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Autore: Lady Vibeke    06/05/2014    2 recensioni
– Non hai fatto in tempo a mettere piede qui dentro e già hai seminato scompiglio. –
Lucius rise.
Shin era apparso accanto lui dal nulla, silenzioso come suo solito.
– Non lo porto io, è lo scompiglio che segue me. –
L’altro arricciò appena le labbra.
– Questione di punti di vista, suppongo. Hai già visto Regan? –
La fronte di Lucius si increspò. La sua intenzione era stata di andare a cercarla immediatamente, ma quando era finalmente riuscito a trovare i ragazzi Edelberg, lei non c’era, quindi scosse la testa.
– È nervosa? – si informò poi.
L’amico lo scrutò di sottecchi, il nero della maschera e quello delle iridi a malapena distinguibili, non fosse stato per lo scintillio delle luci che si rifletteva negli occhi.
– Frustrata, più che altro. Ma c’era da aspettarselo. –
Lucius annuì.
Immaginò Regan costretta a infiocchettarsi come una bambola e a comportarsi da fanciulla docile e compita e si disse che avrebbe dovuto essere con lei in un momento simile.
– Alla mia cerbiattina non piace sentirsi in gabbia. –
Genere: Avventura, Fantasy, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Slash, FemSlash
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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3. APPROVAZIONE

 

You're sure it’s the only way
But why can’t I
Why can’t I be me?

– Why Can’t I Be Me, The Cure –

 

 

I vetri vibravano sotto alle percosse del vento che si scagliava con violenza tra le chiome degli alberi, strappando foglie e spezzando rami. Il cielo era ammantato di nuvole nere che più a nord stavano vessando le montagne con una tempesta di quelle che Regan non si sarebbe mai stancata di vedere. Dalle stanze più alte della dimora degli Edelberg si riuscivano a vedere fulmini e saette squarciare l’oscurità a miglia e miglia di distanza, uno spettacolo che faceva venire la pelle d’oca.

La soffitta era immensa, vuota e polverosa, e la stasi che la dominava sembrava il respiro silenzioso di un pacifico sonno.

La pendola dello studio al piano di sotto rintoccò la Seconda mattutina. Il suono riecheggiò per i corridoi vuoti del castello fino a giungere a lei come un avvertimento sbiadito. Lo zio si sarebbe arrabbiato molto se l’avessero scoperta di nuovo in piedi a quell’ora, abbarbicata nello stretto vano della finestra aperta che si affacciava su nient’altro che il nulla. Ci aveva provato a rimanere a letto, ma l’insonnia era stata inclemente e non appena aveva avvertito il cambiamento del tempo non era proprio riuscita a resistere. Adorava passeggiare di notte per il palazzo: ogni ombra, ogni scricchiolio del mobilio antico erano un brivido lungo la schiena; ormai conosceva ogni angolo a memoria, ma continuava a divertirsi a vagabondare di stanza in stanza. Mariek ed Ember le avevano raccontato che c’erano dei passaggi segreti in tutti i castelli antichi e da qualche parte ce ne dovevano essere anche in casa loro, ma nessuno li aveva mai scoperti. Lei si era ripromessa che prima o poi ne avrebbe scovato almeno uno.

Era un toccasana starsene seduta lì a sentire l’aria fresca, profumata di pioggia, che le lambiva il viso.

Le doleva la testa, satura di pensieri come il cielo all’orizzonte era saturo di elettricità. Gli stessi lampi che rimbombavano nel nero della notte erano uno specchio perfetto di quello che Regan aveva nella sua mente: luci e ombre a brandelli, riflessioni a pezzi, subito interrotte da altre riflessioni, ciascuna più impellente della precedente, più pesante. Aveva creduto che, una volta rivelata la sua identità, tutto sarebbe stato più facile, e invece no: tutto, giorno dopo giorno, non faceva che complicarsi. Il che era tutto un dire, visto che la situazione per lei era stata complicata fin dall’istante in cui era venuta al mondo, portatrice di un’essenza di male pura che una magia antica di secoli le aveva inculcato nell’anima. Ora, naturalmente, i custodi di questa magia avevano il compito di ucciderla. Tra i pochi che erano a conoscenza di questo piccolo particolare – e tra essi i suoi zii ancora non erano inclusi – era diffusa opinione che lei fosse assolutamente terrorizzata da questo pericolo che incombeva su di lei, ma che tacesse per personale contegno; in concreto, invece, e talvolta si dava della sciocca per questo, lei rimaneva indifferente al riguardo, forte di un’incoscienza che, diceva sempre Lucius, le derivava dalla mancanza di esperienze dirette. In effetti questo punto non era del tutto sbagliato: per merito di Derian, che le aveva trasmesso ciò che nella vita aveva appreso, Regan sapeva tutto del mondo, eppure non conosceva niente. Di tutte le nozioni presenti nella sua memoria, aveva vissuto solo un’infinitesimale parte, ed era davvero strano, ogni volta che sperimentava qualcosa, associare la reale sensazione che ne traeva al concetto pregresso che già ne possedeva. Vedere una cascata, toccare la neve, gustare more e mirtilli, annusare il profumo dei mughetti sulla terrazza di zia Persefone, ascoltare le vibrazioni delle corde di un violino… tutto era una sorpresa infinita. E in certi momenti, quando vedeva un ragazzo e una ragazza passare a braccetto per strada, di nascosto quasi anche da se stessa, si chiedeva quando avrebbe vissuto il sapore di un bacio.

Non appena quel pensiero la sfiorò, chiuse gli occhi e scosse la testa, tentando di scrollarselo di dosso come un’insidiosa ragnatela. Non aveva voglia di mettersi a rimuginare su Lucius adesso. Del resto, lui non si era nemmeno preso il disturbo di andare al parlare con lei del suo colloquio con i Dresden.

Senza aspettare che lei rientrasse da una passeggiata con la zia e la piccola Luce, era andato dritto da Tristan e aveva riferito tutto a lui. Al suo ritorno, Regan si era trovata davanti agli accordi già presi: sarebbe stata ufficialmente presentata come Lady Regan Edelberg, legittima figlia di Lord Ardal Edelberg e Lady Aranel Dresden. Nessuno avrebbe mai menzionato il fatto che suo padre era stato diseredato e che lui ed Aranel avevano coperto le rispettive famiglie di vergogna fuggendo insieme come due sguatteri qualsiasi. Ma nessuno avrebbe potuto sospettare la verità: lui, cancellato dagli alberi genealogici e dai ritratti di famiglia, era stato dichiarato morto dal proprio padre il giorno stesso in cui la sua famiglia aveva scoperto cosa aveva fatto e, in quanto a lei, i suoi genitori avevano semplicemente denunciato la sua scomparsa, ma nessuna ricerca aveva mai prodotto alcun frutto. La versione ufficiale prevedeva che si fossero sposati in segreto e che, dopo la morte di lui, lei avesse abbandonato la creatura che aveva dato alla luce e si fosse gettata in qualche fiume per seguire il suo amato nel ritorno alla Madre. Questo avrebbe salvato la reputazione di tutti, vivi e defunti, e soddisfatto la sete di pettegolezzi delle comari di tutte le Sette Terre. Se poi il tutto soddisfacesse anche Regan, nessuno si era premurato di chiederlo.

Lasciò che le palpebre si chiudessero mollemente. Le carezze del vento erano seducenti, premurose come fresche mani affettuose scese a lenire una febbre interiore. Regan ne era rapita al punto tale che si domandò se non potesse arrischiarsi ad abbandonarsi alle loro blandizie, cedere a quelle brezze che sembravano chiamarla, per vedere se l’avrebbero raccolta tra le loro braccia e sostenuta nel vuoto.

Riusciva a vedere il lago appena al di fuori delle proprietà di famiglia: senza luna o stelle a farlo scintillare, era un drappo di velluto nero sconvolto in mille pieghe nervose, e mentre lo ammirava poteva quasi avvertire il sentore delle acque gelide agitarsi sotto alle dita assieme ai nastri di vento.

Sospirò, e il mondo sospirò con lei.

Da qualche parte nelle foreste i lupi stavano ululando, turbati dalla rapidità dei cambiamenti atmosferici.

– Parlano con il vento. –

Regan sussultò, premendosi una mano sul cuore che batteva impazzito. Voltandosi, trovò il maggiore dei suoi cugini sulla soglia della soffitta.

– Non intendevo spaventarti. –

Lei scosse la testa e si raccolse le ginocchia al petto mentre lui si avvicinava per sederle accanto.

– Ero solo molto assorta. –

– Si direbbe che tu subisca il richiamo della tempesta quasi quanto loro – osservò Prince, sulla scia di un altro coro di ululati. Il cuore di Regan batteva un po’ più forte ogni volta che una di quelle voci selvagge si sollevava nel vento, mescolandosi al ruggito della pioggia. In momenti come quello, tutto ciò che lei avrebbe voluto era poter mutare forma, essere lupo come loro, e correre a perdifiato verso la foresta, incurante dell’acqua e dei tuoni. Semplicemente libera.

– Hai uno spirito irrequieto – Prince fece un sorriso obliquo studiandola di sottecchi. – Il che non è esattamente un pregio, per i canoni Edelberg, ma ammiro e un po’ anche invidio la tua spontaneità. –

Regan provò un moto di affetto verso di lui. La prima impressione che ne aveva avuto era stata di un giovane uomo altero ed estremamente posato e quest’impressione non era cambiata poi di molto, imparando a conoscerlo, ma una cosa di lui l’aveva capita in fretta: l’alterigia non era un suo tratto innato, ma una sorta di distintivo che aveva imparato a indossare e smettere a seconda delle occasioni.

Prince era visibilmente stanco. Indossava ancora la divisa da Cacciatore con lo stemma dorato della Lega – la Stella a sette punte – appuntato al petto, il medesimo simbolo che, in argento, con un nucleo rosso rubino, pendeva dalla catenella che gli cingeva il collo. Nei suoi occhi provati, tuttavia, c’era un bagliore che Regan solo di recente aveva notato.

– Da qualche tempo sembri più rilassato. A volte addirittura distratto. –

Il ricciolo vago che apparve in un angolo della bocca di Prince denotò che l’osservazione non lo aveva infastidito. Considerò il cielo tempestoso, perdendovisi per qualche istante.

– Sì, può darsi. –

Regan stava per domandargli cosa fosse cambiato, perché anche lei sentiva un profondo bisogno di sentirsi più rilassata – anche se a Donna Melyor sarebbe potuto venire un crollo di nervi se solo si fosse dimostrata appena più distratta di quanto già non fosse di suo – ma Prince si alzò e con un cenno della testa la invitò a fare lo stesso.

– Meglio andare a dormire, adesso, figlia dei lupi. È così tardi che potrebbe benissimo essere presto, ormai. –

Le voltò le spalle e fece per uscire, ma lei non si mosse.

­­– Prince? –

Lui si fermò sull’uscio.

­ – Sì? –

Gli occhi di Regan accarezzarono le montagne su a Nord, le cime perennemente imbiancante vessate dalle piogge, con un affetto quasi anelante.

– Credi che sia possibile fare una gita lassù, qualcuno di questi giorni? –

Lui rimase immobile, fissandola senza un’espressione, come a cercare di capire se lo volesse o meno prendere in giro, poi, una volta appurata la serietà della domanda, rovesciò indietro la testa e scoppiò a ridere di gusto.

– Una gita sulle montagne? – Lo disse con assoluta ilarità, nemmeno gli fosse appena stata chiesta la luna. – Regan, tu non hai idea di quanto siano basse le temperature lassù, vero? – Si portò una mano agli occhi per asciugarsi lacrime divertite. – Sono luoghi a malapena tollerabili in piena estate, figuriamoci in primavera quasi nemmeno iniziata! –

Mentre lui rideva ancora, lei gli si accostò per appioppargli un ceffone sul braccio. Non avrebbe mai osato farlo, prima, ma in quel momento le sembrava di avere a che fare con un Prince diverso, più accessibile.

Per tutta risposta lui le elargì uno sguardo pieno di tenerezza.

– Sei una vera Edelberg, non c’è che dire. –

– In che senso? –

– Non lo sai? La nostra famiglia discende dalle genti che abitavano quei picchi inospitali di cui mi hai appena chiesto. Edelberg significa nobili di montagna. –

Regan si sentì accendere le guance di un orgoglioso tepore rosato mentre suo cugino, ancora in vena ridanciana, la sospingeva fuori, strappandola a quello spettacolo naturale che lei avrebbe volentieri ammirato fino alla fine dell’eternità.

 

 

– Regan? Regan? Regan! –

Non c’era traccia di lei nelle stanze da letto, né nella biblioteca, né nella stanza dei bagni, e nemmeno dabbasso, nelle cucine. Come svanita nel nulla.

Era la seconda volta che Donna Melyor perquisiva l’intero palazzo, ma della ragazza non c’era proprio traccia da nessuna parte. Paonazza, i capelli scarmigliati davanti al viso, impugnò le sottane e si accinse a ricominciare a setacciare le stanze per la terza volta.

– Benedetta Madre, dove si sarà cacciata quella bambina? –

Era ancora abbastanza presto, la mattina era fresca e limpida dopo la nottata ventosa, ed era pressoché preoccupante che Regan non fosse ancora sepolta sotto le sue amate coperte. Di certo, pensò Melyor, raccattando i vestiti sparsi nelle stanze dei ragazzi, aveva scelto il giorno sbagliato per sparire nel nulla.

Spalancò le persiane di tutte le camere da letto e chiamò un paio di cameriere perché rassettassero, poi scese fino alla sala da pranzo, dove i signori Edelberg e alcuni dei loro figli si stavano già godendo una sostanziosa colazione.

Normalmente, la domenica, la colazione veniva consumata al Bottondoro, rinomata sala da the del centro di Kauneus in cui solevano per tradizione riunirsi le famiglie più in vista. Era un evento mondano che tutti trovavano molto piacevole, ma quella mattina la situazione richiedeva diversamente: alle undici in punto Regan sarebbe stata ricevuta da Madame Ilyalisse, la sensale che si occupava di valutare le giovani fanciulle e approvare il loro ingresso ufficiale in società, e tutti quanti, in casa, avevano la netta sensazione che non sarebbe stato un colloquio semplice.

Donna Melyor ebbe il tempo di far fluttuare uno sguardo di amorevole soddisfazione verso Mariek ed Ember – che si stavano rimpinzando come se non avessero toccato cibo da settimane – prima di accorgersi del cipiglio nuvoloso di Lord Tristan.

– Ebbene? –

– Non so più dove cercarla, signore – gemette lei, desolata, con un cumulo di vestiti che le traboccava tra le corte braccia pingui. – Tjeren è andato a guadare nelle scuderie, forse… –

– Non si trova lì. –

Anneli era comparsa sulla soglia, sudata e leggermente rossa in viso, reduce dalla sua cavalcata mattutina domenicale. Alle sue spalle apparve Prince, anch’egli in tenuta da equitazione.

– Che succede? –

– Abbiamo perso Regan – gli comunicò Ember, masticando una badilata di uova strapazzate.

– Di nuovo – pensò bene di puntualizzare Mariek.

Aiden, seduto di fronte a loro, volse gli occhi al soffitto. Anneli, invece, si lasciò scappare un sorriso beffardo.

– Perché la cosa non mi sorprende? –

– Siediti, pettegola – la zittì Prince, spingendola verso il tavolo. Una cameriera che stava entrando con un vassoio di dolcetti si fermò per cedere loro il passo con un piccolo inchino nervoso.

– Proprio oggi doveva mettersi a giocare a nascondino… – borbottò Lord Tristan fra sé mentre il suo coltello scricchiolava spiacevolmente contro la porcellana del piatto, causando sibili infastiditi da parte dei ragazzi.

Anneli si fece servire del the bollente e non prese altro. Per contro, Donna Melyor prese un piatto, lo riempì di pietanze e glielo piazzò davanti con un’occhiata tagliente che dissuase la ragazza da qualsivoglia protesta. Solo quando Anneli iniziò a mangiucchiare una frittella di malavoglia la governante si degnò di allontanarsi, supervisionando la situazione in attesa di nuove istruzioni.

Lady Arista, che teneva la piccola Luce sulle ginocchia e la aiutava a mangiare, fece per alzarsi.

– Forse è meglio che la vada a cercare io. Melyor, vorresti pensare tu a Luce, per favore? –

– Lasciala a me, mamma – disse Prince, allungando le braccia verso la sorellina. – Melyor non ha ancora toccato cibo. Siediti – aggiunse, Luce aggrappata al collo, facendo cenno alla donna di prendere posto.

La cameriera che aveva portato i dolcetti se ne andò con un’espressione risentita. Melyor e suo marito Tjeren godevano di un trattamento di favore da parte dagli Edelberg, in quanto servivano fedelmente la famiglia da ben tre generazioni e lei aveva aiutato le ultime due padrone a crescere i loro ragazzi con lo stesso amore di una madre naturale.

Arista lasciò quindi Luce a Prince, si passò il tovagliolo sulla bocca e poi lasciò la tavola, seguita dagli occhi severi del marito.

 

 

Era difficile dire se il frenetico scalpiccio che si sentiva echeggiare tra le pareti umide appartenesse a Mello che saettava qua e là in preda all’incontenibile gioia di scoprire un posto nuovo oppure se fossero semplicemente i topi che dimoravano là sotto, ma non era importante.

Regan rigirò un paio di volte la mappa che aveva in mano e corrugò la fronte. Non aveva idea che i sotterranei di casa Edelberg fossero così vasti.

Dopo averla ripresa svariate volte a causa dei suoi vagabondaggi notturni, lo zio le aveva detto che avrebbe fatto meglio a smetterla o avrebbe finito per smarrirsi da qualche parte. Il che era credibile, perché il castello era veramente enorme e tutti i corridoi si somigliavano tra di loro, ma durante una delle numerose incursioni in biblioteca durante le lunghe, cupe giornate invernali Regan era riuscita a scovare quella cartina ammuffita in mezzo a una dozzina di libri di araldica e, non senza un bel po’ di fatica, aveva imparato ad usarla.

I sotterranei, secondo il disegno, all’alba dei loro tempi avevano svolto la funzione di prigione, e in effetti lungo il vasto corridoio centrale si aprivano numerosi varchi chiusi da pesanti grate arrugginite che avevano tutta l’aria di essere celle. Da qualche parte ci doveva essere anche una ghiacciaia, un deposito per le armi e una grande stanza ottagonale che apparentemente non serviva a nulla.

Da quelle parti era abbastanza freddo e umido perché ogni respiro si trasformasse in bianca condensa davanti al viso. Era anche molto buio, tanto che la candela che Regan si era portata appresso bastava appena a farle vedere poco più in là del suo naso. Oltre l’alone di luce gialla, l’oscurità si infittiva progressivamente fino a perdersi in distanza in un occhio cieco.

Regan era elettrizzata dall’atmosfera di quel luogo, ma sapeva anche che atti turpi si erano consumati dietro alle porte chiuse che incontrava, cose risalenti a ere ormai concluse in cui intrighi, tradimenti e omicidi erano stati all’ordine del giorno, soprattutto tra le casate nobiliari. Dopotutto un motivo c’era se gli Edelberg si erano fatti il nome di Scudo del Re.

Trasalì quando vide qualcosa di nero attraversarle inaspettatamente il cammino.

– Attento! – disse la grosso ragno che, scampato il pericolo, se la svignava in fretta e furia in una fessura nel muro. – Potevo calpestarti! –

Le pantofole avevano suole morbide che non producevano alcun rumore contro il pavimento di pietra e questo, se possibile, rendeva tutto ancora più sinistro.

Si era svegliata di buonora e non aveva perso del tempo prezioso a cambiarsi. Peccato solo che ora la sua camicia da notte fosse umida e non troppo pulita e che la sua treccia avesse raccolto qualche ragnatela di troppo nel discendere la vertiginosa scala a chicciola che conduceva laggiù. Non aveva avuto altra scelta, comunque, perché l’accesso principale ai sotterranei era stato sbarrato e probabilmente anche protetto con qualche sigillo e non ci sarebbe stato verso di forzarlo.

Il passaggio che aveva usato lei lo aveva scovato per caso nella dispensa delle cucine, nascosto dietro uno scaffale pieno di mazzi essiccati di piante aromatiche, ed era stato grazie alla piantina che aveva capito che cos’era. Non si trattava propriamente di un passaggio segreto di quelli che avrebbe voluto svelare lei, ma per adesso poteva accontentarsi.

Scrutava gli spazi angusti che la circondavano con avida curiosità – quella curiosità che così spesso le veniva rimproverata – e acuiva la vista per riuscire a vedere anche negli angoli più nascosti, dietro a statue decrepite e dentro a nicchie polverose. Anche se non stava cercando niente di particolare, non le sarebbe dispiaciuto trovare qualche oggetto vagamente interessante da potersi tenere.

Un alito gelido sul collo la fece rabbrividire e pentire di non essersi coperta meglio. Prese appunto mentale di portarsi almeno uno scialle, la prossima volta.

Una goccia d’acqua le cadde sul naso mentre cercava di scavalcare indenne una pozzanghera che si era formata al centro del passaggio. Sapeva che i suoi capelli dovevano essere un disastro e sentiva le ciocche sfuggite alla treccia che si increspavano per la troppa umidità. Una vocina fastidiosa nella sua testa borbottò qualcosa a proposito di un appuntamento importante e dell’assoluta necessità di essere impeccabile, ma lei non la sentì, perché i suoi pensieri galoppavano altrove, liberamente sguinzagliati in fantasie che fluttuavano verso la storia antica di quei sotterranei e l’incredibile quantità di segreti che avevano raccolto nei secoli.

Qualcosa di soffice le sfiorò le caviglie. Guardò in giù e nel cono di luce intravide gli occhioni neri di Mello che la fissavano pieni di aspettativa. Vide che tra le zampette teneva un coccio di vetro.

– Mettilo giù, stupido, finirai per tagliarti! –

Dopo un istante di silenzio, il rumore del vetro che cadeva a terra echeggiò per il sotterraneo, seguito dalla scia della fuga ovattata della bestiola, probabilmente alla ricerca di altri tesori.

Regan si domandò come mai quel piccolo furfante fosse disposto a darle retta solo quando sgraffignava di oggetti senza alcun valore.

Uno spiffero fece vibrare la fiamma della candela fin quasi a spegnerla. La protesse con la mano, temendo di non riuscire a riaccenderla con il solo ausilio dei propri poteri, in caso si fosse spenta. Aveva ancora qualche difficoltà, da quel punto di vista.

Si volse verso la propria destra. Le era sembrato che l’alito di aria avesse spirato proprio da lì, ma si era sicuramente sbagliata. Non c’era un corridoio ad aprirsi, da quella parte: il muro di pietra era solido e compatto.

Aveva già allungato la mano a cercare un’eventuale punto di fuga, quando qualcos’altro attirò la sua attenzione. Era a una decina di passi da lei, vicino a una delle statue dalle sembianze di cavalieri che adornavano il corridoio: un’ombra, o qualcosa che di un’ombra aveva la consistenza, più nera del nero stesso che la circondava, come se nemmeno i bagliori della candela potessero farla impallidire.

Tenebra pura e intoccabile.

 Regan non si mosse. Le sue labbra si schiusero di un soffio mentre la testa si inclinava leggermente di lato. La fiamma della candela fremette angosciosamente.

Le spalle di Regan vennero lambite da un intenso sentore di gelo che penetrò fino alle ossa.

La cosa era immobile davanti a lei e appariva più densa dell’aria in cui indugiava, impossibile guardarvi attraverso, perché sembrava assorbire e neutralizzare anche il più piccolo raggio di luce che cercava di raggiungerla.

I battiti del cuore di Regan acquisirono una velocità folle senza che lei se ne accorgesse. Le sue gambe si erano fatte pesanti come piombo e non sarebbe riuscita a muoverle anche se l’idea l’avesse sfiorata. Ma non era così.

Avrebbe potuto benissimo fare dietrofront e tornare da dov’era venuta, chiudersi dietro tutte le porte e sbucare nella profumata sicurezza della cucina, eppure se ne restava lì, come in trance, a dirsi che quello sarebbe stato un buon momento per mostrare un po’ di sano buonsenso e mettersi a tremare di paura. Benché se lo stesse ripetendo ormai da un po’, tuttavia, non funzionava.

D’altra parte era solo un’ombra… che male avrebbe potuto farle?

Acuì ogni singolo senso nel tentativo di percepire di più. Chiuse gli occhi e si mise in ascolto, non solo con le orecchie, ma con tutta sé stessa.

Sentì il freddo strisciare lungo il pavimento e salirle sulle caviglie nude. Un’immagine, come un lampo, le balenò dietro alle palpebre chiuse, schizzi di un rosso familiare, che si frantumarono nel vuoto assieme al risuonare distante di un urlo straziante.

– Regan! –

Il portacandela precipitò a terra con un assordante schianto metallico. Il tronco di cera si spezzò, la fiamma morì. L’odore pungente del fumo entrò nella gola di Regan, causandole una sgradevole sensazione di asfissia.

Si voltò, una mano premuta sul cuore e l’altra aggrappata alla parete, e vide che in fondo al corridoio, da dove era venuta lei, c’era qualcosa di luminoso che si stava muovendo nella sua direzione.

– Regan? Va tutto bene? –

La voce premurosa di zia Arista la raggiunse e avvolse come una carezza. Riaprì gli occhi di scatto e si guardò indietro: l’ombra, o qualunque cosa fosse, non c’era più, tanto che si chiese se non se la fosse solo immaginata.

La zia la raggiunse, una lampada a olio in mano, e la esaminò accuratamente. A giudicare dal sospiro sconfortato, non le erano sfuggite né le ragnatele né lo stato disastroso dei capelli e chissà che altro.

– C’era qualcosa… un’ombra… – farfugliò, ma la zia non badò a lei. E poi che cosa le avrebbe potuto dire? Era ovvio che dove c’era luce ci fossero anche delle ombre.

– Oh, tesoro… era proprio necessario che ti mettessi a fare l’esploratrice proprio stamattina? Melyor è impazzita a cercarti, tuo zio ha i nervi a fior di pelle… –

Regan era felice di vederla, ma non si spiegava come fosse arrivata fin lì.

– Come hai fatto a…? –

– Pensi di poter spostare un solo granello di farina nella dispensa di Nella senza che lei se ne accorga? Come hai fatto tu, piuttosto, a trovare quel passaggio? –

Arrossendo fino alla punta dei capelli, Regan sollevò la mappa che aveva in mano a mo’ di spiegazione. L’aveva ridotta a un cartoccio informe senza accorgersene.

Dando prova di grande saggezza, la zia evitò di fare commenti; prese Regan per mano e se la portò via. Non sembrava tanto arrabbiata, e questo contribuì solo a far sentire Regan ancora più in colpa.

Si sentì miserabile ed egoista per tutto il tragitto di ritorno. Arista era sempre fin troppo gentile con lei, ma una tirata d’orecchie da parte di Donna Melyor niente e nessuno gliela avrebbe risparmiata, senza contare il terrore di quel che avrebbe potuto dire lo zio Tristan.

Il fatto era che davvero non si era resa conto che fosse così tardi. Si accorse dell’ora solo quando, passando dalla dispensa alla cucina, vide il sole già alto e splendente nel cielo.

– La Nona passata! – ululò Donna Meloyr quando la vide arrivare nell’anticamera della sala da pranzo. A un secondo sguardo più attento, poi, inorridì del tutto: – Che cosa ti è successo? Sei… sembri… – Non trovò parole abbastanza raccapriccianti per definire la tragicità della situazione, e fu un bene, perché più tardi, mentre spediva Regan dritta filata a immergersi in una vasca da bagno piena di acqua gelata (– Sarebbe stata calda, se tu la avessi usata quando dovevi! – ), ebbe modo di dare sfogo a tutte le frustrazioni represse durante la difficile mattinata.

– Incosciente, ecco cosa sei! E se ti fosse successo qualcosa e la cuoca non si fosse accorta del disordine in dispensa? E se fossi morta laggiù, come un povero ratto smarrito? O, peggio ancora, se tu avessi tardato ancora a tornare e milord e milady fossero stati costretti a presentarti in quelle condizioni al cospetto di quella vecchia bisbetica? –

Regan soprassedette sul discutibile concetto di priorità della donna.

Meloyr le lavò i capelli e, finito il bagno, la trascinò davanti al camino affinché asciugassero più in fretta mentre glieli pettinava con un’energia tale che lei temette che glieli avrebbe strappati tutti.

Venne imbrattata di cipria – a che scopo, poi, dato che si considerava già sufficientemente smorta, non lo avrebbe mai capito – e profumata per bene, ingioiellata in modo sobrio e consono alla sua giovane età. Pensò che i cavalli dovevano sentirsi esattamente come si sentiva lei adesso quando venivano strigliati e agghindati per una parata ufficiale: immensamente impotenti e altrettanto ridicoli.

 

 

Più di un’ora dopo, infagottata in un abito oscenamente vezzoso che le faceva venire il prurito solo a vederlo, con lo stomaco vuoto e di pessimo umore, fu piazzata su una carrozza assieme allo zio e alla zia alla volta della città.

– Mi raccomando, cuginetta, sii docile e mansueta come un agnellino e andrà tutto bene! – le urlò uno dei gemelli dall’alto dell’ingresso del palazzo.

– In poche parole, andrà tutto a rotoli – concluse l’altro gemello, sghignazzando mentre la sua voce echeggiava all’interno del cortile.

Regan sospirò, depressa, e si accasciò contro il sedile a braccia conserte.

Tenne gli occhi chiusi, sia per non vedere il vestito, sia perché continuava a pensare a quella specie di ombra nera e il paesaggio la distraeva. Avrebbe potuto chiedere a Lucius se sapesse qualche cosa in merito, se solo lui si fosse degnato di farsi vivo o di dare almeno qualche notizia. Era troppo orgogliosa per ammetterlo con qualcuno, sé stessa per prima, ma odiava essere diventata solo un particolare trascurabile delle vita di Lucius, dopo essere stata al centro delle sue attenzioni tanto a lungo.

A metà strada, però, fu costretta a tornare alla realtà, perché Arista le prese una mano e se la strinse tra le sue:

– Regan – la zia la guardò intensamente, con una velata supplica nel tono e nello sguardo. – Questo incontro che stiamo per fare è molto importante. So che hai già partecipato a qualche festa e sai già come funzionano, ma adesso hai un nome e uno stato sociale ed è quindi necessario che si facciano le cose come si deve. Madame Ilyalisse ha il compito di esaminare le giovani donne e stabilire se sono pronte a fare il loro ingresso in società. Noi non intendiamo privarti della libertà di goderti gli eventi mondani, ma tu questa libertà te la dovrai guadagnare. – Scambiò con il marito un’occhiata ansiosa. – Qualunque cosa dirà Madame Ilyalisse, tu non replicare. Si rivolgerà a me a tuo zio e saremo noi a rispondere. Tu devi fingere di non sentire e di non saper parlare, qualunque cosa lei dica. Promettimelo. –

Regan trovava l’intera questione del tutto insensata. Se era a lei a dover essere presa in esame, allora avrebbe avuto senso che fosse lei a parlare con quella donna.

– Io… –

– Regan! –

C’erano ancora un’infinità di cose che lei non sapeva, dopotutto. Imparare le buone maniere era stato un requisito fondamentale per la sua nuova posizione, ma non era sufficiente. Forse, ripensandoci, lasciar parlare gli zii era davvero la cosa migliore. Non era più stata a una festa o a un evento mondano da quando aveva scoperto chi era e non aveva nessuna voglia di continuare a restarsene chiusa in casa mentre tutti gli altri andavano a divertirsi. Non si poteva dire che amasse le cerimonie, ma era sempre meglio che annoiarsi.

– D’accordo, promesso. –

 

 

Madame Ilyalisse riceveva gli ospiti in un salottino della propria sontuosa abitazione e un segretario dall’aria poco amichevole si occupava di gestire gli ingressi nella stanza accanto, dove avveniva il colloquio effettivo.

Tutto era sui toni caldi del rosso e dell’oro, grasse poltrone erano sistemate lungo le pareti e un grande tavolino basso al centro esponeva un intero servizio da the con tanto di vassoio colmo di bignè dall’aspetto molto invitante.

Lo stomaco di Regan brontolò.

Stavano per accomodarsi, quando la porta che dava sull’altra stanza si aprì e ne uscì una ragazzina, accompagnata dal padre, un uomo alto e robusto che scambiò con lo zio Tristan un saluto cerimonioso e offrì invece ad Arista un profondo inchino. La ragazzina, che doveva essere sua figlia, a vedere quanto si somigliavano, fece lo stesso.

Era indubbiamente più piccola di Regan ed le indirizzò un’occhiata in tralice che scese immediatamente alla spilla che le fermava il mantello su una spalla. La sconosciuta dovette riconoscere il blasone degli Edelberg – una spada incastonata verticalmente nel fianco di un monte – perché la sua bocca assunse una piega rigida e ostile e, nasino all’insù, tirò dritto a braccetto con il padre.

Regan la guardò andare via con una punta di invidia: si muoveva con un’eleganza incredibilmente naturale ed era molto graziosa, con forme molto sviluppate, per la sua età.

– Prego, signori, entrate – disse il segretario, distendendo teatralmente un braccio verso la porta.

La prima cosa che Regan vide, entrando, furono occhi metallici che la fissavano da dietro un paio di lenti rettangolari. Non avevano alcuna espressione e forse era questo a renderli così inquietanti. Appartenevano a una donna dai capelli ingrigiti ma ancora scuri, raccolti in una crocchia in cima alla testa. Le labbra rugose erano contratte su una prominente dentatura cavallina che si accompagnava perfettamente al viso lungo e scarno e alle dita nodose, che teneva incrociate davanti a sé al di sopra della bellissima scrivania di mogano.

Lo zio e la zia fecero una breve reverenza, cosa che Regan trovò strana, poiché, in quanto nobili, erano a lei socialmente superiori.

– Madame Ilyalisse. Questa è nostra nipote Regan. –

La zia le diede una piccola spinta discreta e lei mosse un passo in avanti. Si esibì a sua volta nell’inchino più studiato e impeccabile che le fosse mai riuscito e quando si risollevò la donna parve non avere nulla da rimproverarle.

Non ancora.

La fissò a lungo, invece, e Regan sapeva esattamente perché: occhi troppo verdi, capelli di un rosso impossibile. Colori pericolosi, che richiamavano alla memoria le antiche leggende su Lucifero, con cui lei aveva molto più in comune che un paio di banali tratti fisici, ma questo era un suo piccolo segreto.

Poi, senza dire una parola, Madame Ilyalisse fece garbatamente cenno loro di occupare le tre sedie intarsiate che le stavano di fronte. Quella di mezzo, presumibilmente destinata a Regan, non possedeva imbottitura.

C’erano targhe e quadri con blasoni appesi alle pareti, alcuni dei quali talmente lisi e scoloriti da dover essere veri e propri cimeli storici. Sulla parete in fondo, alle spalle della sensale, erano affissi dei ritratti di coppie che a Regan sembravano più o meno tutte uguali: ricchi abiti ed espressioni fiere. Una di queste catturò la sua attenzione: l’uomo era avvenente, ma era la donna a interessarla – bionda e regale – perché i suoi occhi verde ghiaccio erano molto familiari.

– Lord Edelberg, Lady Edelberg, è un piacere rivedervi. Lady Regan, benvenuta. –

Regan trattenne una sbuffata. Madame Ilyalisse non l’aveva nemmeno considerata nel pronunciare il suo nome e, osservandola mentre si sistemava gli occhiali sul naso facendo oscillare la loro catenella dorata, iniziò a intuire perché la zia avesse tanto insistito a farle promettere di stare zitta in qualsiasi caso.

– Figlia di un Edelberg e di una Dresden… non si può certo dire che non sia unica nel suo genere. – Le labbra della donna si corrugarono sottintendendo un certo disappunto. – Vostro fratello fu diseredato, milord, quindi la ragazza formalmente non ha patrimonio. Avete già preso accordi con Lord e Lady Dresden circa la dote della ragazza? –

– Non ancora, ma sarei più che lieto di provvedere personalmente alla questione. –

– Dato che sostenete che vostro fratello e Lady Aranel erano sposati, la vostra famiglia e la famiglia Dresden sono legate e non spetta esclusivamente a voi stabilire una dote per la ragazza. –

– Non c’è alcuna fretta, da questo punto di vista, Madame. Sistemeremo tutto a suo tempo, con calma, quando Regan sarà pronta ad affrontare un’altra ondata di novità. –

Madame Ilyalisse corrugò le labbra ma non questionò oltre.

Si alzò in piedi e fece alzare anche Regan, iniziando a esaminarla come se fosse stata una partita di seta in cui riscontare eventuali difetti di fabbricazione.

– È acerba, per la sua età. –

Andò aventi con una imbarazzante serie di domande fin troppo intime e personali che, secondo il modesto parere di Regan, non si sarebbero mai dovute discutere in presenza di un uomo, soprattutto uno zio. Era sempre Arista, infatti, a rispondere.

Poi, senza preavviso, la donna le afferrò la gonna e gliela sollevò sopra le ginocchia, scoprendo la biancheria intima.

– Gambe secche, fianchi troppo stretti, petto quasi completamente piatto. L’età è adatta, ma… santo cielo, non spererete che qualcuno possa vedere in lei una potenziale nuora, mi auguro. –

– Il motivo della nostra premura di presentarla in società è evitare che si spargano dicerie infondate e sconvenienti. Regan è ancora una bambina, non c’è alcuna fretta di accasarla. –

– Come anni fa non c’era alcuna fretta di accasare vostra figlia Anneli, del resto. –

– Non siamo qui per discutere di Anneli – puntualizzò Tristan asciutto, prendendo parola per la prima volta.

La donna, allora, afferrò in malo modo le mani di Regan, le ricacciò indietro le maniche che le sfioravano il dorso e prese ad studiarle da vicino, polpastrello per polpastrello.

– Molto bene, se non altro ha delle mani da signora. Niente calli, graffi e unghie rovinate. –

La descrizione era così precisa e mirata che Regan non poté non cogliere l’allusione: Anneli, che abitualmente maneggiava armi e briglie da equitazione quanto e forse più dei suoi fratelli, aveva delle mani così.

Le mani di una lavoratrice, non certo di una nobile.

Quelle di Regan, invece, erano morbide e nivee, prive di qualsiasi tipo di segno, e in quel momento, mentre le fissava, capì di non volere delle mani così, bianche e vuote. Voleva mani che parlassero di una vita vissuta.

Alla fine, dopo un tempo che a lei parve interminabile, la tortura giunse al termine e Madame Ilyalisse, aggiustandosi gli orribili occhialetti sul naso, pronunciò la sua sentenza:

– Potete presentare vostra nipote la sera dell’Equinozio di Primavera, signori. Provvedete perlomeno a darle una parvenza di femminilità. –

Nell’indecisione tra arrossire e infuriarsi, Regan optò per la seconda, sebbene sentisse comunque un certo calore iniziare a concentrarsi attorno al suo viso. Enumerò mentalmente una lunga serie di epiteti a mascella contratta, concentrandosi con tutte le sue forze sulla promessa che aveva fatto alla zia, ma si accorse che Madame Ilyalisse la stava fissando, gli occhi severamente assottigliati, le narici dilatate.

– Ragazza, modera i tuoi pensieri, se non sei in grado di tenerli occultati. –

Regan si strinse la testa nelle spalle, sentendo le nocche dello zio scricchiolare attorno al suo bastone da passeggio.

– Perdonatela, Madame. È orfana da sempre ed è cresciuta lontana da noi, non ha potuto essere educata convenientemente – intervenne la zia con una prontezza stupefacente.

La sensale sollevò il naso in un modo che a Regan fece solo venire voglia di romperglielo.

Madame Ilyalisse si tolse gli occhiali, richiuse le asticelle con una calma più che ostentata e le li appoggiò al petto.

– Questa scusa è accettabile ora, milady – dichiarò infine, a voce molto bassa. – Ma fate in modo di non averne più bisogno prima che abbia perso credibilità. Lasciate che vi dia un consiglio, signori: mantenete una presa salda su questa ragazza. Un’indole indomita attira solo guai e disgrazie e accompagnata a questi colori funesti – e fece un cenno vero Regan e i suoi capelli scarlatti. – Non può certo essere sottovalutata. Disciplinatela, finché... –

 

 

– Disciplinatela, finché è ancora malleabile! –

– Cugina, dimmi che non è vero che mi sono perso una scena madre del genere, ti supplico! –

– Hey, Mariek, dovremmo comprare un guinzaglio a questa piccola Edelberg selvaggia, non credi? –

– Forse anche una museruola. –

Regan si strinse la sciarpa intorno a collo, paonazza.

Passeggiava assieme ai cugini per le vie del centro di Kauneus e si faceva bene attenzione a tenersi qualche passo avanti a loro, perché Ember e Mariek ridevano di lei ormai da dici minuti filati e non volevano saperne di smetterla di farsi beffe di lei. Anneli, a braccetto con Aiden, le camminava accanto e di tanto in tanto la occhieggiava con qualcosa di simile alla compassione nello sguardo.

– Mi chiedo che cosa ci sia nel sangue delle donne della nostra famiglia – si stava domandando Mariek, asciugandogli gli occhi. – Voglio dire, zia Malissa era una tosta: si ribellò al marito violento… –

– Lo uccise – sottilizzò Aiden. – E fu condannata a morte. –

Condanna che non fu mai eseguita, pensò Regan, a cui sarebbe piaciuto poter condividere con gli altri quell’informazione, ma non poteva. Era un Segreto e lei, anche se avesse voluto, non avrebbe mai potuto rivelarlo.

Mariek ignorò il commento:

– Zia Persefone è stata la prima donna della famiglia ad andare alla Domus Aurea e, non paga, anziché limitarsi a fare la mogliettina e mammina perfetta, è diventata Coordinatore e se ne va in giro a prendere a calci i criminali. Anneli è sulla buona strada per seguirla… –

– Anche se, al posto dei criminali, preferisce prendere a calci i suoi spasimanti – si intromise Ember.

– E adesso – proseguì l’altro imperterrito. – Si scopre che la nostra piccola, dolce, ingenua Regan ha bisogno di essere domata. Mi domando quali sorprese ci riserverà Luce! – Rovesciò indietro la testa e si abbandonò all’ennesima risata.

– Ricordatemi di non fare figlie femmine, fratelli! –

– Ignorali – disse Anneli. – Sono solo una coppia di… –

Regan non seppe mai quale sentitissimo complimento Anneli intendesse rivolgere ai gemelli, perché uno strillo abbastanza acuto da ferirle l’orecchio si diffuse per la strada. Non fu difficile riconoscere la tipologia di strillo, i livelli di isteria erano inconfondibili: tipica reazione da zitella che aveva avvistato un succoso scapolo a piede libero. O, per meglio dire, tre succosi scapoli.

– Mariek, Ember, Aiden, che magnifica sorpresa! –

Regan identificò immediatamente la ragazza che attraversava la strada di tutta fretta, facendo sobbalzare la generosa scollatura: Adora Shephard, ricca figlia di mercanti alla caccia di un titolo nobiliare. Non che i titoli nobiliari avessero avuto alcun valore ufficiale negli ultimi secoli, ma possederne uno, seppur per pure questioni di immagine, era un gran prestigio.

Anneli, che non era nemmeno stata inclusa nei saluti, accolse la ragazza nel gelo più completo, ma quest’ultima era talmente presa dai tre ragazzi che nemmeno ci fece caso.

Regan lasciò i suoi cugini a vedersela con l’esuberante fanciulla e andò poco più avanti a curiosare nelle vetrine delle botteghe chiuse.

La sua preferita era quella del fornaio: esponeva una quantità di pagnotte e dolci che riuscivano a rallegrare l’animo solo a guardarli. Sapevano di caldo e di casa. A Regan ricordavano i giorni trascorsi a casa di Lucius, a sfornare torte assieme a Eleonora per poi divorarle assieme a suo figlio Calien.

Eleonora era un’umana e il padre di Calien un demone. Quando lui era morto, Lucius gli aveva promesso di avere cura di Eleonora e del suo bambino e così li aveva portati via dal mondo degli umani, in cui Calien, che cresceva due volte più lentamente dei bambini umani, sarebbe stato guardato come un mostro. Madre e figlio ora vivevano insieme nella casa adiacente a quella di Lucius e spesso Regan aveva sofferto la loro mancanza.

La bottega successiva era quella dello speziale e anche in quella c’era da perderci ore intere. Erbe, spezie e ingredienti per i filtri erano solo la parte più irrilevante; quello che piaceva a Regan era l’enorme vetrina che c’era sulla sinistra, sempre lustra e impeccabile, piena di boccette e fiale di profumi i cui prezzi non erano mai esposti. Non aveva mai sentito l’odore di uno solo di quei profumi, ma adorava i piccoli capolavori di vetro in cui erano custoditi, colorati e delle forme più inusuali, decorati con finissimi ghirigori d’oro e d’argento, lasciati in bella vista a scintillare sotto i raggi del sole che penetrava dalle ampie vetrine. La bottega vendeva anche cosmetici, candele profumate, carta finissima, anch’essa profumata, e molte altre cose, tra cui i preziosi colori di cui si servivano i pittori: erano in polvere, conservati in sacchetti di iuta su un tavolo grezzo, in cui ancora si vedevano le forme e i nodi del legno da cui era stato ricavato, ed erano tinte così belle e sgargianti, così vive, che Regan aveva più volte avuto la tentazione di affondarci le dita per sentirli.

Stava cercando la forza di staccarsi da lì e tornare dagli altri quando scorse nel vetro un fugace riflesso nero alle proprie spalle.

Si voltò, ma non c’era nessuno. Sull’altro lato della strada due bambini si rincorrevano rumorosamente, litigandosi un pezzo di focaccia.

Una carrozza le passò davanti. Cercò di riconoscere lo stemma che portava impresso, perché lo zio ci teneva che lei imparasse a conoscere le famiglie più importanti: un corvo e tre stelle neri su fondo giallo.

– Cassel – sussurrò una voce bassissima al suo orecchio, prima che potesse anche solo rifletterci su.

La reazione fu strana: l’istinto comandava allungare una gomitata all’indietro per il dispetto mentre il cervello elaborava rapidamente il timbro e la cadenza maliziosa della voce, facendole esplodere un fiotto di calore nel cuore. Il risultato fu che si accartocciò maldestramente su sé stessa nel voltarsi di scatto e perse l’equilibrio, finendo per atterrare in un paio di braccia robuste.

   
 
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