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Autore: Himenoshirotsuki    02/04/2014    11 recensioni
Il suo corpo era luce, la emanava come una stella nella volta celeste, i capelli simili a lingue di fiamma. Ledah guardò quell'anima splendente, mentre si faceva strada tra i rovi e le spine. In quel luogo opaco, a cavallo tra la realtà e il mondo dell'oltre, ogni suo passo era troppo corto, la sua voce non era sufficientemente forte perché lei si accorgesse che la stava febbrilmente rincorrendo. Per un tempo indistinto inseguì quelle tracce vermiglie, testimoni delle catene corporee che la tenevano ancorata a questo mondo. Poi lei si girò, incrociando lo sguardo disperato di Ledah, e in quell'istante egli capì: lei era il sole nell'inverno della sua anima, l'acqua che redimeva i suoi peccati, la terra che poteva definire casa. Lei era calore e fiamma bruciante. Lei era fuoco, fuoco nelle tenebre della sua esistenza.
Revisione completata
-Storia partecipante alla Challenge "L'ondata fantasy" indetta da _ovest_ su EFP-
Genere: Avventura, Fantasy, Guerra | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: Lemon | Avvertimenti: Contenuti forti, Violenza
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- Questa storia fa parte della serie 'Guardiani'
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16

Frammenti di memoria

Vecchi ricordi

"Chi combatte con i mostri deve guardarsi dal non diventare egli stesso un mostro. E se guarderai a lungo nell'abisso, l'abisso guarderà dentro di te."
F. Nietzsche
 

Dopo che Brandir se n'era andato via dalla locanda, Ledah era rimasto lì a riflettere sul da farsi. Da una parte, quello che l'amico gli aveva detto circa le intenzioni del Consiglio non lo convinceva molto, dall'altra però non se la sentiva di mettere in dubbio le sue parole: Brandir non era solo il suo Comandante, ma anche il migliore amico. Non avrebbe avuto motivo di mentirgli. Eppure il suo istinto continuava a urlargli di non fidarsi, perché Brandir, stranamente, era stato fin troppo vago ed aveva evitato di soffermarsi sull'argomento più del dovuto. Era riuscito a deviare il discorso con una sorprendente maestria, ma a Ledah quel suo atteggiamento non era sfuggito. Si augurava di sbagliarsi. 
Si impose di ignorare il crescente disagio e sorseggiò l'ennesimo boccale di birra. Dall'inizio della serata ne aveva bevuti tre e ora era al quarto. L'alcool aveva già cominciato a penetrare nelle vene e invadergli il cervello, annebbiando quei tetri pensieri. Davanti a lui passò un'avvenente cameriera con i capelli scuri, il corpo fasciato da un corpetto di pelle nera e un paio di pantaloni marroni estremamente aderenti. Percependo lo sguardo di Ledah addosso, lei si girò nella sua direzione. Il viso aveva dei lineamenti spigolosi e gli occhi del colore dell'uva matura erano pieni di malizia, dettaglio che l'elfo trovò particolarmente eccitante. Gli si avvicinò e poi, chinandosi leggermente per prendere la pinta vuota, gli sussurrò di aspettare che finisse il suo turno. Non appena fu di nuovo lontana, Ledah si umettò le labbra con la lingua, fremendo di anticipazione.
Si mise comodo sulla sedia, ma ad un tratto sussultò e impallidì. Scrollò con veemenza la testa pesante come un macigno, nel tentativo di scacciare i brutti ricordi che erano riemersi all'improvviso, cogliendolo alla sprovvista: Elladan, il suo tradimento, la disperazione di Haldamir, il suo ultimo sacrificio, gli sguardi accusatori del suo popolo e la loro diffidenza. Chiuse gli occhi e si passò una mano tra i capelli. 
"E' tutto finito ormai..." 
Ordinò un distillato di papavero e lo buttò giù in un soffio. Il liquido scese lungo la gola, per poi diffondersi come una vampata calda in tutto il corpo, azzerando i pensieri. Inspirò profondamente, mentre quegli stralci di passato sprofondavano ancora nell'oblio. Rimase a bearsi di quella sensazione per un tempo che non seppe calcolare, finché dita delicate si poggiarono sulla sua spalla. Fece spaziare lo sguardo intorno per la sala: nella locanda era rimasto soltanto lui.
- Andiamo da qualche parte? Oppure preferisci rimanere qui? Stasera chiudo io. - gli bisbigliò la cameriera di prima, alitandogli nell'orecchio con fare seducente.
Ledah la trasse a sé con urgenza, la spinse a cavalcioni sulle sue gambe e cominciò a slacciarle il corpetto, inspirando il suo dolce profumo.
"Lavanda... lavanda e cedro."
Liberò i seni dalla stretta della stoffa e vi affondò il viso, mentre le mani correvano sulla schiena liscia. 
- Non voglio andare da nessuna parte. Ti voglio qui. Ora. - rispose con voce roca e iniziò a leccarle i capezzoli, che si inturgidirono al primo tocco. 
La sentì sussultare sotto la propria lingua e ne fu compiaciuto. Percorse con le labbra il profilo dei seni e si riempì le orecchie dei gemiti sommessi della giovane elfa. Non sapeva neanche il suo nome.
- Come ti chiami? -
- Eladel... - sospirò lei.
- Eladel... - pronunciò scandendo le lettere, - Che bel nome. - 
La prese in braccio, la issò sul tavolo di legno e con delicatezza le divaricò le gambe, mentre la baciava e la palpava dappertutto. Eladel abbandonò la testa all'indietro, godendosi quelle gentili carezze. Poi il moro la strinse a sé con forza e affondò i denti nella pelle morbida di una spalla, quasi a volerla marchiare. Voleva possederla, voleva divorarla e voleva sentirsi amato, anche solo per un attimo, anche tra le braccia di una sconosciuta, che molto probabilmente non avrebbe più rivisto. Se solo avesse potuto assaporare la dolcezza e lo struggente sentimento dell'amore per una misera volta, era sicuro che la solitudine e l'angoscia che albergavano in lui da innumerevoli anni sarebbero svanite per un po', concedendogli la tanto agognata pace. Ne aveva abbastanza delle tenebre, del freddo e della desolazione, la sua anima bramava calore, un fuoco purificatore in grado di farlo sentire rigenerato, vivo, nuovo, ancora innocente e pieno di sogni e speranze.
Chiuse gli occhi, prese fiato e si immerse nel corpo accogliente di Eladel, come si stesse tuffando sott'acqua. Il piacere lo travolse all'istante e per un attimo si ritrovò in apnea, boccheggiante, a galleggiare in un universo ovattato in cui presto si sarebbe annullato. Per l'ora seguente si dimenticò di essere Ledah, l'elfo oscuro, l'Alfiere dalle Ombre, colui che aveva insultato la vita stessa nascendo dalla morte.

Ledah camminava per le strade di Sheelwood sotto la pioggia. Quella del sud era leggera e tiepida, una carezza liquida simile ai baci di un amante. A Llanowar, invece, era gelida e fitta. Nemmeno gli antichi maghi erano riusciti a contrastare il quasi eterno inverno della foresta, perciò a nessuno sarebbe mai venuta in mente la balzana idea di passeggiare all'aperto durante un temporale.
Una goccia più fredda delle altre si abbatté sulla sua testa. Si spostò con malagrazia i ciuffi bagnati dalla fronte e inspirò l'aria notturna, il profumo delle foglie e della terra bagnata, contemplando nuovamente il paesaggio che si presentava davanti ai suoi occhi. Le case rustiche della città-albero emergevano dal legno e così tutte le altre costruzioni: i ponti d'ambra, le statue, le grandi ville, ogni cosa in quel luogo era stata creata dalla natura nel corso dei secoli. Un dono di un genitore ai propri figli. Il dio della foresta aveva donato agli elfi di Sheelwood una casa dentro la sua stessa anima.
Osservò l'ambiente circostante e puntò lo sguardo in alto, sui palazzi più imponenti. L'oscurità avvolgeva ogni cosa e in giro non sembrava esserci nessuno. Le poche guardie che pattugliavano le strade non parevano aver notato la sua presenza. Oppure lo stavano volutamente ignorando, impossibile stabilirlo con certezza. 
Percorse un centinaio di metri, girò a destra in un vicolo e poi ne imboccò un altro, sempre tenendosi sulla destra, diretto in un posto particolare. Non era sicuro di ricordarsi perfettamente come giungere a destinazione, poiché ci era andato solo una volta, molto tempo prima, e in quell'occasione era stato suo padre a fargli da guida in quella città smisurata e labirintica. Avrebbe volentieri evitato di passeggiare in piena notte per Sheelwood, ma rimandare la questione alla mattina successiva, chiedere udienza e attendere che gli fosse concesso di vedere il Consigliere era troppo per lui. Doveva avere delle risposte subito e solo una persona poteva fornirgliele.
La luna illuminò un cancello in ferro nero, al di là del quale si stagliava una costruzione enorme in pietra bianca, molto simile ad un tempio. La parte absidale, traforata da grandi finestroni di vetro azzurro, era percorsa da decine di contrafforti, coronati da guglie alte e sottili, mentre un enorme rosone centrale, con nervature in cristallo nero, si stagliava nella parte più alta della facciata. Tutta la struttura era ricoperta da numerosi rampicanti. Ledah rammentò che in estate quelle piante generavano dei fiori dai colori sgargianti, dal magenta acceso al rosa tenue, che sprigionavano un odore forte e pungente. Sul massiccio portone in ebano era stato inciso lo stemma di Sheelwood: una rosa con all'interno una stella, simbolo dell'eterna primavera che avvolgeva la foresta.
Ledah avanzò verso il cancello, cercando di calcolare velocemente quanto potesse essere alto. Quando si era recato lì da bambino per assistere alla cerimonia d'Investitura della sorella, gli era parso insormontabile, tant'è che era rimasto immobile ad osservare le lunghe aste tortili che si protendevano fino quasi al cielo. Poi Haldamir lo aveva preso da sotto le ascelle e lo aveva fatto salire sulle proprie spalle per permettergli di vedere meglio la sfilata dei soldati e dei vecchi Consiglieri. 
A differenza del Consiglio di Llanowar, quello di Sheelwood si riuniva solo in determinati giorni dell'anno per discutere le nuove leggi e, quando questo accadeva, entrare nella Camera dei Soli era praticamente impossibile. Non che normalmente fosse facile, beninteso. 
Fece per avvicinarsi, quando udì dei passi e un leggero borbottio scocciato poco distanti. Scattò indietro, verso il vicolo da cui era sbucato, ma i due soldati di ronda, con una faccia piuttosto annoiata, non si avvidero di lui e proseguirono per la loro strada. Ledah si maledì in silenzio: si era scordato che, durante i giorni delle Deliberazioni, la sorveglianza veniva infittita ulteriormente, soprattutto intorno agli edifici più importanti. Sbuffò, infastidito da quel contrattempo, e si appiattì contro il muro di pietra alle proprie spalle. Per un attimo fu tentato di usare la magia di occultamento, così da passare indisturbato, ma l'idea che qualche scagnozzo di sua madre potesse metterglisi alle calcagna lo fece desistere. Non voleva averci più nulla a che fare con quel demone.
Non appena la luce delle torce si fu allontanata, corse verso il cancello e ne esaminò l'architettura, cercando un qualunque appiglio per potersi issare. Mosse le dita nervoso, spostando più volte lo sguardo a destra e a sinistra, i sensi tesi a captare ogni minimo suono: giravano fin troppe voci su di lui e voleva almeno risparmiarsi di fare la figura del ladro, colto in flagrante mentre tentava di intrufolarsi nella Camera dei Soli. 
Schioccò la lingua scocciato nel constatare che non c'era niente a cui avrebbe potuto aggrapparsi. Inoltre, da quel che sapeva, quel cancello era l'unico ingresso. Poteva anche provare a chiedere gentilmente alle guardie di aprire, ma dubitava che avrebbero accolto la sua richiesta senza obiezioni. 
''E poi sarei io lo scorbutico e il maleducato.''
Frugò nella bisaccia, tirandone fuori un ago finissimo. Lo infilò nella serratura e cominciò a girarlo più e più volte con l'intenzione di scassinarla. Il ferro freddo con cui era stato forgiato era uno dei materiali più duri di Esperya, nonché il miglior catalizzatore di magie e sigilli. Gli unici due altri metalli con caratteristiche simili erano il cristallo nero di Valhalla e l'argento alchemico. Pochissime persone in tutto il continente potevano vantare di possedere degli oggetti o delle armi costruite con tali metalli, tanto potenti quanto rari. Fece ruotare l'ago lentamente, accarezzando le dentature interne della serratura magica. Una piccola scintilla blu scaturì dal forellino centrale, ma, prima che potesse divampare dando l'allarme, si estinse spontaneamente, risucchiata nello spillo argenteo. Un lieve scatto lo avvertì che era riuscito nell'impresa. Spinse leggermente, cercando di fare meno rumore possibile, e dopo aver appurato di essere solo scivolò al di là del cancello. 
Mentre si dirigeva verso una delle finestre laterali del palazzo, notò che il portone principale era rimasto accostato. Dubitò fortemente che qualcuno si fosse dimenticato di chiuderlo, ma l'idea di essere atteso lo bloccò per alcuni istanti, provocandogli un moto di agitazione. Si chiese chi mai potesse sapere del suo arrivo, ma subito gli venne in mente un solo nome. Fece spallucce ed entrò rapido, confondendosi con le ombre della notte.
L'interno della Camera dei Soli era qualcosa che andava oltre ogni sfarzo che Ledah potesse immaginare. Dall'esterno non avrebbe mai detto che la sede della giustizia di Sheelwood potesse essere essere tanto meravigliosa. Avanzò trattenendo il respiro. 
La navata centrale era il doppio delle altre quattro adiacenti ed era sormontata da una serie di archi a sesto acuto dai riflessi argentei. Nelle colonne in cristallo azzurro erano stati scolpiti i volti degli dei e di alcuni eroi delle antiche leggende. Sopra gli archi vi erano delle piccole finestrelle, che illuminavano l'ambiente in maniera diffusa e tenue, filtrando la luce attraverso vetri delle varie tonalità del blu. Il mosaico pavimentale riluceva sotto i raggi lunari, come se fosse stato composto da pietre preziose. Alla fine della navata, proprio sotto un altro grande rosone, c'era una scalinata che conduceva al piano superiore. Ledah alzò lo sguardo e osservò l'affresco che rappresentava il defunto re degli elfi Arawan e il re dei Lycos, Aasterian, ritratti durante il processo ad Aesir; tutto intorno a loro era disposto il popolo elfico, insieme alle truppe vincitrici dell'antica guerra. 
Affascinato dalla bellezza di quel luogo, restò immobile, catturato dallo sguardo severo e ammonitore di Arawan.
Poi udì un fruscio sottile e si voltò bruscamente.
- Chi è là? - chiese senza timore, - Vieni fuori. - 
Da dietro una colonna uscì una figura incappucciata. Il lungo mantello violaceo la copriva interamente, ma lo stemma della rosa con la stella ricamato sul petto non lasciava adito a dubbi su chi potesse essere. Con passo leggero e aggraziato si avvicinò a lui.
- Come facevi a sapere che sarei venuto? - indagò Ledah.
- Non si usa più salutare? Non sei cambiato per niente. - gli rispose una voce femminile.
L'elfo incrociò le braccia al petto, lo sguardo duro e scostante: - Possiamo smetterla con questi convenevoli, Aiwen? Sono venuto qui per ricevere delle risposte, non per bere un tè in compagnia. -
- Lo immaginavo. -
Il viso delicato di una giovane elfa fece capolino da sotto il cappuccio, gli occhi di ogni tonalità di blu contornati da lunghe ciglia chiare e le labbra piegate in un sorriso divertito. Una cascata di capelli biondi lucidissimi, trattenuti in una coda, si adagiava morbida sulle spalle e sul seno.
- Sei sempre il solito musone, Ledah. Ha ragione Brandir a chiamarti "corvetto". -
- Senti, se tuo marito ha la tendenza a inventarsi dei nomignoli strani, la colpa non è mia. - borbottò offeso. 
- Certo, certo. Guarda che faccia imbronciata che hai! Se fai "cra" sei perfetto. -
Entrambi scoppiarono a ridere. Ledah aveva provato a comportarsi in maniera fredda e distaccata, ma contro l'umorismo di sua sorella Aiwen nessuno poteva rimanere serio. Lei possedeva l'innato potere di far tornare il buonumore a chiunque, anche per questo era benvoluta da tutti. D'altronde, era la figlia di Haldamir il Salvatore, non ci si potev aspettare di meno da lei.
Tossicchiò per darsi un minimo di contegno, poi tornò serio e le si accostò.
- Sta succedendo qualcosa di strano. Ci hanno convocati da Llanowar senza fornirci nessun dettaglio su ciò che stiamo per affrontare. Dicono si tratti di una semplice missione di ricognizione, ma io non credo. Tu ne sai qualcosa? -
Aiwen sospirò e disse: - No, ne so meno di te. -
- Come sarebbe? - la voce di Ledah perse qualunque calore e si fece diffidente, - Sei un membro del Consiglio, come fai ad essere all'oscuro di tutto? -
La sorella indietreggiò, fino ad appoggiarsi alla colonna. Si massaggiò le tempie e cercò di mantenere la calma. 
- Senti, non mi mettono al corrente di tutto. Certo, per quel che riguarda Sheelwood ho voce in capitolo, ma per altri tipi di decisione solo gli Anziani hanno il diritto di esprimersi. -
- Allora perché diamine sei qui, se tanto non puoi partecipare alle riunioni? - 
- E' il regolamento. Durante i giorni in cui si discute un qualsiasi emendamento, io devo presenziare nella Camera dei Soli, indipendentemente dal fatto che partecipi o meno alle discussioni. Pensi che, se sapessi qualcosa, non te la direi? Ci tengo a te, nonostante tutto. -
- Quindi non ti interessa che io sia il figlio di un Lich? Non mi hai mai dimostrato affetto, mi pare. - commentò acido.
- Smettila, non è vero. Ti ho sempre trattato come un fratello e, a dispetto di ciò che è accaduto, in fondo abbiamo la stessa madre, anche se adesso non somiglia per niente a colei che mi ha partorita. Sul serio, Ledah, non mi è mai importato di ciò che dicevano gli altri di te. Perché non torni tra noi e dimostri che non sei quello che tutti credono? - lo esortò, regalandogli un sorriso incoraggiante.
Ledah si scostò con una smorfia amara, passandosi la mano sulla fronte. 
- Lo sai come sono quelli: non dimenticano. Non sono tutti come te, dolce Aiwen. Ne abbiamo già parlato molte volte, è inutile che continui a tentare di persuadermi. Ormai ho preso la mia decisione e non ho intenzione di tornare indietro. Tu affermi che abbiamo la stessa madre, ma sai bene che non è così. Tua madre si chiamava Elladan ed era un'elfa gentile e bellissima, la mia invece si chiama Lysandra ed è un demone malvagio. Elladan non vive più in Lysandra. -
Le diede le spalle e accennò ad andarsene, quando sentì una mano stringersi attorno alla sua.
- Promettimi che starai attento, fratello. Anche se non so di cosa abbia discusso il Consiglio negli ultimi tempi, temo stiano tramando qualcosa. - lo avvertì in tono pacato, tentando di trasmettergli tutta la preoccupazione e l'ansia che le attanagliavano le viscere.
Ledah si voltò e l'abbracciò, accarezzandole la testa come quando erano piccoli. All'epoca era Aiwen che consolava lui, era lei quella forte. Adesso, al contrario, pareva fragile e vulnerabile più che mai. 
- Va bene, starò attento. Tornerò assieme a Brandir, come sempre. E poi non vedo l'ora di vedere tuo marito con in braccio la mia nipotina. -
Aiwen rise e con un cenno della testa gli indicò un angolo buio. Ledah aguzzò la vista e intravide una piccola porta in ferro.
- Stavolta evita di passare dalla porta principale, magari. - scherzò. 
Poi l'elfa si diresse spedita verso il fondo della navata, in direzione dell'enorme scalone di cristallo nero. La luce della luna l'accompagnò fin quasi all'ultimo gradino, dopodiché la sua figura aggraziata venne inghiottita dalle tenebre.
Ledah, prima di raggiungere il passaggio indicatogli dalla sorella, osservò con apprensione l'affresco di Arawan e lesse la scritta che, vergata su sfondo celeste, fungeva da cornice: "Noi non dimentichiamo chi sei stato."

  
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