Capitolo
3
Rachel Berry si guardò
allo specchio
senza vedersi realmente. Pensava. Pensava a quella strana situazione
cercando
d’interpretarla.
Finn Hudson, il ragazzo
più popolare del
suo liceo, a minuti avrebbe suonato alla sua porta. Certo non era un
appuntamento galante: il suo compagno di corso le era venuto incontro,
poco
dopo che avevano parlato nel bagno delle ragazze, per dirle che il
professor
Schuester aveva deciso di dar loro una seconda possibilità,
a patto che
consegnassero il nuovo lavoro lunedì. Avevano concordato di
trovarsi a casa
Berry poiché lei era in possesso di tutto il materiale
necessario.
Da quando si era allontanata
però, Rachel
non aveva fatto altro che arrovellarsi.
Come mai il professor Schuester
aveva
cambiato idea? Il giorno prima era parso più che convinto
della sua decisione.
Che fosse stato Finn a convincerlo? Ma come e soprattutto
perché?
Viziata e coccolata fin da piccola
da
ben due padri che la trattavano come una principessa, Rachel era
cresciuta
convinta di essere una ragazza carina. Sebbene questa sua idea al liceo
si
fosse affievolita, non aveva perso la fiducia in se stessa.
“Non è per via
del mio aspetto che vengo
maltrattata, ma per l’ignoranza di quel gregge di pecoroni
che sono i suoi
compagni di scuola.”
Tuttavia Finn non solo era popolare
mentre lei alle fondamenta della piramide sociale, ma era anche
fidanzato con
la ragazza da tutti ritenuta la più bella della scuola.
“Quinn Fabray è la più bella
della scuola.”
E su questo nemmeno il suo
egocentrismo
poteva metter becco.
“Letteralmente…”
pensò voltando il capo
di profilo: il suo naso doveva essere almeno quattro volte quello di
Quinn
Fabray. Non che avesse mai avuto troppi problemi con se stessa a
riguardo, dato
che non puntava a diventare una superficiale reginetta di bellezza ma
un’affermata artista.
Stava di fatto che se Finn Hudson
aveva
ottenuto una seconda chance dal professor Schuester difficilmente
l’aveva fatto
per se stesso, visto il suo disinteresse totale per
l’argomento del corso.
Dunque doveva averlo fatto per lei. Ma le risultava difficile credere
di poter
attrarre un ragazzo come lui, per di più fidanzato con una
ragazza perfetta. E
non poteva illudersi troppo nemmeno riguardo al fatto di stargli
particolarmente simpatica. Perché Rachel Berry non si era
mai fatta un amico da
quando frequentava il liceo.
“Da piccola era
più semplice. Ora tutti
sono troppo impegnati a giudicare le persone e mettere i bastoni tra le
ruote a
quelle più in gamba. Per invidia.”
Una vocina nella sua testa le
ricordò
che lei stessa aveva giudicato Finn Hudson: non fosse stato per il suo
pregiudizio ora non si troverebbero in quella situazione.
Il campanello suonò.
Rachel scese ad aprire la porta con
un
proposito ben piantato in testa: scoprire cosa si nascondeva dietro al
gesto
generoso di Finn Hudson.
Finn Hudson si guardò
attorno
meravigliato: al posto di una mansarda i Barry avevano un vero e
proprio
atelier.
Finn non era un artista e
sicuramente
non un architetto, ma quel posto lo metteva a proprio agio. Le pareti
erano
chiare, così come i tronchi a vista delle falde del tetto,
intervallati da ampi
lucernari. Il suo sguardo cadde sul parquet e un vago sorriso gli
increspò le
labbra: nonostante qualcuno tenesse quella stanza linda come uno
specchio, tra
le assi del pavimento erano rimaste incrostazioni colorate.
Rachel lo osservava leggermente
corrucciata, forse perché condividere il suo
“tempio” con un estraneo la
metteva a disagio.
-
È bello questo
posto. – tentò lui per rompere il ghiaccio.
-
Grazie. –
-
Ci inviti spesso
i tuoi amici? –
Rachel non rispose e Finn si
maledisse
per la sua imbranataggine. Si guardò rapidamente attorno per
cercare una via di
fuga da quella situazione. Individuò un gruppo di quadretti
appoggiati alla
parete, di cui uno più piccolo un po’ nascosto.
-
Anche questo
l’hai fatto tu? – disse indicandolo e chinandosi
per vederlo meglio.
Lo estrasse con cautela, attento a
non
rovinarlo. Sorrise istintivamente.
Rachel doveva averlo dipinto da
piccola:
il soggetto doveva essere la sua famiglia, poiché la bambina
stringeva le mani
a due signori, sorridendo felice in un prato di fiori sotto un sole
altrettanto
sorridente.
-
Loro sono i miei
amici. – disse Rachel, accovacciandosi accanto a lui.
-
Ah, scusa,
credevo fossero i tuoi papà. –
-
Infatti… I miei
papà sono anche i miei migliori amici. –
Qualcosa nel suo tono gli fece
intuire
che probabilmente quel “migliori” stava per
“unici”. E si dispiacque per lei.
Rachel era sicuramente petulante e piena di sé, ma
probabilmente nascondeva un
lato piacevole e gentile.
Ricordava ancora come gli era parsa
tutta un’altra persona quando l’aveva vista assorta
nel disegno nell’aula
d’Arte del Mckinley: serena, rilassata e genuina in ogni
gesto, era…
“Diversa…”
-
Mi è venuta
un’idea. –
-
E-eh? – quasi
sobbalzò Finn, assorto nei suoi pensieri.
-
Per il compito.
Non sei qua per questo? – fece lei, in un tono che non
ammetteva repliche, un
sopracciglio alzato.
-
Sì, sì certo!
–
-
Bene. – disse
alzandosi e sistemandosi brevemente la gonna con le mani –
Quando da piccola
seguivo i corsi di pittura per bambini, questa è stata la
prima tecnica che mi
hanno insegnato. Me l’hai fatta venire in mente tu.
–
-
Grazie. – sorrise
lui un poco soddisfatto – È per via di quel
quadretto che ho scovato là dietro
che… -
-
Oh no. – si
voltò
inchiodandolo al suo posto con uno sguardo – Tu
me l’hai ricordata, non il mio vecchio dipinto. –
Sorrideva spavalda. Ma Finn avrebbe
voluto prenderla a sberle.
“Insomma mi considera un
bambino!”
Non era difficile capire
perché
quell’antipatica arrogante non avesse amici.
-
Non sentirti
sminuito da questo, Hudson. – riprese lei, impegnata a
frugare in una cassa
piena di colori – Dipingere è molto
più difficile di quanto si pensi. Anche solo tenere
correttamente il pennello
in mano è più complesso di quanto sembri. Ma
l’arte è meravigliosa anche per
questo: non servono tecniche sopraffini per realizzare
un’opera
indimenticabile, basta metterci l’anima. –
“Dice
poco…”
-
Ricordi la
lezione del professor Schuester sugli Impressionisti? –
Finn si fece piccolo piccolo:
probabilmente stava facendo qualcos’altro.
-
Probabilmente
dormivi. –
“Touchè.”
-
Beh, loro usavano
dipingere all’aperto, amavano i paesaggi e rappresentare lo
scorrere del tempo,
le stagioni. E nonostante le
tecniche
e le scelte di colore anticonvenzionali hanno realizzato opere che
ancora oggi
tutti ricordano e ammirano. La vera
rivoluzione di questi artisti è stata porsi un
obiettivo differente: non volevano
fissare sulla
tela ciò che tutti vedevano quanto ciò che loro
vedevano e sentivano.
– disse
portandosi una mano al petto – E questo, caro Hudson, se
può farlo una bambina
di sei anni direi che hai buone possibilità di riuscirci
anche tu! – concluse
caricandolo con una tela, un cavalletto e una borsa piena zeppa di
colori.
-
Su, andiamo, che
il sole è già alto. –
Finn la seguì
borbottando e maledicendo
il giorno in cui si era recato nello studio del professor Schuester.
-
E ora? –
Rachel l’aveva condotto
nel giardino sul
retro della casa. Che avesse deciso di ucciderlo con una pennellata e
occultare
il cadavere dove nessuno sarebbe mai venuto
a cercarlo?
-
Guardati attorno,
Hudson, e scegli l’angolo autunnale che più ti
emoziona. –
Lui la guardò in
tralice, indeciso se lo
stesse di nuovo prendendo in giro o fosse semplicemente matta.
“Magari compra erba da
Puck.”
Non ottenendo alcuna reazione, lei
gli
tirò una piccola gomitata.
-
Coraggio, Finn!
Guardati attorno e dimmi cosa di tutto ciò vorresti
immortalare, cosa per te
è l’autunno. –
Per un attimo
un’espressione di sorpresa
attraversò il volto del quarterback, poi Rachel lo vide
distogliere lo sguardo
per farlo scorrere attorno a sé. Prima svogliato, poi
più assorto.
Finn fece qualche passo avanti,
dimentico dell’armamentario che teneva tra le braccia e la
brunetta scorse
qualcosa di nuovo nel suo sguardo: una sorta di consapevolezza, che gli
faceva
abbracciare con gli occhi il paesaggio circostante come se fosse la
prima volta
che lo vedeva.
Il suo sguardo vagò per
alcuni secondi
sul paesaggio al di là della staccionata, verso i boschi che
ammantavano le
dolci colline costellate dai tetti a spiovente delle case. Poi parve
ripensarci
e tornare indietro, sulla staccionata la cui vernice bianca sgretolata
lasciava
intravedere il legno scuro e poi sulla siepe verde scura che cresceva
sulla
destra, costeggiando il prato coperto di foglie che
s’infittivano alle radici
di un albero. Alzò lo sguardo verso quella chioma ancora
rigogliosa proprio
quando un soffio di vento ne scosse i rami: decine di foglie
fiammeggianti si
staccarono, fluttuando nell’aria come le gonne vaporose delle
danzatrici di
flamenco.
-
Cosa vedi, Finn?
– gli sussurrò lei.
-
Ballerine di
flamenco… -
Subito lui arrossì,
conscio di aver
detto una stupidaggine. Ma lei non rise, bensì gli
lanciò uno strano sguardo,
come se lo stesse valutando.
-
Se vuoi prendermi
in giro fallo in fretta, così cominciamo questo
stramaledetto compito. –
borbottò lui, a disagio.
-
Non ho intenzione
di prenderti in giro, anzi. Hai un modo di vedere le cose
molto… intimo. –
Non credeva fosse possibile, ma
qualcosa
nel tono in cui Rachel disse quella parola lo fece avvampare
d’imbarazzo.
Lei sorrise.
-
Bene, dipingiamo
queste gonne! –
-
E come? –
-
Con le mani, che
altro? –
Non stava scherzando.
Finn la osservò
immergere una mano nella
pittura azzurra e tracciare onde e spirali sulla tela immacolata. Una
parte
della sua mente pensò che c’era qualcosa di
terribilmente sensuale in quei
gesti, ma cacciò quell’idea immediatamente.
Rachel sorrideva contenta e
concentrata
e il quarterback fu certo che lei avesse avuto ragione nel dire che lui
non
capisse nulla d’arte.
“Che
diavolo…?!”
Lei si voltò a guardarlo.
-
Beh, non mi dai
una mano? –
-
Scusa, Rachel, ma
non capisco cosa… -
-
Le tue ballerine
dalla gonna di foglie ballano il flamenco nell’aria, giusto?
Fluttuano nel
vento, dico bene? – indicò le scie azzurre che
aveva tracciato con la mano –
Questa è l’aria, il cielo, il vento. Usa un
po’ di quell’immaginazione che poco
fa ti ha fatto vedere in qualche foglia secca delle danzatrici vestite
di seta!
–
Finn non sapeva che fare. Quella
sorta
d’ispirazione che l’aveva colto poco prima pareva
averlo abbandonato.
Rachel sbuffò.
-
Coraggio, Monet,
ti aiuto io a sporcarti le mani. –
-
Monet? –
-
Dovresti seguire
le lezioni del professor Schuester ogni tanto! – disse, ma
senza il solito tono
acido.
Gli prese una mano e la immerse
nella
tempera bianca. La brunetta venne colta da un brivido, ma si disse che
doveva
esser stato per via della tempera fredda. Condusse quella mano sulla
tela senza
che lui opponesse resistenza, lasciando che da essa nascessero grandi
scie
bianche.
Sorrise, vedendo quanto la mano di
lui
fosse grande in confronto alla sua. E un piacevole tepore le
scaldò il petto.
“Probabilmente
” pensò “dall’esterno
questa scena potrebbe sembrare quella della modellazione del vaso in
Ghost.”
-
Ehm, Rachel? -
-
Sì? – disse
con
un filo di voce.
-
Oltre al cielo
dipingiamo qualcos’altro? –
Imbarazzata, lasciò
andare la mano di
Finn.
-
M-ma certo! Ora
che hai provato e ti sarai lasciato un po’ andare possiamo
proseguire! –
Finn seguì per lo
più le istruzioni di
Rachel, come un paziente manovale coordinato da un capo cantiere molto
esigente. Tuttavia a tratti la moretta si comportava in maniera strana:
se non
fosse stato per le offese che di tanto in tanto gli lanciava, sempre
ovviamente
accompagnati da lodi per se stessa, avrebbe potuto giurare che Rachel
Berry si
fosse presa una cotta per lui.
“Se così fosse
sarebbe un bel casino!”
Non tanto perché non
avrebbe potuto
corrisponderla, quanto per il fatto che la ragazza che già
occupava il suo
cuore fosse Quinn Fabray.
Ben inteso, Quinn aveva tantissimi
pregi
e lui li conosceva meglio di chiunque altro. Ma allo stesso modo aveva
ben
presente i suoi difetti e la gelosia era senza dubbio il più
pericoloso. Se
n’era accorto l’anno prima quando una ragazza gli
aveva dedicato una poesia il
giorno di San Valentino.
“Beh, per sicurezza
basterà tenere
Rachel alla larga...”
In questo modo avrebbe evitato sia
d’illuderla inutilmente, sia di scatenare la gelosia di
Quinn.
A metà giornata lo
stomaco di Finn
brontolò sonoramente e Rachel gli lanciò
un’occhiata perplessa, prima di
guardare l’orologio e sobbalzare.
-
Santo Cielo!
Scusami, Finn, quando dipingo perdo totalmente la cognizione del tempo.
Andiamo
a lavarci le mani e pranziamo, proseguiremo dopo. –
Finn sorrise sollevato: ancora un
po’ e
sarebbe svenuto in mezzo al prato. Tuttavia qualcosa in quella moretta
alta la
metà di lui e concentratissima nel lavoro l’aveva
fatto desistere dal farle
notare il suo impellente bisogno di metter qualcosa sotto i denti.
Quando ebbe pulito le mani meglio
che
poteva, aiutandosi con dell’acqua ragia, un profumo delizioso
lo condusse fino
alla cucina. I Berry avevano una casa meravigliosa e, a giudicare
dall’odore
che riempiva i corridoi, anche un’ottima domestica.
Fu dunque con grande sorpresa che
vide
Rachel con un grembiule a fiori intenta a cucinare.
-
Ehm… posso darti
una mano? – chiese indeciso.
Sua madre non l’aveva mai
fatto
avvicinare a un fornello, se non per prepararsi delle uova col bacon,
ma gli
aveva insegnato che per educazione quella domanda andava fatta.
“Sperando che al massimo
ti facciano
apparecchiare la tavola!” l’aveva preso in giro la
donna.
Fortunatamente i Fabray avevano
sufficienti domestici da non avergli fatto mai nemmeno pensare di poter
“dare
una mano”, o meglio combinare qualche danno. Tutto si poteva
dire di Finn tranne
che fosse disimpacciato e agile in un ambiente domestico.
-
Se hai voglia di
apparecchiare, sul tavolo ci sono piatti, bicchieri e
quant’altro. –
Finn tirò un sospiro di
sollievo:
tovagliette, piatti, bicchieri, posate e tovaglioli erano il suo pezzo
forte.
Quando ebbe messo anche la brocca d’acqua sulla tavola si
sedette, mentre
Rachel continuava a rigirare il contenuto di una pentola e di tanto in
tanto
apriva il forno per controllare il punto di cottura.
Quel pomeriggio Finn
scoprì che guardare
Rachel cucinare era piacevole quanto vederla dipingere. Meno
appassionante e
più rilassante. Ma ugualmente piacevole.
Distese la schiena sullo schienale
della
sedia, inspirando a pieni polmoni l’odore del cibo che
cuoceva mischiato a
quello lievemente profumato del detersivo che usavano per pulire la
cucina.
Gli unici rumori erano
l’occasionale
clangore dei tegami e il leggero ronzio del forno acceso.
-
Tutto bene? –
-
Sì – rispose
lui,
ancora parzialmente assorto – pensavo che a giudicare dal
profumo ciò che stai
preparando deve essere ottimo. –
-
Lo spero! –
sorrise lei, leggermente rossa, per poi tornare a mescolare.
-
Cucini spesso per
te e i tuoi papà? –
-
I miei papà sono
spesso via per lavoro… -
-
Ti capisco, anche
mia madre lavora tanto. Perciò spesso ordiniamo qualcosa per
cena, oppure
riscaldiamo quello che è avanzato dalla sera prima. Non
è un granché, ma lei
torna spesso tardi stanchissima e io non sono esattamente uno chef.
–
-
Se dosi gli
ingredienti come fai coi colori non oso immaginarlo, Hudson!
– sentenziò lei
agitando il mestolo e macchiandosi il viso e il grembiule con qualche
goccia di
sugo.
Entrambi scoppiarono a ridere.
-
Sì, hai ragione,
non sono un Monet né col
pennello né
col mestolo! –
Lei sorrise, tornando a occuparsi
dei
fornelli.
-
A me non dispiace
cucinare, ma penso che la parte che mi piace di più
è sedermi coi miei papà a
tavola e passare una piacevole serata tutti insieme. Ogni tanto
invitano
qualche loro amico, sono tutte persone di fuori città e
hanno sempre un sacco
di argomentazioni interessanti su qualsiasi… -
-
E tu, Rachel? Non
inviti mai i tuoi amici ad assaggiare i tuoi manicaretti? –
-
I-io non ho molti
amici, qui… Ma intrattengo relazioni epistolari con qualche
nostro coetaneo di…
-
-
Non hai nemmeno
un amico nel nostro liceo? O a Lima? –
Rachel valutò per un
attimo se
considerare il pel di carota con gli occhiali che la stalkerizzava come
una
sorta di amico, ma pensò che sarebbe stato anche peggio.
Perciò tacque.
D’altronde meglio soli che mal accompagnati, no?
Finn era sicuro che stava per
cacciarsi
in una montagna di guai. D’altro canto il visino corrucciato
di Rachel era a
pochi metri da lui e, sebbene sapesse che quella piccola pittrice aveva
in sé abbastanza
orgoglio da non darlo a vedere palesemente, era sicuro che quella
solitudine fosse
per lei motivo di sofferenza.
Poteva infatti essere petulante e
egocentrica per la maggior parte del tempo, ma cominciava a scorgere in
lei un
lato dolce e fragile che, chissà perché, lo
metteva a proprio agio e gli faceva
desiderare di poterla aiutare.
-
Beh, un amico
forse ce l’hai. –
-
Se ti riferisci a
quel ficcanaso del giornale della scuola… - gli
lanciò un’occhiataccia col
mestolo a mezz’aria.
-
Ehm, parlavo di
me… - si strinse lui nelle spalle.
-
Oh… -
-
Insomma, se la
smetti di minacciarmi con mestoli e pennelli, direi che potremmo
considerarci
amici, no? –
Rachel nascose il mestolo dietro
alla
schiena come una bambina colta con le mani nel barattolo dei biscotti.
-
Sì, penso di
sì…
-
-
Solo una cosa. –
-
Cosa? –
-
Gli amici tendenzialmente
si chiamano per nome. –
-
Va bene… Finn.
–
-
Bene! Allora,
Rachel – si legò il tovagliolo al collo
– è pronto il pranzo? –
-
Solo in minuto! –
Voltatasi verso i fornelli la
moretta
sorrise fra sé, raggiante di felicità.
Quella sera subito dopo cena Rachel
si
chiuse nell’atelier. Avrebbe dovuto studiare per il compito
di storia di
lunedì, ma nella sua mente c’era posto solo per il
quadro che aveva realizzato
con Finn. Lo fissò a lungo. Non era perfetto, eppure le
parve splendido. Forse
perché dipingerlo era stato sorprendentemente divertente ed
emozionante.
Ripensò a quel
pomeriggio: Finn non
parlava molto e i suoi argomenti non erano forse interessanti quanto i
suoi, ma
avevano chiacchierato un po’ e lei aveva intravisto un lato
gentile e paziente
che la inteneriva. Come il suo sguardo a tratti sfuggente e il suo
sorriso
sghembo.
“Deve essere un ragazzo
timido” aveva
pensato.
Quando Finn le aveva chiesto di
diventare amici, Rachel aveva sentito un tuffo al cuore e aveva sorriso
tanto
durante tutto il pranzo che credeva le si sarebbe bloccata la mascella.
Certo non si faceva illusioni, dato
che lui
era fidanzato con la ragazza più popolare del Mckinley, ma
aveva avvertito qualcosa
di più dell’amicizia nei suoi modi.
Una cosa era certa: se Rachel Berry
si
poneva un obiettivo faceva di tutto per raggiungerlo e Finn Hudson era
appena
diventato una delle mete da raggiungere.
Certamente non era tanto meschina
da “rubarlo”
a Fabray, tanto più che non sarebbe stato facile sedurlo,
viste le qualità della
sua rivale. Si sarebbe dunque messa in luce agli occhi di Finn grazie
al suo
fascino d’artista talentuosa e facendogli comprendere quanto
lei gli fosse
vicina e lo capisse. Innanzitutto come amica, poi come ragazza.
“Una cosa,
senz’altro, l’ho capita”
pensò facendo scorrere lo sguardo sulle foglie che
fluttuavano tra le spirali
del vento.
Afferrò un carboncino e,
dopo essersi
assicurata che la tempera fosse sufficientemente asciutta, scrisse
nell’angolo
in basso:
“Flamenco
autunnale. R.Berry, F.Hudson”
Continua…