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Rinnovo i miei
ringraziamenti a tutti coloro che leggono ancora THoE e che mi
incoraggiano. Fra pochi giorni dovrò sottopormi ad un piccolo
intervento laser agli occhi, anche se non mi hanno dato notizie certe
in merito ritengo che non potrò passare molto tempo al pc, almeno
all'inizio, non che cambi niente, penserete in molti (e a ragione,
direi -.- )... ah le gioie dell'autoironia. Incrocio le dita e per chi
volesse farlo con me un grande abbraccio.
Piccola nota curiosa: in una recensione al capitolo scorso, perdonate
non ricordo quale, veniva chiesto come mai Snape non cercasse di fare
qualcosa, anche soltanto scrivere una lettera, se non ricordo male. E'
curioso come il capitolo che mi accingo a pubblicare ora sia stato
scritto praticamente insieme all'altro e quindi credo che chi ha
scritto la recensione abbia qualche potere di preveggenza o che si sia
immedesimato/a moltissimo. E' sempre assurdamente fantastico quando
qualcuno ti commenta una cosa che hai già scritto o pensato di
scrivere, perché rende l'idea di quanto sia possibile coinvolgere ed
entrare in sintonia con la scrittura.
Ancora grazie e a presto.
Mel Kaine
The Heart of Everything
26 -
/A demon's fate /
“Signor Collins, ha intenzione di mandarci tutti in infermeria dentro
una tabacchiera?”
Lo sgraziato alunno in questione s’irrigidì di colpo, ritraendo la mano
che conteneva l’ingrediente sbagliato prima di poter fare esplodere la
pozione gettandolo nel calderone.
A quel punto l’intera classe di Hufflepuff e Ravenclaw si aspettava una
decurtazione di almeno cinquanta punti e un mese di punizione per lo
sfortunato ed incauto studente, ma Snape non aggiunse altro e con un
gesto della bacchetta estinse la fiamma sotto ai calderoni e mandò via
tutti.
Lentamente raccolse le sue cose e si ritirò verso le proprie stanze.
Vicino alla Great Hall la voce di Minerva lo riscosse.
“Severus, tutto… bene?”
Snape si volse, seccato.
“Naturalmente, Professoressa McGonagall. Aveva bisogno di me?”
Minerva sospirò.
Erano giorno che Snape si rivolgeva a stento a chiunque e quando lo
faceva manteneva una distanza tale da gelare il suo interlocutore anche
con una semplice risposta.
Naturalmente con tanti anni di insegnamento alle spalle ci sarebbe
voluto ben altro per scoraggiarla.
“Albus desidera vederti. Puoi trovare del tempo per andare nel suo
studio, diciamo, nel pomeriggio?”
“Che ‘inaspettato piacere’. Non mancherò. Con permesso”.
Severus rientrò nelle proprie stanze e subito si sedette su una delle
sue poltrone. Sul tavolino accanto c’erano i resti della sua cena ed il
suo imminente pranzo.
Una bottiglia di scotch.
Non voleva nient’altro che la bruciante carezza dell’alcol ed anche se
non aveva ancora bevuto tanto da ubriacarsi sapeva di star andando in
una direzione pericolosa.
Eppure non poteva farne a meno.
Preferiva di gran lunga il torpore mentale che il liquore riusciva a
dargli all’insensatezza di quello che provava.
Aveva cercato di darsi un contegno, ma ogni volta qualcosa intorno a
lui gli ricordava il momento in cui la sua faticosamente conquistata ed
impensabile pace era stata distrutta da Black.
Di nuovo.
Piccoli particolari disseminati nelle sue stanze come quella dannata
Infrangipalla vicino al tappeto o la scatola di latta dei suoi compiti
sulla libreria. E la sua stanza.
Snape aveva lasciato tutto com’era e l’aveva sigillata.
Eppure qua e là il bambino-Potter aveva comunque lasciato dei segni
della sua breve quanto profonda permanenza e Snape non riusciva a
buttarli via né tanto meno a chiuderli in un ripostiglio.
Lasciava tutto com’era – perché non era una separazione definitiva,
Harry, non lo era – anche se sapeva che ogni casuale sguardo
sarebbe stato una fitta di dolore nel rammarico di non aver lottato
abbastanza per lui, così come non aveva potuto fare per lei.
Ironia della sorte che adesso legava la sua anima scura a madre e
figlio ancor più saldamente.
Si alzò.
Era tempo di farsi compatire dal grande Dumbledore.
Harry si svegliò di nuovo di colpo, ma questa volta sapeva dare un nome
e una faccia al sogno che lo aveva spaventato.
Zio Vernon era tornato a tormentarlo.
Aveva sognato che il signore lo riportava a casa dei suoi zii e poi si
sedeva a guardare mentre Zio Vernon lo faceva lavorare per imparare
come farlo lavorare anche lì, in quella casa buia e polverosa.
Il silenzio lo avvolgeva, ma non era come un abbraccio, era qualcosa
che gli toglieva il fiato e che lo faceva sentire come ‘schiacciato’.
Non c’era mai nessuno.
Il signore spesso usciva ed Harry veniva chiamato solo per mangiare.
Era senz’alto una punizione perché Harry non aveva chiesto di lavorare.
Il signore lo faceva mangiare tanto e così Harry vomitava e poi aveva
di nuovo fame, ma la volta dopo mangiava di nuovo troppo e di nuovo
vomitava e aveva ancora fame e così, per sempre.
Harry sapeva che avrebbe dovuto chiedere di lavorare, ma il
maestro-Sevreus gli aveva spiegato che i bambini non devono lavorare,
devono studiare ed ubbidire ai grandi, ma non a tutti i grandi, solo a
quelli buoni. Poi il maestro aveva provato a fargli capire come
riconoscere i grandi buoni, ma non era facile ed Harry non era ancora
sicuro. Quello che sapeva era che il maestro era buono e forse un po’
buono era anche il signore dai capelli chiari, invece il signore non lo
sembrava. Harry doveva dire, però che non era stato picchiato né nulla,
ma il signore era strano, uno strano diverso da quello del maestro, che
pure era strano, certo. Quello del signore era uno strano strano, nel
senso che Harry non sapeva cosa aspettarsi e… non si fidava.
Il maestro aveva detto di non lavorare e quindi Harry non aveva chiesto
di lavorare, ma non poteva nemmeno studiare, perché nessuno gli
insegnava niente e non c’erano penne di piccione o fogli gialli in
quella casa, ma solo tanti libri che Harry non poteva toccare.
E adesso erano tornati anche i brutti sogni. Harry aveva tanta paura
che non se ne sarebbero andati senza l’uomo-Sevreus.
No, non ce l’avrebbe mai fatta, anche se avrebbe provato.
D’un tratto di nuovo comparve il cameriere-elfo e prima che potesse
finire di parlare il piccolo Harry si era già alzato per andare a
tavola.
“Desiderava vedermi, Preside?” chiese retoricamente Snape, entrando
nell’ufficio del Preside come se ogni passo gli costasse sudore e
sangue.
“Oh, Severus, caro ragazzo, come stai? Sono giorni che nessuno ti vede
nella Great Hall. Gli elfi mi hanno detto che non stai consumando con
regolarità i tuoi pasti…”
“Per favore, Preside. Se mi ha convocato per discutere delle mie
abitudini alimentari, o della loro mancanza, allora posso ritenermi
congedato”.
Fece per andarsene, ma naturalmente Albus non aveva che iniziato.
“Suvvia, Severus, rimani, per favore. E’ tanto tempo che non ho più
occasione di godere della tua compagnia e spero così che tu possa
parlarmi di come… vanno le cose”.
Severus si volse.
Un’espressione di marmo negli occhi.
Dumbledore sorrise amabilmente.
“Del tè?”
Quella notte fu la prima, la prima di molte in cui tutto sembrava
finito per sempre.
La pace, la piccola serenità che Harry aveva trovato sotto la
protezione dell’uomo-Sevreus era scomparsa come la neve nel Surrey
quando arrivava la primavera.
Quella notte Zio Vernon era apparso di nuovo nei suoi sogni, ancor più
spaventoso.
Camminava verso di lui e rideva con quel sorriso cattivo che Harry
aveva imparato a conoscere e che portava sempre dolore e botte. Si
muoveva verso di lui e intanto rideva e gli diceva ‘Sei di nuovo solo adesso,
ragazzo. E lo sai che cosa capita quando sei solo? Adesso ti porterò
vicino alle scale…’
Il terrore era stato troppo. Il piccolo Harry aveva urlato così forte
da svegliarsi. Ma nessuna porta si era aperta, nessun rumore di passi
che venivano a salvarlo. Nessun abbraccio nero e confortante, nessuno
che lo cullasse. Niente. Niente.
E quel niente era spaventoso quasi quanto Zio Vernon o forse di più.
Perché era reale.
Albus lo aveva tormentato a sufficienza. Severus ricordava, nel buio
del suo salotto, di aver contrattaccato ad un certo punto.
“Ha ricevuto
notizie dai due… canidi, Preside? Circa il bambino, ovviamente…”
Albus aveva
disapprovato la scelta del termine, ma non aveva potuto nemmeno
apertamente confutarla.
Aveva scosso la
testa, dunque, fermandosi nel gesto di riempire nuovamente la tazza di
Severus quando questi aveva fatto cenno di no.
“Tristemente,
niente. Ho richiesto la presenza di Remus, ma purtroppo la luna non ci
è favorevole, sorgerà piena questa notte e il nostro amico avrà senza
dubbio altro a cui pensare per qualche giorno”.
“Vedo che le
cattive abitudini sono dure a morire…”
“Quelle di
trasformarsi in un lupo, mio caro ragazzo?”
“No, le sue di
affidare il bambino a degli incompetenti e poi non vigilare su di lui”.
La frase era stata
come una tempesta su di un prato poco prima soleggiato.
Ma della reazione
del grande e potente Dumbledore a Snape non importava.
Niente importava.
Albus chiuse gli
occhi. Si era meritato quella stoccata. Lo sapevano entrambi.
“Ti prometto che
mi informerò al più presto, dovessi anche presentarmi di persona a
Grimmauld Place”.
“Allora farà bene
a sbrigarsi, Preside – aveva risposto il giovane maestro, alzandosi. –
Non vorrei che il viaggio verso quella casa fosse lungo cinque anni
come il precedente”.
E con quel veleno finalmente sputatogli addosso se n’era andato.
A bere nelle sue stanze buie.
All’inizio il piccolo Harry ci aveva provato. Il maestro-Sevreus poteva
essere orgoglioso di lui. Tutte le sere, prima di andare a letto o
meglio, di stendersi sul tappeto ai piedi del letto, Harry faceva i
suoi esercizi con la mente. Chiudeva gli occhi e respirava piano,
sempre più piano e poi cercava di aprire la porta del suo luogo
segreto, quello che il maestro gli aveva detto di creare e all’inizio
Harry ce l’aveva fatta. Chiudeva gli occhi e all’improvviso nel buio,
in fondo vedeva una luce, la luce di… un caminetto. Il caminetto del
salotto dell’uomo. Tutto era uguale, tutto era come Harry lo ricordava.
La piccola scrivania fatta per lui, i libri sugli scaffali, la scatola
di latta, il pezzo di stoffa verde con la ‘S’ sulla parete, le piume di
piccione dell’uomo, la scrivania grande e poi lì, davanti al fuoco,
sulla poltrona verdeargento, proprio là, davanti a lui, l’uomo-Sevreus.
I suoi vestiti neri, il suo mantello che aveva protetto Harry dal
freddo quando gli uomini col cappuccio li avevano presi, il suo naso da
pinguino, tutto. Poteva vedere tutto, ma durava sempre poco, durava
sempre meno poi tutto scompariva ed ecco che Zio Vernon usciva dal buio
e lo afferrava e lo picchiava e nessuno lo poteva aiutare.
Aveva smesso di urlare, tremava e basta, tremava come le foglie degli
alberi quando soffiava il vento, ma nessuno veniva da lui.
Era solo.
E non poteva fare altro che piangere. In silenzio.
Severus non riusciva a dormire.
Ormai erano notti che girava per i corridoi bui e quieti della scuola
in cerca di una pace che non trovava. Dumbledore non era riuscito
affatto a rassicurarlo, né il giorno in cui avevano parlato né tutti
quelli dopo. Era preoccupato. Nessuno sapeva niente del bambino e Lupin
non si era presentato. Non sapeva se il dannato lupo avesse realmente
prestato orecchio a quel suo consiglio gettato lì dalla penombra delle
scale, non sapeva se fosse successo qualcosa, non sapeva se Lupin e
quell’imbecille di Black avessero notato lo strano comportamento di
Harry in determinate situazioni. Non sapeva niente.
E quel niente lo turbava.
Profondamente.
Quando rientrò nei suoi quartieri fuori ormai albeggiava.
Severus si sedé al suo tavolo e prese a scrivere furiosamente.
Quel giorno Sirius non aveva stupide incombenze legali o altre
seccature simili e sapeva che Remus sarebbe rientrato a momenti dopo i
suoi giorni da Moony. Aveva pensato di passare il pomeriggio con lui e
con Harry. Sapeva di non poterlo portare fuori, Albus era stato
tassativo su quel punto, ma potevano parlare di Quidditch o giocare a
scacchi. Provò a cercarlo in camera, ma la stanza non sembrava solo
vuota, ma positivamente disabitata. Provò a guardare in bagno, in
cucina, nella sala finché non fu costretto a chiamare il suo stupido
elfo domestico per domandarglielo.
“Il bambino è sempre nella sala della biblioteca” disse Kreacher con il
solito tono di disgusto.
Congedato il caustico elfo Sirius si diresse a grandi passi verso la
biblioteca dei Black. Sperava sinceramente che il bambino gli avesse
dato retta quando gli aveva detto di non toccare nessun libro. La
collezione di testi della sua famiglia era molto preziosa e,
soprattutto, pericolosa. Nel corso dei secoli i suoi antenati avevano
raccolto libri magici di ogni genere e Sirius non poteva fare a meno di
preoccuparsi. Harry avrebbe potuto aprire uno di quei libri proibiti di
magia nera ed essere risucchiato o fatto a pezzi. Arrivò alla porta
trafelato, ma una volta aperta si bloccò.
Il bambino era lì, immobile, ai piedi di una vecchia poltrona. Guardava
fisso davanti a sé gli scaffali, ma appariva incolume. Non sembrava
aver toccato niente, sembrava solo perso, con lo sguardo nel vuoto.
Sirius fece per entrare, ma una voce alle sue spalle lo fermò.
Remus era rientrato in quel momento.
“Il buon vecchio, simpatico Kreacher mi ha detto che potevo trovarvi
qua”.
Sirius sbuffò della fin troppo gentile ironia del suo amico.
“Già, dovrei proprio decidermi a dare un calcio ed un calzino a
quell’elfo”.
“Ma poi dove finirebbe tutto il divertimento?”
Risero brevemente mentre Sirius indicava a Remus il bambino.
Poi socchiuse la porta della biblioteca e si volse verso il suo vecchio
amico.
“Non… non credi che Harry sia un po’… strano, Remus? A quanto ho capito
sta tutto il giorno là e fissa i libri e poi tutti quei ‘Sì,
signore’ e ‘No, signore’, mi sono presentato non so quante volte e ho
perso il conto delle occasioni in cui gli ho detto come chiamarmi, ma
niente. Pensi che possa essere… ritardato?”
Lupin rimase interdetto.
Non aveva notato nessun comportamento pienamente anomalo, ma poteva
certo affermare che qualcosa in Harry era diverso rispetto a tutti gli
altri bambini.
Intanto Sirius continuava.
“No, non può essere. Albus lo avrebbe detto e poi James e Lily erano
perfettamente sani, pensi che possa essere stato quel maledetto
Snivellus? Che gli abbia fatto qualcosa di orribile con tutte quelle
sue pozioni disgustose? Perché se così fosse…”
Remus lo fermò prima che quel pensiero assurdo potesse diventare anche
minimamente rispettabile.
“Sirius, non esagerare. Penso piuttosto che Harry sia un bambino molto
timido e non dimentichiamoci di cosa ha passato. Poteva anche avere un
anno, ma ha visto i suoi genitori morire. Dobbiamo essere comprensivi
con lui. Le cose miglioreranno, vedrai”.
“Mh, sarà come dici, ma molto presto ho intenzione di tornare da Albus
per saperne di più”.
“E sarà meglio farlo alla svelta anche, sono giorni che ci cerca, credo
ci siano diversi suoi messaggi nella posta, hai avuto modo di
controllare cosa dicessero?”
“No, sai che ho avuto molti impegni con i notai per la vendita di
quelle proprietà mentre ero in prigione. Il Ministero si è appropriato
di quasi tutti i beni della mia famiglia, ma li riavrò indietro, ne
puoi star
certo”.
Insieme si diressero in cucina, dove Kreacher aveva raccolto la posta
arrivata in quella settimana.
Sirius prese a frugare fra le lettere. Erano giorni che non aveva il
tempo di fare niente con tutti quei maledetti avvocati e le sere
passate a…
Non voleva soffermarsi su quello adesso.
I demoni che lo tormentavano dovevano restare chiusi dietro ai suoi
occhi.
Aveva Harry a cui pensare.
Nella posta trovò quattro o cinque lettere di Albus. Tutte chiedevano
la stessa cosa.
Notizie del bambino.
Tsk, perché mai Albus si preoccupava tanto? Il bambino era dove doveva
essere, dove era giusto che fosse, con il suo padrino, insieme a due
dei migliori amici dei suoi genitori. Non certo con quel dannato Death
Eater.
Si lasciò nuovamente distrarre dalla corrispondenza arretrata fino a
che non trovò fra le altre una lettera che non era indirizzata a lui.
“Questa è per te, Remus”.
Il giovane lupo alzò un sopracciglio, meravigliato.
Non riceveva molte lettere, fatta eccezione per le comunicazioni di
Albus, ma quella non sembrava affatto la sua calligrafia.
Fece per aprirla, ma qualcosa lo fermò.
La ripose per poi leggerla più tardi.
Era quasi ora di cena ormai.
Sirius finì di controllare la sua posta, esclamando qui e lì per il
disappunto ed inveendo contro questo e quel funzionario del Ministero.
“Ecco, un altro dei miei possedimenti venduto illegalmente” stava
gridando nel momento in cui Kreacher li avvertì che tutto era pronto e
che il bambino era stato chiamato.
Così anche quella cena scivolò via presto. L’unica cosa spontanea che
Harry faceva era domandare di Snape e naturalmente questo faceva
infuriare Sirius.
Ma quella sera il giovane mago dai capelli neri non si era arreso.
Aveva portato il bambino in salotto deciso a passare del tempo con lui,
ma Harry era rimasto in piedi, non si era avvicinato né a lui né alla
scacchiera e persino quando Sirius aveva cominciato a parlargli del
Quidditch aveva ascoltato senza chiedere nulla, senza mostrare nessun
interesse.
Lo guardava, lo guardava e basta con quegli enormi occhi verdi che
sembravano scrutarlo, giudicarlo, accusarlo.
Fu Remus a porre fine alla serata prima che potesse evolversi in un
disastro completo.
Dopo aver chiesto una tazza di tè per tutti congedò il bambino e
consigliò a Sirius di andare a riposarsi. Il giorno dopo sarebbe stato
un giorno migliore.
Rimasto solo Remus salì nelle sue stanze e mentre si preparava per
coricarsi, riponendo la giacca su una delle antiche poltrone, si
ricordò della lettera che aveva ricevuto.
Incuriosito dalla bizzarria del mittente misterioso la aprì.
La lesse in pochi minuti, avvezzo com’era, da buon professore, a
divorare libri e si sorprese grandemente di trovarvi in fondo la firma
di Minerva.
La Professoressa McGonagall non gli aveva mai scritto e adesso lo
faceva per parlargli… delle abitudini alimentari di Harry Potter?
Sì, la lettera non era altro che una serie di gentili consigli sul
bambino, su come Madam Pomfrey si fosse raccomandata con tutti ad
Hogwarts di far mangiare il piccolo Harry poco e spesso, di come fosse
importante favorire il suo sviluppo con alimenti sani e nutrienti, di
come avesse bisogno di essere guidato in molte delle attività
quotidiane perché insicuro e di come fosse essenziale, anzi ‘vitale’,
diceva la lettera, non spaventarlo in alcun modo, con la voce o peggio
ancora con atteggiamenti o gesti collerici. Infine concludeva,
scusandosi per la sua insolita intromissione, ma aveva ritenuto cosa
buona e giusta informarli di ciò che forse non avevano avuto il tempo
di sapere andando via in fretta dal castello.
Lentamente Remus si sedette alla propria scrivania. Rilesse la lettera
ancora una volta e poi prese a fissarla, riflettendo.
Il modo di esprimersi diretto e gentile sembrava inequivocabilmente
quello di Minerva ed anche la firma pareva essere la sua, Lupin aveva
avuto modo di vederla diverse volte su documenti ufficiali dell’Ordine
eppure qualcosa, qualcosa di sottile allertava i suoi sensi.
Qualcosa che…
D’impulso prese la lettera e l’annusò.
No.
Quello non era l’odore dello studio di Minerva.
Non era quell’aroma un po’ antico di foglie di tè essiccate, gesso e
pot-pourri.
No.
Quell’odore era più… ricordava l’infermeria, ma non la biancheria
sterile dei letti o il profumo dolciastro di Madam Pomfrey, ma di
qualcosa che si trovava in infermeria… come…
Pozioni!
Sì, era l’odore sottile delle erbe secche mescolate, della magia
incatenata in un liquido.
Era l’odore che aveva l’aula di Pozioni nei suoi ricordi di studente,
era l’odore del loro vecchio Professore.
E, presumibilmente, anche di quello nuovo.
Era l’odore di Snape.
Naturalmente se Remus non fosse stato un licantropo non avrebbe mai
potuto percepire quel lieve aroma rimasto intrappolato nella pergamena
anche dopo ore di volo di un gufo.
Ma, fortunatamente o sfortunatamente, Lupin poteva e ne aveva la
certezza.
Quella lettera non era di Minerva.
Era semplicemente impensabile credere che la Professoressa McGonagall
si fosse fatta invitare da Severus Snape nei suoi quartieri solo per
usare la sua carta da lettera.
E poi alla riunione Albus non aveva parlato del coinvolgimento degli
altri Professori nella cura del bambino. Anzi quasi tutti i presenti
erano sembrati all’oscuro persino della sua esistenza…
Restava da capire perché mai Snape fosse arrivato a tanto.
Quello che poteva essere affermato con sicurezza era che quei consigli
non sembravano una trappola.
Bastava guardare il bambino. Se possibile sembrava ancor più magro di
quando era arrivato, nonostante tutta la roba che Sirius gli faceva
mangiare. Probabilmente la strategia migliore con un bambino così
piccolo e sottopeso era proprio quella di permettergli di mangiare più
spesso e in quantità minore. Eppure non ci avevano pensato.
La realtà era che loro non avevano nessuna idea di cosa volesse dire
crescere un bambino.
Nessuno di loro ne aveva esperienza, nemmeno in famiglia.
Erano sempre stati, per un motivo o per l’altro, e ironicamente, due
lupi solitari e non riuscivano neppure ad immaginare cosa volesse dire
rivoluzionare la loro vita per occuparsi di Harry.
Non era così facile come sembrava su quel foglio di affidamento.
Non lo era affatto.
Oltretutto, a rendere più gravosa una situazione che non aveva affatto
bisogno di essere ulteriormente complicata, c’era anche la pura e
semplice verità che Harry stesso non desiderava affatto stare con loro.
Naturalmente non lo aveva mai detto e non lo avrebbe fatto, aveva
troppa paura, si vedeva, ma lo pensava, era chiaro, traspariva da ogni
suo gesto, da ogni suo silenzio.
Remus ricordava bene l’espressione di pura gioia che aveva visto su
quel piccolo viso quando era andato ad Hogwarts per parlare con Albus
il giorno in cui avevano portato via il bambino.
Il suo sorriso era radioso quel giorno sulla neve ed i suoi occhi verdi
non vedevano che… Severus Snape. A lui aveva rivolto quell’espressione
felice, a lui anelava, sua era la mano che Harry aveva cercato,
afferrato.
Mentre di Sirius rifiutava persino di ricordarsi il nome e, ancor più
certamente, non lo avrebbe preso per mano, non lo avrebbe toccato.
Certo, Sirius era il padrino di Harry, l’uomo scelto da James e Lily
per vegliare sul bambino in quei tempi oscuri, ma forse non era la
decisione più giusta.
Oh, Dio.
Era così difficile pensare, così complicato vivere, scegliere, fare la
cosa migliore.
Ripose la lettera in un cassetto e spense le luci.
L’indomani avrebbe cercato altre risposte.
In Harry.
Il silenzio era completo e totale. Una lama che affondava nel suo
petto, trafiggendolo in un letto di sudore in cui non trovava pace.
Ogni volta che desiderava anche solo un attimo di chiudere gli occhi
immagini di quello che aveva perduto lo tormentavano, strappando le sue
carni incatenate al cotone.
Pensava a lui, a quel piccolo pezzo di paradiso scomparso. Se respirava
abbastanza profondamente poteva vedere con gli occhi della mente il suo
sorriso candido, sembrava quello di lei, in tutto e per tutto. Uguale,
ma diverso.
Un dolore profondo colorava di malinconia quegli occhi sul visetto
pallido.
Lontano, lontano da lui.
Come la pioggia che cadeva sulla terra metri sopra il suo letto.
Da lì non poteva udirla, mai.
Così come non poteva vedere più il bambino di quel giglio.
Non poteva salvarlo.
Harry.
‘Maestro Sevreus’
Si alzò dal letto di scatto, nel buio delle sue stanze.
Si guardò attorno prima di mormorare un ‘Lumos’ con labbra quasi
tremanti.
Eppure… eppure aveva udito la sua voce.
La voce del suo bambino-Potter.
Come se fosse lì, con lui.
Si prese la testa fra le mani, lasciandosi andare sulla sponda di un
letto vuoto come il suo cuore.
Troppo poco sonno, troppo liquore, troppo dolore.
Doveva essere stato un parto della sua mente sconvolta dall’impotenza.
Si ripiegò quasi su se stesso.
Un verme, non era che un nero, sudicio, vigliacco verme.
Avrebbe dovuto prendere la bacchetta e smaterializzarsi a Grimmauld
Place adesso, prendere Harry, portarlo via ed invece era… inutile.
Inutile.
Inutile, era tutto inutile. Non aveva più lacrime, ormai. Ma la paura
lo soffocava tanto da fargli pensare che non sarebbe mai andata via. E
provava ancora, nonostante tutto, provava tutte le notti a visitare il
suo posto segreto, quello che altro non era che la stanza del maestro.
E lo vedeva sulla poltrona, tutte le notti, ma non poteva toccarlo, non
poteva farsi rassicurare dal suo abbraccio, dalla sua voce.
E lo chiamava, lo chiamava senza fermarsi mai, tutta la notte.
Nella sua testa.
Lo chiamava.
Remus scese in cucina per primo, molto presto. Non chiamò Kreacher. Se
anche l’avesse fatto certamente l’elfo non avrebbe eseguito gli ordini
di uno sporco licantropo e poi Remus preferiva prepararsi da solo un
buon tè, il susseguirsi lento di quelle azioni talmente conosciute da
essere automatiche aveva il potere di rilassarlo. Mentre attendeva che
l’acqua arrivasse alla temperatura giusta decise di recarsi nella sala
della biblioteca per prendere un libro con cui passare il tempo in
attesa degli altri.
Lì sulla soglia si bloccò.
Harry.
Il piccolo Harry sedeva là, a terra, la testolina arruffata contro il
legno vecchio di una poltrona logora.
Cosa facesse lì a tutte le ore del giorno era un mistero.
Era passata solo da poco l’alba.
Il bambino dormiva e giorno dopo giorno gli enigmi attorno a lui, ai
suoi comportamenti, invece di dissolversi aumentavano.
Tornò dunque sui suoi passi e bevve in profonda riflessione il proprio
tè, pensando a quello che stava succedendo.
Qualche tempo dopo Sirius lo raggiunse. I suoi occhi sembravano ancor
più neri dell’inferno che probabilmente era stata quella notte anche
per lui.
Senza dire niente Remus gli porse del tè caldo e poi si alzò per
chiamare Harry.
Lo svegliò piano e nonostante ciò lo vide indietreggiare, terrorizzato.
Gli occhi dilatati come un cervo nel bosco che tenta di fuggire dal
cacciatore.
Decise di soprassedere, Sirius li stava aspettando.
“Vieni Harry. La colazione è pronta”.
Il bambino si mise in piedi senza dire niente. Quando raggiunsero la
porta si volse un attimo, guardò i libri con qualcosa di simile al
desiderio poi alzò gli occhi su di lui.
Remus si sentì trafitto da quello sguardo.
Così profondo e disperato insieme.
Sembrava che stesse per parlargli e Lupin si ritrovò a trattenere il
fiato.
“Quando posso vedere il Maestro, signore?”
Era, ancora una volta, solo quello.
Remus chiuse la porta alle loro spalle.
“Non lo so Harry, ma non chiederlo di nuovo davanti a Sirius, credo non
sia di buon umore questa mattina” e sorrise, cercando di alleggerire
quel rinnovato silenzio che sarebbe durato, sapeva, fino alla prossima
richiesta di vedere Snape.
Continua…
Nota
grammaticale: per mia decisione personale in
questa fanfic tutti i nomi propri ed alcuni altri di vario genere sono
mantenuti originali, quindi con i termini inglesi, non solo per
rispetto alla signora Rowling che così li ha creati, ma anche perché
non approvo la dilagante malattia del
‛traduzionismo-sempre-e-comunque’. Per correttezza nei confronti di chi
è in disaccordo con me alla fine di ogni capitolo metterò i termini
italiani corrispondenti. Grazie mille.
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