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Autore: Rosmary    26/05/2014    21 recensioni
Novembre 1996.
In seguito a un litigio con George, Fred si allontana dal loro negozio per un paio d'ore, recandosi a Hogsmeade, dove l'attende un incontro dai risvolti inaspettati.
“Allora, Weasley, che ti è successo?” chiese con finto disinteresse Hermione, nascondendo il viso dietro al menu.
A Fred sfuggì un ghigno. “Bell’approccio, Granger, altri avrebbero iniziato con il banale come va!”
Genere: Drammatico, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Cormac McLaggen, Fred Weasley, George Weasley, Hermione Granger, Ron Weasley | Coppie: Fred Weasley/Hermione Granger
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: II guerra magica/Libri 5-7
Capitoli:
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26 luglio 1997
 
Molly non avrebbe mai pensato di poter assistere a una scena simile: uno dei suoi figli – forse il più scalmanato – era in piedi dinanzi al lavello della cucina e grattava con un ruvido straccio il fondo incrostato della pentola. L’osservò con attenzione la donna e lo vide con le spalle curve in avanti, l’atteggiamento rabbioso e i muscoli del viso tesissimi, pronti a stracciarsi e a imbruttire il giovanissimo volto del ragazzo. S’avvicinò con cautela al figlio, poggiandogli una mano sulla schiena, ma quella mano non sortì effetto alcuno, perché lui era più che determinato a ignorarla e a continuare a strofinare contro il metallo usurato.
 
“Fred,” chiamò Molly. “Fred… Fred, cosa succede?”
 
“Niente.”
 
“Metti giù, lascia fare a me.”
 
Ma Fred continuava imperterrito, ignorando le domande implicite della madre, che lo guardava con la fronte sempre più corrugata e le labbra sempre più strette. Strinse la stoffa della maglia del figlio Molly, per poi lasciarla andare nel momento in cui un’altra figura fece capolino in quella cucina. La signora Weasley osservò anche la neogiunta e vide sul suo volto la stessa tensione di Fred e nel suo sguardo la medesima espressione assorta. Non pose domande, accontentandosi di sospirare rumorosamente con l’esatto scopo d’essere udita, abbandonando con quell’eloquente gesto la stanzetta colma di malumore.
Quando i passi della donna furono lontani, l’acqua smise di fuoriuscire dal rubinetto, lo straccio fu abbandonato e la pentola fu lasciata mezza sporca a colare nel lavandino. Le umide mani di Fred si strinsero allora attorno al bordo del ripiano della cucina, mentre lui seguitava a stare in silenzio, con quelle dannate spalle curve in avanti. Hermione non emise un solo suono e in tal modo acuì la tensione e il tangibile nervosismo del ragazzo che le mostrava la schiena.
D’un tratto, la porta che rendeva il cucinino accessibile a tutti si chiuse in un tonfo che echeggiò rabbioso e Fred si voltò verso la ragazza, mostrandole quei muscoli tesi e quelle mani gocciolanti e stranamente tremanti. Hermione ne ebbe quasi timore, non ricordava d’averlo mai visto in uno stato simile; certo, c’erano stati momenti difficili tra loro, litigi e incomprensioni, ma le mani di Fred non avevano mai tremato.
 
“Vuoi parlare, immagino,” esordì il ragazzo.
 
“Sarebbe opportuno, sì.”
 
Opportuno… che parolina intelligente, proprio da te.”
 
Il sarcasmo cattivo dell’affermazione ferì Hermione ancora una volta: da quando aveva abbandonato casa e famiglia per recarsi alla Tana e prepararsi a seguire Harry nella sua battaglia, Fred non era stato più lo stesso, le aveva anzi recriminato ogni gesto e ogni parola, accusandola più che apertamente d’essere illusa, incosciente ed egoista. Illusa perché convinta che Harry Potter fosse davvero la risposta a tutte le brutture e i pericoli di una guerra sanguinolenta. Incosciente perché sicura d’essere abbastanza preparata e in gamba da poter fronteggiare Voldemort e i suoi Mangiamorte col solo aiuto di Harry e Ron. Egoista perché pretendeva d’essere illusa e incosciente senza di lui.
Le avrebbe potuto perdonare tutto, tutto, compresa l’illusione e l’incoscienza, ma l’egoismo no, quello era troppo anche per Fred Weasley. E avevano litigato, litigato duramente, come mai in quell’anno di relazione era accaduto. Le incomprensioni tra loro erano state all’ordine del giorno, come in una qualsiasi altra coppia molto giovane, ma erano state solo incomprensioni: non crudeli, ma risolvibili. A ogni piccola discussione era sempre seguita la rosa rossa, ch’era divenuta un po’ il simbolo della loro storia, una rosa che con le sue spine ricordava a entrambi che anche qualcosa di bellissimo poteva provocare ferite, ma erano ferite che sapevano rimarginarsi, ferite che guarivano.
Peccato che quella volta non ci fossero state rose: solo steli smorti e tante, troppe, spine appuntite.
 
“Non voglio litigare con te.”
 
La fermezza del tono non riusciva a mascherare il reale stato d’animo di Hermione, i cui occhi sembravano spaccati a metà: da un lato la voglia di liberarsi dalle lacrime accumulate, dall’altro la voglia di mostrarsi imperturbabili e maturi.
 
“Non piangere.”
 
“Non sto piangendo.”
 
“Meglio così.”
 
“Non cambierò la mia decisione.”
 
“Lo so.”
 
“Ho scelto anni fa di essere la migliore amica di Harry, e ho sempre saputo dove questo mi avrebbe portata.”
 
“So anche questo.”
 
“Non posso abbandonarlo ora. Non voglio abbandonarlo ora, né mai.”
 
“Ne sono sempre stato consapevole.”
 
“Lui ha bisogno di me, e di Ron. Ha bisogno della fiducia del suoi amici, della loro presenza. Non ha chiesto lui di essere il Prescelto e io, che lo considero un fratello, devo portare un po’ di questo peso anche sulle mie spalle, sperando di rendere meno affaticate le sue.”
 
“Lo so, Hermione. Lo so. Lo so meglio di quanto credi.”
 
“E allora perché non capisci?”
 
Sussurrò quella domanda con una vocina così sottile da non somigliare per nulla alla sua. Le lacrime, che non conoscevano orgoglio e compostezza, sconfissero la necessità della giovane d’apparire stoica e adulta, scorrendo lungo le guance una dietro l’altra. Nessun singhiozzo per Hermione, ma solo labbra serrate e assottigliate e gocce d’acqua salata sul volto e sul collo e poi ovunque; quel pianto silenzioso le marchiava tutto il corpo. A Fred bastò solo guardarla per ammalarsi di lei ancora una volta.
Già, ammalarsi.
La prima volta che aveva maturato quella strana definizione, il suo rapporto con Hermione aveva due mesi e un litigio al gusto di incomprensioni reciproche minacciava una rottura permanente. In quell’occasione, Fred proprio non aveva capito che scegliere di trascorrere il finesettimana in montagna con George e Lee avrebbe potuto ferire Hermione, che riusciva a vederlo solo nei finesettimana. In quell’occasione, Fred aveva continuato a scriverle lettere, dicendole che i finesettimana non erano merce a esaurimento, bensì infiniti, e loro due avevano migliaia di finesettimana a disposizione. In quell’occasione, Fred aveva infine rinunciato alla montagna e a Lee e a George e s’era recato a Hogsmeade con la voglia di strattonare Hermione, litigarci e poi baciarla sino a quando il respiro non fosse mancato. E fu proprio in quell’occasione che si disse ammalato di lei, perché finalmente conscio d’esserne innamorato. Ma innamorato era sempre stata una parola che l’aveva fatto rabbrividire, nauseare e, a dirla tutta, spaventare; così, s’era inventato una nuova parola, che racchiudeva tutto ciò che di sbagliato c’era per Fred nell’amore, e la parola era ammalato. Dopotutto, l’amore per il giovane Weasley era sempre stato etichettato come un’infida malattia, una di quelle contagiose, che prima di manifestarsi aspettavano d’aver ormai schiavizzato tutto il tuo corpo, una malattia di cui era nota la cura, ma si trattava di una cura costosissima, lunga e dolorosa.
Dovettero passare altri due mesi prima che Fred accettasse d’essere innamorato e non ammalato: l’amore non era una condanna e non era qualcosa da cui difendersi, l’amore era semplicemente amore. Furono gli eventi, come spesso accadeva, a scombussolare tutto. La decisione di Hermione di partire alla ricerca degli Horcrux senza di lui aveva infatti costretto Fred a rintanarsi nuovamente nell’idea di un amore come malattia. Dopotutto, se non fosse stato così malato, lui le avrebbe semplicemente detto buona fortuna e l’avrebbe lasciata andare.
 
“E tu? Tu perché non capisci?”
 
Non più rabbia nella voce di Fred, ma solo stanchezza e – notò Hermione con stupore – rassegnazione.
Rassegnazione.
Assurdo. Fred Weasley e la rassegnazione erano elementi che insieme non potevano coesistere, eppure erano lì, insieme. La consapevolezza d’averlo ferito come nessun altro avrebbe potuto fare schiaffeggiò con ferocia Hermione, che vinta da quell’ammasso di nauseanti realtà strinse Fred in un abbraccio possessivo, che elemosinava il perdono per una scelta che non sarebbe comunque cambiata.
Le mani della ragazza s’allacciarono al collo di lui, il suo seno aderì senza imbarazzo al petto dell’altro e i capelli folti, come fastidiosa peluria, solleticarono il mento di Fred chino verso la testa di lei. Un pesante sospiro accompagnò le braccia del mago attorno al minuto corpo, dando vita a un secondo abbraccio, possessivo e innamorato quanto il primo.
 
“Ti amo.”
 
“Resta con me, allora,” incalzò Fred, saldando ancor più la presa. “Resta con me… oppure, lasciami venire con te.”
 
Fu strano, ma Hermione ebbe la sensazione che una scossa elettrica la percorresse e la costringesse ad annuire e a mimare con le labbra un ‘sì, vieni con me’. Un mimare che Fred dovette percepire scritto sulla pelle, perché con foga le afferrò il volto e incrociò il suo sguardo alla ricerca di una conferma di quanto appena intuito. E la conferma arrivò, brillava di luce propria negli occhi di Hermione, che mai avrebbe immaginato un simile risvolto; dopotutto, sapeva bene che a cercare gli Horcrux avrebbero dovuto essere lei, Harry e Ron. Ma di Fred era innamorata, e questo vinceva su tutto.
La rabbia e il malumore svanirono in un batter d’occhio e il sorriso tornò a colorare il volto di Fred, sciolse la tensione dei muscoli, sgranchì persino le ossa e indusse le labbra a fremere nell’attesa di incontrare altre labbra. Così, un bacio e poi un altro e un altro ancora e tanti baci assieme assorbirono i lividi sparsi nei due ragazzi. I corpi si fecero più vicini e le mani più audaci, e mentre quelle di Hermione racimolavano il coraggio per insinuarsi al di sotto della maglia di Fred, quelle del ragazzo già sfioravano la pelle della ragazza, una pelle che s’elettrizzava e rabbrividiva al passaggio di quelle dita impudenti.
Hermione si ritrovò a sgranare gli occhi scuri e a sbatacchiare le ciglia con imbarazzo e sorpresa quando s’accorse di non aver più la maglia a coprirle il busto. Fred sorrise di quell’espressione e attirò a sé la ragazza, affondando le ‘impudenti dita’ tra i suoi capelli, baciandola ancora una volta. Hermione lasciò sciogliere imbarazzo e sorpresa in quel nuovo contatto, che aveva un sapore ben diverso, un sapore molto più intimo e molto più maturo, sembrava avere il sapore dell’adesso e del per sempre.
In quella notte di luglio, non vi furono esitazioni. Non una sola parola fuoriuscì dalle labbra dei due: spiegazioni e conferme non erano necessarie, perché erano tutte nei gesti, negli sguardi… erano in loro due insieme.
Rabbrividì lei quando percepì la pelle toccare il tavolo in legno presente in quel cucinino. Rabbrividì quando si conobbero in modo tutto nuovo. Rabbrividì – e anche un po’ sorrise – quando per un attimo pensò d’avere immaginato quel momento tante volte e in nessuna delle ‘tante volte’ c’erano stoviglie sporche nel lavello, impazienza e un tavolo in legno. In nessuna delle tante volte erano nel cucinino della Tana ad augurarsi di essere ancora vivi il giorno dopo. Ma la realtà, d’altronde, era sempre diversa dalla fantasia, ed era in genere migliore proprio perché reale.
 
“Ti amo.”
 
Fu un sussurro roco di Fred detto con labbra tremanti, tremanti quanto tutto il resto del corpo. Due paroline che Hermione s’era rassegnata a non udire: sapeva d’essere amata, ma sapeva anche che Fred non era incline a manifestare l’amore con parole ‘adatte’ o ‘consone’, come le definiva lui ogni volta che un ‘ti amo’ abbandonava le labbra della strega.
Non riuscì a impedirselo Hermione, e rise. Rise gioiosa, imbarazzata, un po’ scossa persino. Ma rise.
 
“Riesco a farti ridere anche quando sono serio,” scherzò lui.
 
“È la tua condanna,” l’accordò lei.
 
Fred le concesse un tacito assenso, mentre incastrava le dita di Hermione nelle proprie. Neanche lui l’aveva immaginato così, quel momento tanto importante. Era terribilmente scomoda la posizione in cui erano, persino le ginocchia dolevano al contatto con il ripiano rigido. Ma in quell’istante tutto sembrava essere poco importante. La dolenzia, l’ambiente, la nulla comodità erano tutti particolari insignificanti, perché loro due erano insieme ed era vivida la convinzione che lo sarebbero stati sempre.
Quando, in un tempo invero brevissimo, i loro corpi urlarono il bisogno di uno sfregarsi ancora più intimo, Fred, guidato dall’alchimia che apparteneva soltanto a loro due, dolcemente infranse l’irrisoria distanza che li separava, e non gli era mai successo di avvertire il cuore premere contro le ossa allo scopo, forse, di spaccarle tutte e liberarsi.
Lo sguardo chiaro cercò quello scuro e lo trovò come non avrebbe mai creduto di trovarlo: in lacrime. Non poteva saperlo lui, che anche i suoi occhi erano lucidi, ma Hermione li vide e capì che Fred soffriva con lei. Perché soffrissero anziché essere percorsi dalla gioia, non ebbero il coraggio di chiederselo l’un l’altra. Nessuno seppe spiegarsi cosa fosse quell’opprimente sensazione che li aveva schiavizzati nell’istante in cui i loro corpi s’erano allacciati. Sapevano solo che un dolore, che andava ben al di là del piano fisico, troneggiava prepotente su di loro e impediva a corpi e menti di assaporare il piacere proprio dell’intima unione. Quella che avrebbe dovuto avere il dolce gusto della prima volta ebbe i macabri contorni di un’ultima volta.
Gemiti, respiri, movimenti scomposti, fretta di arrivare a qualcosa di non meglio identificato, pelli sudate che faticavano a carezzarsi divennero lo sfondo di un’emozione che di sbagliato aveva tutto, perché era brutta; non poteva descriversi in altro modo. Brutta perché carica di un’accozzaglia di sensazioni negative, sensazioni brutte.
 
“Dillo di nuovo,” sussurrò Hermione.
 
“Ti amo.”
 
“Anch’io.”
 
Solo quei sentimenti buttati fuori assieme agli ultimi respiri seppero strappare dei sorrisi – che di vinto avevano i contorni ed anche più – ai due amanti. Si guardarono stremati quando l’energia che non seppe stravolgerli come avrebbe dovuto ebbe il suo culmine, portando i due corpi a distaccarsi e a tornare a vivere in autonomia.
Entrambi scossi dalle sensazioni provate, ricomposero in silenzio le loro figure. Fred, che non riusciva a scacciare una strana angoscia, strinse la ragazza in un forte abbraccio quando ancora non s’era rivestita del tutto.
 
“Sei felice?” le chiese.
 
“Sì, se sono con te.”
 
“Va bene.”
 
Il sorriso forzò le labbra dei due, che ancora una volta non ebbero il coraggio di chiedersi altro, di analizzare cosa fosse accaduto, cosa fosse andato storto. Perché non c’era stata gioia? Piacere? Emozione bella? Era stato tutto veloce, totalizzante sicuramente, ma dannatamente angosciante.
Mano nella mano, uscirono da quel cucinino insonorizzato e chiuso a chiave, imbattendosi in una sala ormai buia e avvolta dal silenzio della notte. Solo un piccolo lume tradiva la presenza di qualcuno – che Fred ipotizzò essere suo padre – nella piccola stanzetta adibita a modesto studiolo da Molly. A quanto sembrava, nessun abitante della Tana aveva osato disturbarli, forse proprio Molly aveva imposto tale veto, avendo visto il malumore del figlio.
 
“Dormiamo qui?”
 
“Sul divano?”
 
“Ti dispiace?”
 
“Non hai vergogna?”
 
Hermione scosse il capo e un sorriso sghembo, finalmente malandrino e vivace, corruppe le labbra di Fred.
 
“Vuoi già il bis?!”
 
“Voglio solo dormire.”
 
“Con me.”
 
“Con te, sì. Vuoi che chiami George?”
 
“Chiamalo pure, tanto non gli piaci!”
 
“Brutto idiota!”
 
Una cuscinata in pieno volto, che ebbe il merito di stemperare appena l’inqualificabile atmosfera, accompagnò quell’ironico epiteto. Fred, più agguerrito che mai, scaraventò la fidanzata sul divano, iniziando a solleticarla ovunque. Fu in quel momento che s’accorsero che qualcosa era effettivamente cambiato: nonostante tutto, un nuovo grado di sintonia li aveva raggiunti, e davvero lui era lei e lei era lui. Tra cuscinate e solletico, trascorsero quelle rimanenti ore della notte, decidendo di comune e tacito accordo d’accantonare quanto di opprimente percepito nell’istante in cui erano stati un tutt’uno. Alle volte, come in quell’occasione, ignorare ciò che generava paura diventava un’esigenza, un’esigenza per andare avanti.
L’indomani ebbe inizio con delle battutine maliziose di George, che s’era imbattuto per primo nella coppia appisolata sul consunto divano. Hermione non aveva avuto neanche la forza di arrossire: intorpidita, stanca, scossa, eppur carica di una nuova e non catalogabile sensazione, era sgattaiolata dritta al bagno, dove una curiosissima Ginny – che aveva notato il letto a suo fianco vuoto – l’aveva seguita in cerca di particolari. Per un paio d’ore sembrò tutto perfettamente normale e in linea con le età dei ragazzi: battute, sorrisi maliziosi, un po’ d’imbarazzo e confidenze tra amiche. Tutto come doveva essere, fino a quando Ron non pretese l’attenzione di Hermione e quest’ultima, suo malgrado, dovette confidargli la novità, informandolo che anche Fred sarebbe partito con loro.
 
“Di’ qualcosa.”
 
“Harry dirà di no.”
 
“Harry capirà.”
 
“E se fossi io a non capire?”
 
In piedi, all’esterno della Tana, Hermione fronteggiava l’amico di sempre con sguardo insicuro. Solo il giorno precedente avevano a lungo discusso di ‘Fred’, convenendo che non sarebbe potuto andare con loro per nessuna ragione, poiché Harry non l’avrebbe permesso.
 
“Cosa c’è da capire, Ron?”
 
Boccheggiò lui, boccheggiò colpito dal rovente imbarazzo. “Niente.”
 
Quel ‘niente’ mise un punto alla discussione. Entrambi sapevano cosa celasse quella apparentemente innocua parola, ma nessuno dei due aveva intenzione di far tornare a galla rancori vecchi di mesi. Ron, in fondo, sapeva bene che Hermione non gli era mai appartenuta, ma non capiva cosa l’avesse portata a scegliere Fred. Hermione, a sua volta, aveva ben compreso, ormai, che l’interesse di Ron nei suoi riguardi andava ben oltre l’amicizia – e solo Merlino sapeva quanto questa consapevolezza, neanche un anno prima, l’avrebbe resa felice –, ma il suo cuore aveva donato il proprio timone a un altro capitano. Non c’era nulla da dire, a ben vedere, tra quei due giovanissimi maghi; c’erano solo realtà da accettare per ciò che erano.
Ancora una volta, fu la realtà dei fatti, insensibile e maligna, a calpestare ogni buon progetto, ogni proposito. La fuga di Harry, la morte di Malocchio, la ferita di George, il matrimonio di Bill e Fleur… tutto assieme avvenne e tutto in un arco di giorni brevissimo. Non ci fu tempo per nulla, neanche per un arrivederci, che la mano di Hermione si trovò incastrata in quella di Ron e poi in quella di Harry e poi ‘niente’, proprio il niente di Ron che sembrava innocuo e celava tutto.
 
“Hermione… mi dispiace… noi… Non possiamo tornare indietro.”
 
Le pronunciò Harry quelle parole al gusto di mortificazione e maldestra sicurezza, le pronunciò il giorno del matrimonio di Bill e Fleur, quando, preda della paura d’essere catturati, mutilati o uccisi, s’erano Smaterializzati, certo, ma in tre, lasciando Fred – e il cuore di Hermione – alla Tana.
 
*
 
“Sta’ calmo, Fred, la troviamo… hai capito? Freddie, la troviamo. Io e te troviamo lei, nostro fratello e Harry.”
 
“No, George. No. Non li troveremo mai.”
 
“Fai in modo che sia lei a trovare te, allora.”
 
Due paia d’occhi identici si voltarono verso Lee Jordan, il cui aspetto era stravolto quanto quello dei gemelli. Abbozzò un sorriso Lee, poggiando una mano sulla spalla di George e un’altra sulla spalla di Fred.
 
“Noi saremo la Resistenza e chiunque è dalla nostra parte saprà che ci siamo, che siamo vivi, e saprà come mettersi in contatto con noi.”
 
Le parole asciutte di Lee convinsero i due Weasley e dalle ceneri del terrore e della disperazione nacque ‘Radio Potter’. Quella notte, Fred leccò in segreto le proprie ferite, scoprendosi per la seconda volta capace di covare paura, rabbia e frustrazione. L’odore del sangue di George ancora gli infettava le narici e la vista di quello stesso sangue ancora gli causava incubi; e ora aveva altro fetore da combattere ed altre immagini da scacciare: erano i presagi, gli incubi, erano tutto ciò che in quei lunghi mesi di guerra e attesa gli trafugarono il sorriso. Neanche George riusciva più a lenire le ferite del gemello, poiché ne aveva lui stesso di fresche, sanguinanti e brucianti: ogni minuto poteva essere l’ultimo per tutti, quella era una guerra, dannazione, una guerra. E arrivati al punto in cui nessuno poteva più giurare d’aver almeno intravisto Harry Potter in un qualsiasi buco, la sensazione che la fine fosse alle porte si impadronì un po’ di tutti, dai più pessimisti ai più fiduciosi.
Il ‘due maggio’ che avrebbe deciso le sorti della seconda guerra magica giunse quando tutti i giusti s’erano istruiti a non sperare.
Hermione non seppe neanche come fosse finita lì, nella Stanza delle Necessità, di nuovo a Hogwarts, di nuovo a casa. Non lo seppe affatto, ma capì d’essere finalmente capitata nel posto giusto quando due braccia forti, che ancora l’amavano, la strinsero in una morsa soffocante, possessiva, disperata.
 
“Fred… io… mi dispiace… ti amo…”
 
“Sta’ zitta. Sei viva, questo vale tutto…”
 
Nonostante le urla, gli scalpitii e il caos, a Fred e Hermione sembrò di essere stati risucchiati in una dimensione fatta solo per loro due, in cui spazio per altro non c’era. Tremante, fu lei ad avvicinare le proprie labbra a quelle del ragazzo, a carezzarle, a morderle, a sentirle contro la propria pelle, fu lei a voler ustionare entrambi con un bacio che aveva in sé quell’angoscia e quell’emozione brutta di quando erano stati un tutt’uno per la prima volta.
Qualcuno dovette chiamarli perché si separassero, e lo fecero con riluttanza, con le mani affondate nei visi, tra i capelli, con i corpi appiccicati come a volersi saldare per sempre.
 
“Ci vediamo dopo.”
 
“Ci vediamo dopo,” confermò lei. Resta vivo avrebbe voluto dirgli, ma preferì il silenzio.
 
*
 
4 maggio 1998
 
Una sola domanda annebbiava i suoi pensieri: sul serio non sapeva che sarebbe finita così?
Lo sapeva eccome. Lo sapeva benissimo lei. E lo sapeva anche lui. L’avevano capito quella notte di luglio, ne avevano avuto riconferma quando, ritrovandosi, di nuovo quelle scariche elettriche cattive e roventi li avevano assaliti.
Resta vivo. Avrebbe potuto dirglielo. Sarebbe cambiato qualcosa?
 
“Sarebbe cambiato qualcosa? Mi avresti ascoltata? No. Tu non mi hai mai ascoltata. Mai a seguire i miei consigli. Brutto idiota, anche se non te l’ho detto, dovevi capirlo… dovevi capirlo, che dovevi restare vivo. E invece sei morto davanti a me.”
 
Serrò le palpebre e le lacrime, scomposte e acide, le percorsero il viso, marchiandolo di un male indelebile. Rivide in quell’istante l’esplosione, i pezzi cascare su qualcosa o qualcuno, percepì la puzza della fuliggine, il tremore in tutto il corpo, il terrore che, nel rialzarsi in piedi, avrebbe trovato uno o più corpi sotto i macigni. Un terrore che s’era materializzato nella figura di Fred, una figura malmenata dalla morte, che aveva preteso il mago tra le sue schiere. Il dolore di Ron e di Percy e di Harry, neanche lo ricordava. Non ricordava neanche d’aver pianto o urlato o… non ricordava niente. Ricordava solo la cieca e furiosa rabbia. Brutto idiota, non dovevi morire, avrebbe voluto dirgli. Ma a cosa sarebbe servito? Tra loro due, ormai, v’era la vita intera ed anche la morte. V’erano lo spazio e il tempo. Tutto li separava, solo i ricordi avrebbe potuto tenere con sé, e quelli li avrebbe custoditi gelosamente.
Per sempre.
Il funerale era terminato molte ore prima, un funerale cui lei aveva assistito in disparte, tra le ultime file, perché troppo vigliacca per guardare la lapide bianca scivolare nel terreno scuro. Ma ora, ora che era sola, che era sola con lui, che non era sola perché era con lui, poteva sfogarsi e lo faceva con lacrime e rabbia. Lo faceva strizzando tra le dita lo stelo spinato di una rosa rossa, incurante delle punture e del sangue che colava dalle proprie dita. Lo faceva chinandosi sul terriccio macchiato di un sangue che, forse, poteva vedere solo lei, e adagiando lì la sua rosa rossa e, con essa, anche delle gocce del proprio sangue, che era sicuramente visibile a tutti.
 
“Questa è tua. È nostra. Curala, ché voglio trovarla ancora rossa e viva quando saremo di nuovo insieme.”
 
Furono le ultime parole proferite a voce che Hermione rivolse a Fred, e fu anche la prima e l’ultima volta che visitò quel cimitero. Si impose di vivere, perché era giusto così. Si impose anche d’essere felice, perché anche questo era giusto. Si impose di far tutto ciò che andava fatto in quella vita, perché questo le avrebbe fatto meritare una seconda vita, ma con lui.
Ritrovò la sua famiglia, terminò i suoi studi, intraprese una gratificante carriera e, cinque anni dopo la morte di Fred, trovò anche il coraggio di lasciarsi amare da quel ragazzo che non l’aveva mai dimenticata, l’aveva anzi attesa per un tempo giudicabile da chiunque come esagerato.
Dopotutto, Ron sapeva che Hermione era riuscita ad andare avanti e sapeva d’essere amato. Ma sapeva anche che una generosa fetta del cuore della ragazza sarebbe sempre appartenuta a qualcun altro, che questo qualcun altro era amato da lei come lei non avrebbe saputo amare altri. Lo aveva accettato. Vivere significava anche saper accettare dei giusti compromessi, e ai sopravvissuti di una guerra questo era un concetto chiarissimo.
 
“Se ci sposassimo?” chiese Ron, un giorno.
 
“Non regalarmi rose rosse.”
 
“Certo che no, so che non ti piacciono.”
 
Hermione lo guardò sorpresa e intimorita, quella frase buttata lì per caso – che voleva dirle tutto – riuscì a denudarla. Per la prima volta, rispettò davvero Ron e comprese d’aver dinanzi un uomo maturo, magari indurito dalle sofferenze, ma ancora in grado di amare e di vivere giorno dopo giorno. Allora, incapace di dire altro, annuì.

*

Erano felici lei e Ron, e le rose rosse non appartenevano alla loro storia. Le rose rosse appartenevano a un rapporto ancora in bilico, mai finito, che Hermione avrebbe sempre portato con sé, come monito costante di una felicità smisurata che, prima o poi, sarebbe toccata anche a lei.
 
*
 
Maggio 2006
 
“Forza, Hermione, ancora uno sforzo, tesoro, ci siamo quasi…”
 
Parole vuote. Hermione indirizzò alla Medimaga un’occhiataccia che avrebbe incenerito chiunque, ad eccezione di chi – come quella attempata donna – era abituata a determinate reazioni. Le mani della signora Granger e di Molly, strette in quelle di Hermione, pulsavano e dolevano, poiché la ragazza quasi le maciullava. Ben decisa a non emettere un solo urlo o gemito, sfogava quell’insensato dolore con respiri pesanti, occhiatacce e muscoli irrigiditi. Un insieme che rendeva ancora più faticosa l’espulsione.
Erano ormai ben cinque ore che quella stanzetta del San Mungo sopportava le quattro donne riunite. Al di fuori del piccolo rettangolo, un gruppetto di ansiosi uomini occhieggiava di tanto in tanto la porta chiusa, sperando di avere notizie.
 
“Avanti, tesoro, un ultimo sforzo…”
 
“Mamma! Stai… ZITTA!”
 
Non ci fu tempo per aggiungere altro, poiché ‘zitta’ – urlata a squarciagola – venne accompagnata da una piccola bambina tutta coperta di liquido, con ancora il cordone a legarla all’isterica neomamma. Un solo colpetto sicuro della Medimaga e la bambina pianse. Pianse lei, e piansero anche le signore Granger e Weasley, piansero di gioia.
 
“Eccola qui! Ti sei fatta desiderare, eh, signorina?! Mammina,” scherzò la Medimaga in direzione di Hermione, “c’è una persona che vuole conoscerti!” concluse, adagiando con estrema delicatezza l’appena nata tra le braccia della ragazza.
 
Hermione neanche ebbe il coraggio di stringere la figlia, qualcosa le diceva che avrebbe potuto spezzarla. Era così delicata che sembrava essere di seta e non di semplice carne. In quell’istante, la strega maturò la convinzione di non aver mai saputo cosa fosse realmente la bellezza, perché nulla di più bello di quella bambina poteva esistere. Aveva i capelli radi e rossi. Gli occhi, gli occhi avrebbero potuto essere di qualsiasi colore, non riusciva a capirlo, erano ancora semichiusi. Il nasino era minuscolo, così come le manine e i piedini e tutto… era tutto minuscolo e da proteggere. Era tutto bellissimo.
Aveva il corpo stremato Hermione, dolorante, ma non le importava per niente. Anzi, tutto il dolore precedente alla nascita era scoppiato in una bolla di sapone. Dimenticato! Nessun dolore era troppo se il risultato era quella bimba che piangeva tra le sue braccia, ma che – forse fu Hermione a illudersi – già la riconosceva, già sapeva d’essere con la sua mamma; una mamma che si lasciò sfuggire qualche lacrima commossa mentre la Medimaga portava via la neonata.
Ron, Harry e i due nonni entrarono in quell’istante, e Ron per poco non svenne quando capì che quella tra le braccia del medico era sua figlia. Con un sorriso ebete, emozionato e felice e bello si avvicinò alla donna che lavava accuratamente la bimba, senza però il coraggio di allungare un solo dito su quella creatura minuscola. Anche lui, come Hermione, pensò che fosse bellissima, bella quanto niente altro al mondo poteva essere.
 
“Come si chiama?” chiese con un filo di voce Molly.
 
Rose. Si chiama Rose. La mia Rose rossa.”
 
Ron non batté ciglio. Si avvicinò alla moglie e, semplicemente, le posò un bacio a fior di labbra. Andava bene così. Rose era per Hermione un patto rinnovato e consolidato: Fred era con lei, era sempre con lei, e l’avrebbe aspettata in un prato ricoperto di rose rosse. Nell’attesa, le aveva dato in dono la più bella tra tutte le rose, e l’aveva fatto sereno, perché era giusto così, giusto che a guardar crescere quel prezioso fiore di maggio fosse un altro uomo accanto alla donna che gli sarebbe appartenuta per sempre.





 

NdA: con questo capitolo la minilong si conclude. È stata dura scrivere questo capitolo, ma l'intera storia è nata grazie al finale che avete letto. Ringrazio tutti coloro che hanno letto, recensito, preferito/ricordato/seguito! Grazie infinite, spero che "Un'alchimia inattesa" abbia meritato il vostro tempo.
Alla prossima :)
   
 
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