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Autore: Himenoshirotsuki    14/04/2014    11 recensioni
Il suo corpo era luce, la emanava come una stella nella volta celeste, i capelli simili a lingue di fiamma. Ledah guardò quell'anima splendente, mentre si faceva strada tra i rovi e le spine. In quel luogo opaco, a cavallo tra la realtà e il mondo dell'oltre, ogni suo passo era troppo corto, la sua voce non era sufficientemente forte perché lei si accorgesse che la stava febbrilmente rincorrendo. Per un tempo indistinto inseguì quelle tracce vermiglie, testimoni delle catene corporee che la tenevano ancorata a questo mondo. Poi lei si girò, incrociando lo sguardo disperato di Ledah, e in quell'istante egli capì: lei era il sole nell'inverno della sua anima, l'acqua che redimeva i suoi peccati, la terra che poteva definire casa. Lei era calore e fiamma bruciante. Lei era fuoco, fuoco nelle tenebre della sua esistenza.
Revisione completata
-Storia partecipante alla Challenge "L'ondata fantasy" indetta da _ovest_ su EFP-
Genere: Avventura, Fantasy, Guerra | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: Lemon | Avvertimenti: Contenuti forti, Violenza
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Guardiani'
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17

Rintocchi

"Chi combatte con i mostri deve guardarsi dal non diventare egli stesso un mostro. E se guarderai a lungo nell'abisso, l'abisso guardera dentro di te."
F. Nietzsche
 
Era una splendida e calda giornata di sole a Merite, una di quelle in cui le imposte rimanevano abbassate per trovare un minimo di refrigerio. Le strade erano quasi deserte, eccetto che per pochi mercanti, le cui botteghe restavano aperte nella speranza che qualche coraggioso cliente sfidasse l'afa per fare compere. 
Marek, il fornaio del paese, fissava annoiato l'entrata della sua bottega, sbadigliando di tanto in tanto. Terzo di una famiglia di dieci fratelli, era un uomo grasso, dalla faccia rubiconda ricoperta da un'ispida barba dello stesso colore dorato dei filoni di pane che sfornava ogni mattina. Le mani, sempre impiastricciate di farina, picchiettavano sul bancone di legno nervosamente. La sera prima aveva chiuso tardi grazie alla grande affluenza di clienti e aveva guadagnato un bel po', perciò si chiedeva da quella mattina presto perché mai il suo vecchio aveva voluto che rimanesse aperto anche quel giorno. Sapeva benissimo che in giornate del genere le persone preferivano starsene a casa al fresco. E poi cuocere il pane con quel caldo era veramente uno strazio. Se solo avesse avuto un cavallo degno di questo nome, avrebbe cavalcato verso il mare e si sarebbe messo a mollo fino al tramonto. Scosse la testa, scacciando quei pensieri inutili ed oziosi. Stava sbadigliando per l'ennesima volta, quando la campanella posta sopra la porta del negozio trillò, ridestandolo all'improvviso. 
Vide entrare una ragazzina dalla folta chioma fulva, con addosso una casacca smanicata e un paio di pantaloni di tela leggermente sgualciti. A tracolla portava un piccolo arco in legno scuro.
“Pure questa! Non poteva rimanersene nella sua casa sperduta in mezzo al nulla e lasciarmi chiudere tranquillamente?” 
Schioccò la lingua, mentre l'indesiderata cliente studiava il pane esposto. 
- Buon-buongiorno. - balbettò Caillean a disagio, - Potrei avere una pagnotta di grano duro, per favore? -
- Certo, le ho appena sfornate. - rispose Marek a denti stretti.
Stava per avvolgerlo in un panno, quando la ragazzina lo fermò: - Non serve, grazie. Lo mangio mentre cammino. Quanto vi devo? - 
- Una moneta di rame. - 
Il fornaio attese che gli porgesse i soldi prima di darle il pane. Normalmente non si faceva di questi problemi con gli altri clienti, ma con la figlia del bastardo di Aesir non c'era da fidarsi. Osservò attentamente la moneta, cercando di coglierne una qualsiasi imperfezione. Non poteva essere sicuro che non stesse cercando di ingannarlo con qualche diavoleria magica.
- State tranquillo. È puro rame. - asserì con una nota di stizza nella voce.
- Non si può mai sapere con gente come voi. - 
Mise la moneta in cassa, cercando di non fissare gli occhi verde acceso di Caillean. Occhi impossibilmente e disperatamente belli. Notò che la ragazzina stava stringendo i pugni, probabilmente offesa dalle sue parole, ma alla fine abbassò lo sguardo mordendosi le labbra. 
- Buona giornata. - borbottò tra i denti, poi si voltò e con passo sostenuto uscì dalla bottega.
Camminò per le strade, gli occhi lucidi fissi davanti a sé. Almeno non c'era nessuno in quel momento a vederla piangere. Doveva resistere: i veri guerrieri non piangevano mai, nemmeno quando perdevano la donna amata oppure il loro regno veniva raso al suolo dalle forze nemiche. Strinse il panino e si asciugò una lacrima con un gesto irritato.
“Stupidi. Cosa ne sapete voi di me e della mia famiglia?! Quando porterò l'esercito umano alla vittoria, sarete costretti a chiedermi scusa per tutte le cose brutte che avete detto, su di me e su mio padre!”
Percorse tutta la via correndo per uscire più in fretta possibile da quella maledetta cittadina. Zigzagò per un paio di minuti, passando da un vicolo all'altro, fino a quando non oltrepassò l'ultima casa. Non appena vide la fitta boscaglia, aumentò ancora l'andatura e proseguì per il sentiero di terra battuta, stando ben attenta a dove metteva i piedi, il sudore che lentamente le imperlava la fronte. Gli alberi la avvolsero, schermandola dai luminosi raggi del sole, ma nonostante l'ombra offertale dalla natura non riusciva a calmare la rabbia che divampava come un incendio dentro di sé. Sentiva i polmoni in fiamme, i battiti del cuore nelle orecchie, gli occhi bruciare a causa delle lacrime e il fiato grosso. Il prelato, il fornaio, il sarto, tutti in quel paese la guardavano come se fosse un abominio. E tutto perché una stupida leggenda diceva che Aesir sarebbe tornato incarnandosi in uno dei suoi figli! Ma non era affatto vero che la sua stirpe aveva i capelli rossi, anzi nessuno sapeva come si riconoscessero i figli di Aesir. 
Si appoggiò ad un albero e guardò verso l'alto, intravedendo tra i fitti rami uno spiraglio di cielo terso. Inspirò ed espirò più volte, cercando di calmarsi. Non avrebbe badato alle parole di quella gentaglia, proprio come suo padre le aveva consigliato. Si rinvoltò i pantaloni e scoprì le gambe fin quasi sopra al ginocchio. 
“Oggi devo andare a caccia e, se non sono lucida, mi sfuggiranno tutte le prede. Magari acchiappo un coniglio bello grasso e stasera...” 
Le venne l'acquolina in bocca al solo pensiero dello spezzatino che avrebbe preparato sua madre e in pochi attimi dimenticò quel che era successo poco prima. 
Riprese a camminare con tranquillità per il sentiero, guardandosi qualche volta intorno nella speranza di scorgere un movimento. La parte che più preferiva della caccia era proprio la ricerca: un buon cacciatore riusciva a cogliere il minimo fruscio di foglie anomalo e a catturare la preda ancor prima che questa potesse accorgersi della sua presenza. Lei non era ancora a quel livello, ma suo padre le aveva detto che, se avesse continuato così, lo avrebbe addirittura superato: l'ultima volta che avevano fatto a gara a chi prendeva più conigli, Caillean aveva perso di poco. Inoltre, quando lui non c'era, era lei stessa ad andare in giro per i boschi per procurare una cena un po' più sostanziosa delle solite verdure e minestre.
Addentò l'ultimo pezzo di pane, soddisfatta per i complimenti che il genitore le aveva rivolto pochi giorni prima, durante il loro allenamento segreto, in cui Caillean era riuscita a disarmarlo e a puntargli la spada alla gola. Il padre era rimasto strabiliato dai suoi sorprendenti progressi e aveva riempito lei e se stesso di elogi, convinto di essere un ottimo maestro.
“Mi dispiace, papà, ma mi sono allenata anche quando tu non c'eri, anche se mi avevi proibito di farlo.” 
Sghignazzò divertita, mentre un sorriso di puro compiacimento le increspava le labbra: sarebbe diventata ancora più brava del padre in ogni cosa, così da renderlo fiero e convincerlo definitivamente che la vita da soldato faceva per lei. 
Camminò per circa un'ora, immersa nei suoi sogni di gloria, raccogliendo qua e là le varie bacche che crescevano al lato del sentiero. 
- Adoro l'estate... - disse tra sé e sé, con la bocca impiastricciata. 
Poi si bloccò e fissò un punto alla propria destra, nella direzione da cui le era parso di sentir provenire un fruscio. Si pulì le mani sui pantaloni e, dopo aver impugnato l'arco, incoccò una freccia, avvicinandosi con attenzione. Non ne era certa, ma le era sembrato di scorgere una lepre correre velocemente verso un cespuglio. Sputò i semi e si avvicinò in punta di piedi. Una foglia scricchiolò sotto la suola e subito si immobilizzò trattenendo il respiro. Alzò gli occhi al cielo, maledicendo la propria disattenzione e quella cosina piccola e rinsecchita che il vento estivo non si era ancora portato via. Attese alcuni attimi, poi ricominciò a muoversi. Si accostò al cespuglio con cautela, assottigliando gli occhi per scrutare in mezzo a quel groviglio verde. Si sporse leggermente per appurare che la preda non fosse di fronte a lei, invisibile e celata dal fitto fogliame. Non sarebbe stata la prima volta che si faceva sfuggire la cena per un errore di distrazione, solo perché aveva dato per scontato che la preda era scappata. Intravide qualcosa in mezzo al piccolo spiazzo erboso al di là del cespuglio. Si allungò ancora un po' per vedere meglio, l'arco pronto a scoccare, quando a un tratto mise il piede su qualcosa di viscoso. Del liquido rosso cremisi le imbrattò gli stivaletti di pelle e un brivido freddo le attraversò tutta la schiena. 
Sotto di lei c'era una pozzanghera purpurea e densa.
“Sangue...” 
Rimase paralizzata, le viscere contratte per il terrore. Con gli occhi spalancati e il corpo pervaso da tremori, seguì le macchie rosse fino al corpo di una ragazza, rigido e bianco, riverso al suolo in una posa scomposta. L'arco le scivolò dalle mani sudate e cadde a terra. Provò ad urlare, ma la voce le morì in gola.
In quel momento si sentì sollevare di peso da due braccia forti e, in una manciata di secondi, il silenzio che fino a poco prima l'aveva avvolta fu spezzato da un grande vociare. Osservò l'ambiente che la circondava, intontita e incapace di capire cosa stesse succedendo. Una ventina di occhi si posarono su di lei, carichi di odio e rabbia. Vide una donna avvicinarsi al corpo della giovane e scoppiare a piangere a dirotto, mentre un uomo la stringeva a sé, accarezzandole la schiena. 
“La fruttivendola e il marito? Che ci fanno qui? Perché sono tutti qui?” 
Tentò di liberarsi, ma la stretta attorno alle sue braccia si serrò fino a farle male. Mani grandi, callose, impiastricciate di farina.
“Marek?”
Un uomo anziano, vestito con una tonaca nera lunga fino ai piedi, fece un gesto e due guardie cittadine si avvicinarono al corpo, sollevandolo con delicatezza. La donna non riusciva a smettere di piangere, implorandoli di fare qualcosa che Caillean non riusciva a capire. Poi puntò l'attenzione su di lei e il suo volto fu stravolto da un furore improvviso.
- L'ha ammazzata, è stata lei! Mostro! - gridò additandola, ma due uomini la trattennero per le braccia.
- Io... io non ho ucciso nessuno, aspettate! - replicò Caillean agitata. 
Le guardie le passarono accanto col cadavere della giovane. Due iridi vuote la fissarono e parvero accusarla in silenzio.


Airis si svegliò di soprassalto, la fronte imperlata di piccole goccioline di sudore. Si passò le mani tremanti sul volto e strizzò le palpebre per respingere i frammenti residui del sogno. Erano trascorsi anni da quell'evento e altrettanto tempo era passato dall'ultima notte che il suo sonno era stato disturbato da quelle visioni. 
Inspirò profondamente e il cuore tornò a battere calmo nel petto dopo un paio di secondi. Aprì gli occhi, ancora mezza intontita. Vide intorno a sé i contorni sfocati di uomini, donne e bambini ancora immersi nel sonno, appoggiati a delle pareti di legno. Da alcune finestrelle entrava la luce fredda ed argentea della luna. 
“Dove diamine...?” 
Prima ancora che la domanda si delineasse nella sua mente, Airis avvertì il contraccolpo e ricadde distesa sulle travi di legno, adesso completamente sveglia.
“Ah, ora ricordo. Ci stiamo dirigendo a Luthien. Cosa darei per poter viaggiare a cavallo... quanto meno eviterei questi meravigliosi risvegli. Ma no, quello stupido nano ha insistito perché fossero solo lui, Fenrir ed Alan a montare gli unici tre destrieri liberi.” 
Stizzita dalla poca fiducia che Baldur nutriva nei suoi confronti, fece per alzarsi, quando un altro pensiero la bloccò sul posto. Si girò e aprì la borsa nera che usava come cuscino. Con leggera agitazione tastò all'interno, finché, con un sospiro di sollievo, non toccò la copertina ruvida del diario e il laccio che legava il frammento.
Quando erano partiti, il Drow le aveva procurato quella specie di tracolla in tela dove portare il suo “amato” libro, come lui usava chiamarlo per prenderla in giro. Così, ora, Airis poteva risparmiarsi le notti in bianco per paura che qualcuno glielo rubasse e lo leggesse. Era una Risvegliata e non era obbligata a dormire, però preferiva di gran lunga abbandonarsi ad un sonno ristoratore, piuttosto che annoiarsi con le memorie di Haldamir. Più continuava, più si innervosiva all'idea di aver rischiato così tanto per un banalissimo diario, in cui tra l'altro non era stata riportata nessuna informazione utile. 
Da quando le era capitato tra le mani, aveva continuato a sfogliarlo in ogni momento libero, cercando di analizzare ogni parola e non lasciarsi sfuggire nemmeno un dettaglio, ma più andava avanti e più le sembrava di capire sempre di meno. Fino ad allora aveva pensato che il primo figlio di cui Elladan era in attesa fosse Ledah. Invece, proprio la sera precedente, aveva scoperto che il bambino su cui Haldamir aveva fantasticato per pagine e pagine era in realtà una bambina, Aiwen. Aprì il libro e lo scorse fino al punto in cui il neo-papà si era prodigato a fornire un'accurata descrizione della pargola: occhi azzurri, capelli biondi, guance paffute e labbra dalla forma a cuore, a sua detta adorabili. 
“Insomma, niente a che vedere con l'elfo che ho conosciuto io.” 
Si massaggiò le tempie, trattenendo l'impulso di gettare fuori dal carro quel diario maledetto. Se da Haldamir e sua moglie era nata una femmina, significava che tutte le sue ipotesi erano errate sin dal principio: Ledah non aveva nulla a che fare con questa coppia ed Elladan non era Lysandra. Eppure sentiva che mancava qualcosa, un elemento fondamentale. Schioccò la lingua, sempre più frustrata. Se solo ci fossero state tutte le pagine, sicuramente sarebbe riuscita a schiarirsi le idee sulla questione. Con il dito sfiorò il punto in cui erano rimasti attaccati alcuni frammenti di carta brutalmente strappata. Chiunque l'aveva fatto non voleva che scomode verità venissero a galla, anche se Airis era convinta che l'intento originale fosse di dare il tutto alle fiamme. Si rigirò il manoscritto tra le mani, accarezzando pensosa le bruciature nerastre sulla copertina. 
“L'unica cosa di cui posso essere certa è che questo coso ha un enorme valore per Lysandra. Se lo desidera così tanto, un motivo ci deve per forza essere.”
Lo ripose nella borsa e si sdraiò supina, poggiando la testa sul fagotto. Posò lo sguardo sulla luna che illuminava il terso cielo stellato, lambendo le cime degli alberi con i suoi delicati raggi. Erano in viaggio da all'incirca dieci giorni e ormai mancava poco per giungere a destinazione. O almeno lo sperava: i viveri stavano per terminare e alcuni avevano bisogno di cure e di un caldo letto dove dormire. Molti di loro si svegliavano urlando in preda agli incubi e quasi nessuno osava allontanarsi per più di qualche metro dalla carovana. Come dare loro torto? 
Si girò a guardare alla sua destra, osservando la donna che aveva salvato da quel bandito. Il suo nome era Myria e doveva avere pochi più anni di Airis. Suo figlio si chiamava Zefiro ed era un bambino vivace e solare. Airis non le aveva mai parlato personalmente, ma provava una certa simpatia per lei. A differenza degli altri cittadini di Amount-Vinya, che non le si erano mai avvicinati molto, quando Myria aveva saputo che Airis aveva bisogno di una borsa era andata da Fenrir e gli aveva dato la propria senza chiedere nulla in cambio e, ogni volta che la incontrava, le rivolgeva un dolce sorriso. Quella gentilezza d'animo così spontanea e naturale aveva colpito il cuore della guerriera, lasciandola interdetta per i primi giorni. Nessuno, a parte i suoi genitori ed il suo maestro, si era mai comportato in quel modo con lei. Nonostante tutto, però, aveva continuato a trattare Myria con la solita freddezza, cercando di mantenere le distanze e non affezionarsi troppo: tutti coloro che aveva amato erano deceduti tragicamente e non voleva ricadere nel baratro della disperazione di nuovo, né avere sulla coscienza la morte di un altro innocente.
Allungò la mano, studiandola attentamente. Si morse le labbra al pensiero che ogni giorno che passava la vista la abbandonava sempre di più. Lysandra gliel'aveva detto che l'incantesimo di Ledah non sarebbe durato in eterno, ma ad Airis serviva ancora tempo per risolvere il mistero del diario e, se da lì a poco il mondo fosse ripiombato nell'oscurità, sarebbe stato tutto molto più difficile.
Si scrocchiò le dita affusolate, eppure ruvide, callose e piene cicatrici biancastre, testimoni del duro allenamento a cui il suo maestro l'aveva sottoposta per renderla un guerriero forte e capace. Le sue non erano mani fatte per essere accarezzate, ricoperte di gioielli o strette amorevolmente tra quelle di un uomo: erano state plasmate per la guerra. Come le odalische del deserto, anche lei ballava con la medesima grazia la danza della morte. Il suo strumento era la spada, il suo palcoscenico il campo di battaglia, la sua musica i gemiti di dolore e le urla. Se era diventata la “Morte Bianca”, il Cavaliere del Lupo, poteva tutto.
Sbadigliò e si girò su un fianco, leggermente assonnata. Si lasciò cullare dal dondolio del carro e pian piano l'incubo la raggiunse di nuovo.

- Sei un mostro! - la fruttivendola si liberò dalla presa dei due uomini e arrivò fino a lei. 
Caillean avvertì un improvviso dolore alla guancia, che le fece scattare il viso violentemente di lato, mentre un sapore ferroso le invadeva la bocca.
- Sei la figlia del bastardo di Aesir! - 
Un altro schiaffo si abbatté sulla bambina, più forte del precedente, e poi un altro e un altro ancora, fino a quando la vista non cominciò ad annebbiarsi. Caillean non capiva: perché la stava colpendo? Aveva solo trovato il cadavere della ragazza, non c'entrava nulla con il suo assassinio.
La donna le cinse con fermezza il volto, costringendola a guardarla. Gli occhi gonfi e rossi per il pianto erano pieni di una furia cieca, diretta soltanto verso il colpevole.
- Sei stata tu. Ammettilo. L'hai uccisa perché era molto più bella di te, vero? O perché te l'ha ordinato Aesir?! - sbraitò e la colpì di nuovo.
Caillean subì docile e spaventata quel trattamento, ma ad un certo punto sentì qualcosa di caldo colarle giù dal labbro inferiore e impiegò un attimo per realizzare che la fruttivendola glielo aveva spaccato. Fissò le piccole gocce dense che le imbrattavano la casacca, la bella casacca che le aveva regalato sua madre per il compleanno. L'aveva cucita con le sue mani, prendendo tutte le misure con grande precisione e cura. Il giorno in cui gliel'aveva consegnata, Caillean aveva subito pensato che fosse stupenda. Così la indossava ogni giorno, anche per andare a caccia, nonostante la madre fosse contraria, perché avrebbe potuto rovinarla.
“Mamma si arrabbierà perché l'ho sporcata...” 
Gli occhi le si riempirono di lacrime e il suo corpo cominciò a tremare per lo sforzo titanico di trattenerle. 
“I guerrieri non piangono, i guerrieri non piangono...” 
Ma quelle calde stille salate iniziarono a rigarle comunque le guance, senza che lei potesse opporvisi. Aveva paura, tanta, troppa. Caillean avrebbe voluto correre via, ma le mani forti del fornaio erano ben salde intorno alle sue braccia, tanto che temette di udire le ossa scricchiolare da un momento all'altro. Le facce degli astanti parevano delle maschere grottesche dai contorni sfumati, irriconoscibili. Gli insulti e le calunnie si confondevano gli uni con le altre, creando un coro incomprensibile, quasi un'eco lontana. 
“Aiuto... papà... mamma...” 
Scrutò intorno a sé cercando quei visi familiari, ma incontrò solo sguardi cupi, rabbiosi e pieni di disprezzo. Poi all'improvviso tutte le persone che la circondavano arsero vive come torce, saturando l'aria di grida disperate e puzzo di carne bruciata. Le mani di Marek abbandonarono la presa e Caillean fu finalmente libera. Cadde in ginocchio tossendo, i polmoni pieni di fumo e incapaci di immagazzinare ossigeno, per poi voltarsi verso il fornaio. Vide quel gigante d'uomo portarsi le mani al viso, nell'intento di proteggersi dal fuoco, tuttavia una fiammata proveniente da un punto impreciso lo investì in pieno non appena tentò di scappare, riducendolo ad un cumulo di cenere e ossa carbonizzate. 
Caillean era sbalordita e pietrificata dal terrore. Non capiva cosa stesse succedendo, perché gli abitanti di Merite stessero bruciando vivi o da dove scaturisse il fuoco. Non v'era un falò e nemmeno un incendio, perciò, in un remoto angolino del suo cervello, azzardò l'ipotesi che si trattasse di magia. Magia nera.
Il dolore causato da tutti i colpi ricevuti le invase di nuovo i muscoli e non riuscì ad alzarsi come voleva, per scappare da quel massacro e non diventare la prossima vittima. Doveva avvertire sua madre e convincerla a rifugiarsi in una remota città, così da sfuggire alle persecuzioni che, inevitabilmente, si sarebbero abbattute su tutta la famiglia dopo quello scempio inspiegabile. Avrebbero accusato lei e suo padre di aver praticato le Arti Oscure ai danni dei cittadini e li avrebbero puniti con torture crudeli, finché non fossero spirati in agonia. A quel pensiero, l'istinto di sopravvivenza si risvegliò e la spronò a correre più veloce di una lepre verso la città, lontano da casa sua dove sua madre l'aspettava, ignara del pericolo. Voleva proteggere almeno lei, che era innocente e aveva avuto solo la “sfortuna” di innamorarsi di un uomo con i capelli rossi. 
Giunse in vista di Merite ed arrestò i propri passi. Con estrema fatica alzò gli occhi, scoprendosi al centro di un massacro. La gente urlava e correva disperatamente attraverso i sentieri tortuosi della città, calpestando i corpi di coloro che erano a terra. Il campanile del tempio venne divorato dalle fiamme, l'oro delle lancette del grande orologio e dei simboli che indicavano le ore si sciolse come neve al sole, e le campane suonarono forsennatamente, come impazzite, emettendo un suono cupo, sordo e continuo, una sequenza di inquietanti “dong” che le raggelò il cuore.
“Aspetta... a Merite non c'è un campanile...” 
Caillean si piegò sulle ginocchia scossa da un conato di vomito, provocato dal tanfo di sangue e carne bruciata. Un ruggito disumano risuonò nell'aria, facendo tremare le case e mandando i vetri in frantumi. Il cielo coperto da nuvole scure fu squarciato da una gigantesca sagoma nera. Dalle mura un'ondata di frecce venne scagliata contro la bestia sconosciuta, ma quella si portò ad alte quote con un poderoso battito d'ali, riuscendo così ad evitare ogni dardo mortale. Poi spalancò le fauci e dalla sua bocca proruppe una vampata di fuoco, che avviluppò le coraggiose guardie e le polverizzò come se fossero state fatte di sabbia. Tra coloro che si salvarono dall'attacco, ve ne fu uno che, con lo sguardo pieno di terrore, tentò di buttarsi giù dalle mura, forse col desiderio di trovare una morte meno ripugnante e dolorosa. Ma la creatura scese in picchiata e la sua zampa fu più veloce, acchiappandolo prima che si sfracellasse al suolo. L'uomo si divincolò, invocò pietà e chiese perdono per tutto quello che aveva fatto. Due occhi rossi come tizzoni ardenti lo fissarono per un attimo, poi lo scaraventarono di lato, proprio come si scaccia un moscerino. Si sentì solo un suono raccapricciante di ossa rotte.
“U-un drago...” 
Caillean arretrò col fiato in gola, senza riuscire a distogliere l'attenzione dalla bestia. Calpestò qualcosa, che sotto la suola dello stivaletto scricchiolò in modo quasi sinistro. Rivolse lo sguardo a terra e si accorse di stare camminando su un cimitero di cadaveri bruciati, squarciati, dilaniati e fatti a pezzi. C'erano sangue e viscere ovunque e alla vista di quel tappeto rosso gridò con tutta la forza che le era rimasta, atterrita e sconvolta.
Poi udì un'esplosione, seguita da molte altre, sempre più vicine. Sapeva che avrebbe dovuto correre, ma non riusciva a pensare a nulla che non fosse il drago, le sue ali nere e le sue zanne imbrattate di sangue. Barcollò e provò a compiere qualche passo sulla via di casa, ma sembrava che i piedi la tenessero ancorata lì. Percepì attorno a sé dei movimenti, poi qualcosa le afferrò una caviglia: un bambino con il cranio spaccato, bianco come un cencio, la squadrò con un'aria folle, gli occhi spiritati quasi fuori dalle orbite. Caillean gli diede un calcio, rompendogli lo zigomo. Le ossa si incrinarono con un lieve schianto e dalla ferita, inflitta solamente a causa di un terrore atavico e incontrollabile, sgorgò del liquido scuro, denso e viscoso, della stessa consistenza del fango. Il bambino mollò la presa, ma quando Caillean si voltò per scappare, si trovò circondata da altre figure strane, demoniache. Strisciarono verso di lei protendendo le mani come se fossero artigli, le dita cianotiche incrostate di sangue e terra. Caillean li scansò con gesti bruschi, ma a nulla valsero i suoi sforzi per allontanarli. In poco tempo la sommersero, le strapparono l'aria dai polmoni e la mangiarono viva, pezzo dopo pezzo, affondando i denti nella carne morbida di bambina, fino le ossa. 
Infine tutto divenne nero: rimasero solo quegli occhi vitrei e il lontano rimbombare delle campane.



Airis si ridestò urlando, il cuore che le batteva all'impazzata nel petto. 
Dei rintocchi di campane risuonavano nell'aria, tanto che per un istante temette di essere ancora prigioniera del sogno. 
Presa da un'improvvisa inquietudine, saltò giù dal carro, ignorando totalmente quello che Baldur le stava dicendo e gli sguardi allibiti dei cittadini di Amount-vinya. Osservò il paesaggio circostante e notò una collina abbastanza alta, dalla cui cima sicuramente avrebbe ottenuto una visuale completa. Non appena vi giunse le sue gambe cedettero, ma non per la fatica. Cadde in ginocchio, gli occhi spalancati e il viso terreo: davanti a lei c'era una piccola città immersa in un'atmosfera calma e pacifica. Sopra le mura alcune guardie facevano la ronda con passo annoiato e indolente. La case erano quelle tipiche di ogni piccolo paese di quel territorio, basse, con tetti spioventi e finestre quadrate, a cui si alternavano edifici più signorili, con un'architettura più raffinata e imponente e comignoli fumanti. 
Ma la cosa che attirò di più l'attenzione di Airis fu il campanile del tempio, al centro della città: una stupenda torre in pietra bianca sormontata da un orologio, le cui lancette e i simboli delle ore rilucevano di oro zecchino. Quelle dannate campane non smisero di suonare per minuti interi, riecheggiando come un oscuro presagio nella testa della guerriera.
Si era trattato di un incubo o di un ricordo? Forse entrambi, ma si augurò con tutto il cuore che non fosse una premonizione.
 
 
  
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