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Autore: _Wonderwall_    10/04/2014    1 recensioni
(SOSPESA)
Prima guerra mondiale: la vittoria va alla Triplice Intesa (Russia- Stati Uniti- Francia).
Seconda guerra mondiale: la vittoria va ai Paesi Alleati.
Terza guerra mondiale: la vittoria va agli Stati Uniti, che conquistano l’egemonia mondiale.
Quarta guerra mondiale: in corso.
Gli uomini non si accontentano mai. Non sono bastate due guerre mondiali per appagare la loro sete di morte, di potere. Hanno sentito il bisogno di scatenarne una terza, durata solo un paio d’anni. Troppo pochi per lasciarli soddisfatti.
Perché non scatenarne una quarta? Perché non ridurre la terra in macerie?
La russia contro il mondo. Quello è il motto che i soldati russi erano fieri di ripetere ad ogni cena, ad ogni brindisi.
La quarta guerra mondiale sta devastando l’intero mondo, decimando la popolazione e c’è un disperato bisogno di una soluzione.
Genere: Azione, Science-fiction | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti | Contesto: Contesto generale/vago
Capitoli:
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Mi scuso per gli eventuali errori, non ho avuto tempo di ricontrollarlo. Spero che piaccia, buona lettura :)
 
Capitolo 2
 
 
“Every breath you take
Every move you make
Every bond you break
Every step you take
I'll be watching you”

 
14 novembre 2306
 
 
Il colonnello Evans si sedette su una sedia dietro la scrivania nel suo ufficio, guardando nuovamente l’e-mail appena ricevuta.
 
CONGEDATO
 
Recitava a lettere cubitali la missiva da parte del presidente degli Stati Uniti d’America. Sapeva che prima o poi sarebbe successo, ma sperava che quel momento arrivasse il più lontano possibile, mentre a soli trentatre anni era stato congedato.
Con un sospiro sconfitto si costrinse a leggere il resto della lettera.
 
Colonnello Evans siamo spiacenti di doverle comunicare che è stato congedato dall’esercito. Da questo momento non potrà più partecipare alle missioni sul campo per le cause a lei ben note.
Il suo incidente, durante l’ultima missione, ha danneggiato gravemente il muscolo della sua gamba destra, che non sarà più idonea a combattimenti o duri allenamenti.
Siamo tuttavia lieti di informarla che non perderà il suo grado ed avrà un congedo ad onore, ben meritato grazie ai tredici anni di assiduo servizio per il Paese. Potrà inoltre essere l’insegnante, o per meglio dire il mentore, delle nuove reclute e uno dei strateghi del governo.
Speriamo di vederla al più presto,
cordiali saluti,
l’America.
 
 
Un sorriso ironico si dipinse sulle labbra dell’uomo, rovinate da una piccola cicatrice che si era procurato durante la sua prima missione. Aveva riportato un segno del suo coraggio, un segno che non lo avrebbe mai abbandonato e che gli avrebbe ricordato la sua splendida carriera da militare.
Ed ora portava un altro segno.
La cicatrice di un taglio sulla coscia destra, lunga venti centimetri, che aveva inciso il muscolo e le arterie, condannandolo a dover zoppicare per il resto della sua vita.
E quello sarebbe stato il segno della fine della sua carriera militare. Gli avrebbe per sempre ricordato due giorni: quello in cui era stato ferito –che ricordava perfettamente senza ulteriore bisogno di aiuto- e quello in cui aveva ricevuto la lettera di congedo.
Sbuffò più volte, portando le mani tra i capelli scuri e strizzando gli occhi grigi. Stava cercando di essere forte, aveva sempre provato ad esserlo e aveva sempre creduto di esserci riuscito, ma si stava accorgendo in quel momento di quanto questo fosse falso.
Ora che gli era stata strappata dalle mani la sua vita –ovvero il suo lavoro- si sentiva vuoto, perso, fragile, debole e sommerso dai sensi di colpa.
Aveva una moglie e una figlia di cui prendersi cura, a cui fare compagnia a cui dare la lieta notizia.
Per loro almeno lo sarebbe stata. Sarebbero state felici di sapere che non avrebbe più rischiato la vita e lui sarebbe dovuto essere contento di poter passare più tempo con la sua famiglia e invece tutto quello a cui riusciva a pensare era che aveva appena perso tutta la sua vita. Il suo lavoro.
Le immagini di quella maledetta notte gli passarono davanti agli occhi, tormentandogli la mente e impedendogli di pensare ad altro.
La battaglia.
La missione.
Il coltello.
Il buio.
Sbatté con forza il pugno sulla scrivania, alzandosi in piedi e non prestando attenzione a non poggiare il peso sulla gamba mal funzionante.
Sentì la gamba bruciargli e fargli male oltre ogni limite, il muscolo cedere e, subito dopo, il pavimento freddo entrare a contatto con il suo ginocchio trapassando con la sua temperatura la stoffa dei pantaloni da militare che indossava.
Con il pugno colpì il pavimento, sentendo le nocche scrocchiare e il sangue sporcare e inumidire la mano.
Altre immagini gli passarono davanti agli occhi e l’unica cosa che poté fare fu ricordare. Ogni scena, ogni dettaglio, ogni particolare.
 
 
Ian Evans imbracciò il fucile che si trovava vicino al suo letto nella tenda che stava per lasciare. Un’altra missione. Finalmente sarebbe andato di nuovo in missione, era fermo ormai da due settimane. Due settimane di inferno per lui.
Con la mano destra mantenne il fucile, mentre con l’altra teneva il telefono.
<< Ciao tesoro >> disse, sorridendo e immaginando il viso della bambina. Della sua bambina.
La piccola dall’altro capo del telefono biascicò molte parole, tra le quali lui riuscì a distinguere un ‘mi manchi, papà’ e forse un ‘ti voglio bene’ detto con la sua voce infantile che lo fece sorridere ancora di più.
Non riusciva ancora a parlare perfettamente, ma d’altronde non era strano, anzi perfettamente normale, non aveva nemmeno un anno. Era strabiliante quanto veloce fosse nell’apprendimento quella bambina.
La sua bambina.
<< Piccola, papà deve andare in missione. Ci sentiamo quando torno >>
“Ciao, papà, stai attento” l’uomo dai capelli mori schiuse la chiamata, continuando a sorridere.
Era ora di andare in missione.
 
I soldati si attaccarono al muro delle macerie di uno dei più importanti palazzi di New York, prima che  il mondo in superficie venisse quasi completamente raso al suolo dalle bombe nucleari dell’America e da quelle devastanti ad azoto  della
Russia.
Il fucile stretto al corpo e quest’ultimo che si muoveva lentamente e in modo attento lungo l’edificio. Secondo la soffiata di un loro uomo infiltrato dentro il governo russo, quella era una delle basi in superficie della potenza mondiale. E i soldati erano stati mandati lì per uccidere chiunque ci avesse abitato.
Il rumore di uno sparo squarciò il silenzio e il militare vicino al colonnello Evans cadde a terra, colpito da un proiettile all’altezza del cuore. Ian fissò il corpo dell’amico diventare un fantoccio e toccare il pavimento senza vita. Il militare imbracciò il fucile e sparò un proiettile, colpendo in pieno l’uomo che aveva ucciso l’amico.
Prima che potesse accorgersi di altro, sentì la pelle della gamba trafitta dalla lama affilata e pungente di un coltello. Sentì chiaramente il muscolo trafitto e il sangue impregnargli i pantaloni mimetici.
Dei rumori indistinti riempirono le sue orecchie e il colonnello cadde a terra, immerso nel buio.
 
 
Ian diede un altro pugno al pavimento, facendo aumentare esponenzialmente il dolore alla mano. Ma non gli importava. Non gli importava di niente.
Quello era stato il giorno più brutto della sua vita: un caro amico era morto e la sua carriera era finita.
Per sempre.
La porta si spalancò, lasciando intravedere il corpo piccolo di una bambina di due anni coperto da una tuta troppo grande per lei. I boccoli scuri erano lasciati liberi sulle spalle e gli occhi grandi e grigi –esattamente come i suoi- si riempirono di dolore, quando si accorse del padre a terra.
Si avvicinò a lui, accarezzandogli la schiena e sussurrandogli parole di conforto. Aveva imparato a parlare bene.
E aveva imparato a fare tante altre cose. Come era intelligente quella bambina.
Come era intelligente la sua bambina.
 
 
 
 
12 Dicembre 2321
 
Un buco al centro del bersaglio comparve pochi secondi dopo il rumore sordo di uno sparo. La sagoma di un uomo attaccato alla parete era forato da una ventina di proiettili sparati da una calibro 7. Una magnum precisamente. 
La pistola preferita di Ivan. Il ragazzo sorrise, togliendosi con una mossa veloce gli occhiali protettivi e osservando il suo lavoro a dir poco perfetto.
Venticinque buchi su quel foglio di carta, di cui dieci perfettamente in testa, dieci al cuore e cinque distribuiti tra l’addome e il torace. Un lavoro senza nemmeno una pecca.
Non che il ragazzo ne fosse sorpreso, ormai per lui era una routine uccidere in modo preciso e negli allenamenti dava spettacolo delle sue portentose abilità per vedere quelle espressioni di stupore, misto a rispetto e paura sulle facce dei più piccoli.
Erano passati dieci anni da quando aveva, per la prima volta, impugnato una pistola.
Ricordava il suo primo colpo, era andato al confine tra la figura e il muro, se fosse stato un vero uomo lo avrebbe colpito al braccio, di striscio.
Un ragazzo di quindici anni lo aveva preso in giro, deridendolo per la sua poca precisione, così Ivan aveva sparato un altro colpo. Dritto alla testa.
Da allora non ne aveva più sbagliato uno.
Era diventato davvero perfetto, una macchina da guerra inarrestabile. Insensibile, forte e preciso. Meticolosamente preciso.
Ricordava anche il giorno che, per la prima volta, un proiettile della sua amata pistola si era conficcato nella testa di una persona, precisamente in mezzo agli occhi, facendolo cadere a terra come un fantoccio senza vita, come un burattino nelle mani di un signore potente.
Ed il signore potente era lui. In quel momento Ivan aveva deciso della vita o della morte di una persona, come se tutto potesse essere deciso solo da lui.
E il ragazzo ricordava il modo in cui si era sentito, sapeva che avrebbe dovuto provare dei sensi di colpa, ma questi non lo avevano sopraffatto, almeno non quanto la sensazione di potenza, che subito aveva avvertito, quando aveva osservato gli occhi del cadavere.
Bianchi, inespressivi, morti. Erano privi di emozioni, esattamente come il ragazzo in quel momento. E da allora Ivan aveva ucciso come se fosse normale, come se vedere corpi cadere a terra senza forza fosse uno sport, come se fosse divertente.
Lo aveva fatto per seguire degli ordini e semplicemente per diletto personale. Aveva torturato senza pietà uomini solo per avere la soddisfazione di leggere nei loro occhi il desiderio della morte. E subito dopo aveva esaudito le loro preghiere, piantandogli una pallottola in testa o al cuore, a seconda di come lo aggradava di più.
<< Bel colpo >>
 Ivan annuì, senza girarsi verso la voce maschile che gli aveva appena parlato. L’aveva riconosciuta e doveva ammettere che gli era mancata. Non la sentiva da due anni ed ora, nonostante si sentisse fortunato ad udirla di nuovo, non si era nemmeno preso il disturbo di girarsi verso suo padre.
Aveva voglia di rilassarsi e l’unico modo che conosceva per divertirsi e rimanere nello stesso tempo in allenamento era allenarsi al poligono di tiro, cosa che stava facendo da ormai due ore.
<< Come è andata la battaglia? >> chiese l’uomo, continuando a guardare il figlio con orgoglio.
Ivan non si era ancora girato, ma avvertiva il peso del suo sguardo glaciale su di sé.
Sparò un colpo. Colpito al cuore.
<< Sono vivo >> osservò, alzando le spalle con noncuranza.
Un altro colpo. Il cervello.
<< Lo vedo >> commentò il capo.
Un altro colpo. Il polmone.
<< Il maresciallo mi ha detto che hai fatto un lavoro eccezionale >>
Un altro colpo. L’altro polmone.
<< Avevi forse dei dubbi? >>
Un altro colpo. Un occhio.
<< Assolutamente no. Sono consapevole delle tue potenzialità >>
Un altro colpo. L’altro occhio.
<< Goditi il rientro a casa >> Ivan annuì, sparando di nuovo.
Suo padre si alzò e si girò di spalle, avvicinandosi alla porta di ingresso del poligono di tiro.
Solo in quel momento si permise di girarsi ad osservare la schiena ampia del padre, dopo due anni in cui aveva immaginato il suo viso e la sua voce arrabbiata sgridarlo perché non era stato abbastanza bravo o agile o veloce.
Le spalle erano ampie esattamente come le ricordava, le gambe ancora muscolose, proprio come le braccia possenti.
i capelli erano dello stesso biondo, ma con qualche capello bianco che sarebbe sfuggito ad un occhio meno attento di quello di un militare. Il vestiario era diverso rispetto a quello con il quale lo aveva lasciato. Quel giorno era libero ed aveva indossato qualcosa di più informale in confronto al solito smoking. Un paio di pantaloni ed una camicia.
Con un sospiro girò nuovamente il viso verso la figura davanti a sé e sparò.
 
 

 
 
 
 
 
  
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