3. APPROVAZIONE
You're
sure it’s the only way
But why can’t I
Why can’t I be me?
– Why
Can’t I Be Me, The Cure –
I
vetri vibravano sotto alle
percosse del vento che si scagliava con violenza tra le chiome degli
alberi,
strappando foglie e spezzando rami. Il cielo era ammantato di nuvole
nere che
più a nord stavano vessando le montagne con una tempesta di
quelle che Regan
non si sarebbe mai stancata di vedere. Dalle stanze più alte
della dimora degli
Edelberg si riuscivano a vedere fulmini e saette squarciare
l’oscurità a miglia
e miglia di distanza, uno spettacolo che faceva venire la pelle
d’oca.
La
soffitta era immensa, vuota e
polverosa, e la stasi che la dominava sembrava il respiro silenzioso di
un
pacifico sonno.
La
pendola dello studio al piano
di sotto rintoccò la Seconda mattutina. Il suono
riecheggiò per i corridoi
vuoti del castello fino a giungere a lei come un avvertimento sbiadito.
Lo zio
si sarebbe arrabbiato molto se l’avessero scoperta di nuovo
in piedi a
quell’ora, abbarbicata nello stretto vano della finestra
aperta che si
affacciava su nient’altro che il nulla. Ci aveva provato a
rimanere a letto, ma
l’insonnia era stata inclemente e non appena aveva avvertito
il cambiamento del
tempo non era proprio riuscita a resistere. Adorava passeggiare di
notte per il
palazzo: ogni ombra, ogni scricchiolio del mobilio antico erano un
brivido
lungo la schiena; ormai conosceva ogni angolo a memoria, ma continuava
a
divertirsi a vagabondare di stanza in stanza. Mariek ed Ember le
avevano
raccontato che c’erano dei passaggi segreti in tutti i
castelli antichi e da
qualche parte ce ne dovevano essere anche in casa loro, ma nessuno li
aveva mai
scoperti. Lei si era ripromessa che prima o poi ne avrebbe scovato
almeno uno.
Era
un toccasana starsene seduta lì
a sentire l’aria fresca, profumata di pioggia, che le lambiva
il viso.
Le
doleva la testa, satura di
pensieri come il cielo all’orizzonte era saturo di
elettricità. Gli stessi
lampi che rimbombavano nel nero della notte erano uno specchio perfetto
di quello
che Regan aveva nella sua mente: luci e ombre a brandelli, riflessioni
a pezzi,
subito interrotte da altre riflessioni, ciascuna più
impellente della
precedente, più pesante. Aveva creduto che, una volta
rivelata la sua identità,
tutto sarebbe stato più facile, e invece no: tutto, giorno
dopo giorno, non
faceva che complicarsi. Il che era tutto un dire, visto che la
situazione per
lei era stata complicata fin dall’istante in cui era venuta
al mondo, portatrice
di un’essenza di male pura che una magia antica di secoli le
aveva inculcato
nell’anima. Ora, naturalmente, i custodi di questa magia
avevano il compito di
ucciderla. Tra i pochi che erano a conoscenza di questo piccolo
particolare – e
tra essi i suoi zii ancora non erano inclusi – era diffusa
opinione che lei
fosse assolutamente terrorizzata da questo pericolo che incombeva su di
lei, ma
che tacesse per personale contegno; in concreto, invece, e talvolta si
dava
della sciocca per questo, lei rimaneva indifferente al riguardo, forte
di
un’incoscienza che, diceva sempre Lucius, le derivava dalla
mancanza di
esperienze dirette. In effetti questo punto non era del tutto
sbagliato: per
merito di Derian, che le aveva trasmesso ciò che nella vita
aveva appreso,
Regan sapeva tutto del mondo, eppure non conosceva niente. Di tutte le
nozioni
presenti nella sua memoria, aveva vissuto solo
un’infinitesimale parte, ed era
davvero strano, ogni volta che sperimentava qualcosa, associare la
reale
sensazione che ne traeva al concetto pregresso che già ne
possedeva. Vedere una
cascata, toccare la neve, gustare more e mirtilli, annusare il profumo
dei
mughetti sulla terrazza di zia Persefone, ascoltare le vibrazioni delle
corde
di un violino… tutto era una sorpresa infinita. E in certi
momenti, quando
vedeva un ragazzo e una ragazza passare a braccetto per strada, di
nascosto
quasi anche da se stessa, si chiedeva quando avrebbe vissuto il sapore
di un
bacio.
Non
appena quel pensiero la
sfiorò, chiuse gli occhi e scosse la testa, tentando di
scrollarselo di dosso
come un’insidiosa ragnatela. Non aveva voglia di mettersi a
rimuginare su
Lucius adesso. Del resto, lui non si era nemmeno preso il disturbo di
andare al
parlare con lei del suo colloquio con i Dresden.
Senza
aspettare che lei
rientrasse da una passeggiata con la zia e la piccola Luce, era andato
dritto
da Tristan e aveva riferito tutto a lui. Al suo ritorno, Regan si era
trovata
davanti agli accordi già presi: sarebbe stata ufficialmente
presentata come
Lady Regan Edelberg, legittima figlia di Lord Ardal Edelberg e Lady
Aranel
Dresden. Nessuno avrebbe mai menzionato il fatto che suo padre era
stato
diseredato e che lui ed Aranel avevano coperto le rispettive famiglie
di
vergogna fuggendo insieme come due sguatteri qualsiasi. Ma nessuno
avrebbe
potuto sospettare la verità: lui, cancellato dagli alberi
genealogici e dai
ritratti di famiglia, era stato dichiarato morto dal proprio padre il
giorno
stesso in cui la sua famiglia aveva scoperto cosa aveva fatto e, in
quanto a
lei, i suoi genitori avevano semplicemente denunciato la sua scomparsa,
ma
nessuna ricerca aveva mai prodotto alcun frutto. La versione ufficiale
prevedeva che si fossero sposati in segreto e che, dopo la morte di
lui, lei
avesse abbandonato la creatura che aveva dato alla luce e si fosse
gettata in qualche
fiume per seguire il suo amato nel ritorno alla Madre. Questo avrebbe
salvato
la reputazione di tutti, vivi e defunti, e soddisfatto la sete di
pettegolezzi
delle comari di tutte le Sette Terre. Se poi il tutto soddisfacesse
anche
Regan, nessuno si era premurato di chiederlo.
Lasciò
che le palpebre si
chiudessero mollemente. Le carezze del vento erano seducenti, premurose
come
fresche mani affettuose scese a lenire una febbre interiore. Regan ne
era
rapita al punto tale che si domandò se non potesse
arrischiarsi ad abbandonarsi
alle loro blandizie, cedere a quelle brezze che sembravano chiamarla,
per
vedere se l’avrebbero raccolta tra le loro braccia e
sostenuta nel vuoto.
Riusciva
a vedere il lago appena
al di fuori delle proprietà di famiglia: senza luna o stelle
a farlo
scintillare, era un drappo di velluto nero sconvolto in mille pieghe
nervose, e
mentre lo ammirava poteva quasi avvertire il sentore delle acque gelide
agitarsi sotto alle dita assieme ai nastri di vento.
Sospirò,
e il mondo sospirò con
lei.
Da
qualche parte nelle foreste i
lupi stavano ululando, turbati dalla rapidità dei
cambiamenti atmosferici.
–
Parlano con il vento. –
Regan
sussultò, premendosi una
mano sul cuore che batteva impazzito. Voltandosi, trovò il
maggiore dei suoi
cugini sulla soglia della soffitta.
–
Non intendevo spaventarti. –
Lei
scosse la testa e si raccolse
le ginocchia al petto mentre lui si avvicinava per sederle accanto.
–
Ero solo molto assorta. –
–
Si direbbe che tu subisca il
richiamo della tempesta quasi quanto loro –
osservò Prince, sulla scia di un
altro coro di ululati. Il cuore di Regan batteva un po’
più forte ogni volta
che una di quelle voci selvagge si sollevava nel vento, mescolandosi al
ruggito
della pioggia. In momenti come quello, tutto ciò che lei
avrebbe voluto era
poter mutare forma, essere lupo come loro, e correre a perdifiato verso
la
foresta, incurante dell’acqua e dei tuoni. Semplicemente
libera.
–
Hai uno spirito irrequieto –
Prince fece un sorriso obliquo studiandola di sottecchi. – Il
che non è
esattamente un pregio, per i canoni Edelberg, ma ammiro e un
po’ anche invidio
la tua spontaneità. –
Regan
provò un moto di affetto
verso di lui. La prima impressione che ne aveva avuto era stata di un
giovane
uomo altero ed estremamente posato e quest’impressione non
era cambiata poi di
molto, imparando a conoscerlo, ma una cosa di lui l’aveva
capita in fretta:
l’alterigia non era un suo tratto innato, ma una sorta di
distintivo che aveva
imparato a indossare e smettere a seconda delle occasioni.
Prince
era visibilmente stanco.
Indossava ancora la divisa da Cacciatore con lo stemma dorato della
Lega – la
Stella a sette punte – appuntato al petto, il medesimo
simbolo che, in argento,
con un nucleo rosso rubino, pendeva dalla catenella che gli cingeva il
collo.
Nei suoi occhi provati, tuttavia, c’era un bagliore che Regan
solo di recente
aveva notato.
–
Da qualche tempo sembri più
rilassato. A volte addirittura distratto. –
Il
ricciolo vago che apparve in
un angolo della bocca di Prince denotò che
l’osservazione non lo aveva
infastidito. Considerò il cielo tempestoso, perdendovisi per
qualche istante.
–
Sì, può darsi. –
Regan
stava per domandargli cosa
fosse cambiato, perché anche lei sentiva un profondo bisogno
di sentirsi più
rilassata – anche se a Donna Melyor sarebbe potuto venire un
crollo di nervi se
solo si fosse dimostrata appena più distratta di quanto
già non fosse di suo –
ma Prince si alzò e con un cenno della testa la
invitò a fare lo stesso.
–
Meglio andare a dormire,
adesso, figlia dei lupi. È così tardi che
potrebbe benissimo essere presto,
ormai. –
Le
voltò le spalle e fece per
uscire, ma lei non si mosse.
–
Prince? –
Lui
si fermò sull’uscio.
– Sì? –
Gli
occhi di Regan accarezzarono
le montagne su a Nord, le cime perennemente imbiancante vessate dalle
piogge,
con un affetto quasi anelante.
–
Credi che sia possibile fare
una gita lassù, qualcuno di questi giorni? –
Lui
rimase immobile, fissandola
senza un’espressione, come a cercare di capire se lo volesse
o meno prendere in
giro, poi, una volta appurata la serietà della domanda,
rovesciò indietro la
testa e scoppiò a ridere di gusto.
–
Una gita sulle montagne?
– Lo disse con assoluta ilarità, nemmeno gli
fosse appena stata chiesta la luna. – Regan, tu non hai idea
di quanto siano
basse le temperature lassù, vero? – Si
portò una mano agli occhi per asciugarsi
lacrime divertite. – Sono luoghi a malapena tollerabili in
piena estate,
figuriamoci in primavera quasi nemmeno iniziata! –
Mentre
lui rideva ancora, lei gli
si accostò per appioppargli un ceffone sul braccio. Non
avrebbe mai osato
farlo, prima, ma in quel momento le sembrava di avere a che fare con un
Prince
diverso, più accessibile.
Per
tutta risposta lui le elargì
uno sguardo pieno di tenerezza.
–
Sei una vera Edelberg, non c’è
che dire. –
–
In che senso? –
–
Non lo sai? La nostra famiglia
discende dalle genti che abitavano quei picchi inospitali di cui mi hai
appena
chiesto. Edelberg significa nobili di
montagna. –
Regan
si sentì accendere le
guance di un orgoglioso tepore rosato mentre suo cugino, ancora in vena
ridanciana, la sospingeva fuori, strappandola a quello spettacolo
naturale che
lei avrebbe volentieri ammirato fino alla fine
dell’eternità.
–
Regan? Regan? Regan! –
Non
c’era traccia di lei nelle
stanze da letto, né nella biblioteca, né nella
stanza dei bagni, e nemmeno
dabbasso, nelle cucine. Come svanita nel nulla.
Era
la seconda volta che Donna
Melyor perquisiva l’intero palazzo, ma della ragazza non
c’era proprio traccia
da nessuna parte. Paonazza, i capelli scarmigliati davanti al viso,
impugnò le
sottane e si accinse a ricominciare a setacciare le stanze per la terza
volta.
–
Benedetta Madre, dove si sarà
cacciata quella bambina? –
Era
ancora abbastanza presto, la
mattina era fresca e limpida dopo la nottata ventosa, ed era
pressoché
preoccupante che Regan non fosse ancora sepolta sotto le sue amate
coperte. Di
certo, pensò Melyor, raccattando i vestiti sparsi nelle
stanze dei ragazzi,
aveva scelto il giorno sbagliato per sparire nel nulla.
Spalancò
le persiane di tutte le
camere da letto e chiamò un paio di cameriere
perché rassettassero, poi scese
fino alla sala da pranzo, dove i signori Edelberg e alcuni dei loro
figli si
stavano già godendo una sostanziosa colazione.
Normalmente,
la domenica, la
colazione veniva consumata al Bottondoro,
rinomata sala da the del centro di Kauneus in cui solevano per
tradizione
riunirsi le famiglie più in vista. Era un evento mondano che
tutti trovavano
molto piacevole, ma quella mattina la situazione richiedeva
diversamente: alle
undici in punto Regan sarebbe stata ricevuta da Madame Ilyalisse, la
sensale
che si occupava di valutare le giovani fanciulle e approvare il loro
ingresso
ufficiale in società, e tutti quanti, in casa, avevano la
netta sensazione che
non sarebbe stato un colloquio semplice.
Donna
Melyor ebbe il tempo di far
fluttuare uno sguardo di amorevole soddisfazione verso Mariek ed Ember
– che si
stavano rimpinzando come se non avessero toccato cibo da settimane
– prima di
accorgersi del cipiglio nuvoloso di Lord Tristan.
–
Ebbene? –
–
Non so più dove cercarla,
signore – gemette lei, desolata, con un cumulo di vestiti che
le traboccava tra
le corte braccia pingui. – Tjeren è andato a
guadare nelle scuderie, forse… –
–
Non si trova lì. –
Anneli
era comparsa sulla soglia,
sudata e leggermente rossa in viso, reduce dalla sua cavalcata
mattutina domenicale.
Alle sue spalle apparve Prince, anch’egli in tenuta da
equitazione.
–
Che succede? –
–
Abbiamo perso Regan – gli
comunicò Ember, masticando una badilata di uova strapazzate.
–
Di nuovo – pensò bene di
puntualizzare Mariek.
Aiden,
seduto di fronte a loro,
volse gli occhi al soffitto. Anneli, invece, si lasciò
scappare un sorriso
beffardo.
–
Perché la cosa non mi sorprende?
–
–
Siediti, pettegola – la zittì
Prince, spingendola verso il tavolo. Una cameriera che stava entrando
con un
vassoio di dolcetti si fermò per cedere loro il passo con un
piccolo inchino
nervoso.
–
Proprio oggi doveva mettersi a
giocare a nascondino… – borbottò Lord
Tristan fra sé mentre il suo coltello scricchiolava
spiacevolmente contro la porcellana del piatto, causando sibili
infastiditi da
parte dei ragazzi.
Anneli
si fece servire del the
bollente e non prese altro. Per contro, Donna Melyor prese un piatto,
lo riempì
di pietanze e glielo piazzò davanti con
un’occhiata tagliente che dissuase la
ragazza da qualsivoglia protesta. Solo quando Anneli iniziò
a mangiucchiare una
frittella di malavoglia la governante si degnò di
allontanarsi, supervisionando
la situazione in attesa di nuove istruzioni.
Lady
Arista, che teneva la
piccola Luce sulle ginocchia e la aiutava a mangiare, fece per alzarsi.
–
Forse è meglio che la vada a
cercare io. Melyor, vorresti pensare tu a Luce, per favore? –
–
Lasciala a me, mamma – disse
Prince, allungando le braccia verso la sorellina. – Melyor
non ha ancora
toccato cibo. Siediti – aggiunse, Luce aggrappata al collo,
facendo cenno alla
donna di prendere posto.
La
cameriera che aveva portato i
dolcetti se ne andò con un’espressione risentita.
Melyor e suo marito Tjeren
godevano di un trattamento di favore da parte dagli Edelberg, in quanto
servivano fedelmente la famiglia da ben tre generazioni e lei aveva
aiutato le
ultime due padrone a crescere i loro ragazzi con lo stesso amore di una
madre
naturale.
Arista
lasciò quindi Luce a Prince,
si passò il tovagliolo sulla bocca e poi lasciò
la tavola, seguita dagli occhi
severi del marito.
Era
difficile dire se il
frenetico scalpiccio che si sentiva echeggiare tra le pareti umide
appartenesse
a Mello che saettava qua e là in preda
all’incontenibile gioia di scoprire un
posto nuovo oppure se fossero semplicemente i topi che dimoravano
là sotto, ma
non era importante.
Regan
rigirò un paio di volte la
mappa che aveva in mano e corrugò la fronte. Non aveva idea
che i sotterranei
di casa Edelberg fossero così vasti.
Dopo
averla ripresa svariate
volte a causa dei suoi vagabondaggi notturni, lo zio le aveva detto che
avrebbe
fatto meglio a smetterla o avrebbe finito per smarrirsi da qualche
parte. Il
che era credibile, perché il castello era veramente enorme e
tutti i corridoi
si somigliavano tra di loro, ma durante una delle numerose incursioni
in
biblioteca durante le lunghe, cupe giornate invernali Regan era
riuscita a
scovare quella cartina ammuffita in mezzo a una dozzina di libri di
araldica e,
non senza un bel po’ di fatica, aveva imparato ad usarla.
I
sotterranei, secondo il
disegno, all’alba dei loro tempi avevano svolto la funzione
di prigione, e in
effetti lungo il vasto corridoio centrale si aprivano numerosi varchi
chiusi da
pesanti grate arrugginite che avevano tutta l’aria di essere
celle. Da qualche
parte ci doveva essere anche una ghiacciaia, un deposito per le armi e
una
grande stanza ottagonale che apparentemente non serviva a nulla.
Da
quelle parti era abbastanza
freddo e umido perché ogni respiro si trasformasse in bianca
condensa davanti
al viso. Era anche molto buio, tanto che la candela che Regan si era
portata
appresso bastava appena a farle vedere poco più in
là del suo naso. Oltre
l’alone di luce gialla, l’oscurità si
infittiva progressivamente fino a
perdersi in distanza in un occhio cieco.
Regan
era elettrizzata
dall’atmosfera di quel luogo, ma sapeva anche che atti turpi
si erano consumati
dietro alle porte chiuse che incontrava, cose risalenti a ere ormai
concluse in
cui intrighi, tradimenti e omicidi erano stati all’ordine del
giorno,
soprattutto tra le casate nobiliari. Dopotutto un motivo
c’era se gli Edelberg
si erano fatti il nome di Scudo del Re.
Trasalì
quando vide qualcosa di
nero attraversarle inaspettatamente il cammino.
–
Attento! – disse la grosso
ragno che, scampato il pericolo, se la svignava in fretta e furia in
una
fessura nel muro. – Potevo calpestarti! –
Le
pantofole avevano suole
morbide che non producevano alcun rumore contro il pavimento di pietra
e questo,
se possibile, rendeva tutto ancora più sinistro.
Si
era svegliata di buonora e non
aveva perso del tempo prezioso a cambiarsi. Peccato solo che ora la sua
camicia
da notte fosse umida e non troppo pulita e che la sua treccia avesse
raccolto
qualche ragnatela di troppo nel discendere la vertiginosa scala a
chicciola che
conduceva laggiù. Non aveva avuto altra scelta, comunque,
perché l’accesso
principale ai sotterranei era stato sbarrato e probabilmente anche
protetto con
qualche sigillo e non ci sarebbe stato verso di forzarlo.
Il
passaggio che aveva usato lei
lo aveva scovato per caso nella dispensa delle cucine, nascosto dietro
uno
scaffale pieno di mazzi essiccati di piante aromatiche, ed era stato
grazie
alla piantina che aveva capito che cos’era. Non si trattava
propriamente di un
passaggio segreto di quelli che avrebbe voluto svelare lei, ma per
adesso
poteva accontentarsi.
Scrutava
gli spazi angusti che la
circondavano con avida curiosità – quella
curiosità che così spesso le veniva
rimproverata – e acuiva la vista per riuscire a vedere anche
negli angoli più
nascosti, dietro a statue decrepite e dentro a nicchie polverose. Anche
se non
stava cercando niente di particolare, non le sarebbe dispiaciuto
trovare
qualche oggetto vagamente interessante da potersi tenere.
Un
alito gelido sul collo la fece
rabbrividire e pentire di non essersi coperta meglio. Prese appunto
mentale di
portarsi almeno uno scialle, la prossima volta.
Una
goccia d’acqua le cadde sul
naso mentre cercava di scavalcare indenne una pozzanghera che si era
formata al
centro del passaggio. Sapeva che i suoi capelli dovevano essere un
disastro e
sentiva le ciocche sfuggite alla treccia che si increspavano per la
troppa
umidità. Una vocina fastidiosa nella sua testa
borbottò qualcosa a proposito di
un appuntamento importante e dell’assoluta
necessità di essere impeccabile, ma
lei non la sentì, perché i suoi pensieri
galoppavano altrove, liberamente
sguinzagliati in fantasie che fluttuavano verso la storia antica di
quei
sotterranei e l’incredibile quantità di segreti
che avevano raccolto nei
secoli.
Qualcosa
di soffice le sfiorò le
caviglie. Guardò in giù e nel cono di luce
intravide gli occhioni neri di Mello
che la fissavano pieni di aspettativa. Vide che tra le zampette teneva
un coccio
di vetro.
–
Mettilo giù, stupido, finirai
per tagliarti! –
Dopo
un istante di silenzio, il
rumore del vetro che cadeva a terra echeggiò per il
sotterraneo, seguito dalla
scia della fuga ovattata della bestiola, probabilmente alla ricerca di
altri
tesori.
Regan
si domandò come mai quel
piccolo furfante fosse disposto a darle retta solo quando sgraffignava
di
oggetti senza alcun valore.
Uno
spiffero fece vibrare la
fiamma della candela fin quasi a spegnerla. La protesse con la mano,
temendo di
non riuscire a riaccenderla con il solo ausilio dei propri poteri, in
caso si
fosse spenta. Aveva ancora qualche difficoltà, da quel punto
di vista.
Si
volse verso la propria destra.
Le era sembrato che l’alito di aria avesse spirato proprio da
lì, ma si era
sicuramente sbagliata. Non c’era un corridoio ad aprirsi, da
quella parte: il
muro di pietra era solido e compatto.
Aveva
già allungato la mano a
cercare un’eventuale punto di fuga, quando
qualcos’altro attirò la sua
attenzione. Era a una decina di passi da lei, vicino a una delle statue
dalle
sembianze di cavalieri che adornavano il corridoio: un’ombra,
o qualcosa che di
un’ombra aveva la consistenza, più nera del nero
stesso che la circondava, come
se nemmeno i bagliori della candela potessero farla impallidire.
Tenebra pura e intoccabile.
Regan non si mosse. Le sue
labbra si schiusero
di un soffio mentre la testa si inclinava leggermente di lato. La
fiamma della
candela fremette angosciosamente.
Le
spalle di Regan vennero
lambite da un intenso sentore di gelo che penetrò fino alle
ossa.
La
cosa era immobile davanti a lei e
appariva più densa dell’aria in
cui indugiava, impossibile guardarvi attraverso, perché
sembrava assorbire e
neutralizzare anche il più piccolo raggio di luce che
cercava di raggiungerla.
I
battiti del cuore di Regan
acquisirono una velocità folle senza che lei se ne
accorgesse. Le sue gambe si
erano fatte pesanti come piombo e non sarebbe riuscita a muoverle anche
se
l’idea l’avesse sfiorata. Ma non era
così.
Avrebbe
potuto benissimo fare
dietrofront e tornare da dov’era venuta, chiudersi dietro
tutte le porte e
sbucare nella profumata sicurezza della cucina, eppure se ne restava
lì, come
in trance, a dirsi che quello sarebbe stato un buon momento per
mostrare un po’
di sano buonsenso e mettersi a tremare di paura. Benché se
lo stesse ripetendo
ormai da un po’, tuttavia, non funzionava.
D’altra
parte era solo un’ombra…
che male avrebbe potuto farle?
Acuì
ogni singolo senso nel
tentativo di percepire di più. Chiuse gli occhi e si mise in
ascolto, non solo
con le orecchie, ma con tutta sé stessa.
Sentì
il freddo strisciare lungo
il pavimento e salirle sulle caviglie nude. Un’immagine, come
un lampo, le
balenò dietro alle palpebre chiuse, schizzi di un rosso
familiare, che si
frantumarono nel vuoto assieme al risuonare distante di un urlo
straziante.
–
Regan! –
Il
portacandela precipitò a terra
con un assordante schianto metallico. Il tronco di cera si
spezzò, la fiamma
morì. L’odore pungente del fumo entrò
nella gola di Regan, causandole una
sgradevole sensazione di asfissia.
Si
voltò, una mano premuta sul
cuore e l’altra aggrappata alla parete, e vide che in fondo
al corridoio, da
dove era venuta lei, c’era qualcosa di luminoso che si stava
muovendo nella sua
direzione.
–
Regan? Va tutto bene? –
La
voce premurosa di zia Arista
la raggiunse e avvolse come una carezza. Riaprì gli occhi di
scatto e si guardò
indietro: l’ombra, o qualunque cosa fosse, non
c’era più, tanto che si chiese
se non se la fosse solo immaginata.
La
zia la raggiunse, una lampada
a olio in mano, e la esaminò accuratamente. A giudicare dal
sospiro
sconfortato, non le erano sfuggite né le ragnatele
né lo stato disastroso dei
capelli e chissà che altro.
–
C’era qualcosa… un’ombra…
–
farfugliò, ma la zia non badò a lei. E poi che
cosa le avrebbe potuto dire? Era
ovvio che dove c’era luce ci fossero anche delle ombre.
–
Oh, tesoro… era proprio
necessario che ti mettessi a fare l’esploratrice proprio
stamattina? Melyor è
impazzita a cercarti, tuo zio ha i nervi a fior di pelle…
–
Regan
era felice di vederla, ma
non si spiegava come fosse arrivata fin lì.
–
Come hai fatto a…? –
–
Pensi di poter spostare un solo
granello di farina nella dispensa di Nella senza che lei se ne accorga?
Come
hai fatto tu, piuttosto, a trovare
quel passaggio? –
Arrossendo
fino alla punta dei
capelli, Regan sollevò la mappa che aveva in mano a
mo’ di spiegazione. L’aveva
ridotta a un cartoccio informe senza accorgersene.
Dando
prova di grande saggezza,
la zia evitò di fare commenti; prese Regan per mano e se la
portò via. Non
sembrava tanto arrabbiata, e questo contribuì solo a far
sentire Regan ancora
più in colpa.
Si
sentì miserabile ed egoista
per tutto il tragitto di ritorno. Arista era sempre fin troppo gentile
con lei,
ma una tirata d’orecchie da parte di Donna Melyor niente e
nessuno gliela
avrebbe risparmiata, senza contare il terrore di quel che avrebbe
potuto dire
lo zio Tristan.
Il
fatto era che davvero non si
era resa conto che fosse così tardi. Si accorse
dell’ora solo quando, passando
dalla dispensa alla cucina, vide il sole già alto e
splendente nel cielo.
–
La Nona passata! – ululò Donna
Meloyr quando la vide arrivare nell’anticamera della sala da
pranzo. A un
secondo sguardo più attento, poi, inorridì del
tutto: – Che cosa ti è successo?
Sei… sembri… – Non trovò
parole abbastanza raccapriccianti per definire la
tragicità della situazione, e fu un bene, perché
più tardi, mentre spediva
Regan dritta filata a immergersi in una vasca da bagno piena di acqua
gelata (–
Sarebbe stata calda, se tu la avessi usata quando dovevi! –
), ebbe modo di
dare sfogo a tutte le frustrazioni represse durante la difficile
mattinata.
–
Incosciente, ecco cosa sei! E
se ti fosse successo qualcosa e la cuoca non si fosse accorta del
disordine in
dispensa? E se fossi morta laggiù, come un povero ratto
smarrito? O, peggio
ancora, se tu avessi tardato ancora a tornare e milord e milady fossero
stati
costretti a presentarti in quelle condizioni al cospetto di quella
vecchia
bisbetica? –
Regan
soprassedette sul
discutibile concetto di priorità della donna.
Meloyr
le lavò i capelli e,
finito il bagno, la trascinò davanti al camino
affinché asciugassero più in
fretta mentre glieli pettinava con un’energia tale che lei
temette che glieli
avrebbe strappati tutti.
Venne
imbrattata di cipria – a
che scopo, poi, dato che si considerava già sufficientemente
smorta, non lo
avrebbe mai capito – e profumata per bene, ingioiellata in
modo sobrio e
consono alla sua giovane età. Pensò che i cavalli
dovevano sentirsi esattamente
come si sentiva lei adesso quando venivano strigliati e agghindati per
una parata
ufficiale: immensamente impotenti e altrettanto ridicoli.
Più
di un’ora dopo, infagottata
in un abito oscenamente vezzoso che le faceva venire il prurito solo a
vederlo,
con lo stomaco vuoto e di pessimo umore, fu piazzata su una carrozza
assieme
allo zio e alla zia alla volta della città.
–
Mi raccomando, cuginetta, sii
docile e mansueta come un agnellino e andrà tutto bene!
– le urlò uno dei
gemelli dall’alto dell’ingresso del palazzo.
–
In poche parole, andrà tutto a
rotoli – concluse l’altro gemello, sghignazzando
mentre la sua voce echeggiava
all’interno del cortile.
Regan
sospirò, depressa, e si
accasciò contro il sedile a braccia conserte.
Tenne
gli occhi chiusi, sia per
non vedere il vestito, sia perché continuava a pensare a
quella specie di ombra
nera e il paesaggio la distraeva. Avrebbe potuto chiedere a Lucius se
sapesse
qualche cosa in merito, se solo lui si fosse degnato di farsi vivo o di
dare
almeno qualche notizia. Era troppo orgogliosa per ammetterlo con
qualcuno, sé
stessa per prima, ma odiava essere diventata solo un particolare
trascurabile
delle vita di Lucius, dopo essere stata al centro delle sue attenzioni
tanto a
lungo.
A
metà strada, però, fu costretta
a tornare alla realtà, perché Arista le prese una
mano e se la strinse tra le
sue:
–
Regan – la zia la guardò
intensamente, con una velata supplica nel tono e nello sguardo.
– Questo
incontro che stiamo per fare è molto importante. So che hai
già partecipato a
qualche festa e sai già come funzionano, ma adesso hai un
nome e uno stato
sociale ed è quindi necessario che si facciano le cose come
si deve. Madame
Ilyalisse ha il compito di esaminare le giovani donne e stabilire se
sono
pronte a fare il loro ingresso in società. Noi non
intendiamo privarti della
libertà di goderti gli eventi mondani, ma tu questa
libertà te la dovrai
guadagnare. – Scambiò con il marito
un’occhiata ansiosa. – Qualunque cosa
dirà
Madame Ilyalisse, tu non replicare. Si rivolgerà a me a tuo
zio e saremo noi a
rispondere. Tu devi fingere di non sentire e di non saper parlare,
qualunque
cosa lei dica. Promettimelo. –
Regan
trovava l’intera questione
del tutto insensata. Se era a lei a dover essere presa in esame, allora
avrebbe
avuto senso che fosse lei a parlare con quella donna.
–
Io… –
–
Regan! –
C’erano
ancora un’infinità di
cose che lei non sapeva, dopotutto. Imparare le buone maniere era stato
un
requisito fondamentale per la sua nuova posizione, ma non era
sufficiente.
Forse, ripensandoci, lasciar parlare gli zii era davvero la cosa
migliore. Non era
più stata a una festa o a un evento mondano da quando aveva
scoperto chi era e
non aveva nessuna voglia di continuare a restarsene chiusa in casa
mentre tutti
gli altri andavano a divertirsi. Non si poteva dire che amasse le
cerimonie, ma
era sempre meglio che annoiarsi.
–
D’accordo, promesso. –
Madame
Ilyalisse riceveva gli
ospiti in un salottino della propria sontuosa abitazione e un
segretario
dall’aria poco amichevole si occupava di gestire gli ingressi
nella stanza
accanto, dove avveniva il colloquio effettivo.
Tutto
era sui toni caldi del
rosso e dell’oro, grasse poltrone erano sistemate lungo le
pareti e un grande
tavolino basso al centro esponeva un intero servizio da the con tanto
di
vassoio colmo di bignè dall’aspetto molto
invitante.
Lo
stomaco di Regan brontolò.
Stavano
per accomodarsi, quando la
porta che dava sull’altra stanza si aprì e ne
uscì una ragazzina, accompagnata
dal padre, un uomo alto e robusto che scambiò con lo zio
Tristan un saluto
cerimonioso e offrì invece ad Arista un profondo inchino. La
ragazzina, che
doveva essere sua figlia, a vedere quanto si somigliavano, fece lo
stesso.
Era
indubbiamente più piccola di
Regan ed le indirizzò un’occhiata in tralice che
scese immediatamente alla
spilla che le fermava il mantello su una spalla. La sconosciuta dovette
riconoscere il blasone degli Edelberg – una spada incastonata
verticalmente nel
fianco di un monte – perché la sua bocca assunse
una piega rigida e ostile e,
nasino all’insù, tirò dritto a
braccetto con il padre.
Regan
la guardò andare via con
una punta di invidia: si muoveva con un’eleganza
incredibilmente naturale ed
era molto graziosa, con forme molto sviluppate, per la sua
età.
–
Prego, signori, entrate – disse
il segretario, distendendo teatralmente un braccio verso la porta.
La
prima cosa che Regan vide,
entrando, furono occhi metallici che la fissavano da dietro un paio di
lenti
rettangolari. Non avevano alcuna espressione e forse era questo a
renderli così
inquietanti. Appartenevano a una donna dai capelli ingrigiti ma ancora
scuri,
raccolti in una crocchia in cima alla testa. Le labbra rugose erano
contratte
su una prominente dentatura cavallina che si accompagnava perfettamente
al viso
lungo e scarno e alle dita nodose, che teneva incrociate davanti a
sé al di
sopra della bellissima scrivania di mogano.
Lo
zio e la zia fecero una breve
reverenza, cosa che Regan trovò strana, poiché,
in quanto nobili, erano a lei
socialmente superiori.
–
Madame Ilyalisse. Questa è
nostra nipote Regan. –
La
zia le diede una piccola
spinta discreta e lei mosse un passo in avanti. Si esibì a
sua volta
nell’inchino più studiato e impeccabile che le
fosse mai riuscito e quando si
risollevò la donna parve non avere nulla da rimproverarle.
Non ancora.
La
fissò a lungo, invece, e Regan
sapeva esattamente perché: occhi troppo verdi, capelli di un
rosso impossibile.
Colori pericolosi, che richiamavano alla memoria le antiche leggende su
Lucifero, con cui lei aveva molto più in comune che un paio
di banali tratti
fisici, ma questo era un suo piccolo segreto.
Poi,
senza dire una parola,
Madame Ilyalisse fece garbatamente cenno loro di occupare le tre sedie
intarsiate che le stavano di fronte. Quella di mezzo, presumibilmente
destinata
a Regan, non possedeva imbottitura.
C’erano
targhe e quadri con
blasoni appesi alle pareti, alcuni dei quali talmente lisi e scoloriti
da dover
essere veri e propri cimeli storici. Sulla parete in fondo, alle spalle
della
sensale, erano affissi dei ritratti di coppie che a Regan sembravano
più o meno
tutte uguali: ricchi abiti ed espressioni fiere. Una di queste
catturò la sua
attenzione: l’uomo era avvenente, ma era la donna a
interessarla – bionda e
regale – perché i suoi occhi verde ghiaccio erano
molto familiari.
–
Lord Edelberg, Lady Edelberg, è
un piacere rivedervi. Lady Regan, benvenuta. –
Regan
trattenne una sbuffata.
Madame Ilyalisse non l’aveva nemmeno considerata nel
pronunciare il suo nome e,
osservandola mentre si sistemava gli occhiali sul naso facendo
oscillare la
loro catenella dorata, iniziò a intuire perché la
zia avesse tanto insistito a
farle promettere di stare zitta in qualsiasi caso.
–
Figlia di un Edelberg e di una
Dresden… non si può certo dire che non sia unica
nel suo genere. – Le labbra
della donna si corrugarono sottintendendo un certo disappunto.
– Vostro
fratello fu diseredato, milord, quindi la ragazza formalmente non ha
patrimonio. Avete già preso accordi con Lord e Lady Dresden
circa la dote della
ragazza? –
–
Non ancora, ma sarei più che
lieto di provvedere personalmente alla questione. –
–
Dato che sostenete che vostro
fratello e Lady Aranel erano sposati, la vostra famiglia e la famiglia
Dresden
sono legate e non spetta esclusivamente a voi stabilire una dote per la
ragazza. –
–
Non c’è alcuna fretta, da
questo punto di vista, Madame. Sistemeremo tutto a suo tempo, con
calma, quando
Regan sarà pronta ad affrontare un’altra ondata di
novità. –
Madame
Ilyalisse corrugò le
labbra ma non questionò oltre.
Si
alzò in piedi e fece alzare
anche Regan, iniziando a esaminarla come se fosse stata una partita di
seta in
cui riscontare eventuali difetti di fabbricazione.
–
È acerba, per la sua età. –
Andò
aventi con una imbarazzante
serie di domande fin troppo intime e personali che, secondo il modesto
parere di
Regan, non si sarebbero mai dovute discutere in presenza di un uomo,
soprattutto uno zio. Era sempre Arista, infatti, a rispondere.
Poi,
senza preavviso, la donna le
afferrò la gonna e gliela sollevò sopra le
ginocchia, scoprendo la biancheria
intima.
–
Gambe secche, fianchi troppo
stretti, petto quasi completamente piatto. L’età
è adatta, ma… santo cielo, non
spererete che qualcuno possa vedere in lei una potenziale nuora, mi
auguro. –
–
Il motivo della nostra premura
di presentarla in società è evitare che si
spargano dicerie infondate e
sconvenienti. Regan è ancora una bambina, non
c’è alcuna fretta di accasarla. –
–
Come anni fa non c’era alcuna
fretta di accasare vostra figlia Anneli, del resto. –
–
Non siamo qui per discutere di
Anneli – puntualizzò Tristan asciutto, prendendo
parola per la prima volta.
La
donna, allora, afferrò in malo
modo le mani di Regan, le ricacciò indietro le maniche che
le sfioravano il
dorso e prese ad studiarle da vicino, polpastrello per polpastrello.
–
Molto bene, se non altro ha
delle mani da signora. Niente calli, graffi e unghie rovinate.
–
La
descrizione era così precisa e
mirata che Regan non poté non cogliere
l’allusione: Anneli, che abitualmente
maneggiava armi e briglie da equitazione quanto e forse più
dei suoi fratelli,
aveva delle mani così.
Le mani di una lavoratrice, non certo di una nobile.
Quelle
di Regan, invece, erano
morbide e nivee, prive di qualsiasi tipo di segno, e in quel momento,
mentre le
fissava, capì di non volere delle mani così,
bianche e vuote. Voleva mani che
parlassero di una vita vissuta.
Alla
fine, dopo un tempo che a lei
parve interminabile, la tortura giunse al termine e Madame Ilyalisse,
aggiustandosi gli orribili occhialetti sul naso, pronunciò
la sua sentenza:
–
Potete presentare vostra nipote
la sera dell’Equinozio di Primavera, signori. Provvedete
perlomeno a darle una
parvenza di femminilità. –
Nell’indecisione
tra arrossire e
infuriarsi, Regan optò per la seconda, sebbene sentisse
comunque un certo
calore iniziare a concentrarsi attorno al suo viso. Enumerò
mentalmente una
lunga serie di epiteti a mascella contratta, concentrandosi con tutte
le sue
forze sulla promessa che aveva fatto alla zia, ma si accorse che Madame
Ilyalisse la stava fissando, gli occhi severamente assottigliati, le
narici
dilatate.
–
Ragazza, modera i tuoi
pensieri, se non sei in grado di tenerli occultati. –
Regan
si strinse la testa nelle
spalle, sentendo le nocche dello zio scricchiolare attorno al suo
bastone da
passeggio.
–
Perdonatela, Madame. È orfana
da sempre ed è cresciuta lontana da noi, non ha potuto
essere educata
convenientemente – intervenne la zia con una prontezza
stupefacente.
La
sensale sollevò il naso in un
modo che a Regan fece solo venire voglia di romperglielo.
Madame
Ilyalisse si tolse gli occhiali,
richiuse le asticelle con una calma più che ostentata e le
li appoggiò al
petto.
–
Questa scusa è accettabile ora,
milady – dichiarò infine, a voce molto bassa.
– Ma fate in modo di non averne
più bisogno prima che abbia perso credibilità.
Lasciate che vi dia un
consiglio, signori: mantenete una presa salda su questa ragazza.
Un’indole
indomita attira solo guai e disgrazie e accompagnata a questi colori
funesti –
e fece un cenno vero Regan e i suoi capelli scarlatti. – Non
può certo essere
sottovalutata. Disciplinatela, finché... –
–
Disciplinatela, finché è ancora
malleabile! –
–
Cugina, dimmi che non è vero
che mi sono perso una scena madre del genere, ti supplico! –
–
Hey, Mariek, dovremmo comprare
un guinzaglio a questa piccola Edelberg selvaggia, non credi?
–
–
Forse anche una museruola. –
Regan
si strinse la sciarpa
intorno a collo, paonazza.
Passeggiava
assieme ai cugini per
le vie del centro di Kauneus e si faceva bene attenzione a tenersi
qualche
passo avanti a loro, perché Ember e Mariek ridevano di lei
ormai da dici minuti
filati e non volevano saperne di smetterla di farsi beffe di lei.
Anneli, a
braccetto con Aiden, le camminava accanto e di tanto in tanto la
occhieggiava
con qualcosa di simile alla compassione nello sguardo.
–
Mi chiedo che cosa ci sia nel
sangue delle donne della nostra famiglia – si stava
domandando Mariek,
asciugandogli gli occhi. – Voglio dire, zia Malissa era una
tosta: si ribellò
al marito violento… –
–
Lo uccise – sottilizzò Aiden. –
E fu condannata a morte. –
Condanna che non fu mai eseguita,
pensò Regan, a cui sarebbe
piaciuto poter condividere con gli altri quell’informazione,
ma non poteva. Era
un Segreto e lei, anche se avesse voluto, non avrebbe mai potuto
rivelarlo.
Mariek
ignorò il commento:
–
Zia Persefone è stata la prima
donna della famiglia ad andare alla Domus Aurea e, non paga,
anziché limitarsi
a fare la mogliettina e mammina perfetta, è diventata
Coordinatore e se ne va
in giro a prendere a calci i criminali. Anneli è sulla buona
strada per
seguirla… –
–
Anche se, al posto dei
criminali, preferisce prendere a calci i suoi spasimanti – si
intromise Ember.
–
E adesso – proseguì l’altro
imperterrito. – Si scopre che la nostra piccola, dolce,
ingenua Regan ha
bisogno di essere domata. Mi
domando
quali sorprese ci riserverà Luce! –
Rovesciò indietro la testa e si abbandonò
all’ennesima risata.
–
Ricordatemi di non fare figlie
femmine, fratelli! –
–
Ignorali – disse Anneli. – Sono
solo una coppia di… –
Regan
non seppe mai quale
sentitissimo complimento Anneli intendesse rivolgere ai gemelli,
perché uno
strillo abbastanza acuto da ferirle l’orecchio si diffuse per
la strada. Non fu
difficile riconoscere la tipologia di strillo, i livelli di isteria
erano
inconfondibili: tipica reazione da zitella che aveva avvistato un
succoso
scapolo a piede libero. O, per meglio dire, tre
succosi scapoli.
–
Mariek, Ember, Aiden, che magnifica
sorpresa! –
Regan
identificò immediatamente
la ragazza che attraversava la strada di tutta fretta, facendo
sobbalzare la
generosa scollatura: Adora Shephard, ricca figlia di mercanti alla
caccia di un
titolo nobiliare. Non che i titoli nobiliari avessero avuto alcun
valore
ufficiale negli ultimi secoli, ma possederne uno, seppur per pure
questioni di
immagine, era un gran prestigio.
Anneli,
che non era nemmeno stata
inclusa nei saluti, accolse la ragazza nel gelo più
completo, ma quest’ultima
era talmente presa dai tre ragazzi che nemmeno ci fece caso.
Regan
lasciò i suoi cugini a
vedersela con l’esuberante fanciulla e andò poco
più avanti a curiosare nelle
vetrine delle botteghe chiuse.
La
sua preferita era quella del
fornaio: esponeva una quantità di pagnotte e dolci che
riuscivano a rallegrare
l’animo solo a guardarli. Sapevano di caldo e di casa. A
Regan ricordavano i
giorni trascorsi a casa di Lucius, a sfornare torte assieme a Eleonora
per poi
divorarle assieme a suo figlio Calien.
Eleonora
era un’umana e il padre
di Calien un demone. Quando lui era morto, Lucius gli aveva promesso di
avere
cura di Eleonora e del suo bambino e così li aveva portati
via dal mondo degli
umani, in cui Calien, che cresceva due volte più lentamente
dei bambini umani,
sarebbe stato guardato come un mostro. Madre e figlio ora vivevano
insieme
nella casa adiacente a quella di Lucius e spesso Regan aveva sofferto
la loro
mancanza.
La
bottega successiva era quella
dello speziale e anche in quella c’era da perderci ore
intere. Erbe, spezie e
ingredienti per i filtri erano solo la parte più
irrilevante; quello che
piaceva a Regan era l’enorme vetrina che c’era
sulla sinistra, sempre lustra e
impeccabile, piena di boccette e fiale di profumi i cui prezzi non
erano mai
esposti. Non aveva mai sentito l’odore di uno solo di quei
profumi, ma adorava
i piccoli capolavori di vetro in cui erano custoditi, colorati e delle
forme
più inusuali, decorati con finissimi ghirigori
d’oro e d’argento, lasciati in
bella vista a scintillare sotto i raggi del sole che penetrava dalle
ampie
vetrine. La bottega vendeva anche cosmetici, candele profumate, carta
finissima, anch’essa profumata, e molte altre cose, tra cui i
preziosi colori
di cui si servivano i pittori: erano in polvere, conservati in
sacchetti di
iuta su un tavolo grezzo, in cui ancora si vedevano le forme e i nodi
del legno
da cui era stato ricavato, ed erano tinte così belle e
sgargianti, così vive,
che Regan aveva più volte avuto la
tentazione di affondarci le dita per sentirli.
Stava
cercando la forza di
staccarsi da lì e tornare dagli altri quando scorse nel
vetro un fugace
riflesso nero alle proprie spalle.
Si
voltò, ma non c’era nessuno. Sull’altro
lato della strada due bambini si rincorrevano rumorosamente,
litigandosi un
pezzo di focaccia.
Una
carrozza le passò davanti.
Cercò di riconoscere lo stemma che portava impresso,
perché lo zio ci teneva
che lei imparasse a conoscere le famiglie più importanti: un
corvo e tre stelle
neri su fondo giallo.
–
Cassel – sussurrò una voce
bassissima al suo orecchio, prima che potesse anche solo rifletterci su.
La
reazione fu strana: l’istinto
comandava allungare una gomitata all’indietro per il dispetto
mentre il
cervello elaborava rapidamente il timbro e la cadenza maliziosa della
voce,
facendole esplodere un fiotto di calore nel cuore. Il risultato fu che
si
accartocciò maldestramente su sé stessa nel
voltarsi di scatto e perse l’equilibrio,
finendo per atterrare in un paio di braccia robuste.