Capitolo
11
La
piccola margheritina bianca è in un vaso sul suo comodino.
Riesce a
vederla se preme il naso contro i pannelli della porta a vetri, come
sta
effettivamente facendo. Sembra così fragile. Come se potesse
spezzarla solo
reggendola tra il pollice e l'indice. Chiede, "Pensi mai a cosa
potrebbe
accadere se non esistessero più i fiori?" Il suo respiro
appanna il vetro.
"No."
"Voglio
dire, sul serio, Te lo immagini? Tipo, nessuno."
"Tipo,
no. Lo mangi quel panino?"
"Sì,"
sibila, sulla difensiva, torcendo il busto e rubando
l'ultimo dal cesto. Se ne infila in bocca un bel pezzo, giusto per
sottolineare
che è di sua proprietà, ed esclama, a bocca
piena, "Mangerei pane a
colazione, pranzo e cena," anche se suona più,
"'mangereipanecolanzocena."
Kristoff
annuisce. "Dieta sana. E il cioccolato?"
"Ok,"
Anna corregge, deglutendo. "Anche il cioccolato. Pane
e cioccolato." Si riappoggia al vetro. Tiene la gamba stesa di
lato
e il suo stivale quasi tocca quello di lui; ci sono gli avanzi del
cesto
accoccolato tra di loro, mezzo sparsi sul pavimento di pietra. Oltre la
ringhiera, e il muro, riesce a distinguere le stelle che brillano,
luminose
paragonate alla luce che viene dall'interno della sua stanza. E'
così contenta,
e rilassata, tranne per il fatto che continua a pensare a Elsa e a
sentirsi in
colpa, desiderando che sua sorella non fosse così
difficile tutto
il tempo—"E tu?", gli chiede, per
distrarsi dai problemi di
difficol-tezza.
"E
io cosa?"
"Lo
sai," Anna ghigna. "Qual è il tuo cibo preferito?"
"Carote."
Kristoff annuisce, saggiamente.
"Ma
non è il cibo preferito di Sven?"
Dopo
un minuto: "Non capisco cosa c’entri questo
con —"
Anna
ride grugnendo. Bisbiglia, "Relazione morbosa," a mezza
bocca. Kristoff scuote la testa, mesto; la sua risata è
breve.
"E'
che," si ferma, guardandola in tralice, e poi guardando il
cielo, "è che—c'è sempre stato per me."
Anna
sbatte le ciglia, tracciando il profilo di Kristoff alla luce
traballante. Ha gli angoli della bocca sollevati.
Rabbrividisce,
e poi si arrabbia con se stessa per essere rabbrividita,
perché
era una serata tiepida, di fine estate, piacevole, come un bagno caldo,
ma lei
è congelata. Ha la pelle d'oca su tutte
le braccia, sotto le calze, su
per la schiena. Dà un altro morso al panino per nasconderlo.
Mastica. Mastica. Mastica
più in fretta, devo chiederglielo—deglutisce.
"E i troll?"
"Eh?
Oh, sì. Anche loro, sì. Certo," finisce, vago,
massaggiandosi la nuca, a disagio. Tasta il fondo del cesto, trova un
pezzo
solitario di cioccolato, e inizia a rigirarselo tra pollice e indice.
Anna
vuole chiederglielo. Eppure, invece, allunga la mano nel cesto,
perché
se c'era un pezzo di cioccolato, significava che ce n'erano anche
altri—le loro
mani si sfiorano. Kristoff sorride, colpevole, e ritrae la mano. Anna
si chiede
se sia arrossito. Gli dà un colpetto alla spalla con la
propria, sorridendo.
"Lo mangi?" chiede, riferendosi al pezzo che ha in mano.
Se
lo lancia in bocca con noncuranza. "Lo vuoi?"
"Kristopher."
Tieni
la testa bassa, tieni la testa bassa, tieni—
"Signorina?
Posso aiutarla, sta cercando qualcosa?"
"No,
sto benissimo così, grazie—"
Lo
sanno, lo sanno, lo sanno—
Elsa
dà un altro strattone al proprio cappuccio, abbassato fino
agli occhi,
le dita che afferrano le pieghe del mantello viola scuro, il
gelo che
arriccia le cuciture. Mantiene lo sguardo fisso sui
piedi—ballerine nere,
semplici, le più semplici che è riuscita a
trovare. Una davanti all'altra. Una
davanti all'altra. Passo, Passo. Non calpestare le crepe,
pensa in
maniera piuttosto isterica. Il mondo è sveglio e rumoroso
attorno a lei, uomini
che chiamano donne, donne che chiamano uomini, bambini che spuntano e
la
superano diretti a casa. Ci sono luci alle finestre—riesce a
vedere la luce
riflessa al suolo, ma ha troppa paura di alzare lo sguardo,
troppa paura
che qualcuno la riconosca—
Lascia
che i piedi vadano di proprio accordo, e poi spia, da sotto il
cappuccio, il legno pesante, logoro, del porto, e si accorge che
cammina
mantenendosi parallela a esso, lungo il muro di pietra che recinta la
città. Si
ferma. Fa dietrofront. Inizia a tornare sui suoi passi.
Il
castello. Quanto era lontano il castello? Bastava solo tornare,
attraversare i cancelli di gran carriera e fin su in camera
sua e—
Un
giovanotto la incrocia fischiettando, il piede che calpesta l'orlo del
suo mantello. E' costretta a bloccarsi e perde l'equilibrio; lui non si
ferma e
nemmeno lei, rotolando all'indietro oltre il bordo del muro e piombando
giù sul
molo sottostante—
Atterra
in un mucchio di neve con un thud sordo. Il cuore
le
martella in petto, il cappuccio è abbassato sulle spalle.
Sente, "Stai
bene?" Passi. E poi, incerto, incredulo, "Regina Elsa?"
Chiude
gli occhi. Ma certo. Inspira, a lungo e
profondamente,
attraverso il naso. Espira con pari furia. Quando apre gli occhi il
Principe
Albert è lì in piedi, appena fuori il perimetro
della neve, e indossa un
mantello scuro, quasi nero; il cappuccio è abbassato. Il suo
abbigliamento è
molto più presentabile di quanto era stato prima, nota
vagamente, quindi può
evitare di perdere la testa. Tunica e pantaloni. Tutto in ordine.
"Sì,
salve," risponde, come se per lei fosse perfettamente
normale essere caduta in un metro di neve alle otto di sera, quando si
supponeva fosse impegnata nella lettura di rapporti sugli affari e in
riunione
coi suoi consiglieri.
"Ciao—salve.
Come st—voglio dire—ecco, mi permetta—"
si abbassa,
tendendo una mano, i capelli che gli cadono sulla fronte in riccioli
ribelli.
Ignora l'aiuto, e ruotando il polso sente la neve spingerla su, fuori
dal suo
abbraccio. Ci stava quasi comoda. Il Principe Albert si fa indietro, e
lo
guarda rendersi conto lentamente di quello di cui lei si sta
rendendo
conto, cioè—
"Pensavo
di averle ordinato di rimanere sulla sua nave," dice,
gelida.
Sbatte
le ciglia guardandola con quegli occhi e sembra
star
prendendo una qualche decisione. Raddrizza le spalle. Afferma, "E io
pensavo che lei fosse la regina."
Sente
le labbra stringersi in una linea sottile. Nella sua voce non
c'è
tanta diretta irriverenza, quanto piuttosto una durezza nuova da parte
sua. E'
confusa. "Chiedo scusa?" domanda, lasciando che la brina si insinui
su per le gambe e si fermi attorno alla gola.
Lui
spietato scrolla le spalle, abbassando lo sguardo sul naso storto,
esaminandosi
le punte degli stivali. "Mi ha sentito. Pensavo fosse la regina. Questo
non è esattamente comportamento da regine."
Stringe
le mani nascoste dalle le pieghe del mantello, sentendo il ghiaccio
strisciare sulle nocche e più su.
"Forse
dovrei informare le guardie? Sono sicuro che al popolo farebbe
piacere sapere che la loro regina se la svigna—"
Gli
dà un pugno.
E
poi guarda scioccata il proprio pugno, coperto di piccoli spilli di
ghiaccio che si ritirano nella sua pelle pallida, e il viso del
Principe
Albert. Questi si volta di nuovo verso di lei, massaggiandosi
il mento.
Sono rimasti dei piccoli lividi, per colpa del ghiaccio, ma quella non
è la
cosa più sconcertante—
Sta
sorridendo.
"Ma
per che cosa sorride?" E sibila, sibila proprio,
perché prima arriva e poi perde la lettera e poi
sgattaiola via dalla nave
e sul serio, era tutto davvero troppo, davvero—
"E'
che è la prima volta che la vedo realmente
qualcosa,"
ride. "Sa, davvero realmente—arrabbiata—"
Il sorriso
accende quegli occhi, facendoli brillare come
frammenti di giada.
"Ha un bel gancio!"
Lo
guarda truce, incredula. Sopra di loro la città è
sveglia. Alla loro
destra, il porto è addormentato. Riesce a sentire le urla
soffocate di una
partita a carte che è degenerata, provenienti dalla nave
dietro di lei, sepolte
sotto il ponte, in profondità.
Ma
l'aveva appena—
L'aveva
appena fatta scattare di proposito?
"Sta
cercando di distrarmi dal fatto che ha intenzionalmente ignorato
la mia richiesta?"
"No!
No, io solamente—io—senta, non si sente meglio?"
chiede alla
fine.
Si
raddrizza, le labbra ancora strette, e si accorge con un sussulto che
qualche parte contorta e annodata nei recessi del suo petto si
è un po'
allentata.
Ma
solo un po'.
Chiede,
glaciale, "Cosa ci fa lontano dalla sua nave?"
"Me
ne fuggo alle taverne." Alza le mani, indietreggiando di un
passo mentre lei alza di nuovo il pugno. "Sul serio! Io—Io so
benissimo
quello che ha detto, ma si sta orribilmente stretti su
quella—beh, sulla nave,
lì, ed è che io—io—" Lei lo
sta guardando male, ancora, e quando se ne
accorge lascia cadere il discorso, e sbatte le ciglia, come se le
parole
l'avessero abbandonato. "Mi dispiace."
Elsa
sente la propria rabbia svanire, come era successo quella mattina.
Intensa e tagliente e ardente, e andata. Erano anche nelle stesse
posizioni.
Ripete le parole che aveva detto prima, quel giorno. "E' solo che non
credo di potermi fidare di lei." Non è proprio sicura del
perché
l'abbia detto. Qualcuno passa di corsa sopra di loro, e si tira in
fretta il
cappuccio sulla treccia biondo platino.
"Non
le chiedo di fidarsi di me," il Principe Albert risponde.
"Solo che, adesso, le sto—sto chiedendo solo di uscire con
me."
Appena si rende conto delle proprie parole stringe gli occhi ed
esclama, troppo
in fretta, e le parole che si confondono l'una con l'altra,
"Nonperunappuntamento."
Lo
guarda sbattendo le palpebre. Vuole dire, Non lo farei mai,
ma
tiene la bocca chiusa. Lui si affretta a continuare.
"Senta,
so che sta provando quello di cui le ho parlato, solo—beh,
non
essere una reale per un po', no? Ed ecco quello—venga alla
taverna, e vedrà il
suo popolo, non è—non è quello che
voleva?" Si ferma per respirare.
"Forse?"
Non
può solo—
Per
una notte, solo—
Lasciarsi
andare?
Non
l'aveva fatto, una volta?
Scatta,
"Va bene."
"Voglio
dire, non accadrà niente a nessuno, non deve per
forza—huh?"
"Ho
detto va bene."
"Lei
è… d'accordo con—me?"
"Sarà
la prima," afferma, gelida, avvicinandosi tanto a lui da
riuscire a contare le lentiggini che gli punteggiano il naso, "e unica
volta, Principe Albert." Si alza un vento freddo, fischiando.
"Solo
Albert," dice, con un mezzo sorriso nervoso, e guardando di
lato. "Solo—solo Albert. Per ora, intendo, non
per—non sempre."
"Perché,"
Elsa fa piano, fissando lo sguardo su un punto
imprecisato oltre la sua spalla, "perché per il resto della
notte non
saremo… dei reali."
"Esatto!
Voglio dire. Sì. Certo."
Elsa
lo guarda. Poi, con cautela, tende la mano. "Solo Elsa,
allora."
"Beh,
solo Elsa," Albert sorride, prendendola. "Cosa stiamo
aspettando?"
Niels
legge da un libro, ma Hans non conosce quella lingua. E' rozza,
brutale e cruda, come se denti e artigli si stessero facendo strada su
per la
gola del fratello, squarciandola. Il corvo è appollaiato
placidamente sulla sua
spalla.
Il
gesso inizia a scintillare di luce gialla e stucchevole, qualcosa si fa
strada lungo i segni a terra come un verme luminoso. Quando raggiunge
il
cerchio più interno dove lui è in piedi, prova un
dolore acuto, come una
pugnalata, nel tallone. Cerca di sollevare un piede e scopre che non ci
riesce.
Nonostante anni passati ad esercitare la finta calma, il suo contegno
perfetto
si spacca un po' ai margini.
"Fratello?"
Hans chiede, e la voce gli trema. Non riesce a
voltarsi per guardare il re che sta seduto a sorseggiare tè.
Può solo sentirlo
alle proprie spalle. Fuori il cielo è nero.
"Pazienza."
Il
fuoco si spegne.
Si
infila un'unghia tra i due incisivi, tentando di togliere un pezzettino
di carne che vi era rimasto incastrato, e poi all'improvviso si ricorda
di dove
si trova, e si rende conto del fatto che anche se si tratta di
Anna che
gli è seduta accanto, è Anna
che gli è seduta accanto. Riesce praticamente
a sentire Sven che gli strilla di ricordarsi delle buone maniere. Si
pulisce in
fretta l'unghia offensiva sui pantaloni, lanciando un'occhiata di lato,
ma non
se ne era nemmeno accorta—
Era
troppo impegnata a fissare il cielo.
La
osserva per un momento. Non riesce a farne a meno. La curva delicata
del
naso. Le labbra sottili. Si guarda di nuovo l'unghia e fa una smorfia.
Prima
che possa crogiolarsi nell'autocommiserazione, comunque, Anna balza in
piedi,
quasi lanciando via il cesto vuoto, la tovaglia, le briciole,
spazzolandosi la
gonna pensante—e non si pensi che non si fosse accorto che
tremava, perché se
ne era accorto—e si volta verso di lui. Tende la mano,
impaziente. Esclama,
ancora di più, "Okay, okay, basta cibo,
andiamo, in piedi, in
piedi, in piedi!"
Kristoff
la guarda sbattendo le palpebre, confuso.
"Kristopher!"
lo ammonisce dopo un momento, due, in cui lui aveva
continuato a fissarla, perché, sul serio, come
faceva ad avere tanta energia,
era possibile che una persona potesse avere tutta quell' energia—"Il
cielo sta per svegliarsi," spiega con un sussurro basso, eccitato,
"quindi dobbiamo andare nel mio posto segreto, come, ieri—e dai!"
"Ok!
Ok, furia scatenata, cavolo," e il soprannome gli viene su
così facilmente. La asseconda, prendendo la mano tesa, ma
anche tirando
all'indietro con tutte le forze e piantando i piedi sul pavimento di
pietra del
balcone non riesce a fare abbastanza leva da sollevarlo. L'unica cosa
che fa è
perdere l'equilibrio. Lui ride, perché è
ridicola, e poi si alza. La raddrizza
senza sforzo. Pesa più o meno quanto un sacco di carote.
(E
mangia come una renna, come può avere senso—)
Lei
carezza la manica della sua tunica blu e sorride. "Grazie."
E' molto, molto vicina. Si lecca le labbra. Lei tossisce. "Pronto?"
"Che?
Oh, uh, già. Certo. Come sempre." Kristoff fa un passo
indietro, cercando di capire dove esattamente possa essere questo posto
segreto, facendosi domande sulla sanità mentale di Anna.
Ma,
in effetti, lo faceva sempre. Quindi.
"'Kay,"
fa lei, dandogli la schiena e camminando determinata
verso la ringhiera. "Quindi, tipo, non scoraggiarti, ma non ti
mentirò, è
un'arrampicata abbastanza difficile. Niente di troppo difficile, niente
che non
ritengo tu non possa fare—o possa fare? Niente che
io—lascia stare. Anzi,"
si ferma, e lui la fissa, perché aveva appena scavalcato la
ringhiera con una
gamba e se ne stava seduta lì comodamente come
è—normale, come può essere—"devo
essere io a seguirti? Così se cadi ti posso
prendere—"
"Non
credo proprio," fa in fretta, scuotendo la testa. "Che
ne dici se tu ti arrampichi, e io ti seguo?" Non dice: in
modo
che come le altre volte possa acchiapparti quando
inevitabilmente cadrai,
ma, ehi, l'idea c'è.
Anna
lo fissa. Poi scrolla le spalle. "Come vuoi. Non lamentarti
però
quando muori."
Alza
gli occhi con affetto e inizia ad arrampicarsi dietro di lei.
La
taverna è affollata. Appena messo un piede dentro vuole
andarsene. Il
posto sa di persone, troppe persone—sudore e alcool e l'odore
di qualsiasi
fosse il cibo che arrivava a zaffate dalle cucine sul retro. Un muro di
chiasso. Spunta del ghiaccio dai suoi piedi.
"Reg—Elsa,"
Albert le sussurra all'orecchio, attraverso la stoffa
pesante del mantello. "E' tutto ok. Solo persone."
"Devo
ricordarti," risponde a denti stretti, "che solo
persone volevano uccidermi?"
Questo
lo zittisce. Elsa riesce, comunque, dopo parecchi respiri profondi,
a sciogliere l'alone rivelatore attorno ai suoi piedi.
Dopo
una pausa imbarazzante Albert soffoca un colpo di tosse col pugno e
dice, "Di qua."
Lei
lo segue nella stanza, osando alzare pochissimo la testa, gli occhi che
luccicano nell'ombra.
E'
una sala ampia, illuminata dalla luce calda del fuoco che divampa nel
caminetto, e di molte candele, i cui steli di cera si afflosciano e
gocciolano
a cascata sul pavimento. C'erano tavoli, e sgabellini, e un grande
bancone su
uno dei muri, con grossi barili di birra e alcool situati dietro di
esso. Le
persone chiacchieravano riunite a gruppi di due, di tre, di
quattro—tutte
assieme, e ad alta voce, e ovunque. Quando scivolano accanto a un uomo
che
ha—sbatte le palpebre scioccata—un uncino
al posto di una mano lo
sente esclamare, "Non avrei mai pensato che mi sarebbe mancato
l'Anatroccolo Coccoloso, ma—"
"Eccoci
qua," Albert esclama, muovendosi verso un angolo angusto.
C'è un alto tavolo a tre gambe, e due rozzi sgabelli simili.
Siede grata in
quello più lontano, sentendo la pressione rassicurante delle
pareti contro la
sua schiena. A suo vantaggio, riesce a vedere l'intera taverna.
Affonda
ancora di più nel proprio mantello.
"Torno
su—subito, aspetta un momento—" ed è
andato, scivolando di
nuovo oltre l'uomo con la mano a uncino e un altro con un naso grosso e
sporgente. Osserva il movimento del suo cappuccio scuro, fino al
bancone. Poi
si guarda attorno.
Sorridevano.
Le persone. Significava—significava che erano felici?
Per un momento considera l'idea di abbassarsi il cappuccio, ma sa quale
sarebbe
stato il risultato—inchini. Rantoli scioccati. Attenzione non
richiesta.
Lasciati
andare, forza, ti prego, solo una notte,
lasciati andare—
Albert—con
quanta facilità il principe era scivolato via da lui, era
quasi
gelosa—è di ritorno, reggendo due boccali i cui
simili non aveva mai visto
prima. Erano d'argento, o una specie di metallo annerito che era
simile, e
sbeccati. Della schiuma bianco-giallastra ne traboccava, colando dai
lati.
Chiede, esitando, mentre li posa sul tavolo e si issa sullo sgabello
accanto a
lei, "Ma sono—puliti?"
Lui
considera il proprio con sospetto. "Sinceramente? Probabilmente
no. Ma nemmeno la birra lo è." Beve una grande sorsata, la
faccia che si
contorce in maniera comica. Elsa si morde il labbro per non sorridere.
Lui
schiocca le sue, e riesce a dire, "Gran bella roba, questa."
Afferra
il proprio boccale, e, prima di poter riconsiderare le proprie
scelte di vita, beve un sorsetto esitante. Impallidisce immediatamente,
e poi,
quasi con la stessa rapidità, si chiede cosa Anna avrebbe
detto se l'avesse
vista in quel momento—niente, probabilmente. Sua sorella
avrebbe riso. Il
liquido sembra aceto che le scorre giù per la gola, e
tossisce. "Immagino
che—non abbiano—vino?"
"In
una taverna?" Albert ridacchia grugnendo.
Elsa
tira su col naso, rigida. Sul tavolino cala un silenzio evidente anche
con tutto il rumore che avevano attorno. Alla fine chiede, "E
adesso?"
"Beh,
suppongo—Io—Io in realtà non ne ho idea."
Lo
guarda in tralice, cauta. Dopo un attimo, durante il quale i suoi occhi
tornano alla scena festosa davanti a lei, chiede, "Secondo la
tua…opinione
professionale, queste persone sembrano felici?"
"Cosa
c'è da non essere felici? Arendelle è un regno
prospero. Hanno
degli amici, e la birra. Birra orribile, ma quello a cui si
spingerebbero gli
uomini pur di—una volta, mi ricordo, Felix si è
intrufolato nelle cucine per
rubare la nostra—e poi—" Albert si chiude a riccio.
Chiude la bocca con un
clack. Beve un sorso dal boccale, a labbra strette.
"Cosa
gli è accaduto?" Elsa passa il dito sull'orlo del proprio,
tracciando pigramente il perimetro, ancora, e ancora. "Felix."
"Cosa—ti
fa pensare che gli sia successo qualcosa?" Albert
chiede.
"Hai
accennato al fatto che se ne è andato. Quando hai cenato con
noi."
Albert
si strattona una ciocca di capelli.
"Quando
aveva vent'anni, si è imbarcato. E non è tornato
più."
"Oh."
Le sembra di aver ricevuto un pugno allo stomaco.
"La
maggior parte di noi concorda sul fatto che siano stati i
pirati," sorride con aria di biasimo, finendo la birra. Guarda le sue
spalle—non sono più ricurve. Sta con sicurezza
appoggiato al muro, dondolando
lo sgabello su due delle tre gambe, sorvegliando la stanza coi suoi
occhi
luminosi, mica-giada-zaffiro. "Ha preso una nave che attraversava il
mar
dei Caraibi, quello stupido bastardo. Non so cosa si aspettasse."
Elsa
fa, "Mi dispiace," perché è la cosa giusta da
dire, anche se
non le dispiace. Anche se è orribilmente, segretamente
contenta del fatto che
ci fosse un fratello in meno di cui preoccuparsi. E poi—
"Non
farlo." Albert ride. "Felix lo odiava."
"Cosa?"
"Essere
reali. Non lo sopportava. Odiava il castello, e le persone. Ti
ho detto che ha fondato lui la tradizione—mescolarsi,
la chiamava."
Elsa
osserva l'uomo con la mano a uncino chiedere un altro giro di birre.
Dice, "I miei genitori sono morti su una nave."
"Non
sembrano molto sicure, eh?" Albert medita. "Portano
cattivo tempo e le notizie peggiori."
"Portano
i principi indesiderati," fa lei, per togliersi dalla
bocca il sapore di genitori.
"Mi
ferisci," dice, ma con un gran sorriso. E' a suo agio, e i
suoi movimenti sono sciolti. Non si tocca più l'avambraccio,
in cerca degli
appunti segreti che tiene lì. Ha lasciato completamente
cadere la facciata
della regalità. Però, pensa mesta, può
anche darsi che stia solamente iniziando
a sentire gli effetti più piacevoli della birra—
"Voi,
signore!" Albert urla all'improvviso. "Volete sapere
chi beve?"
Elsa
affonda di più nel mantello mentre molti sguardi si
rivolgono dalla
loro parte.
"Già"
l'uomo con la mano a uncino risponde, gli occhi stretti a
fessura. "E tu che vuoi?"
"Voglio
entrare nel giro," Albert ghigna, impudente. "Offro
io."
Hans
si sta sciogliendo, da dentro a fuori.
Il
respiro gli graffia la gola scorticata, carboni ardenti che entrano ed
escono dai polmoni. Non riesce a riprendere fiato, con questo respiro,
sembra
che non riesca a trattenere abbastanza ossigeno—gliene serve
di più, per
alimentare il dolore nel suo ventre, il calore nel petto—le
ossa si incrinano,
si spezzano e scoppiano, e la pelle è rovente, marrone.
C'è un odore orribile,
tremendo. Carne che brucia.
Hans
urla.
"Il
tuo cognome è che?"
"Bjorgman."
"Bjorgman.
Sei sicuro?"
"Abbastanza."
"Tipo,
cento per cento?"
"Uh,
sì."
"Huh."
Anna considera la cosa, allungando le mani davanti a sé,
sentendo le tegole ruvide del tetto che le graffiano le gambe. Kristoff
è
appoggiato a uno dei comignoli che si ergono dal castello stesso; sono
seduti
nel suo posto segreto, un cornicione largo a sufficienza per
appollaiarvisi
sopra, più in alto del resto del mondo, vicina al cielo e ai
suoi bellissimi
colori ondeggianti—bluverdeviola—poi ancora verde.
Una spinta di troppo
all'indietro, e potrebbe cadere. "Anna Bjorgman. Che ne pensi?"
"E'—"
la voce si incrina. Scuote la testa, strofinandosi la nuca
"E' a posto, suppongo."
"Già.
Sarebbe molto meglio se avessi un cognome forte—tipo Odinson.
Kristoff Odinson, che dici?"
"No."
"Io
credo che sia migliore."
"No."
"Bene,
ok, come vuoi. Come dici tu." Spia le stelle sopra di sé.
Ora o mai più, pensa cupa. "Ehi, Kristoff?"
"Già—puoi
stare attenta con questo cornicione, lì dietro, finirai per
cadere—"
"Non
lo farò. Kristoff."
"Sì?"
"Che
è successo ai tuoi genitori?" Fa a bassa voce. "Quelli
veri. Non che i troll non siano genitori veri, ma a meno che tu non mi
stia
nascondendo qualcosa, non credo che—voglio dire—non
credo che tu sia un
troll," conclude, debolmente, alzando in fretta lo sguardo sull'uomo di
fronte a lei, e riabbassandolo poi sulle proprie mani.
Riesce
a sentire Arendelle, fluttuante, e piena di vita. Sopra di lei il
cielo sta cantando.
Oh,
te la sei giocata. Te la sei giocata, giocata,
giocata, come hai potuto—e poi chiedere
una cosa del genere, voglio dire—oh
mio Di—
"Non
mi piace parlarne."
"Kristoff,
mi dispiace, mi dispiace ta—solo io, che sono troppo
curiosa, voglio dire, sappiamo tutti che sono un po' troppo curiosa e
ho
pensato, ehi, perché non chiedergli dei
genitori—voglio dire, non i genitori,
non voglio riaprire vecchie—"
"No,
va—non fa niente, sul serio—"
"Voglio
dire, a chi va di parlare coi tuoi genitori, no? Devo
smettere di dirlo—"
"Anna!"
Alza
lo sguardo.
"Mi
va che tu lo sappia."
"Oh.
Oh. Davvero?"
"Beh,
voglio dire." Fa un respiro profondo. "Solo perché non
ti piace parlare di qualcosa non significa che devi ignorarla," riesce
a
dire espirando.
Anna
pensa a un tratto al ghiaccio di Elsa e ad anni di porte chiuse.
Scheggia il legno sotto di sé con l'unghia. "Già."
Kristoff
si gratta il naso. Pensa che voglia fare il nonchalant, ma tiene
le labbra troppo premute. "Mio padre—uscì a cavare
ghiaccio—era uscito il
giorno prima, e questa tempesta enorme scendeva dalle montagne. Nuvole
grosse,
nere. Per un—lunghe un chilometro. Così
mia mamma disse," si ferma,
gli occhi che diventano strani e annebbiati, fissi su un punto oltre la
sua
spalla. Continua, piano, come se stesse parlando tra
sé e sé, "Resta
qui."
Anna
si lecca le labbra.
"Fu
l'ultima cosa che mi disse. Resta qui. Poi
andò nel
granaio, mise le bardature alla nostra ultima renna, e. Ecco che se ne
andò." Si sfrega la nuca a disagio. "Rimase via per un po'.
Abbastanza a lungo che la neve iniziò a sciogliersi e venire
giù in valanghe,
col vento che peggiorava le cose. Poi la vidi, avvicinarsi dai margini
della
foresta, in groppa alla renna. Mio padre la seguiva."
C'è
una pausa di trenta secondi interi, nella quale Anna pensa che non
avrebbe chiesto mai più niente, e che diritto aveva persino
di chiedere una
cosa del genere, e che stava facendo, a chiedere una cosa del genere,
tipo, chi
era stato, chi l'aveva fatto—dov'erano le sue
facoltà di vita sociale—
"Non
fecero in tempo a scampare alla tempesta," sospira alla
fine, scuotendo la testa. "Vicini. Ma non vicini abbastanza." Tira
forte su col naso, sfregando il palmo della mano sul legno accanto a
sé.
"Provai ad aprire la porta, ma non ci riuscii. Il cumulo di neve era
troppo alto." Pausa. Respiro. Battito di ciglia. "Sven era nel
granaio. Anche lui perse i genitori."
Anna
non dice niente, allora, perché se apre la bocca
rovinerà tutto. Perché
se apre la bocca potrebbe dire, eppure sei tornato a fare il
cavatore di
ghiaccio o chiedere trovasti i corpi
oppure i troll sono stati
genitori migliori o peggiori e nessuna di queste era una
domanda fattibile,
quindi, no. Invece arranca avanti, mano davanti a piede sul piccolo
cornicione,
e gli si siede senza garbo in grembo, così da fargli sputare
i propri capelli
che gli erano finiti in bocca. Le sue braccia la circondano
automaticamente e
lei sorride, quasi compiaciuta, se non fosse per il fantasma lugubre
della
storia che ancora aleggia su di loro.
E'
caldo.
"Che
stai—"
"Shh,"
gli copre la bocca con la mano. "Il cielo si è
svegliato."
Ed
entrambi guardano in su.
Albert
sta tentando di battere a braccio di ferro un tizio chiamato
Vladimir che ha tutta l'aria di uno che potrebbe schiacciare il cranio
di una
persona tra le cosce, non che lei badi a quel genere di cose.
Accanto a
lui, il criminale con l'uncino—dal nome: Mano a
Uncino—e quello col naso
grosso—dal nome:Nasone—fanno il tifo per il loro
amico. Albert non è suo amico,
pensa con determinazione, osservando il principe che si morde il
labbro,
frustrato, il viso che diventa di una brillante sfumatura di rosso
cremisi,
quindi—
"Vai,
Albert!" strilla, sollevando il boccale—due? O tre?
Decisamente il terzo, quello—con mano alquanto tremante e
indirizzandogli un
sorriso da sotto il mantello. Lui sussulta, sorpreso dalla sua
uscita, e
Vladimir coglie quell'opportunità per sbattere, con forza,
la mano del principe
sul tavolo, tanto violentemente che Elsa giura di sentire le ossa che
si
rompono. Intanto infatti, tutti i boccali finiscono sul pavimento.
"Forse
la prossima volta, ragazzino," Mano a Uncino esclama con
una pacca sulla schiena. "'Ohi, amico, un altro giro, su!"
Albert,
massaggiandosi la mano con una smorfia, scivola tra la folla
crescente dirigendosi nel punto in cui lei è appollaiata,
come un uccellino,
sullo sgabello. Il mondo le galleggia attorno ronzando piacevolmente,
un comune
mormorio in un mucchio di strilli e volti felici. Le piace questo
posto. Lo
ama. E' un bel posto. Bello quasi quanto la Montagna del Nord.
"Il
mio piano ha funzionato," gli dice appena si avvicina.
"Huh?"
"Il
mio piano per farti perdere."
"E
credevo anche di avere alte probabilità di vittoria," Albert
tira su col naso, sedendosi di nuovo sul suo sgabello, e agitando la
mano per
salutare Ulf e Tor, altra gente in visita da rive lontane. E' una
persona totalmente
diversa, pensa, e questa volta è gelosa.
Totalmente diversa. Non è un
principe, e sorride, e piace a tutti. Così facile. Lascia
stare la regalità.
Huh.
Sono
gelosa,
pensa lentamente tra sé e sé, e poi fa un mezzo
sorriso, deliziata. Allunga la mano sul boccale davanti a lei, e butta
giù il
resto. Le brucia piacevolmente giù per la gola. Albert
sbatte le ciglia.
"Uh, quanti—quanti fanno con questo, allora?"
Scrolla
le spalle, ma le sembra che non siano più attaccate al corpo.
"Forse,"
risponde, concentrandosi sulle parole, "forse
diciamo. Due."
"Bugiarda."
"Forse
diciamo quattro."
"Facciamo
cinque —hai accettato quell'ultimo giro che Mano a Uncino ha
offerto—"
"Al
barista piaci," dice lei, indicandolo col mento, un uomo con
l'aria esperta, dal sorriso facile e gli occhi ammaliatori.
"Chi,
Bragi? E' perché gli parlo—woah, basta, per te,"
Albert
conclude, mettendo il proprio boccale fuori dalla sua portata.
Elsa
quasi ridacchia. Ma non lo fa.
"Gli
piace Arendelle?"
"Certo,
suppongo. Perché non ci par—"
"No."
"Sai,"
Albert sottolinea, passandosi una mano tra i ricci. I suoi
occhi sono proprio belli, pensa. Hanno qualcosa che la calma. "Sai,
parlare con la gente—"
"No."
Sospira,
come se avesse saputo quale sarebbe stata la risposta, e lei lo
guarda con la vista offuscata aprire la bocca per aggiungere qualcosa,
ma viene
interrotto da un ruggito generale. Le sedie vengono spinte via,
grattando sul
pavimento, e altri ceppi vengono lanciati nel fuoco. Bragi,
il barista,
sta urlando, e ci mette un minuto a distinguere le parole con il rumore
della
folla , "—suonerà la musica, tutti qui, tutti in
cerchio!"
Sente
gli accordi degli strumenti—un violino. Due. Una viola. Un
flauto.
C'è qualcosa di libero e sfrenato in quel suono, vibrante e
pulito e
bellissimo, qualcosa che non ha mai sentito prima, non tra le pareti di
una
sala da ballo. Sbatte le palpebre.
"Elsa?"
"Hm?"
Torna a guardare Albert, sobbalzando.
"Ho
detto, ti va di ballare?"
"Io—"
Oh,
no.
"Io—"
No.
No, no—
"Io
credo di star per vomitare" deglutisce, e poi, mettendosi di
corsa una mano davanti alla bocca, scappa via dalla taverna come un
fulmine.
"E
poi mi sono rotta il braccio."
"Ma—ma
sei seria?"
"Come
la peste."
"Questa
è la cosa più—ma sei sicura
di essere una
principessa?" Ride, e lei sente la vibrazione, che si propaga fin nel
proprio petto. Gli tira una gomitata.
"Kristopher."
La
sua risata svanisce. Le braccia di lui la avvolgono; è
accoccolata nello
spazio tra le sue gambe, e si sente—al sicuro, mentre osserva
le stelle che
brillano sopra di loro. E poi silenzio.
"Ehi,
che c'è? Che non va?" Cerca di voltarsi, ma lui tiene i
gomiti stretti e la mantiene ferma. Se si contorce troppo potrebbero
cadere
tutti e due. "Ti dà—voglio dire, non so
perché dovrebbe, perché sarebbe
stupido, ma—ti dà fastidio che lo sia?"
"Cosa,
goffa?"
Gomito,
fianco, grugnito. "Una principessa, testa di igloo."
Sospira,
e il suo respiro le sfiora le orecchie. "No. Perché dovrebbe
darmi fastidio?"
"Bugiardo."
Non
lo nega.
"Sai,"
continua lei, tirando un filo della tunica, "visto
che sei il Venditore di Ghiaccio Reale, in sostanza anche tu sei un
reale."
Lui
ride. "Non esiste."
"Invece
sì, ne avevamo già parlato." E poi, di punto in
bianco,
rabbrividisce. Uno di quei brividi violenti, imbarazzanti, e
praticamente
sembra quasi che le stia per venire un infarto o
simili—"Woah.
Strano."
"Ehi,"
chiede lui, la voce che diventa più dolce, "hai
freddo?"
"Beh, sarò
onesta, e non prenderla nel modo sbagliato, ma sei un
caminetto. Quindi, no. Sto bene, cavoli," svia il
discorso con una
risata, cercando di staccarsi. "Solo qualcuno che cammina sulla mia
tomba
o cose del genere—"
"Che?"
"Che?
che, che vuoi, vuoi farmi capire che non hai mai sentito—"
"No!"
"E'
un modo di dire, Kristopher, un modo di
dire—ehi,
non spingermi così, vuoi che cada? E' un piano per
prenderti il mio denaro,
non è così!."
"Ovviamente,"
risponde secco. La lascia andare, e lei si
risistema sul cornicione, voltandosi. Lui cerca qualcosa nella sacca.
"No,
mi sono appena ricordato, ho qualcosa per te—"
"Aspetta,
che? Kristoff, io non ho niente per te—"
"Non
richiesto," e arrossisce, e lei si chiede se stia pensando
alla slitta o cose così, ma davvero, era stato un regalo di
Elsa, quindi non
doveva sentirsi in debito per quello, o per la cosa della principessa,
o—o,
beh, niente, così—"Ecco."
Alza
lo sguardo, sorpresa. "Huh?"
Tiene
stretto un cristallo arancione tra indice e pollice. Pulsa come il
battito di un cuore, brilla come un tizzone. Sbatte rapidamente le
palpebre,
unoduetre—
"Kristoff,
è splendido."
E
poi pensa: aspetta, che faccio se è una proposta
di matrimonio, no
aspetta, no, non sono—
"E',
ah, un cristallo di fuoco," spiega, imbarazzato,
strofinandosi la nuca. "Dai troll."
Lascia
andare un respiro che non si era accorta di aver trattenuto.
"Un cristallo di fuoco?".
"Già,"
Kristoff sorride. "E'—fanno queste missioni, ed è
molto difficile, non so come spiegarlo, ma poi ricevono questi
cristalli, ed è
come—ecco, tendi la mano."
Lo
fa. Lui lo lascia cadere tra le sue mani tese, e c'è un
calore
improvviso, confortevole, che le percorre tutta la lunghezza del
braccio. Per
la prima volta da due settimane, le sembra di indossare troppi vestiti.
"Woah."
Il
suo sorriso di allarga. "Carino, eh?"
"Magnifico,
direi!" lo stringe al petto, e poi—"Nessuno ha
mai fatto qualcosa di simile per me," sorride quasi incredula,
osservando
il luccichio ambrato tra le proprie dita. "Voglio dire, non che non
abbia
mai ricevuto cose—voglio dire, ne ho avute troppe, ma erano
sempre tipo—ecco un
nuovo vestito, o, tipo, ecco un nuovo manuale di galateo—e
non so tu, ma non ho
bisogno di libri sulle buone maniere, ne ho da vendere, in tutto e per
tutto—"
si ferma per respirare, guardando attraverso le ciglia il suo sorriso
incerto,
compiaciuto. "Grazie!"
"Anna."
Kristoff allunga un braccio, poi ci ripensa, e
indietreggia, ma non smette di parlare. C'è una specie di
battaglia interna in
corso, pensa, i movimenti nervosi e incontrollati, la mano che
strattona il
colletto. Continua, "Anna, ti am—"
Sente
gli occhi spalancarsi. Il cuore batte più forte, e tutto
quello che
riesce a pensare è no, non ancora, non adesso,
più tempo, più—
"—miro
per il modo in cui riesci a parlare per, tipo, cinque minuti
senza nemmeno respirare, cavoli," conclude con una specie di risata
imbarazzata, guardando di lato. Sbatte le ciglia, sentendo il cristallo
sul
petto, che le riscalda il cuore.
Era—
Silenzio,
lungo e pesante.
Quindi
dice—
"Ehi,
allora tipo, hai dovuto fare qualche missione per ottenerlo, o
cosa?"
Kristoff
sorride compiaciuto, ma Anna crede di distinguere nei suoi occhi
un'espressione delusa, e non sa perché.
E
lo sa.
"Ho
delle conoscenze," fa lui.
Fianco
a fianco, osservano il cielo.
Elsa
si raddrizza, le dita sul legno ruvido della parete della taverna, e
sussulta.
"Voglio
dire, se proprio non volevi ballare con me, potevi anche
dirmelo," sente, e poi quella risata autodenigratoria, e poi, "Scusa.
Non è divertente. Stai—stai bene?"
Fa
un paio di passi a sinistra, allontanandosi da canale, e si appoggia
pesantemente contro il muro alle sue spalle. Una mano è
stretta a pugno tra le
pieghe del mantello, e l'altra posata con cautela sulla bocca. Ha il
cappuccio
abbassato; si sente scoperta, ma la piazza attorno alla taverna
è vuota.
"Sono stata meglio," risponde secca.
Albert
si ferma piano piano, con calma, e si appoggia al muro accanto a
lei. Dall'interno della taverna inizia a sentire le prime note della
canzone
che sta iniziando.
"Odi
ballare a tal punto?"
E
dice, perché aveva appena vomitato in un canale di scolo,
perché non
voleva nemmeno iniziare a pensare a regine e a regalità e
all'etichetta—"Sta
zitto."
"Sei
fredda come il ghiaccio, solo Elsa."
Gli
lancia un'occhiata che potrebbe fermare un piccolo esercito, ma lui non
smette di sorridere—alza solo le mani in segno di pace.
"Fammi
indovinare," risponde secca. "Non è divertente?"
"Come
facevi a saperlo?"
E
ripiombano nel silenzio.
Si
sfrega il gomito, guardando le strade. Il tetto a punta della taverna
le
fa ombra sul viso, e nelle case più lontane le luci iniziano
a spegnersi, una
per una. Si chiede quanto sia tardi. Dovrebbe tornare indietro.
Doveva—
Si
preme la base dei palmi sugli occhi.
"No,"
Albert afferma. "No, niente sensi di colpa fino alla
mattina dopo. Funziona così."
"Non
siamo usciti per ubriacarci," scatta, agitando le
mani avanti a sé, stringendosi tra le braccia. La neve
inizia a cadere, leggera
e lenta. "Siamo usciti per—conoscere meglio il mio popolo—"
"Elsa,"
Albert fa cauto, e quando lo guarda si sta strattonando
una manica, con l'aria di qualcuno che si sta avvicinando a un animale
selvatico, "Lo stai facendo. Lo osservi, ci parli—"
"Non
ci ho parl—"
"Non
è troppo tardi per parlare con le persone," si corregge in
fretta. Poi tossisce a disagio con la mano accanto alla bocca e si
gira,
rivolto verso la strada. "Senti, per come la vedo io, questo
è
stato—voglio dire, non ti—è
solo—"
"Tu
stavi bene là dentro," dice, troppo brusca, e lo sa. La
momentanea perdita di senno non era colpa di Albert, nonostante
le
avesse insinuato lui l'idea nel cervello. Non poteva incolpare altri
che sé
stessa.
"Io—è
diverso," ride, senza sentimento. "Questo è—quelle
sono
persone."
"E
io no?"
"Tu
sei Elsa," risponde, come se dovesse avere senso.
Ride
sbuffando dal naso. E' un suono molto da Anna. La sorprende.
"E
stanotte, era solo—non riguardava solo—voglio dire,
riguardava te
che—lasciarsi andare. Per un po'. Un momento. Un momentino."
Sobbalza
di lato, come colpita. "Come hai detto?"
"Lasciarsi
andare—era questo, penso. Penso che
fosse—già. Sì, voglio
dire."
E
per la prima volta si chiede se lo abbia giudicato male. Elsa si sfrega
le mani e si concentra per un momento, breve, doloroso, e la neve si
ferma.
No.
Non lo aveva fatto.
Emette
un lungo, profondo sospiro, e si appoggia di nuovo al muro.
L'insegna della taverna sta appesa sopra di loro, a
destra—rozzamente ricavata
da un pezzo di relitto, forse, e ridipinta di recente con colori
vivaci, e
freschi. Il Puledro Impennato. Il cavallo su di
essa ha un aspetto
totalmente assurdo.
"Ce
ne sono così tante," Albert dice, di punto in bianco. Ci
mette un momento ad accorgersi che non ha lo sguardo rivolto verso
l'insegna,
ma su, oltre il ciglio del tetto sopra di loro e
verso il cielo pieno di
puntine argentate.
"Amo
la luce delle stelle," dice lei.
"Ho
sempre pensato che fosse una—luce fredda."
"No,"
scuote la testa, tracciando i contorni, le costellazioni,
immaginando di danzare in mezzo alla loro bellezza fredda, blu,
ricordando
quando la guardavano, felici, mentre costruiva il castello sulla
Montagna del
Nord. "No, sono bellissime."
"Felix
diceva sempre che erano la luce dei desideri."
"Hm,"
mormora.
"Lassù
balleresti, allora?"
"Come?"
"Lassù
balleresti?" chiede lui, sorridendo. "Ti ci vedo. Ci
staresti bene."
"Mi
stai chiamando una palla di gas che brucia?"
"No,"
scuote la testa, e prima che Elsa possa rendersi conto di
quello che stia facendo, la mano di lui si avvicina al suo
viso, sospesa
vicino alla guancia, e le sfiora una ciocca di capelli fuori posto. Lei
tira in
dentro un respiro. Si immobilizza.
"Bellissima."
Pausa. "Lontana."
"Sei
ubriaco," sussurra.
Il
suo sorriso è tagliente. "Forse. Probabilmente." La lascia
andare, e presume che stia per allontanarsi in fretta, ma invece si
avvicina in
fretta, così vicino che riesce a distinguere le macchioline
di verde scuro, di
celeste, nei suoi occhi, e alla fine, davvero erano come quegli altri
occhi, in realtà?—
"Che
stai facendo?" domanda all'improvviso.
Con
un rapido strattone le tira il cappuccio del mantello fin sulla fronte
proprio mentre una coppia li supera, a braccetto, la donna che afferma,
ad alta
voce, "Solo un ballo, tesoro—" prima di
entrare.
"Ci
siamo andati vicino," Albert sussurra, il sorriso che scivola
via mentre ruzzola all' indietro.
Lo
stomaco di Elsa fa di nuovo le capriole.
Lasciarsi
andare, eh?
Un'altra
canzone sta iniziando; una giga animata.
Allunga
tentativamente una mano, le dita che spuntano dalla stoffa del
mantello, e pallide alla luce della luna. Si lecca le labbra. Si ferma.
Respira. E—
"Balli
con me?"
Hans
si sveglia a pezzi.
Giace
sul pavimento, il collo bloccato in una posizione scomoda, le gambe
piegate sotto di sé. Sente delle voci, aleggiargli sopra, e
ci mette un po' a
ricordare di chi sono, a ricordare dove si trova—
"—ci
ha messo?"
"—non
posso saperlo finchè non si sveglia—"
"—dalle
urla, immagino che—"
Si
sente le budella simili al ripieno di una delle torte che faceva il
cuoco, sbattuto come un uovo; la testa sta anche peggio. Dietro le
palpebre
sente qualcosa divampare. Il respiro è affannoso,
accelerato, e sembra che non
riesca a fermarlo.
Apre
gli occhi.
Niels
è in ginocchio accanto a lui, che lo considera scaltro, con
l'occhio
clinico. Il corvo è ancora sulla sua spalla. Hans vuole
aprire la bocca ma
sembra che la mascella non voglia funzionare. Suo fratello gli alza un
braccio,
floscio, si avvicina per esaminargli le pupille. Il corvo rimane
lì, artigli
saldamente piantati nella stoffa della sua tunica, e quando si avvicina
riesce
finalmente a capire cosa c'è che non va nei suoi
occhi—
Lattiginosi,
opachi, bianchi.
Morti.
"Come
stai?" Niels chiede.
"D'inferno,"
Hans replica. Ci mette un po' a far funzionare la
voce, e quando ci riesce, quasi non la riconosce.
"Bene."
Niels lo tira su in piedi spietato. Hans barcolla. Il re
è in piedi alla finestra, sorvegliando la notte scura, fuori.
"Cosa
mi hai fatto?" Hans gracchia.
"Ti
ho reso più forte," il re risponde.
Hans
sta per rispondere, ma c'è qualcosa che si muove nelle sue
vene, caldo
e orribile come piombo fuso. Si sente bruciare, bruciare, bruciare—
Con
lenta, deliberata precisione, si guarda la mano destra, e si sfila il
guanto, un dito alla volta. La stoffa bianca cade al suolo senza peso,
tra i
segni di gesso sbiaditi.
—e
il bruciore si insinua su per le punte delle dita, gli divora la mano,
mentre osserva la propria pelle che splende, che si spacca—
Che
si copre di fiamme.
Si
muovono tra le sue dita aperte, scivolano sulle nocche, che danzano e
pulsano ipnotizzanti, nella penombra delle stanze di Niels.
"Hans,"
il re inizia, voltandosi per guardarlo in tralice,
"cos' è che scioglie il ghiaccio?"
Il
ghigno di Hans si scivola lentamente via dal suo viso come carta da
parati ingiallita che si stacca dal muro. "Oh, vostra
maestà," e il
titolo è intenzionale, e la frecciatina, il piccolo lapsus,
e la fiamma non lo
brucia mentre la osserva lambire l'aria, dal proprio palmo—
"Il
fuoco, ovviamente."
Da
qualche parte, una principessa e un venditore di ghiaccio siedono sul
tetto di un castello, osservando il cielo.
Da
qualche parte, una regina danza, libera come le stelle e due volte
più
lontana.
E
da qualche parte, aprendosi un varco tra le acque nere che luccicano,
una
nave attracca nel porto, silenziosa.