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Autore: kishal    16/03/2014    0 recensioni
La guerra magica è finita da tempo e Lord Voldemort ha vinto. Insediatosi sul trono del mondo magico, domina sui suoi sudditi grazie all'aiuto della Veggente Bianca, sua prigioniera, le cui profezie involontarie vengono da lui usate per prevedere e bloccare l'avanzata dei ribelli capeggiati da Harry Potter e la sua schiera. Proprio nel tentativo di proteggere la sua arma più potente, è costretto ad affidare la veggente al suo più oscuro collaboratore, il Primo Alchimista. Da qui ha iniziato questa storia di magia e oscurità, di speranza e rancore, di amore e paura.
Una storia di mostri.
Genere: Azione, Generale, Horror | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Draco Malfoy, Luna Lovegood, Un po' tutti | Coppie: Draco/Luna
Note: OOC | Avvertimenti: Violenza | Contesto: Nessun contesto, Dopo la II guerra magica/Pace
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Mostri

 

 

 

-          Capitolo 5     -

 

 

 Shadows Lake era una grande tenuta nella Scozia meridionale, appartenente alla famiglia Malfoy ormai da secoli. Costruita da un avo che, si dice, la usasse per dare sfogo alle sue ‘voglie di grida e sangue’ (non intese in senso carnale), forse a causa di questi violenti natali non aveva mai riscosso grossi apprezzamenti fra i vari eredi susseguitisi, ragione per cui era stata abbandonata. E tale era rimasta fino a quando Draco, rinsavito dalla sua vita brava, aveva deciso di farne il suo nuovo centro operativo.

Ovviamente, prima di quel grande passo aveva dovuto chiedere non solo l'autorizzazione a suo padre, Lucius, ma soprattutto la benedizione del suo signore e padrone, il machiavellico Lord oscuro, Voldemort. E costui, malgrado non avesse fatto i salti di gioia davanti a tale richiesta, si era detto d'accordo essenzialmente per due motivi: la riservatezza del posto e la vicinanza della tenuta a quella del suo fido consigliere Blaise Zabini, amministratore delle terre del nord  della Gran Bretagna, uomo del quale pareva oramai fidarsi ciecamente.

Pareva, appunto.

Ma apparenza e essenza erano due entità ben differenti nel palazzo dove il male risiedeva, e tutti i suoi abitanti lo sapevano bene. Le parole, se scevre di magia, non avevano alcun valore. E per quanto un'amicizia fosse lodata e decantata, il rischio di vedersi decapitare dal proprio braccio destro era sempre dietro l'angolo.

Motivo per cui si diceva una cosa, ma se ne faceva un'altra.

Ci si fidava a parole, ma non nei fatti.

E nessuno si sentiva al sicuro. Specie dopo l'ultima visione della Veggente, avvenuta tre mesi prima.

 

Shadows Lake era un posto maledetto, era indubbio.

Ma la corte del Signore Oscuro vantava un primato raggiunto da pochi: la presenza, in loco, della prosopopea del male stesso.

 

 

 

 

Allocato su un isolotto poco lontano dalla costa est dell'Inghilterra, il castello in cui Voldemort risiedeva era nascosto ai più da sottili magie e grandi astuzie.

Perché per tutti, maghi e babbani, quel cumulo di pietre e sabbia era ricoperto da sole macerie.

E così era, infatti.

Il vero castello si sviluppava sotto la superficie, fra nera terra e fredda acqua marina, un inferno suddiviso in molteplici gironi abitati da maghi, streghe e creature depravate. Perfino alcuni demoni, richiamati dallo stesso Voldemort o dal suo Primo Alchimista, dimoravano lì, nei meandri più umidi e bui di quell'imbuto rovesciato, portando tormento ai prigionieri delle carceri dell'ultima cerchia e torturandoli fino alla fine.

Quelle carceri in quegli ultimi tre lustri avevano visto rifiorire la vita. Un affollamento insolito per quel periodo di stasi bellica riempiva i corridoi di urla e pianti agghiaccianti. Se prima era la Veggente Bianca a mietere vittime col suo smisurato potere privo di controllo, ora era la volontà del signore del posto a fare lo stesso.

Blaise aveva fatto del suo meglio, agli inizi, per placare le ansie del suo padrone. Ma non appena si era reso conto che ogni parola aggiunta era un rischio in più per la sua incolumità, aveva solennemente deciso che non c'era nulla di più conveniente da fare che tacere. E guardare gli altri – piuttosto che se stesso – morire. Tanto, non c'era nessuno a cui tenesse, lì.

O – meglio – quasi nessuno.

L'eccezione era data dalla famiglia Malfoy, cui era legato non solo da una profonda amicizia, ma anche da lontani rapporti di parentela. Loro, tuttavia, erano al sicuro, protetti dall'asfissiante dipendenza che il Lord aveva dall'alchimia oscura praticata da Draco.

 

C'era, tuttavia, un'altra eccezione, che occupava posizioni assai meno certe e privilegiate e gli provocava una certa ansia.

Aveva grandi occhi a mandorla, neri come la pece; labbra a cuore e una lesta mano omicida.

Era una gran bella eccezione.

Ed era la donna che, segretamente, amava più di ogni cosa.

 

 

 

 

Era quasi notte.

Pioveva a dirotto.

Il cielo grigio riversava sulla città di Parigi un'ombra di macabra desolazione.

Circondato dalle figure mostruose che ornavano con la loro raccapricciante fisicità la sommità della cattedrale di Nostre Dame, doveva ammettere di sentirsi un poco a disagio. Un po' come alla corte del suo Signore, in effetti. Faceva quasi fatica a ricordarsi che nessuno di quei demoni che aveva attorno, a differenza del secondo caso, era vivo.

 

Quasi sussultò quando un lampo accecante, caduto in lontananza, fece risaltare la figura in piedi a pochi metri da lui.

Affacciata sul ballatoio, selvaggia e feroce quanto le statue che aveva attorno, la sua donna ammirava lo spettacolo naturale che aveva attorno.

Sapeva che le piaceva l'oscurità, il vento prepotente e la pioggia sferzante. Sapeva che le piaceva qualsiasi cosa si presentasse a lei come una sfida. Era nata così, fiera e bellicosa, pronta allo scontro e desiderosa di vincerlo. Perfino in quel momento, davanti alla tormenta che imperversava, la sua postura arrogante appariva come un urlo di guerra alla natura stessa.

 

Ogni volta che la guardava non riusciva a fare a meno di pensare a come lui, lei e gli altri ragazzi con cui avevano frequentato Hogwarts fossero entrati a fare parte delle schiere di Voldemort. A quale strada li avesse condotti così in basso. Erano pochi quelli che avevano scelto il marchio nero per vocazione personale. I più erano stati costretti a quella vita dalle posizioni assunte dai propri familiari.

A distanza di anni dalla distruzione della Scuola di Magia e Stregoneria, ancora quel destino non scelto e non voluto continuava a pesare sui più. Qualcuno era stato pure ucciso da quel peso terrificante e nefasto. Quelli che se la passavano bene erano molto pochi, ed erano diminuiti ancora in quell'ultimo periodo.

 

La carriera di lei, tuttavia, non era ascrivibile a nessuna delle categorie fra cui potevano essere ricondotte quelle altrui, la sua compresa.

Come già detto, lei era sempre stata un animale selvaggio, e suo padre aveva fatto leva su questo suo attributo per convincerla a sottomettersi a Voldemort.

E agli inizi, in effetti, Pansy era stata una Deatheater meravigliosa. Egregia. Adorava la guerra. Adorava combattere. Adorava uccidere. Era l'orgoglio del Lord.

Fino a quando non era emersa la sua totale incapacità a sottomettersi ai comandi altrui.

Gli animali selvaggi non hanno padroni.

Non si può mettere un collare a una tigre.

Se quello che le veniva chiesto andava contro la sua volontà, non c'era verso che lei eseguisse gli ordini richiesti.

Così, nel giro di pochi anni, da mangiamorte modello era passata a divenire un cane sciolto. E non ci volle molto perché suo padre, il vecchio Parkinson, pagasse con la vita la disobbedienza della propria unigenita.

 

Latitante da tempo, Pansy stava alla larga dalla Gran Bretagna e operava occasionalmente con tutte le organizzazioni che tentavano di contrastare l'avanzata dell'armata oscura, Auror compresi.

Motivo per cui i loro incontri erano sempre segreti e, ahimè, sporadici.

Se Voldemort fosse riuscito a catturarla, Dio solo poteva sapere cosa le avrebbe fatto.

 

“C'è vento e freddo, andiamo dentro!” Le gridò, cercando di farsi sentire fra il fragore scrosciante dell'acqua che scendeva.

“Sii uomo, una volta tanto!” Gli rispose lei, ghignante, fulminandolo coi suoi occhi cupi e seducenti.

Zabini espirò, rassegnato. “Ti stai bagnando!”

“Sei veramente intuitivo!” Lo canzonò lei.

“Ti ammalerai!”

“Io o tu?!”

“Questo abito mi è costato più di trecento galeoni!”

“Il mio l'ho pagato cinque, e resiste benissimo a qualche goccia di pioggia!”

“E' un abito di Madame Stephanie, lo riconosco da qui... ti sarà costato almeno cinquecento galeoni!”

“Se li avessi pagati, probabilmente sì!”

“Lo hai rubato?!”

“No! Te l'ho detto, l'ho pagato cinque galeoni!”

“E come avresti fatto?!”

“L'ho convinta ad abbassare il prezzo!”

“Immagino le tecniche di contrattazione...”

“Se l'è andata a cercare. Mi ha dato della cicciona.”

Zabini la guardò esterrefatto. Se c'era una cosa che non si poteva dire di lei era quella. Era un fascio di muscoli e tendini, non c'era spazio per morbide rotondità nel suo corpo da assassina. “Ma se sei pelle e ossa!” Le gridò, difatti.

“Non esattamente...” Replicò la donna, sorridendo, passandosi una mano sulla pancia.

 

Sì, sulla pancia.

Sotto il mantello fradicio e gli abiti bagnati, c'era una pancia.

 

Blaise fu colpito da quel gesto in una maniera inaspettata.

Spalancò gli occhi mentre un brivido gli passava su per la schiena, e cercò di focalizzare meglio lo sguardo sull'oggetto in questione.

 

“Forse è il caso che entriamo, in effetti.” Disse lei, assolutamente cosciente del suo sbigottimento.

 

 

 

 

All'interno del campanile la donna aveva allestito un ricovero molto spartano dove, tuttavia, era presente tutto ciò di cui necessitava, dal letto ai medicamenti, dall'acqua per bere e lavarsi al fuoco, con cui cucinare e riscaldarsi. Veli di magia proteggevano la dimora dagli estranei e dalle intemperie.

Blaise si guardò attorno con amarezza, come sempre desolato davanti alla penuria in cui viveva la sua metà. Sapeva che lei, malgrado fosse cresciuta immersa fra galeoni d'oro, non dava molta importanza al degrado che la circondava, che per lei una moquette morbida e pulita o un bel quadro alla parete erano solo dettagli insignificanti; ma lui, amante della ricchezza e del lusso sfrenato, non poteva fare a meno di pensare che non era un tugurio la dimora adatta a Pansy, ma un castello. E si rammaricava ogni giorno di non potergliene offrire uno, se non a discapito della vita di entrambi.

 

Distaccandosi con fatica da quei pensieri da uomo innamorato, notò però un particolare che lo inquietò parecchio.

I nascondigli in cui Pansy aveva alloggiato in precedenza spesso mancavano perfino del giaciglio su cui dormire. Era una donna cacciata e in caccia, per cui usava spostarsi da un luogo all'altro con molta celerità, ed era raro portasse qualcosa con lei. Aveva, dispersi per i vari paesi europei, diversi rifugi su cui faceva affidamento quando la situazione si faceva più nera, e dove si recava per qualche tempo per fare scorta di alimenti, o pozioni, o armi, o abbigliamento. O semplicemente per nascondersi. Ma avevano tutti un aspetto ancora più povero di quello dove si trovavano ora, a lui fino a quel momento sconosciuto.

Sembrava quasi che avesse deciso di stanziarsi lì, e il pensiero gli metteva i brividi.

“Da quanto stai qui?” Le chiese, brusco.

 

Lei si voltò, squadrandolo con calma dall'alto al basso. Aveva capito benissimo dove volesse arrivare.

“Due mesi.”

“Sei forse impazzita?!”

“Non so se ti è noto, ma la smaterializzazione è sconsigliata alle donne in gravidanza.”

 

Quella realtà – di cui prima aveva avuto un semplice assaggio – gli ripiombò addosso con la violenza di un macigno. Si passò una mano fra i folti e ricci capelli neri, evidentemente angosciato.

“Da quanto lo sai?”

“Da parecchio – disse lei, con semplicità – le nausee mattutine non mi hanno dato tregua agli inizi.”

“Quindi quando, tre mesi fa, ci siamo visti, lo sapevi già?”

“Esatto.”

“Perché non me lo hai detto?!”

“Speravo ancora che questo bambino avesse la decenza di suicidarsi. Sai, magari la mia vita movimentata poteva favorirgli una decisione di tal sorta...”

“Stavi sperando in un aborto spontaneo?!”

Lei fece una faccia fintamente sorpresa. “Ma così mi fai sembrare un mostro!”

Pansy – esclamò lui, i nervi a fior di pelle – non ho voglia dei tuoi giochetti.”

 

Lei storse il naso, facendo roteare gli occhi. “Sì Blaise, speravo in un aborto spontaneo. Me ne puoi dare torto?! Hai presente come vivo, io?! Come cazzo pretendi che potessi fare i salti di gioia alla scoperta della gravidanza?!”

“Sì, ok, ma... cazzo! Come fai a dirlo con tanta tranquillità?!” Gridò lui, di rimando.

“Per cosa mi stai rimproverando? Per la mia sincerità? O per la scelta di vita che ho fatto?”

“Tu non scegli mai niente, Pansy. Tu ti butti a capofitto in tutto, segui l'istinto come una bestia e...”

“... e l'unica volta che ho sbagliato è stato quando, anziché seguire il mio istinto ho seguito le parole di mio padre! E ancora ne sto pagando le conseguenze!”

 

Stavano litigando. Strano. Ogni volta che si vedevano passavano metà del tempo a litigare e l'altra metà a fare l'amore. E fra una cosa e l'altra trovavano pure qualche sfuggevole minuto per aggiornarsi sulle corrispettive situazioni.

 

Il silenzio cadde nella stanza dopo l'ultima frase della donna.

Non c'era nulla da aggiungere e nulla da obiettare, era indubbio che le cose stessero così.

Perciò ciascuno scaricò la propria rabbia facendo qualcosa. Blaise decise che era il caso di accendere il fuoco, Pansy optò per cambiarsi le vesti fradice. Prendendosi, ovviamente, una piccola rivincita, come suo solito.

Con tranquilla malizia si fece scivolare mantello e abiti di dosso davanti a lui, dandogli le spalle, lasciandogli deliberatamente ammirare il suo corpo nudo e le sue nuove, affascinanti curve. Con calma si asciugò, ben consapevole degli sguardi infuocati di lui. Poi, quando decise di averlo stuzzicato abbastanza, indossò una camicia. La sua camicia.

Quando si voltò – un sorrisetto sfrontato sulle labbra rosse e turgide – trovò i suoi occhi blu, carichi di selvaggia bramosia, ad accoglierla. E fu il suo turno di vibrare.

Malgrado quell'aspetto elegante e raffinato, sapeva bene che il suo uomo non era affatto un damerino. Anzi. Sotto quei velluti e quelle sete, quei gioielli e quei profumi, c'era un predatore forte e astuto almeno quanto lei. Probabilmente meno impulsivo, più posato, ma altrettanto pericoloso. Ed era per questo che si era innamorato di lui.

 

“Cinque mesi?”

“Sette.”

“Non è molto grande la pancia.””

“Fortunatamente no.”

“Non è sicuro che tu stia qui in pianta stabile.”

“Lo so. Ma non voglio correre il rischio di perderlo dandomi a viaggi sfrenati e smaterializzazioni lunghe e sfiancanti. Ha combattuto come un leone per stare attaccato al mio grembo – e, te lo assicuro, gliene ho fatte passare tante. Ora lo voglio. Voglio questo bambino con tutta la mia forza. E’ mio figlio, Blaisenostro figlio. In tutto e per tutto. Si è guadagnato il suo posto nel mondo e lo avrà.”

 

A quella rivelazione, il cuore di Blaise mancò un battito.

In due balzi fu da lei, la prese fra le braccia e le divorò la bocca con un bacio inaspettato e mozzafiato.

A Pansy vennero quasi le lacrime agli occhi per la commozione.

“Vorrei poterti sposare e darti il mio nome, la mia casa e la mia protezione – a te e al nostro bambino! Ma non posso! Cazzo! Perché?! Perché non posso?!” Esclamò, stringendosela al petto.

“Perché non vuoi morire, amore mio.” Gli rispose lei, godendosi il calore del suo corpo. “E io neppure.”

“Troverò una soluzione. Te lo giuro. Troverò una soluzione.” Le promise, nella mente un solo pensiero: c’era un unico posto sicuro da Voldemort in tutto il mondo. E lui sapeva esattamente qual era.

 

 

 

 

 

 

To be continued…

 

 

 

 

   
 
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