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Autore: skippingstone    02/04/2014    1 recensioni
"Mi avevano detto che pensare troppo fa male, mi avevano detto che sarebbe passato tutto eppure la testa mi scoppia, gli occhi bruciano e respirare sembra la cosa più difficile da fare. Rifletto sulla mia probabile morte e sorrido, almeno potremmo stare vicino. Posso affermare di aver combattuto per tutti quelli che non sono riusciti a farlo: ho combattuto anche per te.
Se, invece, riuscirò ad uscire da questa Arena, non sarò più lo stesso: tutte le cicatrici si stanno aprendo nell'interno della mia bocca lasciando un retrogusto di sangue e troppe sono nel cuore. Anche se uscissi da questa Arena, non ne uscirei vincitore. Ho già perso tutto.
Tutto tranne una cosa: la voglia di vendetta.
Possa la luce essere, ora, a mio favore!"
Genere: Azione, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Altri, Altri tributi, Presidente Snow, Tributi edizioni passate
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza
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13. Le margherite sono salve
 
Livius, hai mai immaginato la vita che eri destinato a vivere? Ammetto che, a volte, ho pensato al futuro anche io. Mi ha spaventato fino a farmi addormentare con ancora l'inquietudine negli occhi.
Quando pensavo al futuro, mi ritrovavo a percorrere un labirinto dove mi perdevo. Qualsiasi strada prendessi sembrava essere quella sbagliata. Ora, invece, sembra che non abbia più bisogno di trovarne una perché ci sono mille cartelli stradali che mi guidano in un solo luogo: l'Arena. Mi comprendi, vero? Tu spiegami come hai fatto a trovare la tua di strada. Ricordo quando ci siamo trovati. Io ero sull'ennesima strada sbagliata e tu, fortunatamente, eri sulla stessa. Destino? Qualcuno aveva previsto che io e te dovessimo incontrarci in quel secondo, in quel minuto, in quell'ora, in quel giorno, in quella strada?
Non ringrazio altro giorno al di fuori di quello. Se, per tutte le altre volte che mi sono smarrito, avessi trovato un altro regalo come quello avuto quel giorno, mi sarei perso più volte volontariamente. Il treno, però, passa una sola volta, eh? Come quello che mi ha portato qui, a Capitol City. Per me quel treno passerà una sola volta perché non prenderò quello che mi riporterà a casa. Già, non lo prenderò quel treno.
Tu verrai a prendermi? Verrai davanti all'Arena e mi porterai con te da qualsiasi parte? So che restando solo mi perderò su qualche altra strada. Se non verrai, io e te ci incontreremo al bivio. D'altronde mi stai aspettando: almeno questo me lo devi.
Non importa quanto tempo ci metterò, con quante cicatrici arriverò, con quanta forza compirò il viaggio, tu mi stai aspettando. Arriverò, tu aspettami. Arriverò e potremmo percorrere, di nuovo, quella strada che ci ha fatto incontrare. Sarà la volta buona che troverò la strada giusta da percorrere con te.
Aspettami.
- Tuo, C. Snow.
Ti regalo, nei miei pensieri, una rosa bianca. Ne colgo altre per quando arriverò da te.

Sono sotto la doccia.
Una mano tecnologica mi gratta il capo e un'altra mi spalma del bagnoschiuma profumato sulla schiena. Nel frattempo, sulle ante, viene trasmesso un video che staranno vedendo i cittadini in televisione. Si vedono varie battaglie, allenamenti, tributi che si parlano, si sputtanano, si odiano. Partono, dopo un po', i commenti. Decido di cambiare canale perché non ho voglia di riempire la mia testa con le chiacchiere degli altri. Scorro con il dito sul vetro e parte l'inno di Panem.
«Wow, di bene in meglio!»
Smetto di farmi la doccia e imposto la modalità "asciuga". Da dove scorreva l'acqua, adesso esce un fumo che mi sta asciugando completamente, anche i capelli.
Dopo essere uscito, mi vesto e mi guardo allo specchio. Anche questa è una notte burrascosa. Fuori sta piovendo, dentro di me sta piovendo.
La pioggia mi ha sempre agitato.
Decido di volermi distrarre e faccio quello che ho fatto tutte le notti: lascio la mia stanza. Questa volta non andrò a rifugiarmi da Victor, col cavolo che vado da lui. Vago, dunque, nel Palazzo senza una meta precisa. Quasi mi spaventa l'assenza di rumori in questi corridoi. Non sento degli spifferi, delle voci, dei rumori, dei lamenti, dei pianti. Come fanno tutti gli altri a dormire? Non la sentono anche loro quest'ansia nel cuore? Siamo dei condannati alla morte!
Avrei dovuto soddisfare i miei bisogni, vivere all'estremo, godermi quello che mi veniva offerto e che mi sarei dovuto prendere, ridere di più e non farmi mettere i piedi in testa da nessuno. Avrei dovuto fare tante altre cose. Io, però, non ho osato. Ho lasciato che decidessero per me, che mi dicessero cosa fare e chi essere. Non dovevo, non devo!
Da lontano scorgo tre figure che subito riconosco: il Favorito, Tacito, la ragazza del distretto 11 e, stranamente, Level.
«Cosa cavolo sta facendo?»
Impulsivamente mi nascondo dietro un pilastro e spio l'allegra combriccola. Vorrei capire perché Level stia parlando con Tacito. Lo abbiamo classificato come un nemico indistruttibile e lei ci sta avendo addirittura una conversazione? Improvvisamente gli specchi cambiano colore: infatti diventano di color viola. Inizialmente non mi preoccupo ma lo faccio quando vedo che i tre ragazzi fanno caso a questa particolarità.
«Cavolo, gli specchi stanno interpretando il mio stato d'animo!»
Inizio ad agitarmi perché sono stato scoperto per una stupidaggine. Tacito si guarda intorno e la ragazza del distretto 11 resta immobile. Io prego che non mi vedano. Chiudo gli occhi e, come un bambino in preda al panico, spero di diventare invisibile. Dopo un po' non sento più le voci dei tre ragazzi ed esco lentamente allo scoperto.
Sono andati via.

Stamattina la piramide di vetro ha un nuovo colore. È tutta rossa. La tecnologia di Capitol City è spaventosa: riescono a trasformare mille cose in un secondo. Anche se non c'è molto da meravigliarsi: se riescono a trasformare 24 ragazzini in piccoli finti gladiatori, quale grande fatica sarà per loro cambiare d'abito ad un palazzo?
Prima di entrare nella sala principale, guardo il mio riflesso nello specchio e mi chiedo se quello sono davvero io. Oltre ad accorgermi dell'assurda quantità di specchi che vi sono in questi Palazzi, mi soffermo completamente su di me. I segni della stanchezza sono visibili da lontano e lo sono anche quelli della lotta interiore ed esteriore.
Come sempre fatto, raccolgo i miei pezzi rotti e provo ad attaccarli per poter combattere questa nuova giornata: l'ultimo giorno d'addestramento. Riflettendoci, cosa ho imparato finora? Poco e niente. Tre giorni sicuramente non bastano per poter diventare un guerriero. Se lo sei già da prima dei Giochi, potresti essere il Vincitore. Se non lo sei da prima, parti svantaggiato. Io sono un mezzo e mezzo.
Oggi ci concedono la possibilità di batterci uno contro l'altro. È come se dovessimo sondare il territorio prima di entrare in quella strana e ancora sconosciuta Arena che ci ospiterà.
Io, in realtà, non ho proprio le forze di volermi mettere a combattere, a dare cazzotti e pugni o mordere qualcuno che potrà uccidermi.
Appena entro nella sala vedo che è Søren che sta sperimentando le sue abilità contro Ermen, la Favorita del distretto 1. Io non mi concentro affatto a controllare l'esito della simulazione. Più che altro controllo Level. Dopo averla vista la sera precedente con Tacito, vorrei capire quello che sta facendo. La vedo controllare i movimenti di Søren, si sofferma proprio su di lei.
Vengo distratto da Ermen che scatta come una molla e si aggrappa violentemente a Søren.
Mi basta vedere quella scena per capire che la ragazza del distretto 1 è poco paziente e desiderosa di vittoria.

Altri stupidi spettacolini e inutili battaglie. A che serve dimenarsi come pazzi scatenati in questa sala di simulazione quando, tra qualche giorno (per l'esattezza due), dovremo far vedere davvero in cosa consistono le nostre abilità nell'Arena?
È il turno di un altro ragazzo: questa volta si tratta di Tacito che sceglie di sfidare, tra ventitré tributi, me.
Lui mi guarda come se fossi la sua preda, il cervo che presto sarà sulla sua brace. Io lo guardo con la consapevolezza che lui sia il mio cacciatore, quello che centrerà l'obiettivo, quello che, con un solo proiettile in canna, riuscirà a colpirmi il cervello e stendermi a terra. Sono il suo pasto, non aspetto altro che essere cotto e salato al punto giusto.
Non ci tocchiamo, non ci colpiamo, non ci sfioriamo se non con lo sguardo che sa essere più importante di ogni pugno. Riesce a inquietarmi, a rendermi teso. Quindi, proprio come farebbe il cacciatore schiacciando il grilletto, lui crede che questo sia il momento giusto per attaccarmi e scatta verso di me. Corre con poca grazia, lo si potrebbe paragonare a una bestia. Arrivatomi di fronte mi sferra un pugno dritto in faccia. Sento le urla degli altri e io sono fermo a pensare che questo stronzo mi ha dato davvero un pugno in faccia.
«Sai che è una simulazione e non l'Arena?»
Non so con quale coraggio riesco a dire questa frase ma a lui poco importa. Mi sorride e mi dà un altro pugno.
«E tu lo sai che sei già un morto che cammina?!»
Cerca di darmene un altro ma lo evito e lui fa tre passi in avanti, come se stesse per cadere visto che ha mancato il colpo.
«Almeno cammino ancora... Tu, invece, hai dimenticato come si cammina? Ti muovi come se fossi un animale.»
«Meglio essere animali che uno debole come te!»
«Beh, io non ho specificato a quale animale somigli.»
Ora sorrido io. Mi è sempre piaciuto vincere con le parole: ho attestato ciò anche dopo il litigio con Victor. Tacito, nel respirare in modo forte, perde delle cose dal naso, si morde la lingua e stringe le mani in due pugni fino a farsi entrare le unghia nella pelle.
«Ti ammazzo, nome da rincoglionito.»
«Per questo tutti mi chiamano Snow, è più diretto.»
«Come il mio calcio nelle palle che sto per darti.»
«Prendimi, se ci riesci.»
Così io inizio a correre e lui vuole raggiungermi ad ogni costo. Peccato che non mi bastino neanche tre secondi di vantaggio perché cado in una trappola. Infatti nella sala di simulazione vi sono anche degli ostacoli, proprio come se fosse l'Arena vera. Tacito rallenta, sicuro di avermi già preso.
«Non è stato poi così difficile raggiungerti.» - ed ecco che mi dà un calcio in faccia. - «I testicoli me li conservo per quando ti ucciderò nell'Arena.»

Mi tocco il naso, mi fa un male atroce. La medicina di Capitol City ha reso presentabile il mio volto pieno di lividi e sangue ma, anche se sembrano essere guarite le ferite, non riesco a mantenere la testa poggiata sul cuscino. Non credo, però, che sia un il viso a impedirmi una buona dormita ma il mio solito problema: questa stanza, di notte, è la peggiore Arena che io debba affrontare. Tanto per cambiare, esco e corro verso l'ascensore per andare da qualche altra parte. In neanche dieci secondi sono davanti ad una mia probabile via di fuga. Appoggio una mano sulla superficie della porta. In momenti come questi penso a quanto io sia uno sciocco. Si può fare così? Si può cercare di essere indifferente verso una persone e poi presentarsi davanti alla sua porta? So che non si può fare così, ma la notte arrivano i demoni a farmi visita nella stanza e, quando succede, io vorrei non essere lì. Poggio anche l'orecchio come se volessi ascoltare ciò che succede dentro. Poi, però, la porta si apre.
Indietreggio di due passi perché resto sorpreso dal fatto che la porta si sia aperta. Aspetto che succeda qualcosa, che qualcuno mi sbrani o che qualcuno mi chieda perché origliassi ma non succede niente di tutto ciò. Allora decido di spingere la porta ed entro nella stanza.
Come tutte le stanze, la luce splende in ogni singola stanza. Come nella mia, ci sono quadri del Presidente Morse, delle Arene, dei Tributi Vincitori. Oltrepasso il corridoio e trovo Søren completamente nuda, in bagno, che sta provando a infliggersi ferite alla gamba. In mano ha una specie di bisturi che avrà sicuramente rubato nel Centro di Addestramento. Sulla gamba già vi sono alcuni segni di sangue.
Io e lei ci guardiamo sconvolti.
«Cosa stai combinando?» - parlo a bassa voce per paura che faccia qualcosa di sconclusionato. Con le mani si copre il seno e il taglio sulla gamba. È arrossita, il suo respiro è lento, gli occhi lucidi.
«Cosa cazzo ci fai nella mia stanza?»
Subito si trasforma nella ragazza dura e pungente che, quindi, finge di essere quando sta con tutti gli altri. Cerco qualcosa che possa indossare e gliela passo. Lei mi indica di girarmi e io lo faccio.
 «La porta doveva essere socchiusa e si è aperta.»
«E perché tu eri davanti la mia porta?»
Non so cosa risponderle. Le potrei dire che ho sfiorato casualmente la sua porta perché curioso di capire come mai ci fosse una porta aperta.
«Avevo bisogno di uscire.» - opto per una mezza verità.
«Però non sei uscito, sei entrato in un'altra stanza.»
«Intendevo dire...»
«Intendevi dire...?»
«Intendevo dire che avevo bisogno di uscire dalla mia di stanza. Tu perché stavi facen...?»
«Da quando siamo amici e io devo dirti quel che faccio? Mi sei sembrato chiaro sin dall'inizio: non vuoi alleati, non vuoi amici, non esiste nessuno se non tu.»
Mi giro. Lei ha ancora quel bisturi in mano ma almeno è coperta.
«Io non ho mai detto che esisto solo io!»
«Distretto 2, cosa vuoi?»
«Quella che non vuole alleati e amici sei proprio tu. Per non affezionarti a nessuno, ci chiami tutti Distretto e non per nome.»
«Dovrei chiamarti Snow che non è neanche il tuo nome?»
«Beh, differenziati e chiamami per nome ma non dire a qualcuno cosa fare e non fare se tu sei la prima che non sa niente.»
«Fatto sta che io, almeno, agisco, faccio qualcosa per sopravvivere. Tu sei solo parole.»
«Sopravvivere? Ma se stavi per tentare il suicidio o chissà cosa e, poi, solo perché uso le parole sarei debole? Le parole sono armi più forti di quello schifo che hai in mano. Mi spieghi cosa stavi facendo?»
«Io non ti spiego un bel niente.»
In effetti chi sono io per obbligarla a parlare e, addirittura, perché devo stare fermo a fissare un'altra persona che decide di andarsene via? Sono stufo di vedere persone che vanno via.
Sono io ad andare via questa volta. Non le dico neanche che sto per uscire dalla sua porta perché non avrebbe senso farlo. Vado via, basta. Sto aprendo la porta quando lei inizia a parlarmi.
«Aspetta! Forse questo è un segno del destino.»
«Scusa?»
«Sai cos'è il destino, vero?»
«Certo che lo so, mi hai preso per uno stupido?» - mi volto.
«No, ti ho preso per uno che entra nelle stanze degli altri e niente più.»
«Io non entro nelle stanze delle persone così, tanto per. Avevo bisogno di evadere dalla mia stanza, dai miei demoni e... lascia stare, non puoi capire e io sono uno stupi...»
«Anche io ho i miei demoni!»
Passa un momento di silenzio che basta per farci capire che, in realtà, io e lei possiamo comprenderci, aiutarci a vicenda.
«Ogni sera sogno un campo di capitoline. Hai presente quei fiori bianchi con lo stelo corto?»
Faccio cenno di sì e sorrido: provo una strana e assurda felicità nello scoprire che, egoisticamente, qualcuno prova un dolore simile al mio.
«Bene, ogni sera sento il profumo di capitoline. Sono gli unici fiori che mi donano allegria, che sanno farmi scoppiare di vita. Mia zia mi raccontava che, quando era piccola, le avevano insegnato a fare un gioco con i petali. Si chiamava "m'ama, non m'ama". Questo gioco consiste nello strappare uno ad uno i petali. Se, strappando l'ultimo petalo, hai detto "m'ama", lui allora ti ama. Se, invece, è rimasto "non m'ama", lui non ti ama. Stupido come gioco, vero? Lasciare che il tuo destino lo scelga un petalo è la cosa più assurda che io abbia mai sentito.»
Io sono ancora fermo sulla soglia ma lei mi prende per mano e mi accompagna nella stanza. La sua mano è soffice, delicata. Le dita sono così piccole che le mie sovrastano le sue.
«Io, prima della Mietitura, ho colto venticinque capitoline, tante quante le edizioni dei Giochi, e ho fatto questo gioco come se fossi una stupida bambina. Strappavo i petali e dicevo: "sarò pescata, non sarò pescata". L'esito della prima capitolina era negativo, il mio nome non sarebbe stato preso. Oltre ad altre sei, l'esito delle altre diciassette si rivelò disastroso perché ognuna di loro mi confermava che io sarei stata una giocatrice a tutti gli effetti. Sinceramente? Mi spaventai. Con l'ultima capitolina rimasta, chiesi: "vinco, non vinco".»
Si blocca e una lacrima le riga il viso.
«Coriolanus, » - mi chiama per nome - «cosa ti ha fatto cambiare? Che ci fai qui, vicino a me?»
«Te l'ho già detto: scappavo dai miei demoni.»
«I miei di demoni, ieri notte, sono entrati nei sogni e hanno distrutto tutte le capitoline.»
«Ehi, lo hai detto stesso tu, non puoi lasciare che il tuo destino lo scelga un fiore... figuriamoci un sogno. Sarà stato un caso quello che è successo prima della Mietitura. Non era, però, un caso che tu avessi quel coltellino in mano. Perché stavi provando a fare quel che facevi?»
Le asciugo la lacrima con la manica della mia camicia e lei si attacca a quel contatto, stringe forte la mia mano come se si stesse cullando con quel tocco umano. Io lascio stringermi. Come lei, anche io ho bisogno di un qualcosa che mi ricordi la bontà di questo mondo, che non sono solo, che qualcuno ha ancora un cuore che batte e non una mente per scommettere e due occhi per stare a guardare.
«Ho pensato che, tagliandomi una gamba, avrei potuto evitare l'Arena. Stupida, eh? Io, poi, non ho sentito più niente: le capitoline erano inodori. Deve essere un segno della mia fine.»
«Prima di tutto, temo che con quel coso non ti saresti tagliata nemmeno metà gamba...» - cerco di sdrammatizzare questo attimo pieno di tensione e lei accenna una risata tra un singhiozzo silenzioso e l'altro - «... e solo perché non senti l'odore dei fiori non vuol dire che...»
«Coriolanus, sai perché mi piacciono così tanto le capitoline? Per la loro storia. Leggenda vuole che le capitoline siano quei pochi fiori che nascono dalla terra senza l'aiuto della tecnologia di Panem. Esistevano già mille anni fa, mi sembra che le chiamassero margherite.»
Ricordo questo nome. Inizio a ricordare anche i colori di questi fiori e i loro petali. Era stato, ovviamente, Livius che mi aveva fatto vedere le margherite, le capitoline sui suoi libri.
«Io vorrei essere una capitolina. Anzi, meglio, vorrei essere una margherita perché, se dico capitolina, sembro ancora così legata a Capitol City. Le margherite si salvano, sempre. Anche se il vento le sbatte qua e là, la gente le coglie, le strappa alla terra e i miei demoni le distruggono, le margherite si salvano. Io sarò salva? Potrò essere autonoma e libera da tutta Panem? Sarò, anche con tutto questo disastro attorno a me, ancora salva?»
  
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