Altra
one-shot
per altro contest. La ragazza e la spada.
Bah. Questa
storia mi è uscita così e spero che riusciate a
capire i vari passaggi
temporali. Io li ho sottolineato con il tempo dei verbi ma potrebbe
essere
ostico da digerire.
Inutile altre
parole. Leggete e giudicate da voi.
BUONA
LETTURA…
---ooOoo---
Sono
la tua ricompensa divina per essere la mia amata.
La
sveglia che suona. Lo
stress di una nuova giornata. Vestirsi, truccarsi, fare colazione,
ultime
sistemazioni, prendere la borsetta e la cartella con il campionario
della merce
ed i cataloghi ed uscire per andare al lavoro.
Incavolarsi
perché si trova
un traffico pazzesco che neanche il bus riesce a scavalcare. Il vento
che ti
sferza le gambe coperte dalle calze velate e che scaraventa il tuo
ombrello
dall’altra parte della strada, lasciandoti sola alla pioggia.
Correre
sui tacchi al negozio
ed aprire la porta di getto, salutando il proprietario anziano che ti
guarda
come un nonno affettuoso e si preoccupa del fatto che tu ti sia bagnata
e possa
prendere freddo.
Tu
che sorridi e lo rassicuri
prima di cambiare la giacca ed indossare quella professionale del
negozio, poi
accogliere il primo cliente della giornata e mostrargli gli ultimi
arrivi per
la prossima stagione primavera estate dove lo convinci che
sarà sicuramente
affascinante con quella camicia.
Lui
ti sorride grato. È un
uomo di mezza età con un po’ di pancetta, ma non
vuole sembrare più giovane di
quello che è. Nomina la moglie che dovrà portare
in vacanza in un bel posto e
lui non vuole sfigurare. Ride e tu con lui. Non ci sta provando e tu ti
senti a
tuo agio. Ti senti leggera e ti sembra di volare.
È
questa la vita che hai
sempre desiderato…
«Tani,
alzati. Tuo padre ti
aspetta di sotto». Maria ciabattò rumorosa fuori
dalla stanza. Sbuffò
all’indirizzo della domestica, di quella sveglia senza
dolcezza, di suo padre
che la pretendeva “di sotto” come se abitassero in
un castello al posto di
essere nell’alloggio sopra la palestra.
Poi,
come ogni mattina da
otto anni a quella parte, sbuffò alla foto che ritraeva la
faccia gioconda
della madre. L’unica che l’avrebbe difesa e si
sarebbe imposta per farle vivere
una vita normale, invece
di essere in
balìa delle ambizioni smisurate di suo padre. Ma la malattia
l’aveva consumata
come una candela, portandosela via, e adesso, suo padre
l’aspettava “di sotto”.
In
bagno si spogliò del
pigiama e si lavò la faccia con l’acqua fredda. Le
piaceva buttarsi addosso
un’ondata gelida, le sembrava di spazzare via tutti i residui
della notte, di
ripulirsi la giornata pronta a scrivere la sua nuova vita. Tristemente
uguale a
quella di ieri.
Si
guardò allo specchio.
L’immagine della ragazza ventenne con gli occhi grandi e
scuri e i corti capelli
castani mechati di
biondo, le restituì
lo sguardo corrucciato. Le labbra carnose atteggiate a perenne broncio
insoddisfatto e una leggera grinza tra le sopracciglia fini, che tra
qualche
tempo sarebbe diventata una ruga. Sua madre le diceva che era bella.
Suo padre
che doveva impegnarsi per diventare sempre più brava.
Ripensò
al sogno che aveva
appena fatto, così diverso dalla sua vita. Le sarebbe
piaciuto fare la
commessa, anche come Luisa, la sua amica impiegata al supermercato in
fondo al
corso, al banco del taglio.
«Tani,
sei pazza?» le
sembrava ancora di sentirla quando le aveva confessato i suoi pensieri
«Ti
rendi conto di quanto sei fortunata? Io farei di tutto per essere come
te! Sei
stata selezionata con la nazionale! Andrai sicuramente alle olimpiadi e
conquisterai l’oro!» aveva urlato.
Sì,
l’oro. Il chiodo fisso di
suo padre. Ma cosa c’era dietro a quell’oro lo
sapeva solo lei.
Lei
che aveva si e no tre
amiche al di fuori delle colleghe di allenamento. Lei che non aveva mai
avuto
un ragazzo perché l’unico che ci aveva provato si
era stancato di aspettare che
finisse gli allenamenti o le gare. Lei che aveva studiato la sera per
non
togliere ore all’allenamento, arrivando sfinita al diploma.
Lei che non aveva
mai visto una discoteca e i film li vedeva solo in DVD in salotto. Lei
che la
pizza poteva mangiarla solo una volta ogni tre settimane e
rigorosamente
margherita, altrimenti andava fuori peso. Lei che conosceva un milione
di modi
per cucinare le verdure e la frutta ma solo uno per la carne: ai ferri.
Scese
al piano di sotto
tramite la scala interna, finendo di allacciarsi la tuta con il logo
della
nazionale.
Sul
lato opposto della
palestra la stava aspettando suo padre a braccia conserte sul petto e
gambe
divaricate. Accanto a lui una rastrelliera di sciabole per gli
allenamenti e
nella teca, “Dakota”, la sciabola con la quale suo
padre aveva vinto i mondiali
tanti anni prima. Prima che l’infortunio al ginocchio gli
impedisse di
partecipare alle olimpiadi e conquistare l’unica medaglia che
ancora gli
mancava. Toccava a lei?
Per
l’ennesima volta sbuffò.
Nell’ultimo anno, da quando aveva finito la scuola e si era
dedicata anima e
corpo alla scherma, aveva iniziato a sbuffare con una frequenza sempre
più
preoccupante. Stava diventando insofferente.
«Eccoti!
Preparati. Comincia
con il riscaldamento» ordinò subito lui.
«Comincia
con il
riscaldamento… invece di dire “Ciao, Tani, hai
dormito bene? Come ti senti?
Vuoi andare in vacanza al mare? Vuoi andare sabato sera in discoteca?
Ti
piacerebbe fare un pic nic e lasciare stare gli allenamenti per
oggi?”»
borbottava come una caffettiera mentre saltellava lungo il perimetro
dell’enorme
stanzone.
Al
mattino la palestra era
chiusa e lei poteva sbizzarrirsi a suo piacimento su quali esercizi
fare. Il
pomeriggio doveva lasciare gli attrezzi agli altri e dedicarsi alla
pedana.
Stava
ancora facendo pesi
quando suo padre uscì dal suo ufficio e si
avvicinò alla porta. Strano, non era
suonato il campanello.
«Benvenuti!
Entrate, prego»
invitò le persone sconosciute. Fece spazio a due ragazzi
alti, biondi, quasi
imponenti, seguiti da un uomo basso e pelato il quale strinse la mano a
suo
padre e venne subito introdotto nel suo ufficio, lasciando gli altri
due
impacciati all’ingresso con due grossi borsoni per ciascuno.
Erano
sportivi. Schermitori.
Ormai li riconosceva a naso.
Ogni
tanto veniva qualcuno di
altre società nazionali per allenarsi. Sotto
l’occhio attento del padre che,
come istruttore, doveva riconoscere, era davvero il migliore.
Ricominciò
a fare la sua
sessione di pesi, mentre con la coda dell’occhio osservava i
due ragazzi che,
gettate le borse per terra, iniziarono a girovagare per la palestra.
Sussurravano
tra loro e
facevano risatine, spintonandosi con cameratismo.
Bighellonarono
ancora per
altri minuti, sollevando pesi, spostando aste, scavalcando panche e la
pedana
centrale dove si svolgevano gli incontri ufficiali.
Lentamente
arrivarono alla
rastrelliera con le sciabole e quello leggermente più basso
cominciò a
soppesarla e a fendere l’aria per sentirla sibilare.
“Sciabolista”
borbottò Tani.
Smise i pesi ed iniziò a saltare con la corda, fissando i
due ragazzi. Non le
importava cosa stessero facendo, ma suo padre se la sarebbe presa con
lei se
avessero combinato qualcosa.
Il
biondo più alto si
avvicinò alla teca e aprì l’anta,
allungando poi la mano per prendere “Dakota”,
la vecchia sciabola del padre.
«Lascia
stare “Dakota”
dov’è!»
disse a voce alta, facendo rimbombare le pareti.
La mano del biondo si
bloccò e lui girò la testa
incuriosito. Tipica faccia da “Cosa era un
“Dakota”?”
Per
l’ennesima volta in
quella mattina, Tani sbuffò.
«Se
ti stai chiedendo chi sia
“Dakota” è la sciabola che stavi per
prendere. È quella di mio padre e in
lingua Sioux, Dakota significa amico» spiegò
avvicinandosi.
Il
biondo tolse la mano e la
tese verso di lei con un enorme sorriso.
«E
tu sei?».
«Tani,
che significa
“Vallata” in giapponese,
“Amata” in melanesiano,
“Giovinezza” in tonkinese ma
io personalmente preferisco il significato in andaluso: “Toro
che carica alla
cieca” e che per te può essere molto
pericoloso» si fermò davanti a lui, con le
gambe leggermente divaricate, le braccia incrociate sul seno e la
convinzione
di conoscere perfettamente il tipo: spocchioso, viziato, pigro,
arrogante e
play boy. E a lei sarebbero toccate le lamentele di suo padre su come
fosse
impossibile lavorarci insieme, come se per lei fosse una passeggiata.
Gli
occhi azzurri del ragazzo
brillarono divertiti «Axel. Non so cosa significhi ma
andrò a informarmi» e
aspettò con la mano tesa verso di lei che non si sognava
neanche di rispondere
al gesto.
«Io
sono Manolo e sono quasi
certo che non ci siano significati strani nel mio nome, se non il fatto
che mia
madre era fissata con un vecchio telefilm americano sul
West…».
«Mano,
la conosco la storia»
lo interruppe Axel laconico, ancora in attesa della mano di Tani.
In
quel momento dall’ufficio
uscirono i due adulti.
«Oh,
Tani. Hai già fatto
amicizia con Axel e Manolo. Resteranno con noi per sei mesi, per
prepararli agli
internazionali» annunciò suo padre.
Ecco!
Lo sapeva! Adesso
sarebbe ricominciata la solita solfa su lavoro di squadra,
l’aiuto in famiglia
e le lamentele per tutto quanto. Uno strazio.
Le
sue labbra si tirarono in
un sorriso stentato e, finalmente, strinse la mano di Axel.
«Stavo
cominciando ad avere i
crampi a forza di tenerla nella stessa posizione»
bisbigliò al suo indirizzo,
attento a non farsi sentire.
Incredibile!
Spocchioso,
viziato, pigro, arrogante, play boy e con la sfacciataggine di voler
fare il
simpatico come un carciofo nel buco del culo?
«Papà.
Prima stavamo parlando
di fare un incontro come allenamento. Possiamo?» disse Tani
improvvisamente,
lasciando tutti interdetti.
«Ma…
i ragazzi non si sono
ancora scaldati… forse non è il caso
adesso» borbottò suo padre ma Axel si era
già ripreso.
«Nessun
problema. Prometto
che staremo attenti. Posso prendere…»
indicò una delle armi sulla rastrelliera.
Il
padre annuì e gli porse anche
il giubbetto e il casco.
Tani
corse a cambiarsi e,
quando tornò, trovò Axel pronto ad attenderla in
pedana.
Sapeva
che il padre non si
era fieramente opposto perché aveva bisogno di sapere a che
livello fossero i
due ragazzi e lei… beh, voleva dare una piccola lezione al
biondo spocchioso,
viziato, pigro, arrogante, play boy finto simpatico.
Fecero
il saluto, si
voltarono come da protocollo e infilarono la testa nel casco. Lei aveva
preso
la “sua” Dakota. La sua amica di tante battaglie in
pedana. La sciabola
perfetta. Perfetta per lei.
Incrociarono
le lame ed
iniziarono.
Tani
aveva tentato di provare
con il fioretto. Era più leggero, maneggevole, aveva bisogno
di meno forza
fisica, ma non le dava la soddisfazione della sciabola. Ci scaricava i
muscoli
nell’assalto, nella parata, nell’affondo.
C’era un bersaglio più ampio da
colpire e da difendere ed era più stancante ma la faceva
più felice.
Axel
era bravo. Parava,
danzava sulla pedana, avanzava ed arretrava con grazia, nonostante la
sua mole.
Al
secondo affondo del
ragazzo, dopo aver preso ferro una volta, venne colpita al braccio e si
sentì
il suono stridulo del campanello.
Suo
padre urlava indicazioni a
tutti e due, come fosse un vero allenamento, già calato
nella sua parte di
coach.
«Uno
per me. Forza, amata,
fammi vedere come mi carichi!» la scimmiottò Axel.
E lei vide rosso,
esattamente come il toro andaluso che caricava alla cieca. Esattamente
come il
suo nome.
Irrigidì
e fletté i muscoli e
si preparò all’affondo. Parò e
affondò riuscendo a trovare il busto.
Di
nuovo il campanello suonò
stridulo.
«Uno
a uno, piccolo snob»
mormorò.
Sentì
Axel grugnire da vero
signore e ricominciarono con le stoccate.
I
minuti passavano e i suoni
del campanello alternavano equamente i punti tra loro. Il sudore colava
al di
sotto della maschera e sulla mano.
Era
bravo. Dannatamente
bravo, accidenti. Ma anche lei non era da buttare. Lo sapeva e adesso
lo sapeva
anche il biondo.
“Dakota”
si stava comportando
alla grande. Erano ancora in parità ma mancavano solo due
punti al finire della
sfida e i suoi muscoli doloranti non vedevano l’ora.
Prese
il ferro per l’ennesima
volta e si slanciò indietro, roteò il polso e,
fulminea, colpì sotto il
costato. Piegò il gomito verso l’anca, piegandosi
in avanti a esultare.
Non
erano sfottò, era lo
sfogo della tensione per l’affondo andato a buon fine.
Altri
respiri lunghi per
calmare i nervi furono fatti da tutti e due.
Ormai
suo padre non dava più
direttive ma si godeva lo scambio, registrando mentalmente quanto
sarebbe stato
l’argomento della sua prossima lezione.
Era
in vantaggio, Tani. Un
ultimo punto e avrebbe strappato per sempre il sorriso vanaglorioso di
Axel dal
viso perfetto. Perfetto? Assolutamente no! Snob, piuttosto, e
antipatico!
Certo! Antipatico!
In
guardia, braccio indietro,
Dakota avanti, ad annusare l’ultimo bersaglio, a sfiorare il
giubbetto come una
piuma e a esultare per la vittoria.
Partì
con l’affondo e prese
il ferro, arretrò e ripartì con impeto. I muscoli
delle cosce gridavano pietà,
come mai prima. Era stato un incontro davvero duro.
Axel
sembrò bloccarsi un
attimo nel momento in cui a Tani cedette il ginocchio. Tutti e due si
ripresero
immediatamente, ma Tani fu più veloce e colpì di
piatto sul fianco il biondo.
Era
come se avesse vinto i
mondiali, gli europei, i nazionali e le olimpiadi tutte insieme.
Alzò le
braccia al cielo in un urlo liberatorio mentre si liberava del casco e
scuoteva
i suoi capelli a caschetto.
Baciò
la coccia della sua
Dakota e salutò l’avversario come voleva il
protocollo.
Axel
si avvicinò con passo
indolente e le tese la mano «Si davvero in gamba.
Complimenti» mormorò
sorridente.
Tani
lo guardò socchiudendo
gli occhi diffidente. La prendeva in giro? Ci pensò su
almeno un minuto buono,
poi decise che nessuno poteva avere un sorriso più aperto e
sereno di lui, dopo
aver perso contro una ragazza.
«Grazie,
complimenti anche a
te», rispose.
Forse
per diventare amici
bisognava scornarsi. Con Tani aveva funzionato, perché da
quel momento si
potevano trovare spesso lei e Axel in giro per la palestra a
chiacchierare tra
un esercizio e l’altro.
Guardandolo,
Tani aveva
capito che il ragazzo non aveva dato il cento per cento contro di lei,
ma,
conoscendolo successivamente, preferiva soprassedere
all’umiliazione di
farglielo notare.
Passarono
quasi quattro mesi
prima che Axel riuscisse a convincere Tani a una uscita in discoteca.
Neanche
un pellegrinaggio avrebbe agitato tanto la ragazza come quella sera.
Se
ne restò delusa non lo
confessò mai, di certo rise e ballò, confortando
Axel con un comportamento
spensierato, ma rifiutò ogni altro invito con la scusa di
essere a ridosso
delle gare internazionali. In compenso non vide più un film
in salotto ma
direttamente al buio, al cinema, seduta comodamente sulle poltroncine
di
velluto, mano nella mano con il biondo.
Era
straordinario trovarsi
entusiasta ad alzarsi. Correre a prepararsi per scendere in palestra e
incrociare la lama con lui. Lui che non si lamentava per dover
aspettare la
fine degli allenamenti, lui che non gli pesava attendere la gara prima
di
uscire di nuovo. Lui che era capace di parlare di tutto tranne che di
scherma
per una intera serata. Lui che aveva iniziato a chiamare la sua
sciabola «“Dakota”
perché le nostre sciabole erano Dakota tra loro, proprio
come noi».
Arrivarono
gli internazionali
e lasciarono ottimi piazzamenti, un bronzo a squadre per i ragazzi e un
bronzo
individuale per Tani e la qualificazione alle olimpiadi.
I
festeggiamenti furono un
turbine per loro. Alticci si trovarono stesi sul divano del salotto a
baciarsi
come se fosse l’ultimo istante della loro vita, mentre gli
altri applaudivano
ed incitavano.
Fortuna
che il padre di Tani
era assente o avrebbe fatto il diavolo a quattro, anche contro un
ragazzo pieno
di talento come Axel.
Purtroppo
quella fu l’ultima
volta che si videro di persona prima delle olimpiadi che si sarebbero
svolte
quattro mesi dopo.
Axel
e Manolo partirono il
mattino dopo mentre Tani rimase ostinatamente a letto, adducendo un
gran mal di
testa per colpa dei bagordi della serata precedente.
Senti
il campanello della
porta d’entrata che suona ancora. È
l’ultimo cliente della serata, si spera. Il
proprietario del negozio è già andato a casa e
questa sera tocca a lei
chiudere.
«Buonasera,
amata!» esclama
un uomo alto e biondo, con un incredibile sorriso sereno stampato in
faccia.
Sospira.
Nessuno ha mai avuto
un sorriso disarmante come quello di Axel. Lancia un urletto e corre
incontro a
lui, nonostante i tacchi, la gonna stretta sotto il ginocchio e la sua
età non
più ventenne.
Si
lancia tra le braccia
forti del suo bellissimo marito, spiccando un piccolo salto.
«Attenta!
Non vorrai far male
alla nostra piccola Dakota!» la rimprovera prendendola in
braccio e sfiorando
la piccola pancia con un dito.
«Chi
ti dice che non sia un
Axel Junior?» replica ridendo.
«Ti
ricordi cosa ti ho detto
appena ci siamo abbracciati per la tua vittoria alle
olimpiadi?» chiede
facendola girare in tondo.
«Che
avevi scoperto che Axel
deriva dal tedesco e significava “ricompensa
divina”» risponde lei.
Dopo
sedici anni è ancora
bellissima con i capelli lunghi castani e gli occhi scuri
più profondi che lui
abbia mai visto. E ha la bocca più sensuale che abbia mai
baciato, e quando
sorride lo fa sentire…
«E
ti ho detto che ero
la tua ricompensa divina per essere
la mia amata vincitrice della
medaglia d’oro. Hai già troppo da fare con
me, per sopportare altre ricompense divine!» e ridono tutti e
due.
Si
affrettano a casa. Lui è
tornato da un viaggio per conto di un giornale sportivo per cui lavora
e domani
redigerà l’articolo sulle gare di scherma a cui ha
assistito. Ma questa sera è
solo per loro due, il loro salotto e il DVD appena uscito del film che
non
erano riusciti ad andare a vedere.
Tani
ha scoperto che è bello
guardare un DVD a casa. Dalla vetrina dei trofei le due
“Dakota” ammiccano
incrociate.
---ooOoo---
Angolino mio:
solo una
cosa: questa è una raccolta di one-shot, diverse con temi
diversi. Essendo intesa
così flaggherò il conclusa ogni volta che ne
aggiungerò una.
Questa
raccolta
potrebbe non avere mai fine ma ogni storia è finita a
sé.
Grazie
per l’attenzione
Alla prossima
baciotti