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Autore: Laylath    11/04/2014    2 recensioni
Eppure a guardare più da vicino i ragazzi di quella realtà, ci si sarebbe accorti che le loro esistenze non erano così scontate: i piccoli grandi problemi dell’infanzia e dell’adolescenza a volte andavano ad intrecciarsi con situazioni difficili, dove spesso il legame con un amico fidato era la cosa migliore per poter andare avanti.
E spesso le persone più impensabili stringevano un forte legame tra di loro per uno strano susseguirsi di eventi, all’apparenza così normali… anche se poi viverli era tutt’altra cosa.
Genere: Generale, Introspettivo, Slice of life | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Nuovo personaggio, Team Mustang
Note: AU, What if? | Avvertimenti: Tematiche delicate
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Un anno per crescere'
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Capitolo 51. Questioni di madri.

 

“Sasso, carta, forbice!”
“Ahah! La carta batte il sasso! – esclamò Kain, mettendo la sua mano aperta sopra il pugno di Riza per imitare il foglio che avvolge il sasso – E  sono arrivato a dieci: ho vinto.”
La ragazzina fece il broncio a quella sconfitta, ma poi allungò la mano per arruffare i capelli del bambino, lieta di vederlo così sorridente e tranquillo, nonostante indossasse il camice dell’ospedale e fosse a letto.
Ormai quel posto non gli faceva più paura: si era abituato ai medici e alle infermiere che a loro volta si erano affezionati a lui e lo trattavano con estrema tenerezza.
L’operazione era andata benissimo e anche la guarigione della ferita procedeva in maniera corretta, tanto che i medici parlavano di levare i punti con un giorno d’anticipo. Senza contare che la ferita non gli doleva più di tanto e non doveva avere a che fare con gli aghi, dato che gli unici controlli che faceva riguardavano la temperatura e la pressione (più l’ovvio cambio di fasciatura ogni giorno).
“Preoccupato per qualcosa?” chiese, sistemandogli meglio il lenzuolo sulle gambe.
“Un po’ per quando mi leveranno i punti – ammise lui – ho paura che faccia male.”
“Vedrai che sarà una cosa rapida e poi i dottori sono molto bravi e sono sicura che non ti faranno male. Pensa che bello: una volta senza punti potrai tornare in albergo con i tuoi genitori.”
“Ma sì – sorrise il bambino, incoraggiato – è un passo in avanti per tornare in paese da tutti voi. Mi dispiace che tu parta tra due giorni: ti avrei voluta qui per tutto il tempo.”
“Oh, fratellino – sospirò lei, lasciandosi andare a quel nome così carico di significato – anche io vorrei stare qui. Ma sarà solo per poco, questo giugno passerà in fretta e lo sai bene.”
“Riza, – Ellie entrò nella stanza – adesso dobbiamo andare: l’orario visite è terminato e tra poco passeranno per il pranzo.”
“Lo sai che oggi l’infermiera Dorothy mi ha promesso un budino alla crema?” disse Kain con aria cospiratoria, felice di aver ottenuto delle piccole concessioni nel menù quotidiano.
“Sei tremendo – ridacchiò Riza, arruffandogli i capelli – e non dimenticare che come esci di qui hai un gelato al cioccolato che ti aspetta.”
“E chi se lo dimentica? Allora ci vediamo stasera, vero?”
“Alle quattro come sempre, pulcino – sorrise Ellie baciandolo in fronte – buon pranzo e poi cerca di dormire un pochino, va bene?”
“Certo mamma, buon pranzo anche a tutti voi.”
Dopo aver salutato il piccolo, le due si avviarono per i corridoi fino a raggiungere Andrew che le aspettava all’ingresso dell’ospedale.
Uscendo nel cortile Riza considerò che, senza tutte le paure che l’avevano condizionata durante il suo viaggio clandestino con Roy, East City era una bella città.
Le persone che passeggiavano nelle strade erano meno ostili di quanto le era parso la prima volta e anche gli edifici, i negozi, l’ospedale erano visti con una luce del tutto nuova. Certo, la differenza con il paese si faceva sentire e a volte quel caos cittadino la metteva leggermente a disagio, ma c’era qualcosa di estremamente piacevole nel fare delle passeggiate con Ellie ed Andrew nei momenti in cui non erano in ospedale con Kain.
 “Bene – disse l’uomo  – che ne dite se oggi vi porto a pranzo fuori, signore? Il menù dell’albergo mi è venuto a noia ed è anche giusto che vi vizi un pochino, non credete?”
“Pranzo al ristorante?” esclamò Ellie con gioia.
“Davvero? ­–  le fece eco Riza, correndo ad abbracciare l’uomo – Oh, sarebbe meraviglioso!”
“A quanto vedo le mie due ragazze apprezzano l’idea – ridacchiò lui – forza, andiamo: c’è un ristorante che frequentavo ai tempi dell’Università e credo che rimarrete molto soddisfatte.”
E così, nell’arco di venti minuti, Riza si trovò seduta ad un tavolo in una deliziosa piazzetta di una zona tranquilla poco lontana dall’ospedale. Era tutto così speciale con il sole che batteva piacevolmente su di loro, la tovaglia bianca, e tutto apparecchiato in maniera perfetta.
Ad un certo punto, il cameriere che prendeva le ordinazioni disse:
“E per vostra figlia, da bere va bene l’acqua?”
Quel vostra figlia fece balzare in gola il cuore della ragazzina. Si sentì quasi in dovere di chiarire l’equivoco, ma prima che potesse dire qualcosa, Andrew annuì e rispose che l’acqua sarebbe andata benissimo.
“Mi ha preso per vostra figlia…” mormorò incredula quando l’uomo si allontanò.
Con che criterio? Lei era bionda con gli occhi castani, Ellie aveva i capelli e gli occhi scuri, mentre Andrew era castano: forse con lui poteva avere dei punti di contatto, ma con lei proprio no.
“Una moneta per i tuoi pensieri, piccola Riza.” fece Andrew, con un sorriso.
“Pensavo agli occhi e ai capelli – ammise lei, fissando il proprio piatto come se fosse uno specchio – non ci avevo mai fatto caso, ma sia io che Kain li abbiamo presi da parte materna.”
Si girò verso Ellie, chiedendosi se quel riferimento a sua madre le avesse dato in qualche modo fastidio, ma vide che la donna sorrideva teneramente.
“Sono sicura che era molto bella e da grande le somiglierai molto.”
“Lei… – Riza iniziò, sentendosi desiderosa di parlare di quell’argomento che non aveva mai affrontato con nessuno, nemmeno con Roy – era davvero bella: aveva i capelli sciolti sulla schiena, sembravano una cascata d’oro. Ricordo che parlava tanto, raccontandomi della casa dove viveva, con il grande giardino, la sua camera da letto con decine e decine di libri: sono sicura che ne sentiva grande nostalgia.”
“Dove abitava?” chiese Andrew, con tono incoraggiante.
“Non lo so – scosse il capo lei – per quanto i suoi racconti fossero particolareggiati e quasi mi potevo immaginare la casa e tutte le altre cose, non diceva mai dove si trovava o se viveva con qualcuno. Era come se si parlasse del castello di una favola… in un paese tanto tanto lontano, ma senza mai dire quale.”
“Evidentemente non voleva turbarti con dei brutti pensieri – disse Ellie – è normale per una madre.”
“Come è stato normale che la signora Laura non abbia detto tutte quelle cose ad Heymans per tanto tempo?”
“Più o meno, anche se per lui la situazione era molto diversa.” sospirò Andrew.
“Ora che ci penso, so veramente poco di mia madre – ammise Riza, sentendosi sorpresa – è sempre stata vicina a me per nove anni, tuttavia… era come se non avesse alcun passato reale. Mi chiedo se ci sia una famiglia che si chiede se è viva o morta: al funerale non venne nessuno.”
“Non hai mai conosciuto nessun parente oltre i tuoi genitori?”
“No, so solo che la casa è della famiglia di mio padre, ma per il resto è vuoto totale: di mia madre non so nemmeno il cognome, perché mio padre nella lapide ha fatto incidere il suo. Avrei voluto chiedergli il motivo, ma non ho mai osato. Che voi sappiate… in paese si dice qualcosa di più sulla mia famiglia?”
Andrew ed Ellie si scambiarono un’occhiata e poi lui scosse il capo.
“Non so proprio cosa risponderti, piccola mia: la tua famiglia è sempre stata il mistero del paese, ma questo lo sai bene anche tu. Per quanto mi ricordo i tuoi arrivarono qui che tu stavi per nascere, ma non presero mai confidenza con nessuno. Si parlò solo di dissapori con le rispettive famiglie, forse per via del loro matrimonio, ma non te lo posso garantire. Se vuoi posso provare a chiedere a mio padre della famiglia Hawkeye non appena torneremo in paese.”
“Andrew…” Ellie gli mise una mano sul braccio.
“Heymans aveva tutto il diritto di conoscere il suo passato – mormorò lui – e così è per Riza.”
“No - la ragazzina scosse il capo – non mi interessa conoscere i dettagli della famiglia di mio padre, lui non fa veramente parte della mia vita. Per mia madre mi piacerebbe, lei è sempre stata molto buona e attenta con me, ma oggettivamente se in tredici anni, anzi quattordici tra poco, non si è mai fatto vivo nessuno… non sono sicura di voler sapere. Forse prima di conoscere voi mi sarebbe importato di più, lo ammetto, però…”
“Però?” sorrise Ellie, sistemandole una ciocca di capelli.
“Però adesso va decisamente bene così – ammise Riza arrossendo – vorrei davvero stare con voi per sempre. E lei, signora, è meravigliosa… io…”
“Avanti, prova a chiamarmi per nome.”
“Non potrei mai! – annaspò lei con imbarazzo – E’ irrispettoso.”
“Coraggio, non è irrispettoso te lo assicuro: a me farebbe tanto piacere.”
“Ellie.” pronunciò Riza con estrema rigidità.
“Vuoi provare anche con me, piccola Riza?” le strizzò l’occhio Andrew.
“Oh dai – esclamò lei, arrossendo vistosamente – è così difficile, per favore…”
“Tesoro – ridacchiò Ellie, sporgendosi dalla sedia e abbracciandola – sta tranquilla, va tutto bene: ma guardati, sei rossa come un pomodoro.”
E anche se Riza non era riuscita ad andare ad un livello di confidenza maggiore, in quel momento si dovette mordere le labbra per non chiamarli mamma e papà.
 
Mentre Riza decideva di lasciarsi alle spalle qualsiasi domanda sulle sue origini per godersi la sua famiglia attuale, in casa di Vato si stava per iniziare una partita di Risiko.
“Ti devo rispiegare le regole, Jean?” chiese Vato, guardando dubbioso il nuovo partecipante.
“Non sono mica scemo, eh – protestò il biondo, prendendo il mano i segnalini delle truppe e schierandoli davanti a sé nel tavolo – guarda che i miei voti a scuola non sono niente male.”
“Non volevo dire questo, è che tu non hai mai giocato a Risiko e quindi potresti avere difficoltà a…”
“Sapientone, tappati quella bocca e tira i dadi: vediamo quanto vali!”
“Ma se dobbiamo ancora disporre le truppe – sospirò Roy – avanti, prepariamo il tabellone e…”
“Ragazzi – li interruppe Rosie – rimandate la partita e liberate il tavolo, da bravi.”
“Eh? – protestò Vato contrariato – Ma perché mai, mamma? Stiamo per iniziare il torneo estivo di Risiko: è un momento importante.”
“Più importante dei crostini con crema di formaggio, torta salata, tramezzini con prosciutto, pomodoro e insalata? – strizzò l’occhio lei –  Oppure tengo tutto in cucina compresa la limonata, la crostata ai frutti di bosco e la macedonia con la panna?”
“Signora Falman, lei è la mia eroina! – esclamò Roy, accatastando il gioco dentro la scatola, aiutato con entusiasmo da Jean ed Heymans – Le sue merende sono meravigliose.”
“Oggi mi sono superata – sorrise Rosie, arrivando con un vassoio colmo – sapendo di avere così tanti ospiti, sicuramente affamati, mi sono data da fare. E’ un piacere vedere quattro giovanotti mangiare con sano appetito; torno subito con i bicchieri e la caraffa di limonata.”
“Ah, Vato, ma come fai a non ingrassare con una madre che prepara così tante cose buone?” chiese Jean, afferrando il primo tramezzino.
“Anche tu mangi parecchio a casa, credo.” rispose causticamente l’interessato.
 “Certo, ma con tutto il lavoro che faccio in emporio smaltisco tutto. Ma poi papà dice sempre che ho la sua costituzione e quindi metterò tutto in altezza e muscoli.”
“Somigli tantissimo a tuo padre, Jean – confermò Rosie – mentre tua sorellina, nonostante occhi e capelli, diventerà simile a tua madre, si vede già.”
“Chissà, signora, – propose Roy – se magari aveva una bambina assomigliava a lei e non a suo marito.”
“Non credere – scosse il capo Vato, assumendo la classica espressione accademica – ho letto in un libro di scienze che alcuni caratteri sono dominanti, altri recessivi.”
Eccessivi?” chiese Jean perplesso.
Recessivi: in genetica si dice recessivo…”
“No, ti prego, non iniziare a fare la lezione: siamo in vacanza, chiaro?”
“Quello che vuole dire Vato – cercò di spiegare Heymans – è che tuoi eventuali figli saranno con molta probabilità biondi e con occhi azzurri.”
“Esattamente – annuì l’altro – così come eventuali figli di Heymans saranno rossi con gli occhi grigi. Per il medesimo motivo una mia eventuale sorellina sarebbe somigliante a me e a papà.”
“E questi capelli bicolori da chi li hai presi invece?” chiese Jean in tono canzonatorio.
“Anomalia, tutto qui – scrollò le spalle lui che ormai conviveva benissimo con quella sua particolarità – ma non è albinismo, altrimenti avrei gli occhi rossi.”
Occhi rossi? Ma sarebbe grandioso! Te lo immagini? Sembreresti qualche protagonista delle storie di fantasmi.”
“Ma puoi essere più imbecille, Jean?” lo bloccò Heymans.
“E tu, invece, Roy? – chiese Rosie con curiosità, andando accanto a lui e accarezzandogli i capelli – Ti ricordi a chi assomigli?”
“A mia madre – rispose senza alcuna esitazione lui – ho una foto di me e lei e il taglio di occhi è identico. E poi mio padre aveva i capelli castano scuro e non neri come i miei.”
Solo mentre allungava la mano per prendere un crostino si accorse che aveva parlato con estrema facilità di un argomento che prima riteneva assolutamente riservato, tanto da non averlo mai affrontato nemmeno con Riza. Forse con la sua amica era difficile parlare di qualcosa che poteva in qualche modo ferire entrambi, ma a stare con Jean, Vato ed Heymans che avevano delle madri splendide era tutto più facile: nonostante in teoria potesse crearsi qualche imbarazzo, era come se tutti loro fossero consapevoli di come e quanto dire.
Somigliava a te o alla mamma di Kain? – si chiese Roy, fissando Rosie che ridacchiava arruffando i capelli di un imbarazzato Vato – O forse era spigliata come la signora Angela, oppure ancora fragile ma solo in apparenza come la signora Laura?
Sicuramente sua madre era speciale, ma non sarebbe stato male se avesse avuto qualche punto in comune con il carattere di quelle donne così forti, ciascuna a modo suo. Quest’ultima considerazione gli diede leggermente fastidio: gli sembrava quasi di tradire l’unica figura del cui amore era stato sicuro nella sua primissima infanzia. Christopher Mustang era stato spogliato dell’aura di intoccabilità dal capitano Falman, un punto che Roy era arrivato ad accettare senza troppi problemi, dopo un’iniziale reticenza: dava uno strano senso di conforto avere la certezza di non essere stato un fallimento come figlio, l’indifferenza dovuta solo ed esclusivamente ad una scelta paterna. Era come se gli fosse stata levata via una strana colpa di cui si era sempre sentito marchiato.
Ma mia madre non ha mai esitato ad amarmi e…
“Roy, tieni la limonata: un solo cucchiaio di zucchero, come piace a te.”
“Grazie, signora.”
… e lei sicuramente si sarebbe sempre ricordata di quanti cucchiai di zucchero mettere nella mia limonata.
 
“Riza, tocca a te.”
“Uh?”
“Ma sì – fece Kain, porgendole il libro – un capitolo a testa, no? Ho finito di leggere il mio e ora tocca a te.”
“Oh, certo – arrossì lei, recuperando il libro – scusa, mi sono distratta.”
“Se ti va non lo leggiamo più assieme e lo finisco da solo: forse è un tipo di libro che a te non piace.”
“No, non è questo. Ero sovrappensiero, tutto qui: mi è tornata in mente una cosa all’improvviso.”
“In questi casi papà dice sempre una moneta per i tuoi pensieri.” sorrise il bambino, facendo un cenno con la mano ed invitandola ad abbandonare la sedia per accomodarsi accanto a lui nel letto: una soluzione che avevano adottato già più volte.
“Pensavo a mia madre.” ammise lei.
E sembrava che quel giorno dovesse pensare a lei più di quanto avesse fatto nell’ultimo anno.
Era come se quel piccolo fraintendimento al ristorante le avesse fatto capire fino a che punto fosse davvero coinvolta a livello emotivo con la famiglia Fury. Non che prima non le fosse mai passato di mente, tuttavia l’essersi dovuta trattenere dal chiamare Andrew ed Ellie papà e mamma l’aveva messa in difficoltà.
Paradossalmente non era la parola papà a metterla a disagio, quando mamma.
Le sembrava di fare un torto enorme a sua madre nell’aver pensato quella parola per una persona che non fosse lei: anche se fino a quel momento con Ellie aveva avuto un rapporto molto stretto, non era mai arrivata al punto di pensarla davvero come madre.
Ma adesso?
“Assomigliava alla mia?” chiese Kain, riportandola alla realtà.
“Sotto alcuni aspetti, ma non era fantasiosa come la tua. Mi leggeva molti libri, ma le storie che inventa tua madre dubito che riuscirebbe ad inventarle qualcun altro… e poi non è che cucinasse molti dolci.”
“Ahi, questo non va bene.”
“Kain…”
“Sì?”
“Tu riusciresti a pensare ad un’altra madre al di fuori della tua?”
Il bambino assunse un’aria riflessiva, segno che considerava il discorso tremendamente serio. A Riza sembrò quasi di vedere la sua mente soppesare la sua domanda e squadrarla da ogni possibile angolazione.
“Mh – scosse il capo alla fine – proprio non ci riesco. Mamma e papà sono sempre stati fantastici con me e non posso immaginare altri genitori al mio fianco… sai, prima di conoscere te e gli altri, con papà avevo diverse difficoltà a dialogare, ma ora non più. Tuttavia non credo che nemmeno allora avrei pensato a qualcun altro al di fuori di lui. E’ perché voglio che tu venga a stare con noi, vero?”
“Non proprio – ammise la ragazzina, fissando pensosa davanti a sé – però non ti nego che in parte è dovuto anche a quello.”
“Ti dà così fastidio?”
“No, è che…”
“Scusami, non ho mai pensato al fatto che tu vuoi bene alla tua mamma anche se non c’è più da anni – mormorò il bambino – Se mi metto nei tuoi panni forse proverei le tue medesime cose… solo che sapere che tuo padre non ti vuole tanto bene mi dispiace tanto. E vorrei tenerti a casa con noi perché siamo felici insieme e anche tu lo sei.”
“Credi che le persone che non ci sono più possano in qualche modo sentirci?”
“Non lo so – ammise lui – però mi piacerebbe. Insomma se quando ero piccolo fossi morto mi sarebbe piaciuto continuare a sentire la mamma che mi parlava e mi diceva quanto mi voleva bene. E chissà, magari pure io avrei potuto farle sapere di me e del posto dove andavo a stare, così non si preoccupava. Parli con la tua mamma a volte?”
Un pensiero piuttosto surreale per un bambino di undici anni, ma Kain aveva avuto diverse occasioni per pensare ad una simile eventualità: per quanto dolorosa era anche arrivato ad accettare l’idea della morte.
“Parlare… non proprio. Ma sai, qualche volta vado a trovarla al cimitero: allora mi siedo davanti alla sua tomba e ricordo le cose che ho fatto assieme a lei. Le prime volte mi chiedevo se magari le piaceva come stavano andando le cose a casa, o se le andava bene il fatto che avessi iniziato ad andare a scuola, ma in fondo era qualcosa che chiedevo a me stessa: non è che avessi molte persone con cui parlare.”
“Nemmeno Roy?”
“Beh, all’inizio non lo conoscevo e poi ci sono argomenti che non abbiamo mai toccato.”
“Se vuoi come torno in paese vengo a trovare la tomba di tua madre – propose il bambino – ovviamente di giorno, eh. Niente prove di coraggio.”
“E perché vorresti venire?” chiese Riza con curiosità.
“Perché così mi presento e le chiedo se le va bene che tu stia assieme a noi – strizzò l’occhio Kain – Ti capisco, sai, a volte si vorrebbe chiedere qualcosa ai propri genitori, ma si ha paura.”
“Paura, eh? – mormorò Riza, rivolgendosi più a se stessa che al bambino – Forse hai ragione… oh, dai, non pensiamoci più. I tuoi genitori stanno ancora parlando con i dottori e facciamo in tempo a leggere un altro capitolo.”
 
Quella notte, prima di andare a dormire, Roy compì un gesto che non faceva da tanto tempo: già scalzo ed in pigiama, andò alla scrivania, aprì il secondo cassetto e prese un piccolo libro di poesie. Aprì le pagine dove c’era qualcosa che fungeva da segnalibro e tirò fuori una fotografia.
Non aveva molte foto di lui bambino, anzi quella era l’unica e la cosa importante era che stava in braccio a sua madre.
Ci somigliamo? Direi proprio di sì
C’era un fascino sofisticato in lei, nell’acconciatura semplice eppure ricercata, nell’abito alla moda, nell’espressione sicura e felice: era una donna completamente diversa da quelle che vivevano nel paese. Sua madre apparteneva all’alta borghesia, era fatta per la vita cittadina, per le feste ed i ricevimenti: Roy spesso se l’era immaginata come una regina della buona società, con tutti che si giravano a guardarla quando entrava in qualche salone o in qualche villa. Era lei ad essere magnetica nella coppia, non suo padre, questo era poco ma sicuro.
Katherina Berriel Mustang.
Lei era sicuramente una grande donna e una grande madre: sarebbe stata in grado di combaciare la sua vita pubblica con il prendersi cura di lui. Sarebbe stata estremamente fiera di lui, lo si capiva dallo sguardo che gli rivolgeva, dal sorriso, dal modo in cui lo teneva in braccio.
Chiuse gli occhi e con un enorme sforzo di volontà andò a frugare nei cassetti della memoria più remoti, alla ricerca di qualche frammento di canzone, qualche frase… com’era la sua voce? Mai alta, ma estremamente elegante e musicale.
Ti dispiace che la madre di Vato mi accarezzi i capelli o sappia quanto zucchero voglio nella limonata? Ti dispiace che la madre di Kain mi abbia abbracciato in quella tremenda notte in cui sono stato nella vecchia miniera?
Ti dispiace che… che voglia bene anche a loro?
 
Mentre alcuni facevano i conti con delle madri che non c’erano più, Heymans si trovava ad affrontare una nuova situazione a casa, strana e piacevole perlopiù, ma che poteva assumere dei risvolti estremamente imbarazzanti.
Lui e Laura si erano sempre trattenuti nel loro rapporto per evitare di provocare la reazione di Gregor. Ora che l’uomo era andato via, la donna non si faceva più alcun problema a concedere effusioni e attenzioni nei confronti del figlio maggiore.
Sulle prime ad Heymans era sembrato così strano poter godere di quelle coccole senza il timore del padre che controllasse ogni loro movimento e più di una volta un piccolo germoglio dell’antica paura si era fatto strada dentro il suo animo quando Laura stava con lui. Ma poi questa remore era sparita del tutto e si era abituato a quella nuova forma di quotidianità: del resto Laura distribuiva il suo amore equamente tra lui ed Henry e dunque non c’erano gelosie di sorta che si potevano creare.
Tuttavia, avere un rapporto con la propria madre finalmente normale significava incorrere anche in piccoli imprevisti.
“Carota, eh? – commentò Jean un pomeriggio che era passato a prendere l’amico per uscire fuori – E’ un nome strano per un gatto, ma devo dire che con quel pelo rosso gli sta bene.”
“Henry è rimasto due giorni a pensarci e alla fine ha deciso così – ammise Heymans mentre salivano le scale, preceduti dal grosso gatto rosso che ormai la faceva da padrone in casa – Dai, aspettami in camera che io vado in bagno, mi cambio la maglietta e mi lavo i denti. Faccio in due minuti.”
“Perfetto… ehi, micio, vieni qui.”
Jean prese in braccio il gatto e accarezzandogli la testa entrò in camera dell’amico, sedendosi nel letto.
Stava osservando con distrazione i movimenti del sonaglino al collo dell’animale, quando Laura entrò.
“Oh, ciao Jean.”
“Salve, signora – sorrise lui – sto aspettando Heymans: è andato un secondo in bagno.”
“Dovete uscire?”
“Sì.”
“Allora questa gliela posso mostrare quando torna.” rifletté lei, tenendo in mano una foto.
“Di che si tratta?”
“Oh, è una foto di quando aveva circa un anno e mezza: abbiamo avuto una piccola conversazione una decina di giorni fa e stamane mentre rimettevo in ordine alcune cose ho ritrovato questa. E’adorabile non trovi?”
Jean si era alzato in piedi, liberando Carota, e si era accostato alla donna, sporgendosi per vedere la foto.
Si dovette mettere la mano davanti alla bocca per trattenere le risate.
“Davvero, signora!” disse con voce tremante.
“Ah, è incredibile quanto fosse sempre pronto a mangiare sin da piccolo – sorrise Laura, guardando con amore la foto – appena lo prendevo in braccio e lo portavo verso il seggiolone capiva che era l’ora della pappa e si esaltava. E molto spesso combinava disastri come questo… credo che fosse passato di carota a giudicare dal colore. E poi mi chiede perché lo chiamavo grosso e grasso pupo spupazzabile… insomma guardalo: aveva un pancino che ancora un po’ e non ci stava nel seggiolone.”
“Eccomi, sono pron… mamma?” Heymans entrò e rimase interdetto nel vedere la donna con Jean accanto che aveva il viso contratto nel chiaro sforzo di trattenere le risate. Poi gli occhi grigi colsero la foto e un forte brivido gli attraversò la schiena.
“Volevo farti vedere questa, tesoro – sorrise Laura – non sei splendido?”
“Mamma! – ansimò il rosso – ma perché dovevi farla vedere a Jean?”
“Che c’è di male? Sei così bello in questa foto: quando mangiavi era la gioia fatta bimbo, non c’è altro da dire.” dichiarò prendendogli il viso tra le mani e baciandogli le guance.
“E sei così spupazzabile…” riuscì a dire Jean, rischiando di soffocarsi dalle risate.
Heymans scosse il capo: era appena successa una tragedia a cui doveva cercare di porre rimedio, altrimenti le prese in giro da parte del suo migliore amico sarebbero durate per tutta la vita.
Purtroppo Jean era fatto così: se si fissava su qualcosa che lo divertiva particolarmente era capacissimo di inferire sul suo bersaglio. E dunque se aveva trovato estremamente piacevole tormentare Kain per diversi anni, adesso sembrava aver tutta l’intenzione di ricordare ogni cinque minuti quanto fosse adorabile e spupazzabile il piccolo Heymans della foto.
E la prospettiva che quella storia proseguisse per buona parte dell’estate e, peggio ancora, si diffondesse tra gli amici, era intollerabile. Fu dunque per un istintivo meccanismo di difesa personale che la mente del rosso iniziò a lavorare con frenesia.
Ma a volte non c’è bisogno di essere troppo fantasiosi e la soluzione arriva da semplici detti popolari come rendere pan per focaccia.
Mentre stavano seduti su un prato, Heymans, dopo aver fatto un paio di calcoli relativi alla distanza da percorrere, si alzò di colpo, un ghigno cattivo che gli compariva sul viso, e senza che Jean potesse dire qualcosa iniziò una sfrenata corsa verso l’emporio Havoc. Sapeva di avere un discreto vantaggio sull’amico ed inoltre aveva il fattore sorpresa: il suo piano aveva tutte le carte in regola per riuscire.
Tuttavia sembrava che Jean avesse intuito qualcosa, perché aveva iniziato a corrergli dietro chiamandolo disperatamente ed intimandogli di fermarsi.
Troppo tardi! Non ti permetterò di rovinarmi l’estate per colpa di quella foto!
In barba a tutte le norme dell’educazione, quasi sfondò la porta della foga di entrare, rischiando di travolgere Janet che stava giocando con le costruzioni proprio all’ingresso.
“Dov’è tua madre?” ansimò.
“In cucina, ma…” iniziò la bambina, alzandosi in piedi.
“Grazie!”
“Fermalo! – esclamò Jean ancora a metà cortile – Dannazione, fermalo!”
Ma ormai Heymans era proiettato verso la sua vittoria.
“Signora Havoc! – salutò, andando a posarsi contro il tavolo – Scommetto che lei ha un sacco di foto di Jean piccolo, vero?”
“Eh?” chiese Angela con perplessità.
“Sì – annuì il rosso – sa oggi mia madre ne ha fatto vedere una mia a Jean… che ne dice? Le va di ricambiare il favore?”
“Mamma, non ascoltarlo!” Jean si catapultò addosso all’amico cercando di tappargli la bocca.
I due iniziarono una lotta senza quartiere in quel lato del tavolo, ma ormai il danno era fatto. Purtroppo per Jean, Angela era una di quelle madri estremamente fiere delle compromettenti foto dei figli piccoli.
“Ne ho una scatola piena! – esclamò battendo le mani con gioia – Ne vorresti vedere qualcuna?”
“Cert…”
“No!”
“Lasciami parlare! Ovvio che la voglio vedere!”
“Vado a prenderle…”
“Che? Mamma, non farlo… e mollami!”
“No, adesso aspettiamo che tua madre porti le foto!” lo bloccò Heymans.
“Ne ho una spettacolare di Jean a due anni che corre nudo in salotto – disse la voce di Angela dall’altra stanza, mentre si avviava per andare a prendere quelle documentazioni scottanti – sarà un vero piacere rivederle assieme a voi.”
“Sei contento? – sibilò il biondo, mollando la presa sull’amico – Adesso andrà avanti per almeno una settimana.”
“Chi di foto colpisce di foto perisce, amico mio – sghignazzò Heymans – ma sta tranquillo che se tu non aprirai bocca riguardo me, io sarò muto come un pesce su questa tua corsa nudista in salotto.”
Dei veri amici potevano stringere anche patti simili.





Il bellissimo (e spupazzoso) disegno è di Mary_
  
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