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Autore: Niglia    06/04/2014    6 recensioni
North Yorkshire, settembre 1904.
Dopo la morte della madre, Emma viene spedita ad abitare insieme alla sua istitutrice presso la residenza in campagna acquistata recentemente dal padre, a trascorrere in serenità il lungo periodo del lutto. Qui si ritrova a fare i conti con una realtà ben diversa da quella a cui è abituata: niente servitù, niente distrazioni, nessuno con cui parlare al di fuori della donna che l’ha accompagnata.
Eppure il fascino di Pemberley Manor colpisce positivamente la sua nuova abitante: la magione, infatti, rimasta disabitata a causa di un terribile evento risalente a quindici anni prima, nasconde tra le sue mura molto più di quanto Emma abbia immaginato, e giorno dopo giorno si ritrova a scoprire sconcertanti segreti che sarebbe stato meglio non riportare alla luce.
Quello che non immagina, tuttavia, è che qualcosa di molto pericoloso la spia dall’oscurità…
[Una mia personale rivisitazione del tema Bella/Bestia, con vari accenni e spolverate dei miei adorati romanzi horror ottocenteschi.]
Genere: Dark, Drammatico, Mistero | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: Triangolo, Violenza
Capitoli:
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6.
Someone’s walked over my Grave
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Il dottor Carew aveva visitato miss Radcliffe soltanto il giorno prima, eppure già sembrava di intravedere nella povera donna qualche lieve miglioramento: il colorito della carnagione era meno pallido, il respiro meno affaticato, la fronte più tiepida; e per fare ciò era bastato assicurarsi che i cibi non fossero alterati, fingendo di assaggiarli di fronte alla signora Duncan. Quest’ultima non aveva battuto ciglio, Emma aveva assaggiato le pietanze senza subire conseguenze e tutto pareva essersi risolto per il meglio. Ciò nonostante la giovane non riusciva a darsi pace – l’apparente sangue freddo della governante bastava forse a sollevarla da tutte le accuse, non ultima la faccenda del libro di Barbablù e del messaggio che aveva trovato nella sua camera da letto? Prima di trasferirsi a Pemberley Manor non avrebbe mai avuto simili pensieri – di domestici che ordivano complotti se ne leggeva soltanto nelle novelle gotiche – ma adesso essi parevano essere diventati parte della sua quotidianità. Forse la solitudine la stava facendo impazzire, chi poteva dirlo? Bramava la compagnia di un altro essere umano, una persona qualunque che non fosse intossicata dall’aria malsana di Pemberley Manor e del villaggio circostante, e sebbene sir Arthur avrebbe potuto rappresentare tale figura, Emma non poteva fare affidamento su di lui per il semplice fatto che abitava troppo distante e aveva di sicuro i suoi affari a cui badare.
In quel momento, mentre osservava miss Radcliffe dormire finalmente un sonno sereno grazie alle medicine e alle cure combinate sue e del dottor Carew, Emma accantonò quei pensieri e riportò alla mente il fatto della notte prima. Non avrebbe dovuto bruciare quel biglietto, rifletté ora con maggiore lucidità, dandosi mentalmente della sciocca. Avrebbe dovuto conservarlo, farlo vedere a qualcuno, utilizzarlo come prova – di che cosa, poi, ancora non lo sapeva – nel caso la situazione fosse diventata più ingestibile; chissà, si sarebbe potuto risalire tramite la calligrafia a chi la stava importunando… Non aveva mai veduto una sola parola vergata dal pugno di uno dei signori Duncan, dunque aveva deciso che essi sarebbero stati considerati colpevoli fino a prova contraria. Non poteva fidarsi di loro – anzi, aveva iniziato a sentirsi a disagio quando si trovava in loro compagnia, e aveva preso l’abitudine di farsi servire la cena nella propria camera da letto – e neppure di Lydia, che con il suo silenzio era forse più inquietante dei suoi compagni di lavoro.
Il suo Aramis, invece, aveva iniziato stranamente ad abituarsi alla nuova dimora e passava ormai più tempo ad esplorarla che non a coccolare la sua padrona. Emma non aveva idea se questo atteggiamento significasse qualcosa – per esempio, che le mura di Pemberley in fondo non celavano alcun pericolo – pertanto, nel dubbio, continuava a nutrire la propria preoccupazione.
Grazie alle brevi visite del dottore, Emma aveva scoperto alcune cose riguardo il villaggio. Innanzitutto, non vi era nessun rappresentante della legge – sia il giudice che la prima stazione di polizia disponibili si trovavano a circa venti miglia di distanza, nel paese di Alnwick, ossia a quasi mezza giornata di viaggio in carrozza – ed era più che altro il pastore, insieme all’ufficio postale, a gestire le faccende amministrative. Insomma, più il tempo passava e più Emma cadeva preda dello sconforto, a causa della terribile sensazione di essere lasciata a se’ stessa in un luogo estraneo e circondata da persone a dir poco sospette e inospitali. Se solo miss Radcliffe fosse stata meglio, non ci avrebbe pensato due volte a preparare le valigie e tornarsene immediatamente a casa. Persino vedere le imposte listate a lutto di Hambleton Abbey sarebbe stato preferibile a quella solitudine.
A tutto questo, come peraltro si sarebbe dovuta aspettare, si andava aggiungendo il gelido e inconscio terrore del buio che in genere è prerogativa dei bambini nella nursery. Personalmente, Emma si era sempre vantata della sua freddezza nei confronti di leggende e superstizioni – amava i romanzi gotici e le storie dell’orrido, sì, ma miss Radcliffe si era da sempre fatta il puntiglio di metterle in testa che nulla di ciò che leggeva in tali libri o che le veniva raccontato dalla sorella doveva spaventarla – e dunque aveva smesso di dormire con una candela accesa accanto al letto già dalla tenera età di cinque anni. Eppure, da quando era andata ad abitare a Pemberley Manor, pareva che tutte le sue certezze fossero scomparse, sostituite dalla vergognosa capacità di sussultare e tremare per ogni rumore e scricchiolio improvviso che udiva nel silenzio.
Aveva costantemente l’inquietante sensazione di essere osservata – si guardava alle spalle più spesso di quanto volesse, e neppure la sua forza di volontà riusciva a impedirle di comportarsi in quel modo – e quando si aggirava per i corridoi, anche durante il giorno, le sembrava persino di essere seguita. Non credeva che fosse solo un’inspiegabile mania, visto che anche Aramis in quei momenti tornava ad essere nervoso e agitato, in special modo se si trovava dentro o nei pressi della biblioteca – per poi calmarsi inspiegabilmente una volta raggiunta la sua camera da letto o la sala da pranzo.
Ed era allora che le tornavano in mente le parole di sir Arthur. Nella biblioteca scoppiò l’incendio, e i corpi dei Rochester vennero orribilmente divorati dalle fiamme. Dunque era stato il fuoco a ucciderli, oppure chiunque l’avesse appiccato – giacché era fuori discussione che un incendio di quella portata potesse essere esploso da solo – li aveva uccisi prima? Era macabro e morboso continuare a pensarci, Emma lo sapeva bene, eppure era allo stesso tempo inevitabile: come faceva a distogliere la sua mente da quel fatto se ogni cosa glielo faceva rammentare, dai lampadari della biblioteca ancora anneriti, alle travi bruciacchiate del pavimento che Mrs. Duncan si ostinava a nascondere con spessi tappeti?
Ad ogni modo, non le mancava la buona volontà. E la breve visita del castello che aveva fatto la settimana precedente – i giorni scorrevano via senza che lei riuscisse a tenerne il conto – l’aveva stuzzicata al punto da volerla replicare, cosa che se non altro l’avrebbe distratta da ogni genere di teorie complottiste che la sua mente partoriva in continuazione. Solo, stavolta voleva evitare di perdersi; e fu per questo motivo che domandò a una perplessa e contrariata Mrs. Duncan di procurarle i vecchi progetti del maniero, in modo da poter studiare la disposizione di tutte le stanze e i corridoi.


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Caledon aveva letto e riletto la lettera di Emma fino a impararla a memoria, da quando l’aveva ricevuta nel suo appartamento londinese cinque giorni prima; gli era sembrata una curiosa coincidenza, considerando che aveva incontrato lord Grantham al White’s soltanto la sera precedente. Rammentava alla perfezione la fitta piacevole che aveva provato all’altezza del petto nel riconoscere l’elegante calligrafia della sua futura moglie, mentre suo padre lo fissava dall’altro capo del tavolo con un mezzo sorriso di condiscendenza sul volto.
«Buone notizie?» Era stato il suo commento disinteressato. Cal lo sperava: sinceramente, aveva il timore che la lontananza e quella sorta di esilio a cui il padre l’aveva obbligata non avrebbe portato nulla di buono, in un rapporto che già di per sé andava avanti in un’atmosfera di costante tensione. Tensione che continuava a non spiegarsi, benché avesse trascorso parecchie notti insonni a rimuginarci, cercando risposte sul fondo di un bicchiere di cristallo: da quando la compianta lady Grantham si era ammalata, lui ed Emma non avevano fatto che allontanarsi, e l’idea di perderla ancora prima di averla avuta non gli dava pace. E adesso non poteva neanche andare a trovarla, maledizione.
«Lo sapremo presto, giusto?» Sospirò lui, aprendo la lettera con il coltello da burro e tirandone fuori un foglio piegato con cura e privo di profumi o inutili svolazzi. Dovevano essere davvero poche le fanciulle, in Inghilterra, che non riempivano le proprie carte personali di una o due gocce d’essenza prima di spedirle al proprio fidanzato, e ancora dopo tutti quegli anni Caledon non aveva ben compreso se la cosa lo infastidisse o lo lasciasse del tutto indifferente. D’altronde, l’importante era il contenuto.
«Non essere irritato con lei, Caledon: hai sentito cos’ha detto lord Grantham, l’altra sera. Nulla di tutto questo è dipeso dalla tua fidanzata», fu il pacato e probabilmente saggio consiglio che gli diede il duca tra un sorso e l’altro del suo caffè mattutino. «Se vuoi puoi usare il mio studio per leggere la lettera in tranquillità…»
«Grazie, sì», fece il figlio, alzandosi come se non stesse aspettando altro. «Archer, per favore. Porta il mio tè nello studio», aggiunse poi rivolto al cameriere.
Nell’osservarlo uscire frettolosamente dalla sala da pranzo, neanche gli andasse a fuoco la sedia, lord Suffolk rilasciò un breve e irritato sospiro. Sembrava essere rimasto l’unico, nella famiglia, a non ritenere che quel matrimonio fosse in pericolo: persino la fiducia di sua moglie aveva iniziato a vacillare, dopo la morte di lady Grantham e l’inevitabile raffreddamento dei sentimenti della fanciulla.
«Si sposeranno, si sposeranno…» Mormorò tranquillo, con la cieca sicurezza che deriva da anni e anni di esercizio del potere. Avrebbe voluto che anche suo figlio vivesse quella situazione con maggiore serenità, ma il duca sapeva bene che il cuore di un giovane era preda dei dubbi e dei dilemmi più atroci. Biasimando quel comportamento così middle-class, il duca tornò a immergersi nella lettura del giornale dimenticando presto le angosce ingiustificate del figlio.
Quando la porta dello studio si chiuse con un tonfo leggero alle sue spalle, il giovane in questione riprese a respirare. Aveva l’impressione che la lettera pesasse come un macigno nel suo pugno, e quasi temeva di abbassare gli occhi e leggerla, nel caso contenesse qualcosa che non fosse di suo gusto: se l’avesse ignorata, poteva fingere che qualsiasi brutta notizia vi fosse giunta non lo riguardasse… Ma ancora prima di concludere tale pensiero si dette dell’idiota, maledicendosi. Che sciocchezze! Era un uomo fatto e finito, era l’erede di un duca, e aveva Londra ai suoi piedi… non poteva struggersi a quel modo per una lettera giunta dalla campagna!
«Una lettera di Emma», sussurrò inconsciamente, come a volersi tuttavia contraddire. Attraversò la stanza e si diresse verso la vecchia poltrona in pelle accanto al camino, alla ricerca di una posizione comoda; quel continuo posticipare l’inevitabile lettura stava iniziando a dargli sui nervi, così si sedette e, in un gesto che conteneva rabbia, timore e determinazione insieme, dispiegò il foglio e cominciò a leggere.
Non era nulla di che, scoprì poi con un certo disappunto e un’inevitabile punta di delusione. Emma usava parole gentili e modi impeccabili, come sempre, ma non una tenerezza, un’effusione, né un pensiero affettuoso per l’uomo che avrebbe dovuto sposare. Chissà che cosa si era aspettato? A metà lettera provò l’impulso di appallottolare la carta e gettarla nel fuoco, tant’era forte la sua frustrazione. Eppure proseguì, andando avanti con la caparbietà che lo contraddistingueva.
E fu un bene, perché verso la fine della lettera il tono cambiava impercettibilmente, facendosi appena più intimo, con una delicatezza che non sarebbe stata colta da un occhio inesperto.
Benché indubbiamente più breve di una lettera che una fidanzata amorevole avrebbe dovuto scrivere, a Caledon sembrò di scorgervi per la prima volta uno spiraglio attraverso il quale poter fare breccia. Emma descriveva la sua proprietà di campagna come un castello così antico e immenso da farmi mancare l’aria, e aggiungeva poi, non come se avesse voluto scriverlo ma come se le parole fossero fuggite dalla penna prima che potesse impedirlo, che l’idea di papà, per quanto nobile e sicuramente dettata da buone intenzioni, si è rivelata avere l’effetto opposto, e mi capita di sentire la mancanza di cose che prima degnavo di scarsa attenzione.
Caledon si lasciò sfuggire un gemito di trionfo, e un accenno di sorriso si fece largo sulla sua espressione accigliata. Ed ecco che la solitudine inizia a farla cedere, pensò, compiaciuto più di quanto la galanteria permettesse. Un altro mese in quella contea sperduta ed Emma sarebbe stata sua prima di Natale… Ma non sarebbe mai successo se non avesse trovato un modo per stuzzicarla, magari con una visita a sorpresa. Sì, era un’ottima idea, suo padre avrebbe di sicuro approvato! Si dava il caso che alcuni suoi compagni di college lo avessero invitato a trascorrere del tempo insieme a Inverness, e che Pemberley Manor si trovasse in una posizione ideale del tragitto tra Londra e la Scozia; la vacanza sarebbe durata due settimane, durante le quali avevano già progettato gare di caccia e pesca, passeggiate a cavallo e persino delle escursioni in barca per ammirare la scogliera dal mare, qualora il tempo fosse stato favorevole. In tutto questo, Cal era più che sicuro di riuscire a ritagliarsi del tempo per andare a trovare la sua fidanzata, ed era anche piuttosto convinto di trovarla bendisposta nei suoi confronti, visto l’isolamento nel quale si trovava.
In tutta coscienza, sapeva di non poter completamente incolpare Emma per la sua freddezza: la realtà era che Caledon avrebbe dovuto sposare Elizabeth, sua sorella, se la sua morte improvvisa non avesse bruscamente cambiato i piani delle due famiglie. Ricordava il funerale della piccola Lizzie come se fosse accaduto il giorno prima: è sempre tragica la morte di una ragazza di sedici anni, in special modo se era la primogenita di un conte e se i genitori contavano di vederla unita in matrimonio con un duca. Rammentava che il corteo funebre, per quanto affollato, era stato stranamente silenzioso: subito dopo il prete e i sagrestani c’erano il conte e la contessa di Grantham, seguiti da una piccola Emma che cercava di stare al passo della sua istitutrice, poi lui e la sua famiglia, e infine il resto dei parenti e dei famigliari dei Grantham. Nessuno piangeva. Eppure, anche dopo tutti gli anni trascorsi, ciò che più gli era rimasto impresso era stata la sensazione di fastidio e turbamento al pensiero che, adesso, la sua promessa sposa sarebbe stata quella fanciullina di nove anni che non aveva nemmeno l’ombra della bellezza di sua sorella. Col senno di poi riconobbe di essere stato meschino a covare simili pensieri, ma dopotutto all’epoca non aveva ancora vent’anni – la sua preoccupazione di doversi considerare legato a una bambina era più che comprensibile, no?
Lizzie era tanto bionda quanto Emma era scura, con boccoli corvini accuratamente acconciati e coperti da un cappellino nero a lutto; entrambe avevano la pelle più bianca del latte, ma mentre quella di una aveva delle graziose sfumature rosee, quella dell’altra tendeva ad un pallore che rammentava il gesso – persino distesa nella sua piccola bara bianca, il colorito di Lizzie sembrava ancora più vivace di quello di sua sorella. Chi non le avesse conosciute avrebbe potuto rifiutarsi di credere che le due erano imparentate, e che nelle loro vene scorresse il medesimo sangue. Non solo: il loro legame era talmente solido, talmente affettuoso, da avergli fatto più volte rimpiangere il suo essere figlio unico.
Eppure Emma non era una bambina triste, né solitaria: era soltanto molto timida, specialmente quando la sorella la portava con sé durante le loro passeggiate, a mo’ di chaperon. Erano davvero una bizzarra compagnia in quelle occasioni: con una mano Caledon reggeva il cestino da picnic, con l’altra teneva Lizzie sottobraccio, e lei a sua volta prendeva la mano della sorella con la sua libera. E il capo deliziosamente dorato di Elizabeth spiccava come oro sul carbone quando, tutti sdraiati sotto a un albero dopo aver mangiato, i loro capelli si mischiavano sulla coperta in un ammasso disordinato di riccioli.
Cal aveva imparato a voler bene a quella bambina che portava con sé uno o più libri dovunque andasse – persino durante quei picnic, arrivava il momento in cui Emma si stufava di prestare attenzione ai giochi dei grandi e si isolava con il naso sepolto tra le pagine di chissà quale favola – però, accecato com’era dalla bellezza ancora acerba di Lizzie, non aveva mai neanche pensato di prendere in considerazione l’idea che Emma potesse, un giorno, diventare altrettanto bella e desiderabile, quanto se non più della povera sorella. Suo padre aveva preso il discorso qualche settimana dopo la morte di Lizzie: gli aveva detto, senza tanti giri di parole, che comprendeva il suo dolore per la perdita di colei che, oltre ad essere, sulla carta, la sua promessa sposa, era anche una cara amica, ma che ciò non avrebbe impedito le due famiglie di continuare a sperare di potersi, un giorno, unire.
In un primo momento Caledon non aveva compreso, o forse aveva solo fatto finta: ma alla fine il duca gli aveva chiarito che quando Emma avrebbe raggiunto l’età adulta sarebbe stata lei la giovane Moore che avrebbe condotto all’altare, e che pertanto avrebbe fatto meglio a venire a patti con quell’idea il prima possibile. Se poi voleva prendersi del tempo per rifletterci e rassegnarsi, il padre glielo avrebbe concesso: ed era stato così che Caledon, dopo aver trascorso altri tre anni nell’università di Cambridge, aveva deciso di partire insieme al suo precettore per un lungo viaggio in Europa e nel Nuovo Mondo.
Era ritornato in Inghilterra solo nell’autunno del 1899, per trascorrere gli ultimi mesi del diciannovesimo secolo insieme alla sua famiglia; e in tutto questo tempo non si era degnato una sola volta di chiedere notizie di Emma, e se la madre gliene accennava in una delle sue lunghe lettere tendeva a ignorare quelle parti alla stregua di un bambino capriccioso. Ciò che tuttavia non immaginava e che gli era stato riferito solo all’ultimo momento era che i duchi di Suffolk erano stati invitati a passare le festività natalizie presso la residenza dei Grantham, e che lui sarebbe stato per la prima volta presentato ufficialmente – seppur comunque in un ambiente intimo e privato – a Emma come suo fidanzato.
Probabilmente non avrebbe mai dimenticato quel momento: aveva varcato la soglia di Hambleton Abbey con l’aria del condannato a morte, infuriato con i suoi genitori e intenzionato a non rivolgere la parola a nessuno a meno che non fosse stato interrogato personalmente, ma tale proposito si era infranto non appena il suo sguardo rabbioso ebbe incontrato la graziosa fanciulla che, ritta al fianco della madre in attesa di porgere loro il benvenuto, gli aveva sorriso con timida e fredda gentilezza come se, in fondo, neppure lei fosse tanto lieta di quell’incontro.
Malgrado tutti i suoi propositi, Caledon non era riuscito a staccarle gli occhi di dosso per tutta la sera, ammaliato come un qualunque ragazzino: l’aveva osservata rispondere alle domande di lady Suffolk con una pacata e inusuale eleganza in una giovane della sua età, aveva ammirato da lontano la sua bellezza ancora in sboccio ma assai promettente – nulla a che vedere con la sorella, certo, ma lui ormai Elizabeth non la rammentava più – aveva colto l’arguzia e lo spirito della sua conversazione e aveva, per la prima volta da che la conosceva, desiderato di poter rimanere da solo con lei per godere della sua compagnia.
Quando ebbero lasciato Hambleton alla fine di quella vacanza, senza che lui ed Emma si fossero scambiati in realtà che poche parole di circostanza, Caledon era decisamente più bendisposto nei confronti di quel matrimonio di quanto non lo fosse al momento del suo arrivo.
Eppure Emma non aveva mai dimostrato neppure una parte del suo stesso entusiasmo. Per quanto Caledon si fosse sforzato di conquistarla, di farsi apprezzare da lei, di fare breccia nel suo cuore o perlomeno di guadagnarsi un briciolo di affetto, non vi era mai riuscito. Aveva addirittura pensato che il cuore della sua nuova fidanzata potesse appartenere a qualcun altro, ma poi aveva scoperto che i suoi genitori l’avevano sempre tenuta lontano da altri eventuali spasimanti – il tutto al solo scopo di agevolare quell’unione. La giovane Emma Moore era semplicemente irraggiungibile, come una piccola regina di ghiaccio, ed era una cosa che lo faceva impazzire.
Fu il rumore della porta che si apriva e si richiudeva, subito seguito dalla voce di suo padre, che lo fece riemergere dal limbo dei ricordi. «Allora, queste novità?» Domandò il duca con un mezzo sorriso, andando a sedersi di fronte a lui. «Sei chiuso qui dentro da oltre mezz’ora, iniziavo a preoccuparmi.»
«Sai, papà, credo che non ci sia nulla di cui preoccuparsi», replicò Caledon, ricambiando il sorriso. «Penso che andrò a trovare Emma prima di proseguire per Inverness, la sua tenuta è di passaggio. Tu approvi?»
«Non è a me che devi chiederlo. Senti lord Grantham, piuttosto, dovrebbe essere ancora in città», fece lord Suffolk, accendendo un sigaro. «Hai intenzione di mandarle un telegramma? Non credo che una lettera di risposta riesca ad arrivare prima di te.»
«In realtà contavo di farle una sorpresa. Dopotutto è lì con la sua istitutrice e io sono il suo fidanzato, non c’è nulla di sconveniente, giusto?» Chiese per scrupolo, aggrottando la fronte.
Il padre inarcò un sopracciglio, improvvisamente malizioso. «Sarebbe sconveniente solo se tu ti fermassi a dormire…»
Caledon liquidò l’idea, per quanto considerandola intrigante, con una mezza risata. «Credimi, Emma non me lo permetterebbe mai. Piuttosto mi caccerebbe via di persona!» Rispose, sperando di celare la delusione dietro un debole umorismo.
Se anche lord Suffolk vi aveva fatto caso, non ne fece mostra. «È un bene che almeno uno di voi abbia la testa sulle spalle», decretò, aspirando una profonda boccata del suo sigaro. Tuttavia gli fu impossibile continuare a ignorare il repentino malumore del figlio, e si sporse verso di lui per battergli gentilmente una mano sul ginocchio. «Su, figliolo, avrete tutto il tempo del mondo per stare insieme, dopo il matrimonio.»
«E tu pensi che mi sposerebbe lo stesso, se la sua famiglia non la obbligasse a farlo?» Ribatté l’altro con un astio improvviso, fissando il padre di sottecchi.
Il duca sospirò, scuotendo piano il capo. «Certo che no. Nessuna donna perbene dovrebbe accettare di sua spontanea volontà una proposta di matrimonio, è una cosa volgare e adatta ai contadini.»
«Per l’amor di Dio, papà, hai capito benissimo cosa intendevo.»
«No, invece. Cal, le unioni tra nobili non contemplano chissà quale sentimento, se non il rispetto, quando si è fortunati. Se cerchi dell’altro, ebbene, non dovrei essere io a dirti che esistono altre… soluzioni. Tutta la stima che nutro nei confronti di lord Grantham non sopprime la mia convinzione che l’unico ruolo della tua fidanzata è quello di darti un erede e una compagna elegante da mostrare agli eventi ufficiali, insieme naturalmente ai suoi possedimenti.» Un’altra boccata dal sigaro. «Sinceramente non so che cosa vuoi sentirti dire. Speravi che si innamorasse di te, o che già lo fosse? Cal, hai trent’anni e sei l’unico erede di un impero che ci invidiano persino i membri della famiglia reale. Non puoi cullarti in questi sogni di bambino. Credevo che ormai avessi compreso che il matrimonio è solo un affare.»
«Perdonami, papà, per aver desiderato che la mia fidanzata mi volesse almeno la metà di quanto io voglia lei», sibilò Caledon alzandosi in piedi con uno scatto rabbioso, per niente disposto ad ascoltare una sola parola di più. «Credo che sia meglio concludere qui la discussione. Manderò un messaggio a lord Grantham per avvisarlo della mia idea, sempre che tu non abbia da ridire anche su quella.»
«Questo tuo atteggiamento è ridicolo, e non ti porterà nulla di buono», lo riprese freddamente il duca, senza più tanta voglia di scherzare. Per un attimo Caledon rivide l’uomo che tanti anni prima usava ordinare al vecchio stalliere di batterlo per poi osservare impassibile mentre il servo obbediva, forse con troppo fervore, e fu talmente turbato da quel ricordo d’infanzia da distogliere lo sguardo. «Francamente, figliolo, ti credevo fatto di tutt’altra pasta.»
Se avesse potuto, probabilmente l’avrebbe fatto frustare ancora una volta. «Mi dispiace aver deluso le tue aspettative, padre», ribatté Caledon prima di uscire dallo studio senza aggiungere una sola parola, talmente in fretta come se ciò potesse farlo scappare da quel tempo che credeva d’essersi ormai lasciato alle spalle. Si trattenne a stento dallo sbattere la porta con furia dietro di sé, e solo perché non voleva avvalorare la convinzione di lord Suffolk di avere a che fare con un figlio dal comportamento infantile.



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«Milady, avete… avete una visita.»
Emma sollevò lo sguardo dalle carte che stava studiando e ricopiando accuratamente da qualche ora – vecchi progetti e planimetrie della casa, così ingialliti e macchiati di umidità da rendere a dir poco ardua la lettura – per posarlo sulla governante che appariva titubante e preoccupata mentre se ne stava sulla soglia della porta come un’anima in pena. «Non aspettavo nessuno. È il signor Carlisle?» Si informò, mettendo da una parte suo malgrado le piantine del castello.
«No, milady. Un certo Caledon Hardy, dice di essere… ecco, il vostro fidanzato?»
Buon Dio, non è possibile. Emma sbatté le palpebre, accigliata, metabolizzando quanto aveva appena sentito. Caledon era davvero lì, a Pemberley? Per quale motivo era arrivato senza farsi annunciare, senza avvisarla? Forse un telegramma l’avrebbe ucciso, se si fosse dato pena di spedirlo in tempo, o era successo qualcosa? E non sarebbe stato inappropriato riceverlo da sola, senza uno chaperon a mitigare la sua irruenza? Cercò di tenere a bada l’irritazione mentre si ricomponeva, prima di rispondere a Mrs. Duncan. «Sì, signora Duncan, è il mio fidanzato. Dov’è adesso?»
«Sta attendendo nell’ingresso», fece la donna, palesemente incuriosita.
«Fatelo accomodare qui in biblioteca, per cortesia. E vi dispiacerebbe portarci anche qualcosa da bere? Il tè, e qualcosa di forte, magari – lord Caledon deve aver fatto molta strada e sarà stanco», ordinò, alzandosi in piedi. La donna la lasciò sola, ed Emma ne approfittò per darsi sbrigativamente una sistemata; anche senza specchio sapeva che il suo aspetto era trascurato – la gonna sgualcita per la prolungata posizione seduta, la treccia che lasciava sfuggire sottili ciocche di capelli, gli occhi stanchi per le notti insonni e un colorito così pallido da far invidia a una statua – ma a quel punto non poteva sparire nella sua stanza per cambiarsi d’abito o pettinarsi meglio. La sua era infine soltanto una sciocca e istintiva vanità, dato che non poteva essere meno interessata di così dal fare una buona impressione sul suo fidanzato.
Riuscì solo a riabbottonarsi il colletto e a pizzicarsi le guance per farvi tornare un po’ di colore, prima che la porta della biblioteca si aprisse una seconda volta e la voce di Mrs. Duncan annunciasse l’ospite.
«Mia cara Emma», esclamò l’uomo con un sorriso, interrompendo a metà l’annuncio della governante. Entrò nella biblioteca come un fulmine a ciel sereno, sfilandosi con un gesto elegante guanti e cappello.
Emma non vedeva Caledon dal funerale di lady Grantham – il che significava che era trascorso più di un mese da quando i due promessi sposi si erano ritrovati insieme nella stessa stanza. Non sapeva se ciò fosse un bene o un male, ma il giovane le sembrò pressoché identico a come lo aveva lasciato – lei, d’altra parte, si sentiva profondamente cambiata, come se il lutto l’avesse trasformata in un’altra persona.
Avvolto in un elegante completo di sartoria color tan, con un doppiopetto marrone e i bottoni d’oro, Caledon era l’immagine perfetta e poetica dello spensierato nobiluomo inglese in gita in campagna. Era bello, di quella bellezza mascolina che fa nascondere dietro a un ventaglio il viso arrossato delle fanciulle, e che provoca invidia negli altri uomini: questo Emma poteva dirlo senza vergogna né desiderio, perché non era nulla più che la semplice verità. I capelli erano di un castano indefinito che parevano cambiar colore a seconda della luce che li colpiva, corti e tirati indietro con l’umile cura del gentiluomo che non vuole apparire né disordinato né troppo dandy; il volto possedeva dei tratti greci, un mento forte, una bocca che sorrideva volentieri, e degli occhi che a loro volta potevano sembrare grigi o azzurri, circondati da ciglia folte che stonavano con il colore chiaro dei capelli e della leggera peluria che gli ombreggiava i lineamenti del viso.
Pareva non avere altra occupazione se non cacciare volpi e correre dietro alle gonne delle fanciulle – si accorse del pensiero poco delicato che aveva avuto nei suoi confronti solo dopo averlo ormai concepito.
Fu per farsi perdonare che avanzò di qualche passo verso di lui, incontrandolo al centro della stanza e porgendogli una mano – quando si accorse che aveva le dita indecentemente macchiate d’inchiostro, era troppo tardi per ritirarla senza apparire oltremodo scortese. «Caledon, questa sì che è una visita inaspettata», lo salutò, cercando di sorridere nel modo più gentile possibile. «Se mi aveste avvisata in tempo, vi avrei preparato un’accoglienza diversa. Mi dispiace che dobbiate vedermi in queste condizioni.»
«Siete incantevole come sempre, mia cara», ribatté lui con fare galante, prendendole la mano e sfiorandola con un bacio fugace. «E avvisarvi in tempo sarebbe stato davvero impossibile, giacché la mia partenza è stata pressoché improvvisa; neanche un telegramma sarebbe riuscito ad arrivare prima di me.»
«Ah, siete in viaggio per affari, dunque?» Gli domandò, facendogli cenno di seguirla presso il camino che scoppiettava allegramente. Come voleva l’educazione, Caledon attese che lei prendesse posto su una poltrona prima di sedersi a sua volta su un divanetto di fronte, lasciando poi il cappello sul cuscino al suo fianco.
Mrs. Duncan li raggiunse subito dopo seguita da una silenziosa Lydia, che spingeva con lo sguardo basso un carrellino in legno e ottone sul quale faceva bella mostra di sé un distinto servizio di porcellana.
«Non esattamente. Alcuni amici di Cambridge mi hanno invitato a trascorrere un paio di settimane a Inverness, e non ho resistito alla tentazione di deviare il percorso per venirvi a trovare.»
«Oh, avete avuto un pensiero gentile. Ve ne sono grata», annuì lei educatamente, accennando un sorriso ma senza minimamente arrossire come avrebbe di certo fatto qualsiasi altra fanciulla. Prima di proseguire con la loro chiacchierata, Emma si scusò e si voltò verso le due domestiche che attendevano un suo cenno per versare il tè.
Caledon doveva ammettere di essersi immaginato in modo diverso quell’incontro. Durante il lungo viaggio in treno, mentre alternava l’ennesima lettura della lettera di Emma a quella più prosaica del giornale, diversi scenari avevano preso forma nella sua mente: assai poeticamente si era figurato la sua fidanzata mollemente semi-distesa su una chaise-longue, circondata da profumati vasi di fiori e con il delizioso nasino sepolto tra le pagine di un libro, magari proposto dalla sua istitutrice, mentre leggeva poesie di Coleridge o Wordsworth. Aveva sperato, forte dell’elemento sorpresa, di coglierla in un momento d’intimità, con la guardia abbassata, come mai gli era capitato di trovarla; si era persino immaginato mentre sollevava i suoi begli occhi dal libro, sorpresa e persino lieta di vederlo – almeno tra sé e sé poteva sperare – per poi sollevare un braccio e invitarlo ad avvicinarsi, dolcemente, come si confà a una fanciulla innamorata.
Era rimasto dunque un poco deluso quando l’incontro era effettivamente avvenuto. Certo, non gli era mai capitato di vederla scarmigliata e vestita come una dama di campagna – non aveva alcun gioiello addosso, neppure l’anello che le aveva regalato per il fidanzamento, segno che, contrariamente alle usanze, non lo indossava sempre… lui dovette persino fingere che ciò non l’avesse offeso – e dunque questo poteva in parte soddisfare il suo desiderio di intimità… Ma il muro che l’avvolgeva era sempre ritto e indistruttibile, forse più di prima, ed era ben visibile anche attraverso il sorriso di cortesia che gli aveva rivolto.
E adesso, mentre lei era impegnata a dare disposizioni alla governante circa il tè da servire a entrambi – «Oppure gradite qualcos’altro, Caledon?» No, lui avrebbe preso quello che prendeva lei – non poteva fare a meno di osservarla di sottecchi, pensieroso, con le sferzanti parole di suo padre che ancora gli rimbombavano nel cranio. Il vecchio duca era sicuro – no, anzi: sapeva con certezza – che il matrimonio ci sarebbe stato; era un evento che veniva programmato sin da quando Caledon poteva rammentare, e sinceramente non ricordava che ci fosse stato un solo giorno nella sua vita in cui lui non era stato promesso a una fanciulla Moore. Anche solo pensare che potesse andare diversamente, dunque, era fuori discussione.
Caledon poteva quindi cullarsi su tale sicurezza, diavolo, poteva persino smettere di cercare disperatamente di conquistare la ragazza – sarebbe stata sua in ogni caso! Eppure la sua mente non aveva neanche finito di formulare quel pensiero che lui già se ne era pentito. In quel caso non sarebbe stata, forse, una vittoria gretta e vuota? Che cosa avrebbe guadagnato, se non la prospettiva di una vita da trascorrere insieme a una donna che non voleva avere nulla a che fare con lui, e che non si ribellava solo per quieto vivere e spirito di martirio? Si era sempre vantato di non essere cinico come suo padre, e voleva continuare a credere di essere fatto di una pasta diversa.
Ma si rivelava ogni giorno più difficile. Emma, per chissà quale strano motivo, aveva uno strano modo di apparire circospetta ogniqualvolta si trovava accanto a lui. Ogni sua parola pareva venire misurata e pesata con attenzione, gli sguardi centellinati, i piccoli sorrisi rari e per questo motivo sempre meravigliosamente apprezzati quando lui ne era il destinatario. Forse bisognava biasimare l’educazione che aveva ricevuto – era poco più che una bambina quando le era caduto sulle spalle il fardello di quel matrimonio, e senza alcun dubbio i suoi genitori l’avevano cresciuta da allora con l’obiettivo di renderla una candidata perfetta al suo futuro ruolo di duchessa. Era, in effetti, pressoché priva di qualsiasi difetto: era posata, educata, gentile, e aveva quell’innata eleganza che faceva sì che non sembrasse mai fuori luogo, a prescindere dalla situazione. Un vero peccato che fosse sempre così gelida nei suoi confronti.
Quando finalmente le due domestiche li ebbero lasciati soli, Caledon tirò un breve sospiro di sollievo e sollevò gli occhi per posarli su Emma. Rimase per un attimo spiazzato quando si accorse che anche lei lo stava osservando con un’aria assorta, ma il momento terminò fin troppo rapidamente – quando si accorse di essere stata scoperta Emma batté le palpebre, arrossì leggermente e riabbassò lo sguardo.
«Perdonatemi», disse, facendo ruotare il cucchiaino d’argento nella tazzina. «È solo un po’ strano vedere un volto familiare tra queste mura.»
«Spero che sia anche piacevole», la provocò con un sorrisetto, osservandola attentamente. Odiava il non essere capace di comprenderla, il non riuscire a capire che cosa le passasse per la mente solo guardandola: il suo unico conforto era la speranza che questo sarebbe cambiato col tempo, una volta sposati.
Sorprendentemente, le labbra di Emma si sollevarono in un piccolo sorriso. «Oh, sì, lo è», fu la sua gentile risposta. Chissà se lo intendeva davvero? «Mi ero quasi rassegnata a trascorrere da sola queste settimane prima dell’arrivo di mio padre, sapete, e come vedete non sono molto presentabile», continuò, un po’ imbarazzo; un conto era raggiungere sir Carlisle con un’improvvisata e poco ortodossa tenuta da amazzone, e un altro era lasciare che il suo fidanzato – che chissà cosa poteva raccontare a suo padre il duca, per l’amor di Dio – la vedesse in condizioni che non fossero impeccabili. Aveva l’impressione di essere costantemente sotto una lente di ingrandimento quando si trattava di doversi rapportare con il suo fidanzato e la sua severa famiglia – anche se doveva ammettere che non aveva visto nulla nello sguardo di Caledon che non fosse affetto.
«Ad ogni modo, non voglio tediarvi con noiosi racconti della mia vita in campagna. Raccontatemi voi qualcosa», propose, cambiando argomento. «Stavate accennando a un viaggio a Inverness?»
Il pomeriggio trascorse malgrado tutto in modo piacevole; entrambi sapevano maneggiare la sottile arte della conversazione, sicché non ci furono silenzi né troppi imbarazzi tra i due fidanzati: la loro era comunque una conoscenza di lunga data, e il tempo crea una strana intimità anche tra i nemici. Forse fu l’assenza di uno chaperon, o forse fu il bisogno che Emma aveva di sfogare quelle settimane trascorse senza il beneficio della compagnia di qualcuno con cui chiacchierare – se almeno Lydia non fosse stata muta, povera ragazza – fatto sta che l’atmosfera tra loro si era fatta molto più rilassata di quanto non fosse all’inizio dell’incontro, o in tutti quelli che avevano avuto luogo tra le mura di Hambleton e alla presenza più o meno discreta di miss Radcliffe. In effetti, rifletterono entrambi, quella era la prima volta che si ritrovavano effettivamente da soli.
Il cielo andava scurendosi rapidamente al di là delle grandi vetrate della biblioteca, e questo fu il segnale per Mrs. Duncan di tornare a cambiare le candele e attizzare il fuoco del camino. Poi, benché sembrasse disapprovare l’idea, non poté astenersi dal domandare se lord Caledon aveva intenzione di fermarsi a cena.
Più tardi Emma si sarebbe domandata da dove fosse uscita la sua risposta.
«Certo, signora Duncan. Lord Caledon sarà nostro ospite», disse, con una spontanea sicurezza che di solito non le apparteneva – perlomeno non in situazioni simili. Con un mezzo sorriso, poi, si voltò verso di lui e, quasi compiaciuta nel notare la sua espressione sorpresa, aggiunse: «Anzi, non sarebbe meglio se trascorreste la notte al maniero? L’ultimo treno parte alle nove, e da qui non arriverete mai in tempo alla stazione.»
«Non vorrei essere di troppo disturbo», replicò incerto, spostando lo sguardo da Emma alla governante e viceversa; non si aspettava quel genere di invito da parte della sua fidanzata, anche se sicuramente era stato fatto in completa buonafede e senza alcuna malizia.
«Nessun disturbo. Con che coraggio potrei lasciarvi andare via a quest’ora, poi?» Lo tranquillizzò lei prima di voltarsi verso la domestica. «Mrs. Duncan, preparate la camera Luigi Filippo al primo piano.»
«Come desiderate, milady», mormorò la donna, accennando un inchino prima di lasciarli nuovamente soli.
A Emma non era sfuggita l’espressione contrariata della signora Duncan – per un momento aveva temuto che la donna potesse persino arrivare a contraddirla davanti a Caledon; per fortuna, la governante doveva avere ancora qualche rimasuglio di buona educazione, perché si limitò ad annuire e sparire velocemente oltre le porte della biblioteca. Ora iniziava a comprendere per quale motivo sua madre, la compianta lady Grantham, avesse puntualmente degli scatti di nervosismo che talvolta sfociavano in risposte brusche e gelide; non le si poteva dar torto, se gestire la servitù di Hambleton era difficile e snervante tanto quanto quella di Pemberley.
Il suo breve momento di distrazione venne interrotto dalla voce, ora quanto mai piacevole, del suo ospite. «Siete una perfetta padrona di casa, Emma», fu la sua gentile osservazione. Qualcosa nel suo tono le rese chiaro verso quale direzione stessero vertendo in quel momento i pensieri di Caledon, e non poté fare a meno di arrossire leggermente. Un giorno, probabilmente neanche troppo lontano, sarebbe stata davvero la signora e padrona di una magione – avrebbe avuto uno stuolo di domestici che avrebbero risposto a lei, e avrebbe dovuto gestire la corrispondenza, e organizzare gli eventi, e persino approvare i menù dei pasti: compiti per i quali era stata preparata alla perfezione, certo, ma che, e al riguardo non nutriva alcun dubbio, sua sorella avrebbe svolto assai meglio e con maggior grazia.
«Credo che anche questo rientrasse nei piani di mio padre», replicò con una breve scrollata di spalle. «Ama mettermi alla prova, e di certo sapeva che gestire una simile magione, per quanto non ci sia da fare poi un granché, avrebbe richiesto degli sforzi. Non ho mai avuto modo di prendere le redini di Hambleton, sapete, neanche quando… quando mia madre era impossibilitata a farlo.»
La sua voce si incrinò nell’ultima frase – le faceva ancora uno strano effetto nominare sua madre ad alta voce all’interno di un discorso, quasi come se temesse di disturbarne il ricordo in quel modo – così tacque, e nascose il suo disagio versandosi un’altra tazza di tè.
Quasi sussultò quando la mano priva di guanti di Caledon si posò sopra la sua altrettanto spoglia, e una strana sensazione la prese alla bocca dello stomaco nel sentire il calore della sua pelle contro la propria. Sollevò gli occhi su di lui, e trattenere le lacrime fu terribilmente difficile nel notare lo sguardo che le stava rivolgendo.
Perché si comportava così? Perché era così comprensivo, con lei, quando lei non lo trattava che in modo disinteressato? Tale dato di fatto le procurò un’inattesa fitta di rimorso, che per la prima volta la fece vergognare del suo atteggiamento nei confronti di Caledon.
Sospirò, abbassando lo sguardo e fissando le proprie dita che permettevano a quelle di lui di intrecciarsi ad esse. «Sono lieta che siate qui», ammise piano, prima che la ragione potesse farle cambiare idea.
Fingendo che quella confessione non facesse parte di un evento terribilmente straordinario, Caledon si limitò a sorriderle, e ad apprezzare quel raro momento di confidenze con la mesta consapevolezza che avrebbero potuto non essercene altri per parecchio tempo. «Lo sono anch’io.»



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La visita di Caledon aveva riportato in superficie, tra le altre cose, la nostalgia per sua sorella, la povera Lizzie. Prima di coricarsi, Emma fece qualcosa che aveva trascurato per parecchio tempo: accese una candela per lei e mormorò qualche preghiera, chiedendole perdono per l’ennesima volta per averla sostituita come fidanzata del futuro lord Suffolk.
Benché all’epoca fosse stata solo una bambina, Emma rammentava ciò che Lizzie usava raccontarle ogniqualvolta Cal andava a far loro visita – l’entusiasmo della ragazza, i suoi occhi luminosi, il sorriso in cui si apriva quando immaginava la sua vita da duchessa al fianco del giovane di cui era pazzamente innamorata – e anche se il suo raziocinio le ripeteva che sentirsi in colpa era sciocco, che non era colpa sua e che non aveva tecnicamente rubato lo sposo alla sorella, Emma non poteva fare a meno di provare un forte disagio. Naturalmente riusciva a ben mascherarlo, anche se la facilità con cui Caledon pareva essersi dimenticato di Elizabeth talvolta le dava sui nervi; eppure era certa che, per quanto la riguardava, l’ombra di Lizzie avrebbe oscurato il suo matrimonio per tutti gli anni a venire.
«Un giorno ti sposerai anche tu, Emma, con un conte o un duca, o persino un marchese! Sarà giovane e bello, e tu te ne innamorerai follemente, e allora capirai ciò che io provo adesso», le ripeteva Lizzie fino alla nausea, quando si bisbigliavano segreti sotto le coltri del letto che di tanto in tanto condividevano. All’epoca Emma non sapeva che non avrebbe avuto nessuna voce in capitolo nella scelta del proprio sposo, così come d’altronde non l’aveva avuta neppure Lizzie; ed entrambe erano così giovani, ingenue e spensierate, che pareva non poterci essere nulla capace di turbare il loro piccolo mondo dorato. Rammentare quel periodo della sua vita era come rammentare un bellissimo sogno, che si era bruscamente interrotto il giorno in cui Lizzie era caduta da cavallo: ogni cosa era stata spazzata via da un uragano di disperazione e i sogni delle due sorelle erano crollati come un fragile castello di carte. Niente più passeggiate nel parco, né picnic, né leggere insieme favole e poesie o sgattaiolare di nascosto in cucina per trafugare qualche dolcetto prima di andare a letto… La vita di Lizzie era stata distrutta e l’infanzia di Emma interrotta bruscamente, e per questo non vi era alcun rimedio.
Tuttavia, se davvero doveva essere del tutto sincera con sé stessa – e se doveva prendere in attento esame i suoi sentimenti – non poteva negare che ci fosse stato un momento, quando era più piccola, in cui l’idea di dover sposare Caledon non le era risultata particolarmente spiacevole. Per un breve periodo aveva provato l’infantile eccitazione che deriva dal sapere di possedere il futuro di un uomo – un uomo nel fiore della giovinezza, di bell’aspetto, di nobili natali per il quale un giorno non troppo lontano sarebbe stata la terra intorno alla quale ruotare; allora era troppo piccola per intenderla in termini diversi da quelli delle favole, ovviamente, ma adesso sapeva perfettamente che cosa aveva osato sognare.
Questa sensazione era svanita non appena era stata abbastanza matura da comprendere che tale lama possedeva un doppio taglio, giacché se lui sarebbe appartenuto a lei, lei sarebbe stata sua di conseguenza. E questa idea non le piaceva minimamente. Se pensava che aveva avuto persino l’ardire di discutere con suo padre a tal proposito, e di minacciarlo che se non avesse sciolto quel ridicolo fidanzamento – aveva solo undici anni, per l’amor di Dio! – avrebbe trovato un modo per fuggire di casa e mandare tutto all’aria… Non sapeva se ridere o piangere al ricordo. Che ingenua era stata, e che sciocca; ma ci avevano ben pensato sua madre e miss Radcliffe a riportarla con i piedi per terra, e a spiegarle in tutti i modi che era una donna, e che come tale non avrebbe mai avuto una vita facile – soprattutto, che non avrebbe mai avuto pieno controllo su di essa.
Eppure, guardatela adesso! Avrebbe forse osato invitare il suo fidanzato a passare la notte sotto il suo stesso tetto, se davvero fosse stata impotente come volevano farle credere? Avrebbe forse discusso con i domestici e osato uscire da sola per una passeggiata attraverso la brughiera, se fosse stata così fragile?
Forse però non avrebbe dovuto invitare Caledon a trascorrere la notte al maniero. Che cosa avrebbero pensato miss Radcliffe e suo padre? Era stata una decisione dettata più dal buonsenso che dal desiderio di averlo accanto, lo ammetteva – con che cuore avrebbe potuto mandarlo a prendere il treno con la tempesta che imperversava fuori, e il buio pesto che avvolgeva il castello? – ma forse avrebbe dovuto rifletterci meglio, visto che non era una cosa molto ortodossa da fare. Come se non bastasse, quando si erano ritirati in salotto dopo cena, per trascorrere un po’ di tempo accanto al fuoco prima di ritirarsi per la notte, era stata tormentata dall’orrenda sensazione di essere osservata da ogni angolo – da ogni muro, da dietro ogni tenda, da ogni quadro. Era come se qualcosa stesse cercando di farle capire che aveva fatto un terribile errore a invitare Caledon a dormire a Pemberley – e lei lo sapeva, oh sì, ma era troppo tardi per tornare sui suoi passi. Che male poteva mai fare, dopotutto? Caledon era un gentiluomo, e la stanza che gli aveva fatto preparare era nell’ala opposta del corridoio rispetto a dove si trovava la sua.
Il pensiero che presto non ci sarebbe stato nessun corridoio tra le loro stanze la metteva in agitazione. Presto avrebbe dovuto condividere con lui un’intimità per la quale non si sentiva ancora pronta – e la cosa peggiore era che non poteva più fare affidamento su parole confortanti e rassicuranti di sua madre al riguardo. Non avrebbe affrontato quel momento in totale ignoranza, certo – miss Radcliffe le aveva accennato qualcosa, e nella biblioteca di Hambleton si potevano trovare volumi che trattavano davvero qualunque argomento – ma proprio per questo l’angoscia era tale da impedirle persino di rilassarsi quando era in sua compagnia.
Sospirò, seppellendo il volto sul cuscino. Era un incubo. Non ci sarebbe dovuta essere lei in quella situazione – se solo Lizzie avesse dato retta alla loro madre quando le veniva detto di non fare acrobazie particolari con il suo cavallo… Di solito non lo dava a vedere, si era sempre comportata come una signorina a modo, ma in cuor suo Lizzie aveva avuto un animo ribelle, avventuroso: in questo si somigliavano. Dio, non trascorreva giorno in cui non sentisse la sua mancanza, in cui non si immaginasse come sarebbe stata la loro vita se Lizzie fosse sopravvissuta, e soprattutto se lei non avesse preso il suo posto come fidanzata dell’erede dei duchi di Suffolk. Quando vi rifletteva, come se non bastasse, c’erano persino dei momenti in cui arrivava a odiare il povero ricordo di sua sorella, che l’aveva lasciata a far fronte a quella maledetta situazione. Uno sciocco risentimento si mischiava alla nostalgia, e le rendeva arida la bocca e dolorante il cuore.
Si addormentò a fatica, come ogni notte, con la mente invasa dalle immagini confuse di amari ricordi e l’oscurità della stanza che pareva essersi fatta d’un tratto più densa.


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Margareth Duncan non godeva di un sonno decente dal giorno in cui la giovane lady Emma e la sua istitutrice erano giunte al castello. Aveva immaginato che sarebbe stata una cattiva idea far entrare degli estranei a Pemberley, poco importava che fossero trascorsi tre lustri dall’ultima tragedia – il signor Duncan aveva imprecato ad alta voce, quando lo aveva saputo, e aveva borbottato che una ragazza a Pemberley Manor non avrebbe portato altro che guai – e malgrado ciò non era stato in suo potere impedire che ciò accadesse. Il nuovo proprietario aveva infine deciso di entrarne materialmente in possesso, mandando la sua unica figlia in avanscoperta; non che gliene potesse fare una colpa – chi avrebbe creduto alla storia di una casa maledetta? Erano nel ventesimo secolo, per l’amor del cielo, e non si trovavano nel romanzetto d’appendice di un qualche scrittore irlandese – ma comunque, chi diavolo era l’uomo che mandava a vivere la propria figlia da sola in campagna?
Non che lei non ne fosse sollevata, a voler essere sincera: l’assenza di altri estranei nella magione rendeva più semplice mantenere certi segreti, e la loro vita poteva grossomodo continuare come era stato negli ultimi quindici anni – l’idea che sarebbe potuta esistere la possibilità di ospitare dell’altro personale le risultava tanto raccapricciante da non fargliela nemmeno prendere in considerazione. Come spiegare a degli sconosciuti, infatti, che il castello a suo modo era vivo, e che come ogni creatura infernale pareva voler esigere come pegno il sangue di qualche innocente? Loro, ormai, avevano avuto modo di venire a patti con quella terribile verità durante il loro lungo periodo di impiego nella magione – Margareth rammentava ancora il giorno in cui era arrivata a Pemberley, quarantaquattro anni prima, come se fosse stato il giorno precedente. Aveva quattordici anni, ed era alla ricerca di un lavoro – uno qualsiasi, avrebbe accettato di fare persino la sguattera, se necessario – in modo da non pesare più sulle spalle di una madre che, fresca di vedovanza, doveva crescere altri due figli.
Tutto sommato era stata fortunata: era stata assunta come cameriera semplice e ricopriva ogni genere di mansione, ma era obbediente e volenterosa, e ben presto queste sue caratteristiche l’avevano resa cara all’allora governante, Mrs. Griffiths, che in poco meno di due anni l’aveva promossa a cameriera d’alto livello – ovverosia, le aveva fatto abbandonare i lavori sfiancanti in modo da farle assistere la sorella zitella di lady Rochester, che in quel periodo abitava al castello per aiutare la contessa a badare ai figli piccoli.
Più il tempo passava, più la sua esperienza cresceva, e Margareth si trovava sempre più immersa nel ristretto e ambito mondo degli eccentrici conti di Rochester. Avendo dimostrato di essere discreta e degna di fiducia, Mrs. Griffiths aveva iniziato a renderla partecipe delle chiacchiere che venivano sussurrate tra le sale dei domestici, dietro le pareti, su una stretta scala a chiocciola che collegava le cucine ai piani superiori. La sua memoria era eccezionale, e l’aiutava a rammentare ogni cosa che le veniva detta: a partire dai più vergognosi pettegolezzi fino alle mezze verità e ai veri e propri segreti.
Lavorava a Pemberley Manor da più di due anni, ormai, quando udì il primo accenno al fatto che il maniero fosse maledetto. Poteva sembrare strano che non fosse al corrente di quelle voci, visto che gli abitanti del villaggio amavano parlare – e parlar male – dei ricchi aristocratici che abitavano nel castello, ma forse la sua età e la sua ingenuità l’avevano tenuta lontana da quel genere di discorsi. Poiché era stata una delle sguattere a prendere l’argomento, mentre trascorrevano la loro mezz’ora libera durante la cena dei padroni in una piccola anticamera, Margareth aveva pensato si trattasse di uno scherzo per indispettirla, giacché in pochi vedevano di buon occhio la ragazza del villaggio che aveva fatto carriera tutto ad un tratto; ma poi, la curiosità aveva avuto la meglio sul buonsenso, e si era ritrovata a voler sapere di più sull’argomento. Le sguattere e le cameriere erano state le più propense a chiacchierare, e a raccontare tutto ciò che sapevano, o che credevano di sapere, al riguardo; i camerieri invece le avevano detto di non essere ridicola, i valletti le avevano intimato di lasciar perdere, e la cuoca aveva cambiato bruscamente argomento. Non aveva osato domandare nulla a Mr. Weber, il maggiordomo, perché l’uomo la intimoriva; con Mrs. Griffiths, d’altra parte, aveva un rapporto più confidenziale, e raccogliere il coraggio per sollevare il discorso con lei non era stato troppo difficile.
A onor del vero, bisognava dire che Mrs. Griffiths non ebbe mai davvero confermato qualcosa riguardo la casa: chi può dire se fu la paura o la cieca fedeltà verso i padroni a farle tenere la bocca chiusa. Ma non le ebbe mai neppure smentite, cosa che portò la giovane Margareth a dormire con un occhio aperto e a trascorrere le giornate a guardarsi intorno con aria vigile, alla disperata ricerca di un qualche dettaglio fuori posto che confermasse o sfatasse le storie assurde delle sguattere. Probabilmente si era lasciata suggestionare un po’ troppo da quei racconti mormorati alla luce di una candela – i giovani tendono sempre a tenere in grande considerazione qualsiasi cosa esca dalla bocca dei più grandi – e tra sé e sé si dava della stupida per esserci cascata come un’ingenua qualunque. Eppure, quando andava al villaggio in visita alla sua famiglia, non poteva fare a meno di riflettere che l’aria che respirava lontano dalle mura di Pemberley era decisamente più leggera e salubre. Si accorgeva solo in quei momenti che qualcosa di malsano si annidava negli angoli più nascosti del maniero – c’era qualcosa che trasudava dalle pietre e circondava l’edificio, aggrappandosi a ogni appiglio e nutrendosi della salute mentale e fisica dei suoi abitanti, privandoli della sanità, trascinandoli verso lo squilibrio e rendendo paranoico ciascuno di loro. Era come un cancro che si nutriva incessantemente della loro linfa vitale, ed evitare di parlarne non serviva purtroppo a scacciare quell’orrenda sensazione.
Margareth si era accorta presto che parlare di simili argomenti con i suoi compaesani era inutile e sciocco, giacché finiva per venire tacciata come una piccola serva maligna e ingrata che metteva in giro brutte voci sui suoi datori di lavoro. Persino sua madre l’aveva rimproverata di essere infantile – «Mai mordere la mano che ti nutre, Meg!» – e, neanche a dirlo, non le aveva creduto. E come biasimarla? Lei stessa, adesso che si trovava al di fuori dell’influenza del maniero, stentava a credere di essersi fatta condizionare da quei racconti.
E adesso quasi rimpiangeva quei tempi di innocente inconsapevolezza, quando i rumori notturni potevano essere facilmente attribuiti alle sguattere che si svegliavano ore prima dell’alba e camminavano frettolosamente da una parte all’altra del sottotetto, facendo ticchettare le scarpe sul legno grezzo del pavimento.
Povera lady Emma, pensò stancamente la governante. Avrebbe tanto voluto dirle la verità – malgrado le loro inevitabili incomprensioni, in un certo senso la donna si era affezionata alla sua giovane padrona – ma non osava: temeva la vendetta della casa, e temeva soprattutto la vendetta di colui che l’abitava. Aveva vissuto abbastanza a lungo nella magione per sapere con terribile certezza che cosa essa faceva alle persone – in particolar modo ai proprietari.
Sospirò ancora, sola nella grande cucina della magione, con l’unica compagnia di un candelabro e di panni da rammendare. Udì il rimbombo dell’orologio a pendolo del pianterreno, e seppe che erano le tre del mattino: fra un paio d’ore Lydia si sarebbe svegliata, e ogni cosa si sarebbe ripetuta esattamente come il giorno prima e quello prima ancora – e lei, come al solito, non aveva chiuso occhio.
Stava per riprendere il suo lavoro di rammendo quando, nel silenzio, udì un flebile fruscio – l’aria parve addensarsi, le fiamme delle candele tremolare, il buio incupirsi – e d’un tratto seppe di non essere più sola.
«Lui la vuole.»
La voce sgorgò dalle tenebre dietro di lei, una voce delicata, un timbro elegante, un tono quieto; la sorpresa la fece sussultare e l’ago le punse il dito, facendole macchiare di sangue la stoffa. Margareth conosceva bene quella voce, benché non la udisse da anni, e gli occhi le si inumidirono di lacrime non versate.
«Lui la vuole, Mrs. Duncan», riprese la voce con un accento più deciso, ora leggermente più vicina. «E la vuole anche la casa. Bisogna impedirlo.»
Mrs. Duncan serrò gli occhi, e rispose senza osare voltarsi. «E in che modo? La ragazza sta già cedendo alla seduzione dell’oscurità, l’ho vista, me ne sono accorta. Sta perdendo il contatto con il reale.»
«La colpa è vostra, Mrs. Duncan», fu la brusca e spietata replica. «Avete assecondato gli ordini del mostro, e finirete per pagare amare conseguenze se non modificherete il vostro comportamento. Siete una donna saggia: so che troverete un modo.»
Malgrado il velato complimento, le parole erano astiose e la donna non trovò di che ribattere, per cui si limitò ad un cenno positivo del capo. «Erano anni che non vi udivo», mormorò poi, quasi timorosa. «Posso chiedervi che cosa vi ha spinto a parlarmi ancora?»
Il silenzio che seguì fu talmente lungo e pesante che la signora Duncan temette che non sarebbe giunta risposta; invece, contro le sue aspettative, essa arrivò. «In questo momento mi è più a cuore il benessere della ragazza, piuttosto che il rancore che nutro nei vostri confronti», rispose. «Per me non esiste salvezza, ma per lei sì. Ho ritenuto opportuno intervenire prima che fosse troppo tardi.»
Benché trovasse quella conversazione a dir poco curiosa, per non dire incomprensibile, Mrs. Duncan non osò manifestare le sue perplessità. Si limitò a prenderne atto, come si fa con le indiscutibili verità religiose, e a comportarsi di conseguenza. «Potrò contare sul vostro aiuto, dunque?»
«Sì.» Un’affermazione rapida, decisa, priva di un qualsivoglia tentennamento. «Sappiate che non sareste sola ad opporvi a lui, che avreste me e gli altri al vostro fianco.»
La governante trattenne il fiato, sorpresa. «Anche gli altri?» Mormorò con riverenza.
«Ve l’ho detto, Mrs. Duncan. La casa è affamata, brama nuove anime… E tutti noi siamo stanchi di vederla mietere vittime in continuazione. Voglio sperare che concordiamo sul fatto di voler evitare che si ripeta il dramma dell’incendio, sì?»
«Oh sì, certo, Dio ce ne scampi», sussurrò la donna, facendosi un rapido segno della croce.
«Temo che Dio non dimori più tra le mura di Pemberley», ribatté aspramente la voce. «È tempo che vada, ora. Vi lascio al vostro lavoro… e verrò io da voi, quando sarà il momento.»
Mrs. Duncan annuì, rassegnata. «Attenderò la vostra visita, allora», acconsentì piano. Non udendo tuttavia giungere alcuna risposta, la donna finalmente posò ago e filo sul tavolo e si voltò verso il punto dal quale era giunta la voce – ma ormai era di nuovo sola: la debole luce delle tre candele non illuminò altro se non le suppellettili della cucina e l’angolo vuoto accanto all’enorme camino.
«Grazie, lady Nora», sussurrò, prima di tornare mestamente al suo lavoro.













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Angolo Autrice.

Ehilà! E' trascorso parecchio tempo dall'ultimo capitolo - spero che vi ricordiate ancora la trama. xD Qui abbiamo persino un colpo di scena finale... e chi se lo aspettava? (Io no, devo ammetterlo - è stata una sorta di illuminazione improvvisa, spero che la Musa non sparisca :D E per questo devo dare la colpa/ringraziare la mia nuova ossessione per American Horror Story, di cui ho divorato tutte e tre le stagioni - Dio benedica lo streaming - in qualcosa come una settimana o poco più... come avevo fatto a vivere senza, finora? Comunque, bando a queste ciance.)
Stavolta non mi dilungherò molto, voglio limitarmi ai ringraziamenti. Indi per cui, un grazie enorme a Sylphs, Berserksgangr, Figlia di una guerriera, Jolly J, savy85 e Se7f per aver recensito lo scorso capitolo, e una menzione particolare per Christine23 che mi ha spronato a scrivere e concludere anche questo sesto chapter in un tempo decisamente inferiore a quello che ci avrei messo se avessi dato retta alla mia demoralizzazione :D E, ovviamente, tantissimi grazie anche a tutti voi che continuate a leggere, silenziosi, e ad aggiungere questa storia tra i Preferiti e le Seguite!
Detto ciò, vi lascio! Se avete domande e curiosità potete trovarmi su Facebook, ask.fm e twitter - basta visitare la mia pagina "autore" per recuperare i link - e niente, mi fa piacere sentirvi e chiacchierare con voi ma vi lovverò lo stesso anche se resterete silenziosi. ù__ù
Baci e abbracci come al solito, non mi stancherò mai di ringraziarvi per essere giunti fin qui a leggere - buon proseguimento di serata!
La vostra
Niglia.


   
 
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