Film > Frozen - Il Regno di Ghiaccio
Segui la storia  |       
Autore: thefireplanet    06/06/2014    1 recensioni
Ci sono dei pesi, quando sei regina, che non hanno niente a che fare con una maledizione. Ci sono dei doveri, quando sei principessa, che non hanno niente a che fare con l'essere una sorella. E la strada per il vero amore non è mai stata in discesa.
Genere: Avventura, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Anna, Elsa, Hans, Kristoff, Nuovo personaggio
Note: Traduzione | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
 <<    >>
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A

Capitolo 11

 

 

La piccola margheritina bianca è in un vaso sul suo comodino. Riesce a vederla se preme il naso contro i pannelli della porta a vetri, come sta effettivamente facendo. Sembra così fragile. Come se potesse spezzarla solo reggendola tra il pollice e l'indice. Chiede, "Pensi mai a cosa potrebbe accadere se non esistessero più i fiori?" Il suo respiro appanna il vetro.

"No."

"Voglio dire, sul serio, Te lo immagini? Tipo, nessuno."

"Tipo, no. Lo mangi quel panino?"

"Sì," sibila, sulla difensiva, torcendo il busto e rubando l'ultimo dal cesto. Se ne infila in bocca un bel pezzo, giusto per sottolineare che è di sua proprietà, ed esclama, a bocca piena, "Mangerei pane a colazione, pranzo e cena," anche se suona più, "'mangereipanecolanzocena."

Kristoff annuisce. "Dieta sana. E il cioccolato?"

"Ok," Anna corregge, deglutendo. "Anche il cioccolato. Pane e cioccolato." Si riappoggia al vetro. Tiene la gamba stesa di lato  e il suo stivale quasi tocca quello di lui; ci sono gli avanzi del cesto accoccolato tra di loro, mezzo sparsi sul pavimento di pietra. Oltre la ringhiera, e il muro, riesce a distinguere le stelle che brillano, luminose paragonate alla luce che viene dall'interno della sua stanza. E' così contenta, e rilassata, tranne per il fatto che continua a pensare a Elsa e a sentirsi in colpa, desiderando che sua sorella non fosse così difficile tutto il tempo—"E tu?", gli chiede, per distrarsi dai problemi di difficol-tezza.

"E io cosa?"

"Lo sai," Anna ghigna. "Qual è il tuo cibo preferito?"

"Carote." Kristoff annuisce, saggiamente.

"Ma non è il cibo preferito di Sven?"

Dopo un minuto: "Non capisco cosa c’entri questo con —"

Anna ride grugnendo. Bisbiglia, "Relazione morbosa," a mezza bocca. Kristoff scuote la testa, mesto; la sua risata è breve.

"E' che," si ferma, guardandola in tralice, e poi guardando il cielo, "è che—c'è sempre stato per me."

Anna sbatte le ciglia, tracciando il profilo di Kristoff alla luce traballante. Ha gli angoli della bocca sollevati. 

Rabbrividisce, e poi si arrabbia con se stessa per essere rabbrividita, perché era una serata tiepida, di fine estate, piacevole, come un bagno caldo, ma lei è congelata. Ha la pelle d'oca su tutte le braccia, sotto le calze, su per la schiena. Dà un altro morso al panino per nasconderlo. Mastica. Mastica. Mastica più in fretta, devo chiederglielo—deglutisce. "E i troll?"

"Eh? Oh, sì. Anche loro, sì. Certo," finisce, vago, massaggiandosi la nuca, a disagio. Tasta il fondo del cesto, trova un pezzo solitario di cioccolato, e inizia a rigirarselo tra pollice e indice.

Anna vuole chiederglielo. Eppure, invece, allunga la mano nel cesto, perché se c'era un pezzo di cioccolato, significava che ce n'erano anche altri—le loro mani si sfiorano. Kristoff sorride, colpevole, e ritrae la mano. Anna si chiede se sia arrossito. Gli dà un colpetto alla spalla con la propria, sorridendo. "Lo mangi?" chiede, riferendosi al pezzo che ha in mano.

Se lo lancia in bocca con noncuranza. "Lo vuoi?"

"Kristopher."


Tieni la testa bassa, tieni la testa bassa, tieni

"Signorina? Posso aiutarla, sta cercando qualcosa?"

"No, sto benissimo così, grazie—"

Lo sanno, lo sanno, lo sanno

Elsa dà un altro strattone al proprio cappuccio, abbassato fino agli occhi, le dita che afferrano le pieghe del mantello viola scuro, il gelo che arriccia le cuciture. Mantiene lo sguardo fisso sui piedi—ballerine nere, semplici, le più semplici che è riuscita a trovare. Una davanti all'altra. Una davanti all'altra. Passo, Passo. Non calpestare le crepe, pensa in maniera piuttosto isterica. Il mondo è sveglio e rumoroso attorno a lei, uomini che chiamano donne, donne che chiamano uomini, bambini che spuntano e la superano diretti a casa. Ci sono luci alle finestre—riesce a vedere la luce riflessa al suolo, ma ha troppa paura di alzare lo sguardo, troppa paura che qualcuno la riconosca—

Lascia che i piedi vadano di proprio accordo, e poi spia, da sotto il cappuccio, il legno pesante, logoro, del porto, e si accorge che cammina mantenendosi parallela a esso, lungo il muro di pietra che recinta la città. Si ferma. Fa dietrofront. Inizia a tornare sui suoi passi.

Il castello. Quanto era lontano il castello? Bastava solo tornare, attraversare i cancelli di gran carriera e fin su in camera sua e—

Un giovanotto la incrocia fischiettando, il piede che calpesta l'orlo del suo mantello. E' costretta a bloccarsi e perde l'equilibrio; lui non si ferma e nemmeno lei, rotolando all'indietro oltre il bordo del muro e piombando giù sul molo sottostante—

Atterra in un mucchio di neve con un thud sordo. Il cuore le martella in petto, il cappuccio è abbassato sulle spalle. Sente, "Stai bene?" Passi. E poi, incerto, incredulo, "Regina Elsa?"

Chiude gli occhi. Ma certo. Inspira, a lungo e profondamente, attraverso il naso. Espira con pari furia. Quando apre gli occhi il Principe Albert è lì in piedi, appena fuori il perimetro della neve, e indossa un mantello scuro, quasi nero; il cappuccio è abbassato. Il suo abbigliamento è molto più presentabile di quanto era stato prima, nota vagamente, quindi può evitare di perdere la testa. Tunica e pantaloni. Tutto in ordine.

"Sì, salve," risponde, come se per lei fosse perfettamente normale essere caduta in un metro di neve alle otto di sera, quando si supponeva fosse impegnata nella lettura di rapporti sugli affari e in riunione coi suoi consiglieri.

"Ciao—salve. Come st—voglio dire—ecco, mi permetta—" si abbassa, tendendo una mano, i capelli che gli cadono sulla fronte in riccioli ribelli. Ignora l'aiuto, e ruotando il polso sente la neve spingerla su, fuori dal suo abbraccio. Ci stava quasi comoda. Il Principe Albert si fa indietro, e lo guarda rendersi conto lentamente di quello di cui lei si sta rendendo conto, cioè—

"Pensavo di averle ordinato di rimanere sulla sua nave," dice, gelida.

Sbatte le ciglia guardandola con quegli occhi e sembra star prendendo una qualche decisione. Raddrizza le spalle. Afferma, "E io pensavo che lei fosse la regina."

Sente le labbra stringersi in una linea sottile. Nella sua voce non c'è tanta diretta irriverenza, quanto piuttosto una durezza nuova da parte sua. E' confusa. "Chiedo scusa?" domanda, lasciando che la brina si insinui su per le gambe e si fermi attorno alla gola.

Lui spietato scrolla le spalle, abbassando lo sguardo sul naso storto, esaminandosi le punte degli stivali. "Mi ha sentito. Pensavo fosse la regina. Questo non è esattamente comportamento da regine."

Stringe le mani nascoste dalle le pieghe del mantello, sentendo il ghiaccio strisciare sulle nocche e più su.

"Forse dovrei informare le guardie? Sono sicuro che al popolo farebbe piacere sapere che la loro regina se la svigna—"

Gli dà un pugno.

E poi guarda scioccata il proprio pugno, coperto di piccoli spilli di ghiaccio che si ritirano nella sua pelle pallida, e il viso del Principe Albert. Questi si volta di nuovo verso di lei, massaggiandosi il mento. Sono rimasti dei piccoli lividi, per colpa del ghiaccio, ma quella non è la cosa più sconcertante—

Sta sorridendo.

"Ma per che cosa sorride?" E sibila, sibila proprio, perché prima arriva e poi perde la lettera e poi sgattaiola via dalla nave e sul serio, era tutto davvero troppo, davvero—

"E' che è la prima volta che la vedo realmente qualcosa," ride. "Sa, davvero realmente—arrabbiata—" Il sorriso accende quegli occhi, facendoli brillare come frammenti di giada. "Ha un bel gancio!"

Lo guarda truce, incredula. Sopra di loro la città è sveglia. Alla loro destra, il porto è addormentato. Riesce a sentire le urla soffocate di una partita a carte che è degenerata, provenienti dalla nave dietro di lei, sepolte sotto il ponte, in profondità.

Ma l'aveva appena—

L'aveva appena fatta scattare di proposito?

"Sta cercando di distrarmi dal fatto che ha intenzionalmente ignorato la mia richiesta?"

"No! No, io solamente—io—senta, non si sente meglio?" chiede alla fine.

Si raddrizza, le labbra ancora strette, e si accorge con un sussulto che qualche parte contorta e annodata nei recessi del suo petto si è un po' allentata.

Ma solo un po'.

Chiede, glaciale, "Cosa ci fa lontano dalla sua nave?"

"Me ne fuggo alle taverne." Alza le mani, indietreggiando di un passo mentre lei alza di nuovo il pugno. "Sul serio! Io—Io so benissimo quello che ha detto, ma si sta orribilmente stretti su quella—beh, sulla nave, lì, ed è che io—io—" Lei lo sta guardando male, ancora, e quando se ne accorge lascia cadere il discorso, e sbatte le ciglia, come se le parole l'avessero abbandonato. "Mi dispiace."

Elsa sente la propria rabbia svanire, come era successo quella mattina. Intensa e tagliente e ardente, e andata. Erano anche nelle stesse posizioni. Ripete le parole che aveva detto prima, quel giorno. "E' solo che non credo di potermi fidare di lei." Non è proprio sicura del perché
l'abbia detto. Qualcuno passa di corsa sopra di loro, e si tira in fretta il cappuccio sulla treccia biondo platino.

"Non le chiedo di fidarsi di me," il Principe Albert risponde. "Solo che, adesso, le sto—sto chiedendo solo di uscire con me." Appena si rende conto delle proprie parole stringe gli occhi ed esclama, troppo in fretta, e le parole che si confondono l'una con l'altra, "Nonperunappuntamento."

Lo guarda sbattendo le palpebre. Vuole dire, Non lo farei mai, ma tiene la bocca chiusa. Lui si affretta a continuare.

"Senta, so che sta provando quello di cui le ho parlato, solo—beh, non essere una reale per un po', no? Ed ecco quello—venga alla taverna, e vedrà il suo popolo, non è—non è quello che voleva?" Si ferma per respirare. "Forse?"

Non può solo—

Per una notte, solo—

Lasciarsi andare?

Non l'aveva fatto, una volta?

Scatta, "Va bene."

"Voglio dire, non accadrà niente a nessuno, non deve per forza—huh?"

"Ho detto va bene."

"Lei è… d'accordo con—me?"

"Sarà la prima," afferma, gelida, avvicinandosi tanto a lui da riuscire a contare le lentiggini che gli punteggiano il naso, "e unica volta, Principe Albert." Si alza un vento freddo, fischiando.

"Solo Albert," dice, con un mezzo sorriso nervoso, e guardando di lato. "Solo—solo Albert. Per ora, intendo, non per—non sempre."

"Perché," Elsa fa piano, fissando lo sguardo su un punto imprecisato oltre la sua spalla, "perché per il resto della notte non saremo… dei reali."

"Esatto! Voglio dire. Sì. Certo."

Elsa lo guarda. Poi, con cautela, tende la mano. "Solo Elsa, allora."

"Beh, solo Elsa," Albert sorride, prendendola. "Cosa stiamo aspettando?"


Niels legge da un libro, ma Hans non conosce quella lingua. E' rozza, brutale e cruda, come se denti e artigli si stessero facendo strada su per la gola del fratello, squarciandola. Il corvo è appollaiato placidamente sulla sua spalla.

Il gesso inizia a scintillare di luce gialla e stucchevole, qualcosa si fa strada lungo i segni a terra come un verme luminoso. Quando raggiunge il cerchio più interno dove lui è in piedi, prova un dolore acuto, come una pugnalata, nel tallone. Cerca di sollevare un piede e scopre che non ci riesce. Nonostante anni passati ad esercitare la finta calma, il suo contegno perfetto si spacca un po' ai margini.

"Fratello?" Hans chiede, e la voce gli trema. Non riesce a voltarsi per guardare il re che sta seduto a sorseggiare tè. Può solo sentirlo alle proprie spalle. Fuori il cielo è nero.

"Pazienza."

Il fuoco si spegne.


Si infila un'unghia tra i due incisivi, tentando di togliere un pezzettino di carne che vi era rimasto incastrato, e poi all'improvviso si ricorda di dove si trova, e si rende conto del fatto che anche se si tratta di Anna che gli è seduta accanto, è Anna che gli è seduta accanto. Riesce praticamente a sentire Sven che gli strilla di ricordarsi delle buone maniere. Si pulisce in fretta l'unghia offensiva sui pantaloni, lanciando un'occhiata di lato, ma non se ne era nemmeno accorta—

Era troppo impegnata a fissare il cielo.

La osserva per un momento. Non riesce a farne a meno. La curva delicata del naso. Le labbra sottili. Si guarda di nuovo l'unghia e fa una smorfia. Prima che possa crogiolarsi nell'autocommiserazione, comunque, Anna balza in piedi, quasi lanciando via il cesto vuoto, la tovaglia, le briciole, spazzolandosi la gonna pensante—e non si pensi che non si fosse accorto che tremava, perché se ne era accorto—e si volta verso di lui. Tende la mano, impaziente. Esclama, ancora di più, "Okay, okay, basta cibo, andiamo, in piedi, in piedi, in piedi!"

Kristoff la guarda sbattendo le palpebre, confuso.

"Kristopher!" lo ammonisce dopo un momento, due, in cui lui aveva continuato a fissarla, perché, sul serio, come faceva ad avere tanta energia, era possibile che una persona potesse avere tutta quell' energia—"Il cielo sta per svegliarsi," spiega con un sussurro basso, eccitato, "quindi dobbiamo andare nel mio posto segreto, come, ieri—e dai!"

"Ok! Ok, furia scatenata, cavolo," e il soprannome gli viene su così facilmente. La asseconda, prendendo la mano tesa, ma anche tirando all'indietro con tutte le forze e piantando i piedi sul pavimento di pietra del balcone non riesce a fare abbastanza leva da sollevarlo. L'unica cosa che fa è perdere l'equilibrio. Lui ride, perché è ridicola, e poi si alza. La raddrizza senza sforzo. Pesa più o meno quanto un sacco di carote.

(E mangia come una renna, come può avere senso—)

Lei carezza la manica della sua tunica blu e sorride. "Grazie." E' molto, molto vicina. Si lecca le labbra. Lei tossisce. "Pronto?"

"Che? Oh, uh, già. Certo. Come sempre." Kristoff fa un passo indietro, cercando di capire dove esattamente possa essere questo posto segreto, facendosi domande sulla sanità mentale di Anna.

Ma, in effetti, lo faceva sempre. Quindi.

"'Kay," fa lei, dandogli la schiena e camminando determinata verso la ringhiera. "Quindi, tipo, non scoraggiarti, ma non ti mentirò, è un'arrampicata abbastanza difficile. Niente di troppo difficile, niente che non ritengo tu non possa fare—o possa fare? Niente che io—lascia stare. Anzi," si ferma, e lui la fissa, perché aveva appena scavalcato la ringhiera con una gamba e se ne stava seduta lì comodamente come è—normale, come può essere—"devo essere io a seguirti? Così se cadi ti posso prendere—"

"Non credo proprio," fa in fretta, scuotendo la testa. "Che ne dici se tu ti arrampichi, e io ti seguo?" Non dice: in  modo che come le altre volte possa acchiapparti quando inevitabilmente cadrai, ma, ehi, l'idea c'è.

Anna lo fissa. Poi scrolla le spalle. "Come vuoi. Non lamentarti però quando muori."

Alza gli occhi con affetto e inizia ad arrampicarsi dietro di lei.


La taverna è affollata. Appena messo un piede dentro vuole andarsene. Il posto sa di persone, troppe persone—sudore e alcool e l'odore di qualsiasi fosse il cibo che arrivava a zaffate dalle cucine sul retro. Un muro di chiasso. Spunta del ghiaccio dai suoi piedi.

"Reg—Elsa," Albert le sussurra all'orecchio, attraverso la stoffa pesante del mantello. "E' tutto ok. Solo persone."

"Devo ricordarti," risponde a denti stretti, "che solo persone volevano uccidermi?"

Questo lo zittisce. Elsa riesce, comunque, dopo parecchi respiri profondi, a sciogliere l'alone rivelatore attorno ai suoi piedi. 

Dopo una pausa imbarazzante Albert soffoca un colpo di tosse col pugno e dice, "Di qua."

Lei lo segue nella stanza, osando alzare pochissimo la testa, gli occhi che luccicano nell'ombra.

E' una sala ampia, illuminata dalla luce calda del fuoco che divampa nel caminetto, e di molte candele, i cui steli di cera si afflosciano e gocciolano a cascata sul pavimento. C'erano tavoli, e sgabellini, e un grande bancone su uno dei muri, con grossi barili di birra e alcool situati dietro di esso. Le persone chiacchieravano riunite a gruppi di due, di tre, di quattro—tutte assieme, e ad alta voce, e ovunque. Quando scivolano accanto a un uomo che ha—sbatte le palpebre scioccata—un uncino al posto di una mano lo sente esclamare, "Non avrei mai pensato che mi sarebbe mancato l'Anatroccolo Coccoloso, ma—"

"Eccoci qua," Albert esclama, muovendosi verso un angolo angusto. C'è un alto tavolo a tre gambe, e due rozzi sgabelli simili. Siede grata in quello più lontano, sentendo la pressione rassicurante delle pareti contro la sua schiena. A suo vantaggio, riesce a vedere l'intera taverna.

Affonda ancora di più nel proprio mantello.

"Torno su—subito, aspetta un momento—" ed è andato, scivolando di nuovo oltre l'uomo con la mano a uncino e un altro con un naso grosso e sporgente. Osserva il movimento del suo cappuccio scuro, fino al bancone. Poi si guarda attorno.

Sorridevano. Le persone. Significava—significava che erano felici? Per un momento considera l'idea di abbassarsi il cappuccio, ma sa quale sarebbe stato il risultato—inchini. Rantoli scioccati. Attenzione non richiesta.

Lasciati andare, forza, ti prego, solo una notte, lasciati andare

Albert—con quanta facilità il principe era scivolato via da lui, era quasi gelosa—è di ritorno, reggendo due boccali i cui simili non aveva mai visto prima. Erano d'argento, o una specie di metallo annerito che era simile, e sbeccati. Della schiuma bianco-giallastra ne traboccava, colando dai lati. Chiede, esitando, mentre li posa sul tavolo e si issa sullo sgabello accanto a lei, "Ma sono—puliti?"

Lui considera il proprio con sospetto. "Sinceramente? Probabilmente no. Ma nemmeno la birra lo è." Beve una grande sorsata, la faccia che si contorce in maniera comica. Elsa si morde il labbro per non sorridere. Lui schiocca le sue, e riesce a dire, "Gran bella roba, questa."

Afferra il proprio boccale, e, prima di poter riconsiderare le proprie scelte di vita, beve un sorsetto esitante. Impallidisce immediatamente, e poi, quasi con la stessa rapidità, si chiede cosa Anna avrebbe detto se l'avesse vista in quel momento—niente, probabilmente. Sua sorella avrebbe riso. Il liquido sembra aceto che le scorre giù per la gola, e tossisce. "Immagino che—non abbiano—vino?"

"In una taverna?" Albert ridacchia grugnendo.

Elsa tira su col naso, rigida. Sul tavolino cala un silenzio evidente anche con tutto il rumore che avevano attorno. Alla fine chiede, "E adesso?"

"Beh, suppongo—Io—Io in realtà non ne ho idea."

Lo guarda in tralice, cauta. Dopo un attimo, durante il quale i suoi occhi tornano alla scena festosa davanti a lei, chiede, "Secondo la tua…opinione professionale, queste persone sembrano felici?"

"Cosa c'è da non essere felici? Arendelle è un regno prospero. Hanno degli amici, e la birra. Birra orribile, ma quello a cui si spingerebbero gli uomini pur di—una volta, mi ricordo, Felix si è intrufolato nelle cucine per rubare la nostra—e poi—" Albert si chiude a riccio. Chiude la bocca con un clack. Beve un sorso dal boccale, a labbra strette.

"Cosa gli è accaduto?" Elsa passa il dito sull'orlo del proprio, tracciando pigramente il perimetro, ancora, e ancora. "Felix."

"Cosa—ti fa pensare che gli sia successo qualcosa?" Albert chiede.

"Hai accennato al fatto che se ne è andato. Quando hai cenato con noi."

Albert si strattona una ciocca di capelli.

"Quando aveva vent'anni, si è imbarcato. E non è tornato più."

"Oh." Le sembra di aver ricevuto un pugno allo stomaco.

"La maggior parte di noi concorda sul fatto che siano stati i pirati," sorride con aria di biasimo, finendo la birra. Guarda le sue spalle—non sono più ricurve. Sta con sicurezza appoggiato al muro, dondolando lo sgabello su due delle tre gambe, sorvegliando la stanza coi suoi occhi luminosi, mica-giada-zaffiro. "Ha preso una nave che attraversava il mar dei Caraibi, quello stupido bastardo. Non so cosa si aspettasse."

Elsa fa, "Mi dispiace," perché è la cosa giusta da dire, anche se non le dispiace. Anche se è orribilmente, segretamente contenta del fatto che ci fosse un fratello in meno di cui preoccuparsi. E poi—

"Non farlo." Albert ride. "Felix lo odiava."

"Cosa?"

"Essere reali. Non lo sopportava. Odiava il castello, e le persone. Ti ho detto che ha fondato lui la tradizione—mescolarsi, la chiamava."

Elsa osserva l'uomo con la mano a uncino chiedere un altro giro di birre. Dice, "I miei genitori sono morti su una nave."

"Non sembrano molto sicure, eh?" Albert medita. "Portano cattivo tempo e le notizie peggiori."

"Portano i principi indesiderati," fa lei, per togliersi dalla bocca il sapore di genitori.

"Mi ferisci," dice, ma con un gran sorriso. E' a suo agio, e i suoi movimenti sono sciolti. Non si tocca più l'avambraccio, in cerca degli appunti segreti che tiene lì. Ha lasciato completamente cadere la facciata della regalità. Però, pensa mesta, può anche darsi che stia solamente iniziando a sentire gli effetti più piacevoli della birra—

"Voi, signore!" Albert urla all'improvviso. "Volete sapere chi beve?"

Elsa affonda di più nel mantello mentre molti sguardi si rivolgono dalla loro parte.

"Già" l'uomo con la mano a uncino risponde, gli occhi stretti a fessura. "E tu che vuoi?"

"Voglio entrare nel giro," Albert ghigna, impudente. "Offro io."


Hans si sta sciogliendo, da dentro a fuori.

Il respiro gli graffia la gola scorticata, carboni ardenti che entrano ed escono dai polmoni. Non riesce a riprendere fiato, con questo respiro, sembra che non riesca a trattenere abbastanza ossigeno—gliene serve di più, per alimentare il dolore nel suo ventre, il calore nel petto—le ossa si incrinano, si spezzano e scoppiano, e la pelle è rovente, marrone. C'è un odore orribile, tremendo. Carne che brucia.

Hans urla.


"Il tuo cognome è che?"

"Bjorgman."

"Bjorgman. Sei sicuro?"

"Abbastanza."

"Tipo, cento per cento?"

"Uh, sì."

"Huh." Anna considera la cosa, allungando le mani davanti a sé, sentendo le tegole ruvide del tetto che le graffiano le gambe. Kristoff è appoggiato a uno dei comignoli che si ergono dal castello stesso; sono seduti nel suo posto segreto, un cornicione largo a sufficienza per appollaiarvisi sopra, più in alto del resto del mondo, vicina al cielo e ai suoi bellissimi colori ondeggianti—bluverdeviola—poi ancora verde. Una spinta di troppo all'indietro, e potrebbe cadere. "Anna Bjorgman. Che ne pensi?"

"E'—" la voce si incrina. Scuote la testa, strofinandosi la nuca "E' a posto, suppongo."

"Già. Sarebbe molto meglio se avessi un cognome forte—tipo Odinson. Kristoff Odinson, che dici?"

"No."

"Io credo che sia migliore."

"No."

"Bene, ok, come vuoi. Come dici tu." Spia le stelle sopra di sé. Ora o mai più, pensa cupa. "Ehi, Kristoff?"

"Già—puoi stare attenta con questo cornicione, lì dietro, finirai per cadere—"

"Non lo farò. Kristoff."

"?"

"Che è successo ai tuoi genitori?" Fa a bassa voce. "Quelli veri. Non che i troll non siano genitori veri, ma a meno che tu non mi stia nascondendo qualcosa, non credo che—voglio dire—non credo che tu sia un troll," conclude, debolmente, alzando in fretta lo sguardo sull'uomo di fronte a lei, e riabbassandolo poi sulle proprie mani.

Riesce a sentire Arendelle, fluttuante, e piena di vita. Sopra di lei il cielo sta cantando.

Oh, te la sei giocata. Te la sei giocata, giocata, giocata, come hai potuto—e poi chiedere una cosa del genere, voglio direoh mio Di

"Non mi piace parlarne."

"Kristoff, mi dispiace, mi dispiace ta—solo io, che sono troppo curiosa, voglio dire, sappiamo tutti che sono un po' troppo curiosa e ho pensato, ehi, perché non chiedergli dei genitori—voglio dire, non i genitori, non voglio riaprire vecchie—"

"No, va—non fa niente, sul serio—"

"Voglio dire, a chi va di parlare coi tuoi genitori, no? Devo smettere di dirlo—"

"Anna!"

Alza lo sguardo.

"Mi va che tu lo sappia."

"Oh. Oh. Davvero?"

"Beh, voglio dire." Fa un respiro profondo. "Solo perché non ti piace parlare di qualcosa non significa che devi ignorarla," riesce a dire espirando.

Anna pensa a un tratto al ghiaccio di Elsa e ad anni di porte chiuse. Scheggia il legno sotto di sé con l'unghia. "Già."

Kristoff si gratta il naso. Pensa che voglia fare il nonchalant, ma tiene le labbra troppo premute. "Mio padre—uscì a cavare ghiaccio—era uscito il giorno prima, e questa tempesta enorme scendeva dalle montagne. Nuvole grosse, nere. Per un—lunghe un chilometro. Così mia mamma disse," si ferma, gli occhi che diventano strani e annebbiati, fissi su un punto oltre la sua spalla. Continua, piano, come se stesse parlando tra sé e sé, "Resta qui."

Anna si lecca le labbra.

"Fu l'ultima cosa che mi disse. Resta qui. Poi andò nel granaio, mise le bardature alla nostra ultima renna, e. Ecco che se ne andò." Si sfrega la nuca a disagio. "Rimase via per un po'. Abbastanza a lungo che la neve iniziò a sciogliersi e venire giù in valanghe, col vento che peggiorava le cose. Poi la vidi, avvicinarsi dai margini della foresta, in groppa alla renna. Mio padre la seguiva."

C'è una pausa di trenta secondi interi, nella quale Anna pensa che non avrebbe chiesto mai più niente, e che diritto aveva persino di chiedere una cosa del genere, e che stava facendo, a chiedere una cosa del genere, tipo, chi era stato, chi l'aveva fatto—dov'erano le sue facoltà di vita sociale

"Non fecero in tempo a scampare alla tempesta," sospira alla fine, scuotendo la testa. "Vicini. Ma non vicini abbastanza." Tira forte su col naso, sfregando il palmo della mano sul legno accanto a sé.  "Provai ad aprire la porta, ma non ci riuscii. Il cumulo di neve era troppo alto." Pausa. Respiro. Battito di ciglia. "Sven era nel granaio. Anche lui perse i genitori."

Anna non dice niente, allora, perché se apre la bocca rovinerà tutto. Perché se apre la bocca potrebbe dire, eppure sei tornato a fare il cavatore di ghiaccio o chiedere trovasti i corpi oppure i troll sono stati genitori migliori o peggiori e nessuna di queste era una domanda fattibile, quindi, no. Invece arranca avanti, mano davanti a piede sul piccolo cornicione, e gli si siede senza garbo in grembo, così da fargli sputare i propri capelli che gli erano finiti in bocca. Le sue braccia la circondano automaticamente e lei sorride, quasi compiaciuta, se non fosse per il fantasma lugubre della storia che ancora aleggia su di loro.

E' caldo.

"Che stai—"

"Shh," gli copre la bocca con la mano. "Il cielo si è svegliato."

Ed entrambi guardano in su.


Albert sta tentando di battere a braccio di ferro un tizio chiamato Vladimir che ha tutta l'aria di uno che potrebbe schiacciare il cranio di una persona tra le cosce, non che lei badi a quel genere di cose. Accanto a lui, il criminale con l'uncino—dal nome: Mano a Uncino—e quello col naso grosso—dal nome:Nasone—fanno il tifo per il loro amico. Albert non è suo amico, pensa con determinazione, osservando il principe che si morde il labbro, frustrato, il viso che diventa di una brillante sfumatura di rosso cremisi, quindi—

"Vai, Albert!" strilla, sollevando il boccale—due? O tre? Decisamente il terzo, quello—con mano alquanto tremante e indirizzandogli un sorriso da sotto il mantello. Lui sussulta, sorpreso dalla sua uscita, e Vladimir coglie quell'opportunità per sbattere, con forza, la mano del principe sul tavolo, tanto violentemente che Elsa giura di sentire le ossa che si rompono. Intanto infatti, tutti i boccali finiscono sul pavimento.

"Forse la prossima volta, ragazzino," Mano a Uncino esclama con una pacca sulla schiena. "'Ohi, amico, un altro giro, su!"

Albert, massaggiandosi la mano con una smorfia, scivola tra la folla crescente dirigendosi nel punto in cui lei è appollaiata, come un uccellino, sullo sgabello. Il mondo le galleggia attorno ronzando piacevolmente, un comune mormorio in un mucchio di strilli e volti felici. Le piace questo posto. Lo ama. E' un bel posto. Bello quasi quanto la Montagna del Nord.

"Il mio piano ha funzionato," gli dice appena si avvicina.

"Huh?"

"Il mio piano per farti perdere."

"E credevo anche di avere alte probabilità di vittoria," Albert tira su col naso, sedendosi di nuovo sul suo sgabello, e agitando la mano per salutare Ulf e Tor, altra gente in visita da rive lontane. E' una persona totalmente diversa, pensa, e questa volta è gelosa. Totalmente diversa. Non è un principe, e sorride, e piace a tutti. Così facile. Lascia stare la regalità.

Huh.

Sono gelosa, pensa lentamente tra sé e sé, e poi fa un mezzo sorriso, deliziata. Allunga la mano sul boccale davanti a lei, e butta giù il resto. Le brucia piacevolmente giù per la gola. Albert sbatte le ciglia. "Uh, quanti—quanti fanno con questo, allora?"

Scrolla le spalle, ma le sembra che non siano più attaccate al corpo.

"Forse," risponde, concentrandosi sulle parole, "forse diciamo. Due."

"Bugiarda."

"Forse diciamo quattro."

"Facciamo cinque —hai accettato quell'ultimo giro che Mano a Uncino ha offerto—"

"Al barista piaci," dice lei, indicandolo col mento, un uomo con l'aria esperta, dal sorriso facile e gli occhi ammaliatori.

"Chi, Bragi? E' perché gli parlo—woah, basta, per te," Albert conclude, mettendo il proprio boccale fuori dalla sua portata.

Elsa quasi ridacchia. Ma non lo fa.

"Gli piace Arendelle?"

"Certo, suppongo. Perché non ci par—"

"No."

"Sai," Albert sottolinea, passandosi una mano tra i ricci. I suoi occhi sono proprio belli, pensa. Hanno qualcosa che la calma. "Sai, parlare con la gente—"

"No."

Sospira, come se avesse saputo quale sarebbe stata la risposta, e lei lo guarda con la vista offuscata aprire la bocca per aggiungere qualcosa, ma viene interrotto da un ruggito generale. Le sedie vengono spinte via, grattando sul pavimento, e altri ceppi  vengono lanciati nel fuoco. Bragi, il barista, sta urlando, e ci mette un minuto a distinguere le parole con il rumore della folla , "—suonerà la musica, tutti qui, tutti in cerchio!"

Sente gli accordi degli strumenti—un violino. Due. Una viola. Un flauto. C'è qualcosa di libero e sfrenato in quel suono, vibrante e pulito e bellissimo, qualcosa che non ha mai sentito prima, non tra le pareti di una sala da ballo. Sbatte le palpebre.

"Elsa?"

"Hm?" Torna a guardare Albert, sobbalzando.

"Ho detto, ti va di ballare?"

"Io—"

Oh, no.

"Io—"

No. No, no

"Io credo di star per vomitare" deglutisce, e poi, mettendosi di corsa una mano davanti alla bocca, scappa via dalla taverna come un fulmine.


"E poi mi sono rotta il braccio."

"Ma—ma sei seria?"

"Come la peste."

"Questa è la cosa più—ma sei sicura di essere una principessa?" Ride, e lei sente la vibrazione, che si propaga fin nel proprio petto. Gli tira una gomitata.

"Kristopher."

La sua risata svanisce. Le braccia di lui la avvolgono; è accoccolata nello spazio tra le sue gambe, e si sente—al sicuro, mentre osserva le stelle che brillano sopra di loro. E poi silenzio.

"Ehi, che c'è? Che non va?" Cerca di voltarsi, ma lui tiene i gomiti stretti e la mantiene ferma. Se si contorce troppo potrebbero cadere tutti e due. "Ti dà—voglio dire, non so perché dovrebbe, perché sarebbe stupido, ma—ti dà fastidio che lo sia?"

"Cosa, goffa?"

Gomito, fianco, grugnito. "Una principessa, testa di igloo."

Sospira, e il suo respiro le sfiora le orecchie. "No. Perché dovrebbe darmi fastidio?"

"Bugiardo."

Non lo nega.

"Sai," continua lei, tirando un filo della tunica, "visto che sei il Venditore di Ghiaccio Reale, in sostanza anche tu sei un reale."

Lui ride. "Non esiste."

"Invece sì, ne avevamo già parlato." E poi, di punto in bianco, rabbrividisce. Uno di quei brividi violenti, imbarazzanti, e praticamente sembra quasi che le stia per venire un infarto o simili—"Woah. Strano."

"Ehi," chiede lui, la voce che diventa più dolce, "hai freddo?"

"Beh, sarò onesta, e non prenderla nel modo sbagliato, ma sei un caminetto. Quindi, no. Sto bene, cavoli," svia il discorso con una risata, cercando di staccarsi. "Solo qualcuno che cammina sulla mia tomba o cose del genere—"

"Che?"

"Che? che, che vuoi, vuoi farmi capire che non hai mai sentito—"

"No!"

"E' un modo di dire, Kristopher, un modo di dire—ehi, non spingermi così, vuoi che cada? E' un piano per prenderti il mio denaro, non è così!."

"Ovviamente," risponde secco. La lascia andare, e lei si risistema sul cornicione, voltandosi. Lui cerca qualcosa nella sacca. "No, mi sono appena ricordato, ho qualcosa per te—"

"Aspetta, che? Kristoff, io non ho niente per te—"

"Non richiesto," e arrossisce, e lei si chiede se stia pensando alla slitta o cose così, ma davvero, era stato un regalo di Elsa, quindi non doveva sentirsi in debito per quello, o per la cosa della principessa, o—o, beh, niente, così—"Ecco."

Alza lo sguardo, sorpresa. "Huh?"

Tiene stretto un cristallo arancione tra indice e pollice. Pulsa come il battito di un cuore, brilla come un tizzone. Sbatte rapidamente le palpebre, unoduetre—

"Kristoff, è splendido."

E poi pensa: aspetta, che faccio se è una proposta di matrimonio, no aspetta, no, non sono—

"E', ah, un cristallo di fuoco," spiega, imbarazzato, strofinandosi la nuca. "Dai troll."

Lascia andare un respiro che non si era accorta di aver trattenuto. "Un cristallo di fuoco?".

"Già," Kristoff sorride. "E'—fanno queste missioni, ed è molto difficile, non so come spiegarlo, ma poi ricevono questi cristalli, ed è come—ecco, tendi la mano."

Lo fa. Lui lo lascia cadere tra le sue mani tese, e c'è un calore improvviso, confortevole, che le percorre tutta la lunghezza del braccio. Per la prima volta da due settimane, le sembra di indossare troppi vestiti. "Woah."

Il suo sorriso di allarga. "Carino, eh?"

"Magnifico, direi!" lo stringe al petto, e poi—"Nessuno ha mai fatto qualcosa di simile per me," sorride quasi incredula, osservando il luccichio ambrato tra le proprie dita. "Voglio dire, non che non abbia mai ricevuto cose—voglio dire, ne ho avute troppe, ma erano sempre tipo—ecco un nuovo vestito, o, tipo, ecco un nuovo manuale di galateo—e non so tu, ma non ho bisogno di libri sulle buone maniere, ne ho da vendere, in tutto e per tutto—" si ferma per respirare, guardando attraverso le ciglia il suo sorriso incerto, compiaciuto. "Grazie!"

"Anna." Kristoff allunga un braccio, poi ci ripensa, e indietreggia, ma non smette di parlare. C'è una specie di battaglia interna in corso, pensa, i movimenti nervosi e incontrollati, la mano che strattona il colletto. Continua, "Anna, ti am—"

Sente gli occhi spalancarsi. Il cuore batte più forte, e tutto quello che riesce a pensare è no, non ancora, non adesso, più tempo, più

"—miro per il modo in cui riesci a parlare per, tipo, cinque minuti senza nemmeno respirare, cavoli," conclude con una specie di risata imbarazzata, guardando di lato. Sbatte le ciglia, sentendo il cristallo sul petto, che le riscalda il cuore.

Era—

Silenzio, lungo e pesante.

Quindi dice—

"Ehi, allora tipo, hai dovuto fare qualche missione per ottenerlo, o cosa?"

Kristoff sorride compiaciuto, ma Anna crede di distinguere nei suoi occhi un'espressione delusa, e non sa perché.

E lo sa.

"Ho delle conoscenze," fa lui.

Fianco a fianco, osservano il cielo.


Elsa si raddrizza, le dita sul legno ruvido della parete della taverna, e sussulta.

"Voglio dire, se proprio non volevi ballare con me, potevi anche dirmelo," sente, e poi quella risata autodenigratoria, e poi, "Scusa. Non è divertente. Stai—stai bene?"

Fa un paio di passi a sinistra, allontanandosi da canale, e si appoggia pesantemente contro il muro alle sue spalle. Una mano è stretta a pugno tra le pieghe del mantello, e l'altra posata con cautela sulla bocca. Ha il cappuccio abbassato; si sente scoperta, ma la piazza attorno alla taverna è vuota. "Sono stata meglio," risponde secca.

Albert si ferma piano piano, con calma, e si appoggia al muro accanto a lei. Dall'interno della taverna inizia a sentire le prime note della canzone che sta iniziando.

"Odi ballare a tal punto?"

E dice, perché aveva appena vomitato in un canale di scolo, perché non voleva nemmeno iniziare a pensare a regine e a regalità e all'etichetta—"Sta zitto."

"Sei fredda come il ghiaccio, solo Elsa."

Gli lancia un'occhiata che potrebbe fermare un piccolo esercito, ma lui non smette di sorridere—alza solo le mani in segno di pace.

"Fammi indovinare," risponde secca. "Non è divertente?"

"Come facevi a saperlo?"

E ripiombano nel silenzio.

Si sfrega il gomito, guardando le strade. Il tetto a punta della taverna le fa ombra sul viso, e nelle case più lontane le luci iniziano a spegnersi, una per una. Si chiede quanto sia tardi. Dovrebbe tornare indietro. Doveva—

Si preme la base dei palmi sugli occhi.

"No," Albert afferma. "No, niente sensi di colpa fino alla mattina dopo. Funziona così."

"Non siamo usciti per ubriacarci," scatta, agitando le mani avanti a sé, stringendosi tra le braccia. La neve inizia a cadere, leggera e lenta. "Siamo usciti per—conoscere meglio il mio popolo—"

"Elsa," Albert fa cauto, e quando lo guarda si sta strattonando una manica, con l'aria di qualcuno che si sta avvicinando a un animale selvatico, "Lo stai facendo. Lo osservi, ci parli—"

"Non ci ho parl—"

"Non è troppo tardi per parlare con le persone," si corregge in fretta. Poi tossisce a disagio con la mano accanto alla bocca e si gira, rivolto verso la strada. "Senti, per come la vedo io, questo è stato—voglio dire, non ti—è solo—"

"Tu stavi bene là dentro," dice, troppo brusca, e lo sa. La momentanea perdita di senno non era colpa di Albert, nonostante  le avesse insinuato lui l'idea nel cervello. Non poteva incolpare altri che sé stessa.

"Io—è diverso," ride, senza sentimento. "Questo è—quelle sono persone."

"E io no?"

"Tu sei Elsa," risponde, come se dovesse avere senso.

Ride sbuffando dal naso. E' un suono molto da Anna. La sorprende.

"E stanotte, era solo—non riguardava solo—voglio dire, riguardava te che—lasciarsi andare. Per un po'. Un momento. Un momentino."

Sobbalza di lato, come colpita. "Come hai detto?"

"Lasciarsi andare—era questo, penso. Penso che fosse—già. Sì, voglio dire."

E per la prima volta si chiede se lo abbia giudicato male. Elsa si sfrega le mani e si concentra per un momento, breve, doloroso, e la neve si ferma.

No. Non lo aveva fatto.

Emette un lungo, profondo sospiro, e si appoggia di nuovo al muro. L'insegna della taverna sta appesa sopra di loro, a destra—rozzamente ricavata da un pezzo di relitto, forse, e ridipinta di recente con colori vivaci, e freschi. Il Puledro Impennato. Il cavallo su di essa ha un aspetto totalmente assurdo.

"Ce ne sono così tante," Albert dice, di punto in bianco. Ci mette un momento ad accorgersi che non ha lo sguardo rivolto verso l'insegna, ma su, oltre il ciglio del tetto sopra di loro e verso il cielo pieno di puntine argentate.

"Amo la luce delle stelle," dice lei.

"Ho sempre pensato che fosse una—luce fredda."

"No," scuote la testa, tracciando i contorni, le costellazioni, immaginando di danzare in mezzo alla loro bellezza fredda, blu, ricordando quando la guardavano, felici, mentre costruiva il castello sulla Montagna del Nord. "No, sono bellissime."

"Felix diceva sempre che erano la luce dei desideri."

"Hm," mormora.

"Lassù balleresti, allora?"

"Come?"

"Lassù balleresti?" chiede lui, sorridendo. "Ti ci vedo. Ci staresti bene."

"Mi stai chiamando una palla di gas che brucia?"

"No," scuote la testa, e prima che Elsa possa rendersi conto di quello che stia facendo, la mano di lui si avvicina al suo viso, sospesa vicino alla guancia, e le sfiora una ciocca di capelli fuori posto. Lei tira in dentro un respiro. Si immobilizza. 

"Bellissima." Pausa. "Lontana."

"Sei ubriaco," sussurra.

Il suo sorriso è tagliente. "Forse. Probabilmente." La lascia andare, e presume che stia per allontanarsi in fretta, ma invece si avvicina in fretta, così vicino che riesce a distinguere le macchioline di verde scuro, di celeste, nei suoi occhi, e alla fine, davvero erano come quegli altri occhi, in realtà?—

"Che stai facendo?" domanda all'improvviso.

Con un rapido strattone le tira il cappuccio del mantello fin sulla fronte proprio mentre una coppia li supera, a braccetto, la donna che afferma, ad alta voce, "Solo un ballo, tesoro—" prima di entrare.

"Ci siamo andati vicino," Albert sussurra, il sorriso che scivola via mentre ruzzola all' indietro.

Lo stomaco di Elsa fa di nuovo le capriole.

Lasciarsi andare, eh?

Un'altra canzone sta iniziando; una giga animata.

Allunga tentativamente una mano, le dita che spuntano dalla stoffa del mantello, e pallide alla luce della luna. Si lecca le labbra. Si ferma. Respira. E—

"Balli con me?"


Hans si sveglia a pezzi.

Giace sul pavimento, il collo bloccato in una posizione scomoda, le gambe piegate sotto di sé. Sente delle voci, aleggiargli sopra, e ci mette un po' a ricordare di chi sono, a ricordare dove si trova—

"—ci ha messo?"

"—non posso saperlo finchè non si sveglia—"

"—dalle urla, immagino che—"

Si sente le budella simili al ripieno di una delle torte che faceva il cuoco, sbattuto come un uovo; la testa sta anche peggio. Dietro le palpebre sente qualcosa divampare. Il respiro è affannoso, accelerato, e sembra che non riesca a fermarlo.

Apre gli occhi.

Niels è in ginocchio accanto a lui, che lo considera scaltro, con l'occhio clinico. Il corvo è ancora sulla sua spalla. Hans vuole aprire la bocca ma sembra che la mascella non voglia funzionare. Suo fratello gli alza un braccio, floscio, si avvicina per esaminargli le pupille. Il corvo rimane lì, artigli saldamente piantati nella stoffa della sua tunica, e quando si avvicina riesce finalmente a capire cosa c'è che non va nei suoi occhi—

Lattiginosi, opachi, bianchi.

Morti.

"Come stai?" Niels chiede.

"D'inferno," Hans replica. Ci mette un po' a far funzionare la voce, e quando ci riesce, quasi non la riconosce.

"Bene." Niels lo tira su in piedi spietato. Hans barcolla. Il re è in piedi alla finestra, sorvegliando la notte scura, fuori.

"Cosa mi hai fatto?" Hans gracchia.

"Ti ho reso più forte," il re risponde.

Hans sta per rispondere, ma c'è qualcosa che si muove nelle sue vene, caldo e orribile come piombo fuso. Si sente bruciare, bruciare, bruciare

Con lenta, deliberata precisione, si guarda la mano destra, e si sfila il guanto, un dito alla volta. La stoffa bianca cade al suolo senza peso, tra i segni di gesso sbiaditi.

—e il bruciore si insinua su per le punte delle dita, gli divora la mano, mentre osserva la propria pelle che splende, che si spacca—

Che si copre di fiamme.

Si muovono tra le sue dita aperte, scivolano sulle nocche, che danzano e pulsano ipnotizzanti, nella penombra delle stanze di Niels.

"Hans," il re inizia, voltandosi per guardarlo in tralice, "cos' è che scioglie il ghiaccio?"

Il ghigno di Hans si scivola lentamente via dal suo viso come carta da parati ingiallita che si stacca dal muro. "Oh, vostra maestà," e il titolo è intenzionale, e la frecciatina, il piccolo lapsus, e la fiamma non lo brucia mentre la osserva lambire l'aria, dal proprio palmo—

"Il fuoco, ovviamente."


Da qualche parte, una principessa e un venditore di ghiaccio siedono sul tetto di un castello, osservando il cielo.

Da qualche parte, una regina danza, libera come le stelle e due volte più lontana.

E da qualche parte, aprendosi un varco tra le acque nere che luccicano, una nave attracca nel porto, silenziosa.

 

  
Leggi le 1 recensioni
Segui la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
 <<    >>
Torna indietro / Vai alla categoria: Film > Frozen - Il Regno di Ghiaccio / Vai alla pagina dell'autore: thefireplanet