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Autore: Dracaryser    23/05/2014    2 recensioni
Un incontro con una donna dai capelli rossi che toglie il fiato e allo stesso tempo potrebbe essere l'unica in grado di aiutare la protagonista a respirare di nuovo.
Crossover tra Grey's Anatomy e Scandal, telefilm targati Shondaland. Il titolo di ogni capitolo è anche il titolo della canzone che consiglio di ascoltare durante la lettura dello stesso.
Dal testo:
"Decisi di abbracciarla e lei si fece piccola piccola.
Le asciugai le lacrime, lei chiuse gli occhi e il viso le si fece più sereno. Passarono i minuti e lei smise di piangere, ma nessuna delle due aveva intenzione di rompere il silenzio. Guardai i suoi capelli, le sue guance, le sue caviglie e una cosa mi fu chiara: sarei andata all'inferno per proteggerla."
Genere: Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Slash, FemSlash | Personaggi: Un po' tutti
Note: Cross-over | Avvertimenti: Tematiche delicate | Contesto: Contesto generale/vago
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Gli spogliatoi si trovavano alla fine del corridoio e lei proprio nel mezzo, seduta alla postazione delle infermiere, leggeva qualcosa.
Probabilmente era il fascicolo di una causa, ma poteva anche essere l'ultimo numero di un giornale di fumetti, da quella distanza non avrei potuto capire di cosa si trattasse.

Appurai che l'essermi asciugata era stata solamente un'impressione e che dai miei capelli le goccioline d'acqua cadevano sulle mie scarpe e sul pavimento.

In un'altra occasione avrei fatto di tutto per farmi notare ma in quel momento, in cui tutto ciò che volevo era una tovaglia asciutta, decisi di passarle davanti senza richiamare l'attenzione dei suoi occhi blu.

A testa bassa oltrepassai la postazione delle infermiere e quando pensai di essere riuscita nel mio intento "Ehi ti cercavo"- disse Alex Karev, con un tono decisamente troppo alto che determinò il fallimento del mio piano, -"Ho bisogno di un consulto. Sei disponibile?"

-"Mi cambio e arrivo" risposi rassegnandomi al mio imbarazzo.

Andò nella direzione opposta alla mia e finsi di seguire lui con lo sguardo ma mi voltai per guardare Abby.

La sorpresi a guardarmi e -"Buongiorno" le dissi, con un sorriso imbarazzato.
-"Giorno" mi rispose accennando il suo sorriso a metà che lasciava inalterata la sua guancia sinistra.

Trascorsi la mattinata passando da un caso all'altro e sperando di incontrarla in ogni stanza in cui entrassi, ma ogni volta che varcavo la soglia, ora della stanza degli strutturati, ora di quella della sala riunioni, venivo delusa dalla sua assenza.

Quel giorno, contrariamente alla mia consuetudine, andai a pranzo in mensa con la certezza di trovarvi Abby perché, nonostante mi sembrasse una creatura quasi divina, aveva bisogno di nutrirsi come i comuni mortali.

Non ero solita pranzare con i miei colleghi, al contrario, tendevo ad evitare di instaurare ogni rapporto interpersonale e a lasciare che rimanesse esclusivamente professionale, e non mi pareva che nessuno si fosse mai preso pena per ciò.
Da ragazza mi ero convinta che questo disinteresse verso gli altri fosse una cosa momentanea dovuta all'adolescenza e alle persone, decisamente poco interessanti e con una forma mentis completamente diversa dalla mia, del paesino in cui vivevo.
Ma crescendo e giungendo negli States il mio rifiuto verso gli altri era rimasto inalterato.

Tirai un gran sospiro e mi diressi verso la mensa. La luce del sole filtrava dalle vetrate e si proiettava sui tavoli bianchi che riempivano la stanza.

Il bianco era senza dubbio il colore prevalente nella stanza, seguito dal blu e dall'azzurro delle divise chirurgiche.

Presi un vassoio, le patatine, un sandwich e il latte al cioccolato, e con quel pranzo degno di un bambino di otto anni con pessime abitudine alimentari cercai un tavolo libero.

Mi sedetti ed iniziai a togliere la pellicola che avvolgeva il sandwich al tonno. Dopo aver srotolato i tre strati di pellicola potei addentare il primo boccone.

Guardavo i tavoli bianchi disposti simmetricamente nella parte vuota della mensa e, come una macchia di vino su un tappeto bianco, i capelli rossi ruppero il perfetto equilibrio simmetrico e cromatico di quella parte deserta della stanza.

"Posso?" Mi chiese Abby.

"Certamente!" Risposi, con fin troppa enfasi.

"Mi spiace disturbarla, ma non c'è nulla che io odi più che mangiare da sola e non ho fatto conoscenza con nessuno all'infuori di lei e del primario Hunt. Sembrano tutti presi da qualcosa."

Continuò a parlare ma ascoltai una piccola percentuale dei suoni che uscivano dalle sue labbra.

Fui felice per un attimo del fatto che conoscesse solo me, che non dovessi dividerla con qualcun altro ma ero sicura che da lì a qualche giorno qualcuno avrebbe tentato di approcciarla.
Com'era possibile, d'altronde, non rimanere ammaliati da tanta radiosità e bellezza.

I capelli, lisci dalle radici, divenivano mossi al livello delle punte che cadevano sulle spalle e sulla schiena.
Gli occhi blu, messi in risalto dalla blusa indaco che avvolgeva la sua pelle, mi ipnotizzarono finchè mi chiese -"Mi sta seguendo?"e svegliò la mia mente itinerante.

"Sì mi scusi, stavo pensando ad un paziente." Risposi prontamente, fingendomi preoccupata.

"Le dispiacerebbe se fossimo meno formali?" Mi chiese timidamente.

"Affatto." risposi.

Mi sentii come una dodicenne alla sua prima cotta, e temetti di comportarmi da tale.
Sentii il sangue arrivarmi subito alle orecchie e i battiti accelerare.
Voleva che fossimo meno formali. Quella domanda mi aveva aperto un mondo ed aveva dato l'input per la proiezione dei miei film mentali.

A distogliermi da essi questa volta fu la suoneria del suo cellulare.

"Harrison!" rispose, e per la prima volta vidi sul suo volto un sorriso completo.

Mi salutò con un cenno della mano e si allontanò dal tavolo della mensa.

Rimasi lì, pervasa da un'immensa delusione e rabbia nei confronti dell'interlocutore all'altro capo del telefono.
Chiunque avesse il potere di far sorridere Abby in quel modo era sicuramente una persona a lei non indifferente.

La aspettai per venti minuti ma non tornò, svuotai il mio vassoio che conteneva solo gli involucri del mio pranzo e, terminata la mia giornata lavorativa, mi cambiai e tornai a casa.

Non aveva smesso di piovere nemmeno per un attimo da quella mattina, ed io, grondante d'acqua, giurai sul pianerottolo di casa che la prossima volta avrei ricordato l'ombrello.

Feci una doccia bollente, coccolata dalla fragranza alla vaniglia del bagno-doccia e passai la mia serata avvolta da un plaid sulla mia poltrona preferita. Giunta al terzo capitolo dell'Odissea di Joyce mi addormentai.

Venni svegliata dal mio cellulare, distrattamente lasciato in modalità suoneria, che mi segnalava la presenza di un nuovo messaggio.

Questa volta sapevo già chi potesse essere. Decisi di non leggere il messaggio per evitare un'emicrania ma, appena venti secondi dopo aver preso la decisione, la mia mano digitò automaticamente il codice di sblocco e aprì il messaggio di Cleo.

"Un giglio per te..."
Lessi sullo schermo troppo luminoso per i miei occhi assonnati e semichiusi.

Sbuffai e poggiai il libro sul tavolino vicino al divano. Mi raggomitolai su me stessa e sistemai il plaid in maniera tale che coprisse i miei piedi che avevo l'abitudine di lasciare nudi in qualunque periodo dell'anno.

La luce accesa della lampada mi impedì di riaddormentarmi e, compiendo quello che mi sembrò uno sforzo sovra-umano, andai a dormire nel mio letto.

Mi sembrava davvero troppo freddo e vuoto, come se la eco della mia solitudine raggelasse la stanza e si infiltrasse fin sotto le coperte.

Le tirai via e posizionai un cuscino trasversalmente.
Il mio battito cardiaco si adeguò al ritmo del ticchettio della pioggia sui vetri della finestra e, finalmente, mi addormentai.

  
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