzato di Mary, Sherlock raggiunse l’amico che continuava a ricadere sotto la superficie, come se non riuscisse a rimanere a galla. S’immerse totalmente e, evitando le braccia del ragazzo che si agitavano freneticamente, gli cinse il busto con le proprie, spingendolo verso l’alto.

Il ragazzo più grande boccheggiò, muovendo le gambe in cerca di equilibrio, mentre Sherlock riaffiorava quel poco che gli permetteva di respirare e, tenendo John con un braccio, cercava di trascinarlo verso il punto da cui si era appena tuffato.

Con fatica riuscirono a raggiungere il bordo della piscina e, con l’aiuto della ragazza, Sherlock riuscì ad issare l’amico verso l’alto, portandolo in salvo sul pavimento.

John si trascinò oltre il bordo camminando carponi e cominciò a tossire, sputando acqua e inspirando quanta più aria poteva, mentre Mary ripeteva senza fiato il suo nome come una lenta litania con l’orrore dipinto in volto.

Anche Sherlock uscì dall’acqua e raggiunse l’amico. «John! John!»

Il ragazzo interpellato si lasciò cadere a terra supino, distrutto, e chiuse gli occhi, respirando piano.

Il moro gli si avvicinò e cominciò a sbottonargli la camicia con l’intenzione di togliergliela per facilitargli la respirazione quando John spalancò gli occhi e gli prese i polsi, allontanandoli con gentilezza. «Va… va tutto bene…» Aveva la voce roca per il troppo tossire e Sherlock si lasciò convincere, notando però, da quella distanza, un piccolo foro alla base del suo collo. Allungò una mano verso di esso e lo sfiorò con la punta delle dita, poi poggiò l’altra mano sulla guancia del ragazzo per tenerlo fermo e si avvicinò al forellino, osservandolo attentamente. «Che cos’è?»

Mary alzò lo sguardo verso Sherlock, terrorizzata. «Che cosa?»

John si agitò, cercando di liberarsi dalla presa dell’amico, e fece forza su un gomito per sollevarsi quel tanto che bastava per riuscire a parlare. «Non- non lo so.» si fermò, inspirando una nuova boccata d’aria e deglutendo. «Mi hanno preso da dietro e mi hanno ficcato qualcosa nel collo. Quando mi sono risvegliato, ero lì dentro.» Fece un cenno verso la piscina e chiuse gli occhi per un improvviso giramento di testa.

«Chi? Chi è stato?» Mary si avvicinò e accarezzò il volto del suo ragazzo con le lacrime agli occhi. «Chi potrebbe fare qualcosa del genere? Saresti potuto morire! Oddio…»

Sherlock osservò come da molto lontano la coppia mentre tentava inutilmente di rimettere ordine tra i propri pensieri. C’era qualcosa che lo bloccava, qualcosa che gli impediva di fermarsi, concentrarsi e ragionare razionalmente.

«Sherlock.» Uscì come un rantolo dalle labbra di John, ma bastò per attirare la sua attenzione.

«John…»

Un debole sorriso gli spuntò sulle labbra mentre respirava a fondo per l’ennesima volta. «Grazie…»

Il ragazzo distolse lo sguardo e fece forza sulle braccia per alzarsi, barcollando sul posto una volta tiratosi in piedi del tutto. Sentiva la testa girargli, sicuramente per lo sforzo appena compiuto, ma c’era anche qualcos’altro.

«Dobbiamo dirlo a qualcuno. Cazzo John, mi hai fatto prendere un colpo…» Mary aiutò il ragazzo ad alzarsi e lo prese per le spalle, evitando di abbracciarlo solo per non bagnarsi a sua volta. Lo baciò velocemente sulle labbra con le mani che le tremavano per la paura. «Va tutto bene Mary, sto bene ora.»

Sherlock tremava. Quando se ne rese conto sollevò le braccia e si guardò le mani: tremavano, incontrollabili, e non era per il freddo. Barcollò un attimo sul posto mentre qualcosa di molto simile al panico lo artigliava.

Ignorando i richiami di John si allontanò dal luogo, prima con un’andatura lenta, poi sempre più velocemente, fino a correre, scivolando e incespicando, diretto verso il primo bagno a portata di mano.

Spalancò la porta di quello dei maschi al primo piano e si avvicinò con furia al lavandino, afferrando i bordi con forza e sporgendosi verso lo specchio di fronte. Guardò attentamente il proprio riflesso, scrutando il proprio volto alla ricerca di quegli indizi che gli avrebbero confermato i propri pensieri.

Esalò un debole respiro che andò ad appannare il vetro per poi ritrarsi con sgomento e con le gambe che improvvisamente sembravano non riuscire più a reggerlo in piedi. Indietreggiò fino alla porta di uno dei gabinetti, appoggiandosi ad essa di schiena con tutto il suo peso e prendendosi la testa tra le mani, passandosi le dita tra i capelli fradici. Respirò lentamente, cercando di regolarizzare i battiti del proprio cuore, ma il ricordo di ciò che aveva appena visto non fece altro che peggiorare la situazione.

Deglutì un paio di volte e si ostinò a concentrarsi sull’immagine del suo volto nello specchio, il proprio volto pallido e… gli occhi. Gli occhi dicevano tutto, più del suo respiro e dei suoi battiti accelerati. Quegli occhi chiari, quelle pupille dilatate.

Un brivido freddo lo percorse dalla testa ai piedi quando si rese conto di quello che stava realmente succedendo e, alzato ancora una volta lo sguardo verso lo specchio, osservò il suo corpo magro scosso da tremiti incontrollabili sotto gli abiti inzuppati e le proprie mani tremare visibilmente. Con un gesto seccato si passò il dorso della mano sulla fronte, scacciando nervosamente le gocce d’acqua che la imperlavano e imponendosi di tranquillizzarsi.

Proprio in quel momento la porta si spalancò un’altra volta e John entrò nel bagno, guardandosi intorno con la preoccupazione dipinta in volto. «Sher…»

Quando lo vide appiattito lungo il legno ramato, i suoi occhi si spalancarono e rimase fermo sul posto per qualche secondo, con una pila di asciugamani in una mano. Ne aveva uno sulle spalle e si era tolto la camicia, probabilmente per evitare di inzuppare anche quello.

Tentò un debole sorriso e gli si avvicinò lentamente, gli asciugamani tesi in avanti come ad invitarlo a prenderne uno. «È meglio se ti spogli e ti copri o rischi di prenderti qualcosa… la squadra ha degli abiti di ricambio che puoi mettere.»

Il moro si appiattì ancora di più alla porta dietro di sé, guardando un punto fisso dello specchio davanti a lui pur di non guardarlo negli occhi.

«Ehi…» la voce di John tradiva una nota di panico ma risuonava calda e rassicurante, al che Sherlock chiuse gli occhi, poggiando la nuca contro il suo sostegno e prendendo alcuni respiri profondi. Qualche secondo dopo la mano di John strinse la sua e il suo tocco bruciò sulla sua pelle, tanto che si ritrovò a spalancare le palpebre di colpo. Tuttavia non si staccò, nonostante il suo cuore avesse cominciato a battere, se possibile, ancora più rapidamente.

«Ehi… guardami.»

Con il cuore in gola voltò di poco la testa, ritrovandosi l’amico a poche decine di centimetri di distanza.

«Va tutto bene, ok? Sto bene…»

John guardava con una certa preoccupazione il suo migliore amico: non lo aveva mai visto in uno stato del genere. Sherlock era sempre stato quello sprizzante di energia, quello che andava dritto in faccia al pericolo senza preoccuparsi delle conseguenze, quello che sembrava non avere paura di nulla e non provare altre emozioni oltre all’eccitazione per qualcosa di elettrizzante. Gli venne naturale prenderlo per mano, cercando di infondergli quel poco di sicurezza e vicinanza che poteva. In fondo erano entrambi lì, salvi, e oltre al grande spavento preso non c’era nient’altro a poterli turbare.

Tuttavia, nonostante tutte le sue buone intenzioni, Sherlock sembrò diventare ancora più a disagio, arrossendo violentemente e voltando la testa dall’altra parte.

«Sherlock, va tutto bene. Sei terrorizzato…»

«Non sono terrorizzato.» la voce gli uscì bassa, leggermente roca, ma ferma.

«Va bene, non lo sei.» Sospirò e aprì uno degli asciugamani portandolo poi dietro le sue spalle, coprendolo. Gli sbottonò la camicia, invitandolo a togliersela, e Sherlock obbedì finendo il lavoro mentre John prendeva un altro asciugamano e glielo metteva in testa, frizionando poi con le mani per asciugargli almeno un po’ i capelli.

«Senti… va tutto bene, davvero. Del resto ci preoccuperemo dopo, ok? Ora va tutto bene, puoi tranquillizzarti.»

«Io…»

John deglutì e lo costrinse a guardarlo negli occhi. «Non dirmi che non sei spaventato, stai tremando come una foglia. Prendi un paio di respiri profondi, ok? Siamo qui sani e salvi, entrambi, non è successo niente, non mi è successo niente. Sii razionale.»

Sherlock non poteva sopportare quella vicinanza, non poteva e cercò di divincolarsi dalla sua stretta ma John lo tenne fermo davanti a sé, facendolo arrossire ancora di più.

«Lasciami… per favore…»

Una stretta allo stomaco mentre il giovane Watson coglieva l’espressione disperata dell’amico e il tono lievemente lamentoso e spaventato che aveva assunto la sua voce. «Che cos’hai?» chiese, smettendo di strofinargli l’asciugamano in testa e mantenendo il suo sguardo.

Sherlock fu scosso da un leggero tremore mentre percorreva con gli occhi la bocca dai lineamenti morbidi che si era appena mossa a pochi centimetri di distanza da lui. Provò un’improvvisa e irresistibile voglia di allungarsi e toccare quelle labbra dolci e accoglienti, di sfiorarle con un dito per saggiarne la consistenza, di toccarle con le proprie e

Si riscosse alla presa leggermente più forte delle sue dita, accorgendosi di non aver ascoltato una sola parola di quello che l’altro aveva detto nel frattempo.

«…è normale che tu ti sia spaventato, hai solo avuto paura per me. Ma ora è tutto a posto, ok? Sherlock?»

Il moro boccheggiò in cerca d’aria e tentò di allontanarlo da se stesso. Prese un altro paio di respiri profondi, cercando di non pensare a come potesse essere baciare John, a come si sarebbe sentito se l’altro avesse ricambiato, a che cos’era quell’ondata di calore che gli lambiva il petto e il volto e che aumentava improvvisamente la sua sudorazione corporea. «Non… Non sono spaventato.»

Il ragazzo più grande sorrise cordialmente. «Va bene, non lo sei. Allora cosa?»

Sherlock scosse la testa, passandosi la lingua sulle labbra e chiudendo nuovamente gli occhi. «I-io…»

«Uhm…?»

Tenendo gli occhi serrati si costrinse a parlare. «Ho…» deglutì, non sapendo come spiegarsi.

Non voleva dirgli quello che stava provando in quel momento, non voleva ma allo stesso tempo avrebbe voluto che John capisse e che si staccasse, che lo lasciasse solo con i propri pensieri e con quelle emozioni che sembravano essere improvvisamente impazzite.

«Sherlock, cosa c’è? Dimmelo, vedrai che andrà meglio… posso aiutarti.»

Ebbe un tuffo al cuore e si rese conto che le gambe avrebbero potuto benissimo cedergli da un momento all’altro. Riaprì gli occhi, tentato, e fissò quegli occhi blu che lo guardavano sinceri e apprensivi, quegli occhi che lasciavano intravvedere una devozione e un’amicizia profonda. John voleva veramente aiutarlo, lo aveva seguito nel bagno perché aveva temuto per la sua reazione, quando era fuggito dalla piscina di colpo, senza una parola o una spiegazione.

Sherlock ricordò il contatto tra la guancia di John e il palmo della sua mano, la sensazione di quella pelle liscia e compatta, la carezza che involontariamente gli aveva dato per fargli tenere ferma la testa. Ricordò i suoi occhi spaventati e lievemente appannati dalla droga che avevano usato per addormentarlo, il sollievo che gli aveva disteso i muscoli del volto nel vederlo sopra di lui, come se la sola vista di Sherlock avesse potuto rassicurarlo sulla sua sorte. Il moro si sentì vagamente girare la testa mentre la sua mente non sembrava far altro che regalargli il ricordo di tutte quelle volte in cui era entrato in contatto con John, un lieve sfregamento di mani o anche soltanto un fugace sguardo nella mensa. Possibile che quello che sentiva nei suoi confronti fosse più che semplice amicizia? Sherlock non aveva mai provato niente di simile in vita sua, non aveva altro con cui paragonare la sua situazione e cominciava quasi ad averne paura.

Avrebbe voluto lasciar perdere tutto quello che sentiva dentro di sé, avrebbe voluto affidarsi alla sua tanto amata ferrea logica e poterci ragionare su con calma, ma non poteva dimenticare le sue pupille dilatate, il suo battito cardiaco accelerato. Il suo poteva benissimo essere un sintomo di paura, ma non aveva mai provato un terrore così radicale, per niente: evidentemente solo John era riuscito a farlo preoccupare a tal punto da arrivare al bagno in quello stato. Lo stesso John che ora lo teneva fermo, attaccato a una porta, a pochi centimetri di distanza dal suo viso.

John osservava Sherlock, passando lo sguardo su quel volto bagnato, sul colorito pallido della sua fronte. Sentiva il corpo gracile dell’amico sotto le sue dita tremare lievemente e vedeva con chiarezza il disagio sul suo volto, ma non riusciva a capirne il perché. Lui era sano e salvo, non gli era successo niente di grave e Sherlock non avrebbe dovuto perdere il controllo per una sciocchezza del genere. Che cosa gli stava succedendo?

«John…» Quello di Sherlock fu solo un debole sussurro che colpì John proprio per il suo tono basso e quasi stanco.

«Sì?» Il ragazzo deglutì a forza mentre qualcosa gli si agitava nel profondo.

«I-io…» Gli occhi di Sherlock vagarono freneticamente sul viso dell’altro, in cerca di una rassicurazione che non riusciva a trovare. Si concentrò sul tocco di John sulla sua nuca, del calore che sentiva nella vicinanza con il suo corpo.

Aprì nuovamente le labbra per parlare ma dalla gola non uscì alcun suono.

E poi, avvenne.

Successe tutto nel giro di pochi secondi e in seguito Sherlock sarebbe riuscito a ricordarli precisamente in ogni loro millesimo.

In quell’istante ogni più piccolo pensiero che vorticava nella testa del giovane sembrò sparire, ogni porta del suo palazzo mentale si chiuse di scatto, ogni possibilità di controllo sembrò sparire in una bolla di sapone.

Un attimo prima era attaccato alla porta, spaventato e insicuro, un attimo dopo si era spinto in avanti, annullando ogni distanza, occupando l’aria fra loro, ricercando un contatto che non aveva mai avuto ma che in quel momento sembrava desiderare con tutto se stesso.

Le labbra dei due ragazzi si scontrarono dolcemente.

Sherlock sentì un brivido percorrerlo da capo a piedi, sentì il calore delle labbra dell’altro sulle sue e qualcosa partire dal suo petto e irradiarsi per tutto il resto del corpo. Più che la sensazione del bacio in sé, Sherlock riuscì a focalizzare la sensazione di essere lì, di starlo facendo, di star baciando John. Era lui il suo unico problema, era lui che, con la sua presenza, faceva in modo che fosse speciale. In seguito Sherlock avrebbe capito che con nessun altro una cosa del genere avrebbe potuto funzionare.

John, del canto suo, colse appena il movimento improvviso dell’amico e ne rimase a dir poco sorpreso. Un attimo prima lo stava guardando, un attimo dopo lo aveva praticamente addosso.

Il suo cuore perse un battito non appena le labbra di Sherlock si posarono sulle sue e, nella momentanea sorpresa, John non riuscì a far altro che spalancare gli occhi e rimanere immobile. Sentì le labbra dell’amico premere contro le sue e tutto quello cui riuscì a pensare fu a che cosa diavolo stesse succedendo. Rimase bloccato sul posto, incapace di fare alcun che, lasciando che le loro labbra rimanessero a contatto, in un bacio che era solo un lieve tocco, una morbida carezza. Non era niente, ma nel frattempo era tutto.

Rimasero nella stessa posizione per qualche secondo, poi John sembrò riscuotersi improvvisamente e con una lieve spinta delle mani allontanò Sherlock da sé, lo spinse verso la porta con poca gentilezza e fece un passo indietro.

Il moro sbatté lievemente la testa contro il legno, annaspando per l’improvviso spostamento d’aria e sentendo tutto il calore del corpo di John svanire in un attimo, lasciandolo preda di un’aria che non gli era mai sembrata più fredda.

Rimasero a fissarsi immobili, Sherlock che realizzava improvvisante le conseguenze delle sue azioni e John che sentiva il proprio corpo irrigidirsi, quasi che temesse una nuova mossa poco desiderata dell’altro.

Il giovane Watson si vide passare davanti mesi e mesi d’insulti, di occhiate, di sguardi distolti all’ultimo secondo, di momenti d’imbarazzo e di parole, discorsi, dicerie. Lui che aveva fatto di tutto perché Sherlock potesse non essere più preso in giro, lui che aveva pensato che tutto dovesse essere solo un pensiero distorto di persone che non riuscivano a capire e comprendere a fondo il suo amico. Lui che aveva fatto di tutto per Sherlock, che lo aveva aiutato, che gli aveva tenuto compagnia, che gli era stato affianco nonostante quello che gli gridavano dietro. Sentì qualcosa di molto simile alla rabbia salirgli addosso mentre realizzava quanto appena successo.

Sherlock lo aveva baciato.

Lui, un ragazzo, era stato baciato da un altro ragazzo.

Sherlock, a dispetto di tutto quello che aveva creduto in quei mesi, era gay. Era attratto da lui.

In seguito ci avrebbe pensato, avrebbe indugiato su quel particolare momento della sua vita, avrebbe capito molte cose e non ne avrebbe capite altre, ma in quel momento tutto quello che riuscì a fare fu compiere alcuni passi indietro, allontanarsi dal suo amico e raggiungere la porta.

Sherlock spalancò la bocca in un muto richiamo, il volto improvvisamente pallido, ma prima che potesse dire qualcosa, John si era già girato ed era sparito nel corridoio.

La porta si richiuse con un sonoro schiocco e Sherlock scivolò lungo la porta, fino a sedersi a terra, tremante, più confuso che mai.

E lì rimase.

 

 

 

Note:

5646. Nella tastiera di un cellulare il codice di apertura dell’armadietto di Sherlock corrisponde alle lettere J O H N.

 

*corre via più veloce della luce*

   
 
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