Mostri
- Capitolo 5 -
Shadows Lake era una grande tenuta nella Scozia
meridionale, appartenente alla famiglia Malfoy ormai
da secoli. Costruita da un avo che, si dice, la usasse per dare sfogo alle sue
‘voglie di grida e sangue’ (non
intese in senso carnale), forse a causa di questi violenti natali non aveva mai
riscosso grossi apprezzamenti fra i vari eredi susseguitisi, ragione per cui
era stata abbandonata. E tale era rimasta fino a quando Draco,
rinsavito dalla sua vita brava, aveva deciso di farne il suo nuovo centro operativo.
Ovviamente, prima di quel grande passo aveva
dovuto chiedere non solo l'autorizzazione a suo padre, Lucius,
ma soprattutto la benedizione del suo signore e padrone, il machiavellico Lord
oscuro, Voldemort. E costui, malgrado non avesse
fatto i salti di gioia davanti a tale richiesta, si era detto d'accordo
essenzialmente per due motivi: la riservatezza del posto e la vicinanza della
tenuta a quella del suo fido consigliere Blaise Zabini, amministratore delle terre del nord della Gran Bretagna, uomo del quale pareva
oramai fidarsi ciecamente.
Pareva, appunto.
Ma apparenza e essenza erano due entità ben
differenti nel palazzo dove il male risiedeva, e tutti i suoi abitanti lo
sapevano bene. Le parole, se scevre di magia, non avevano alcun valore. E per
quanto un'amicizia fosse lodata e decantata, il rischio di vedersi decapitare
dal proprio braccio destro era sempre dietro l'angolo.
Motivo per cui si diceva una cosa, ma se ne
faceva un'altra.
Ci si fidava a parole, ma non nei fatti.
E nessuno si sentiva al sicuro. Specie dopo
l'ultima visione della Veggente, avvenuta tre mesi prima.
Shadows Lake era un posto
maledetto, era indubbio.
Ma la corte del Signore Oscuro vantava un
primato raggiunto da pochi: la presenza, in loco, della prosopopea del male stesso.
Allocato su un isolotto poco lontano dalla
costa est dell'Inghilterra, il castello in cui Voldemort
risiedeva era nascosto ai più da sottili magie e grandi astuzie.
Perché per tutti, maghi e babbani,
quel cumulo di pietre e sabbia era ricoperto da sole macerie.
E così era, infatti.
Il vero castello si sviluppava sotto la
superficie, fra nera terra e fredda acqua marina, un inferno suddiviso in
molteplici gironi abitati da maghi, streghe e creature depravate. Perfino
alcuni demoni, richiamati dallo stesso Voldemort o
dal suo Primo Alchimista, dimoravano lì, nei meandri più umidi e bui di
quell'imbuto rovesciato, portando tormento ai prigionieri delle carceri
dell'ultima cerchia e torturandoli fino alla fine.
Quelle carceri in quegli ultimi tre lustri
avevano visto rifiorire la vita. Un affollamento insolito per quel periodo di
stasi bellica riempiva i corridoi di urla e pianti agghiaccianti. Se prima era
la Veggente Bianca a mietere vittime col suo smisurato potere privo di
controllo, ora era la volontà del signore del posto a fare lo stesso.
Blaise aveva fatto del suo
meglio, agli inizi, per placare le ansie del suo padrone. Ma non appena si era
reso conto che ogni parola aggiunta era un rischio in più per la sua
incolumità, aveva solennemente deciso che non c'era nulla di più conveniente da
fare che tacere. E guardare gli altri – piuttosto che se stesso – morire.
Tanto, non c'era nessuno a cui tenesse, lì.
O – meglio – quasi nessuno.
L'eccezione era data dalla famiglia Malfoy, cui era legato non solo da una profonda amicizia,
ma anche da lontani rapporti di parentela. Loro, tuttavia, erano al sicuro,
protetti dall'asfissiante dipendenza che il Lord aveva dall'alchimia oscura
praticata da Draco.
C'era, tuttavia, un'altra eccezione, che
occupava posizioni assai meno certe e privilegiate e gli provocava una certa
ansia.
Aveva grandi occhi a mandorla, neri come la
pece; labbra a cuore e una lesta mano omicida.
Era una gran bella eccezione.
Ed era la donna che,
segretamente, amava più di ogni cosa.
Era quasi notte.
Pioveva a dirotto.
Il cielo grigio riversava sulla città di
Parigi un'ombra di macabra desolazione.
Circondato dalle figure mostruose che
ornavano con la loro raccapricciante fisicità la sommità della cattedrale di
Nostre Dame, doveva ammettere di sentirsi un poco a disagio. Un po' come alla
corte del suo Signore, in effetti. Faceva quasi fatica a ricordarsi che nessuno
di quei demoni che aveva attorno, a differenza del secondo caso, era vivo.
Quasi sussultò quando un lampo accecante, caduto
in lontananza, fece risaltare la figura in piedi a pochi metri da lui.
Affacciata sul ballatoio, selvaggia e feroce
quanto le statue che aveva attorno, la sua donna ammirava lo spettacolo
naturale che aveva attorno.
Sapeva che le piaceva l'oscurità, il vento
prepotente e la pioggia sferzante. Sapeva che le piaceva qualsiasi cosa si
presentasse a lei come una sfida. Era nata così, fiera e bellicosa, pronta allo
scontro e desiderosa di vincerlo. Perfino in quel momento, davanti alla
tormenta che imperversava, la sua postura arrogante appariva come un urlo di
guerra alla natura stessa.
Ogni volta che la guardava non riusciva a
fare a meno di pensare a come lui, lei e gli altri ragazzi con cui avevano
frequentato Hogwarts fossero entrati a fare parte
delle schiere di Voldemort. A quale strada li avesse
condotti così in basso. Erano pochi quelli che avevano scelto il marchio nero
per vocazione personale. I più erano stati costretti a quella vita dalle
posizioni assunte dai propri familiari.
A distanza di anni dalla distruzione della
Scuola di Magia e Stregoneria, ancora quel destino non scelto e non voluto
continuava a pesare sui più. Qualcuno era stato pure ucciso da quel peso
terrificante e nefasto. Quelli che se la passavano bene erano molto pochi, ed
erano diminuiti ancora in quell'ultimo periodo.
La carriera di lei, tuttavia, non era
ascrivibile a nessuna delle categorie fra cui potevano essere ricondotte quelle
altrui, la sua compresa.
Come già detto, lei era sempre stata un
animale selvaggio, e suo padre aveva fatto leva su questo suo attributo per
convincerla a sottomettersi a Voldemort.
E agli inizi, in effetti, Pansy
era stata una Deatheater meravigliosa. Egregia.
Adorava la guerra. Adorava combattere. Adorava uccidere. Era l'orgoglio del
Lord.
Fino a quando non era emersa la sua totale
incapacità a sottomettersi ai comandi altrui.
Gli animali selvaggi non hanno padroni.
Non si può mettere un collare a una tigre.
Se quello che le veniva chiesto andava contro
la sua volontà, non c'era verso che lei eseguisse gli ordini richiesti.
Così, nel giro di pochi anni, da mangiamorte modello era passata a divenire un cane sciolto.
E non ci volle molto perché suo padre, il vecchio Parkinson, pagasse con la
vita la disobbedienza della propria unigenita.
Latitante da tempo, Pansy
stava alla larga dalla Gran Bretagna e operava occasionalmente con tutte le
organizzazioni che tentavano di contrastare l'avanzata dell'armata oscura, Auror compresi.
Motivo per cui i loro incontri erano sempre
segreti e, ahimè, sporadici.
Se Voldemort fosse
riuscito a catturarla, Dio solo poteva sapere cosa le avrebbe fatto.
“C'è vento e freddo, andiamo dentro!” Le
gridò, cercando di farsi sentire fra il fragore scrosciante dell'acqua che
scendeva.
“Sii uomo, una volta tanto!” Gli rispose lei,
ghignante, fulminandolo coi suoi occhi cupi e seducenti.
Zabini espirò, rassegnato.
“Ti stai bagnando!”
“Sei veramente intuitivo!” Lo canzonò lei.
“Ti ammalerai!”
“Io o tu?!”
“Questo abito mi è costato più di trecento
galeoni!”
“Il mio l'ho pagato cinque, e resiste
benissimo a qualche goccia di pioggia!”
“E' un abito di Madame Stephanie, lo
riconosco da qui... ti sarà costato almeno cinquecento galeoni!”
“Se li avessi pagati, probabilmente sì!”
“Lo hai rubato?!”
“No! Te l'ho detto, l'ho pagato cinque galeoni!”
“E come avresti fatto?!”
“L'ho convinta ad abbassare il prezzo!”
“Immagino le tecniche di contrattazione...”
“Se l'è andata a cercare. Mi ha dato della
cicciona.”
Zabini la guardò
esterrefatto. Se c'era una cosa che non si poteva dire di lei era quella. Era
un fascio di muscoli e tendini, non c'era spazio per morbide rotondità nel suo
corpo da assassina. “Ma se sei pelle e ossa!” Le gridò, difatti.
“Non esattamente...” Replicò la donna,
sorridendo, passandosi una mano sulla pancia.
Sì, sulla pancia.
Sotto il mantello fradicio e gli abiti
bagnati, c'era una pancia.
Blaise fu colpito da quel
gesto in una maniera inaspettata.
Spalancò gli occhi mentre un brivido gli
passava su per la schiena, e cercò di focalizzare meglio lo sguardo
sull'oggetto in questione.
“Forse è il caso che entriamo, in effetti.”
Disse lei, assolutamente cosciente del suo sbigottimento.
All'interno del campanile la donna aveva
allestito un ricovero molto spartano dove, tuttavia, era presente tutto ciò di
cui necessitava, dal letto ai medicamenti, dall'acqua per bere e lavarsi al
fuoco, con cui cucinare e riscaldarsi. Veli di magia proteggevano la dimora
dagli estranei e dalle intemperie.
Blaise si guardò attorno
con amarezza, come sempre desolato davanti alla penuria in cui viveva la sua
metà. Sapeva che lei, malgrado fosse cresciuta immersa fra galeoni d'oro, non
dava molta importanza al degrado che la circondava, che per lei una moquette
morbida e pulita o un bel quadro alla parete erano solo dettagli
insignificanti; ma lui, amante della ricchezza e del lusso sfrenato, non poteva
fare a meno di pensare che non era un tugurio la dimora adatta a Pansy, ma un castello. E si rammaricava ogni giorno di non
potergliene offrire uno, se non a discapito della vita di entrambi.
Distaccandosi con fatica da quei pensieri da
uomo innamorato, notò però un particolare che lo inquietò parecchio.
I nascondigli in cui Pansy
aveva alloggiato in precedenza spesso mancavano perfino del giaciglio su cui
dormire. Era una donna cacciata e in caccia, per cui usava spostarsi da un
luogo all'altro con molta celerità, ed era raro portasse qualcosa con lei.
Aveva, dispersi per i vari paesi europei, diversi rifugi su cui faceva
affidamento quando la situazione si faceva più nera, e dove si recava per qualche
tempo per fare scorta di alimenti, o pozioni, o armi, o abbigliamento. O
semplicemente per nascondersi. Ma avevano tutti un aspetto ancora più povero di
quello dove si trovavano ora, a lui fino a quel momento sconosciuto.
Sembrava quasi che avesse deciso di
stanziarsi lì, e il pensiero gli metteva i brividi.
“Da quanto stai qui?” Le chiese, brusco.
Lei si voltò, squadrandolo con calma
dall'alto al basso. Aveva capito benissimo dove volesse arrivare.
“Due mesi.”
“Sei forse impazzita?!”
“Non so se ti è noto, ma la
smaterializzazione è sconsigliata alle donne in gravidanza.”
Quella realtà – di cui prima aveva avuto un
semplice assaggio – gli ripiombò addosso con la violenza di un macigno. Si
passò una mano fra i folti e ricci capelli neri, evidentemente angosciato.
“Da quanto lo sai?”
“Da parecchio – disse lei, con semplicità –
le nausee mattutine non mi hanno dato tregua agli inizi.”
“Quindi quando, tre mesi fa, ci siamo visti,
lo sapevi già?”
“Esatto.”
“Perché non me lo hai detto?!”
“Speravo ancora che questo bambino avesse la
decenza di suicidarsi. Sai, magari la mia vita movimentata poteva favorirgli
una decisione di tal sorta...”
“Stavi sperando in un aborto spontaneo?!”
Lei fece una faccia fintamente sorpresa. “Ma
così mi fai sembrare un mostro!”
“Pansy – esclamò lui, i nervi a fior di pelle – non ho voglia
dei tuoi giochetti.”
Lei storse il naso, facendo roteare gli
occhi. “Sì Blaise, speravo in un aborto spontaneo. Me
ne puoi dare torto?! Hai presente come vivo, io?! Come cazzo pretendi che
potessi fare i salti di gioia alla scoperta della gravidanza?!”
“Sì, ok, ma... cazzo! Come fai a dirlo con
tanta tranquillità?!” Gridò lui, di rimando.
“Per cosa mi stai rimproverando? Per la mia
sincerità? O per la scelta di vita che ho fatto?”
“Tu non scegli mai niente, Pansy. Tu ti butti a capofitto in tutto, segui l'istinto
come una bestia e...”
“... e l'unica volta che ho sbagliato è stato
quando, anziché seguire il mio istinto ho seguito le parole di mio padre! E
ancora ne sto pagando le conseguenze!”
Stavano litigando. Strano. Ogni volta che si
vedevano passavano metà del tempo a litigare e l'altra metà a fare l'amore. E
fra una cosa e l'altra trovavano pure qualche sfuggevole minuto per aggiornarsi
sulle corrispettive situazioni.
Il silenzio cadde nella stanza dopo l'ultima
frase della donna.
Non c'era nulla da aggiungere e nulla da
obiettare, era indubbio che le cose stessero così.
Perciò ciascuno scaricò la propria rabbia
facendo qualcosa. Blaise decise che era il caso di
accendere il fuoco, Pansy optò per cambiarsi le vesti
fradice. Prendendosi, ovviamente, una piccola rivincita, come suo solito.
Con tranquilla malizia si fece scivolare
mantello e abiti di dosso davanti a lui, dandogli le spalle, lasciandogli
deliberatamente ammirare il suo corpo nudo e le sue nuove, affascinanti curve.
Con calma si asciugò, ben consapevole degli sguardi infuocati di lui. Poi,
quando decise di averlo stuzzicato abbastanza, indossò una camicia. La sua
camicia.
Quando si voltò – un sorrisetto sfrontato
sulle labbra rosse e turgide – trovò i suoi occhi blu, carichi di selvaggia
bramosia, ad accoglierla. E fu il suo turno di vibrare.
Malgrado quell'aspetto elegante e raffinato,
sapeva bene che il suo uomo non era affatto un damerino. Anzi. Sotto quei
velluti e quelle sete, quei gioielli e quei profumi, c'era un predatore forte e
astuto almeno quanto lei. Probabilmente meno impulsivo, più posato, ma
altrettanto pericoloso. Ed era per questo che si era innamorato di lui.
“Cinque mesi?”
“Sette.”
“Non è molto grande la pancia.””
“Fortunatamente no.”
“Non è sicuro che tu stia qui in pianta
stabile.”
“Lo so. Ma non voglio correre il rischio di
perderlo dandomi a viaggi sfrenati e smaterializzazioni lunghe e sfiancanti. Ha
combattuto come un leone per stare attaccato al mio grembo – e, te lo assicuro,
gliene ho fatte passare tante. Ora lo voglio. Voglio questo bambino con tutta
la mia forza. E’ mio figlio, Blaise – nostro figlio. In tutto e per tutto. Si
è guadagnato il suo posto nel mondo e lo avrà.”
A quella rivelazione, il cuore di Blaise mancò un battito.
In due balzi fu da lei, la prese fra le
braccia e le divorò la bocca con un bacio inaspettato e mozzafiato.
A Pansy vennero
quasi le lacrime agli occhi per la commozione.
“Vorrei poterti sposare e darti il mio nome,
la mia casa e la mia protezione – a te e al nostro bambino! Ma non posso! Cazzo!
Perché?! Perché non posso?!” Esclamò, stringendosela al petto.
“Perché non vuoi morire, amore mio.” Gli
rispose lei, godendosi il calore del suo corpo. “E io neppure.”
“Troverò una soluzione. Te lo giuro. Troverò
una soluzione.” Le promise, nella mente un solo pensiero: c’era un unico posto
sicuro da Voldemort in tutto il mondo. E lui sapeva
esattamente qual era.
To be continued…