Blanda. Una vita blanda e stropicciata come il viso di un bimbo addormentato.
Sentivo il calore sul collo e sulla schiena, ma ero sicura che non fosse il
sole. I suoi raggi pomeridiani lambivano i miei occhi o, meglio, le mie palpebre
rendendole arancioni al mio sguardo apparentemente imprigionato nel buio. Ma
allora cosa rendeva la mia pelle così calda? Lo sapevo, oh, lo sapevo benissimo.
Era vergogna, ignobile e ignominiosa vergogna. Per cosa? Che ovvietà, per me
stessa.
Ero stesa su un asciugamano, mentre la sabbia si raffreddava con l’avvento del
tardo pomeriggio e la confusione della spiaggia ottenebrava paradossalmente alla
mia mente l’intero mondo esterno.
Che tristezza, nuova, neonata, sconosciuta. Avrei preferito essere depressa,
avere il coraggio di tentare il suicidio piuttosto che stanziarmi in questo
bivalente limbo senza uscita, un labirinto con mura intonacate, tutte uguali,
tutte ruvide, tutte candide e un soffitto, unico, irraggiungibile,
impenetrabile.
Tutti gli altri stavano facendo il bagno in quel mare ormai quasi roseo, a parte
me e Tomoyo che non potevamo per
sanguinosi motivi, ma in quel momento
quest’ultima stava telefonando a Eriol.
Aprii gli occhi e li richiusi subito. Che frustrazione: non riuscivo a captare
alcun segnale dall’esterno senza che questo mi ricordasse che ero sola. Assurdo,
si potrebbe pensare, ma vero. Tomoyo era ormai troppo lontana, me ne rendevo
conto. Quel consistente spicchio di vita che non avevamo condiviso era stato
troppo importante per essere ignorato. Non che l’avessi voluto io, ma era
inevitabile rendersene conto e inutile negarlo; le volevo bene, ma l’affetto non
bastava a dare alla luce la fiducia. Essa era eccessivamente preziosa per essere
spicciolamente sottovalutata e per giunta per me era fondamentale, proprio ora
che non sapevo cosa fare, come agire, a chi rivolgermi.
Mi dispiaceva per la mia amicizia con Tomoyo, certo, però sinceramente non
riuscivo nemmeno a immaginare fra noi la confidenza che c’era stata tempo prima
né il cieco affidamento con cui donavo ogni mia decisione alla sua Corte, come
se fosse il giudice di ogni mia scelta, frivola o pesante che fosse. Una realtà
troppo malsana e viziata da riproporre: non ne avevo alcuna voglia. Prendermi le
mie responsabilità era stato terribilmente difficoltoso ma istruttivo ed
edificante: purtroppo mi era toccato ferirmi improvvisamente e profondamente
invece che lasciare ai lembi di quel taglio il tempo di rimarginarsi per poi
crearne subito un altro.
Sentivo che anche le mie gambe stavano arrossendo al pensiero della mia vita
passata; ma come avevo potuto desiderare di tornare come quella bambina beota,
ingenua, raggirabile come un ostacolo afflosciato al suolo, aperta ai coltelli e
ai disinfettanti altrui? Di questo mi vergognavo: della mia essenza e del mio
anelito. Forse allora Yamazaki aveva proprio ragione: meglio scorbutica,
brontolante e sveglia che infantile, dolciastra e vuota. Vuota come un cranio
ghignante.
Percepii dei passi sulla sabbia polverosa e immaginai fosse Tomoyo. Il corpo si
sedette sull’asciugamano accanto al mio e solo odorando un raschiante profumo di
sale e aprendo gli occhi realizzai la presenza di Rori. Giocherellava con la
sabbia asciutta, mentre mille gocce simili a pestilenziali bisce le solcavano
con la violenza di un aratro la pelle così diafana da sembrare trasparente al
tenue fulgore solare, ormai in caduta libera senza paracadute su un mare che
avrebbe attutito il suo pregiato fuoco fino ad esaurirlo e conservarlo nelle
proprie viscere.
Ero molto curiosa riguardo a quella ragazza per svariati motivi: innanzi tutto
perché non capivo il motivo per cui volesse passare del tempo con quella belva
chiamata Shaoran. O forse lo stavo sopravvalutando? Ma quale belva, era solo un
egoista malvagio, sadico ed edonista. Peggio per lui. Inoltre, il carattere, le
maniere, il viso, gli occhi sognanti di quella ragazza mi parevano così
familiari… In definitiva, volevo conoscerla per salvarla? Certo, senza dubbio,
anche se non ero sicura che avrebbe sofferto quando, al più presto, ne ero
certa, Shaoran l’avrebbe abbandonata. In realtà non sapevo nemmeno se lei lo
amasse. Rori era per me un punto grigio nella nebbia, una stella corvina
derelitta in un cielo tenebroso, una scaglia di cristallo fra mille simili di
ghiaccio e vetro: irriconoscibile, non individuabile.
Cercai freneticamente un argomento sul quale intavolare un discorso e apprendere
qualcosa, qualsiasi cosa, del suo carattere e del motivo per cui era fidanzata
con Shaoran senza avergli spaccato un vaso da fiori in testa.
-Allora…-, cominciai indecisa, ma nella foga del momento mi sovvenne qualcosa da
chiederle: -Come hai conosciuto Shaoran?-.
Con estremo imbarazzo mi accorsi che non mi stava nemmeno ascoltando, dato che
il suo sguardo era perso apparentemente fra i ghirigori dell’ombrellone che ci
si stagliava di fronte. In realtà, però, ero convinta che stesse riflettendo,
data l’opacità e l’assente vitalità degli occhi.
Le sfiorai piano la spalla per farla voltare verso di me: la pelle era fresca e
lucida, bagnata e leggermente ruvida per la salsedine, unico dono del mare. A
quel contatto mi spaventai. Ero a disagio in sua presenza, perché… Perché?
Presumevo qualcosa, forse che in lei esistesse un lembo di Shaoran, seppur
minuscolo e ben ripiegato; in effetti era così: Rori portava in sé, nel suo
sguardo, sulle sue labbra violacee, sulla sua chioma stillante sangue di mare e
leggermente scomposta, un frammento di ciò che stavo rifuggendo testardamente,
che già dalla visita di Yamazaki avevo cercato di distanziare e stigmatizzare
con l’etichetta PASSATO, riconoscendo
fin troppo bene che esso è fatto di ricordi, i ricordi di emozioni, le emozioni
di impulsi, gli impulsi di vita. E la vita non si rinnega né si allontana, ma si
apprende.
Una radio vicina gracchiò qualche romantica melodia di Utada Hikaru. Alzai gli
occhi al cielo e proseguii a fissare la ragazza, che non aveva ancora dato segni
di vita.
-Ho sentito, sto solo cercando di ricordare.-, replicò un attimo dopo il mio
tocco fugace. La sua voce, sebbene sommessa, mi fece sussultare: troppo calma,
consapevole e saggia per essere fidanzata con Shaoran. Dov’erano finiti
l’isteria, la trasognatezza e l’immaturità? Erano forse stati solo una mia
prerogativa? Mia e di molte altre, ma sua no. Era possibile che a quattordici
anni si potesse essere così maturi da accettare compromessi con persone del
genere? Io non lo ero stata e non lo ero nemmeno in quel momento, forse. Che
ragazza strana.
All’improvviso la sua ultima frase mi ispirò: probabilmente anche lei era come
Shaoran. Possibile? Beh, non ricordava nemmeno l’occasione in cui si erano
conosciuti, logico che fosse così. No, c’era qualcosa di essenzialmente diverso,
sostanzialmente cangiante e faticosamente percepibile. Solo uno sciocco avrebbe
confuso l’eccepibilità di Shaoran con… la profondità di Rori, nonostante non la
conoscessi e non potessi dunque esprimere opinioni. Tuttavia, era indispensabile
notare la diversità dei due, l’assenza di quello sfrenato edonismo che
caratterizzava lui e mancava in lei, come del resto l’insincerità del ragazzo e
l’apparente disponibilità e franchigia della fidanzata. Solo una sciocca
come me
aveva osato confondere la sfacciataggine
di Shaoran con sincerità.
-Ah, sì: l’ho conosciuto ad una festa la settimana scorsa. Mi ha dato un
passaggio a casa con la sua Nissan rosso metallizzato.-.
Sorvolando sul fatto che l’auto non fosse
sua, ma di Tomoyo, che non gliel’avrebbe mai prestata,
ergo Shaoran l’aveva
sottratta di nascosto, la sua frase fu molto concisa e pulita. Sincera, insomma.
Fui spiazzata da tanta chiarezza e dalla sua telegrafica risposta, così cercai
subito una nuova domanda da porle per coinvolgere in qualche modo la sua fredda
attenzione. Bruscamente ricordai che una settimana prima io e Shaoran eravamo
ancora “fidanzati”, per così dire, e io non sapevo nulla di quella festa.
Sorrisi laconica: me lo sarei aspettata, tipico del suo gioco. Scacciai quelle
constatazioni amare e mi concentrai ancora per ideare un altro quesito.
-E… da quanto siete fidanzati?-, domandai piatta.
Questa volta mi rispose celermente e spontaneamente, alzando impercettibilmente
un sopracciglio, forse la prima vera reazione da quando l’avevo conosciuta.
-Non siamo fidanzati.-.
Lo confessò come se fosse un’ovvietà, una realtà affatto inimmaginabile, troppo
verosimile per non essere effettivamente vera. Mi lasciò interdetta: mi ero
ormai preparata molte domande da porle, ad esempio come fosse successo. E
invece? Una considerazione mi sovvenne brutalmente: il mio interesse nella loro
storia era perfettamente combaciante con quello che avevo provato nei confronti
di quella di Yamazaki e Chiharu? In un certo senso sì, in un altro no: da
entrambe avrei dovuto scoprire qualcosa, ma la curiosità che mi capeggiava era
differente. Mi interessavo a Yamazaki perché desideravo aiutarlo, forse, far mie
tutte le colpe per rendermi utile. Avere un ruolo nella sua vita, in questo caso
di antagonista, dato che avevo depredato un terreno già da tempo fertilizzato e
bonificato. Qualunque ruolo ricoprissi per me era rilevante. Certo, se fosse
stato un ruolo positivo… Ma ero la strega cattiva che aveva avvelenato con il
frutto proibito un’incantevole e favoloso amore che tutti credevano
ineluttabile, invincibile, imbattibile. E invece io ce l’avevo fatta, ma senza
alcuna soddisfazione, come invece succede spesso alle streghe quando allontanano
per capriccio la bella principessa. L’unica mia consolazione era stata la pietà
del principe, la sua compassione: aveva compreso il sostrato di sofferenza che
impolvera assassini, sadici, stupratori, violenti: la disperazione, la palese
impossibilità di salvarsi o essere salvati. Il principe aveva abbandonato la
principessa per correre in difesa della malvagia progettatrice di piani
insensatamente diabolici e l’aveva soccorsa, le aveva insegnato ad accettare sé
stessa, la sua malignità e l’umanità ormai seppellita sotto immisurabili vangate
di polvere. Quello era il coraggio, quella era la vera e cruda temerarietà: non
scavalcare le onde, bagnare il deserto, prosciugare le acque per cercare e
liberare una dama rapita o entrare nell’oltretomba come Orfeo per recuperare la
sposa spirata. No, in confronto a quel
coraggio il propulsore che aveva spinto Yamazaki era pura pazzia, come
scambiare il cielo con la terra, seminare un campo celeste e immaginare mutevoli
nuvole sul selciato, in un mondo dove avere i piedi per terra era da matti e gli
occhi erano puntati verso di noi, che abitavamo la volta fatata.
Aprii la bocca, non per parlare, ma Rori
credette che le stessi per porre un’altra domanda e mi anticipò con mia enorme
sorpresa:
-A dire il vero lui mi aveva detto di essere fidanzato, ma disse che né a lui né
alla sua fidanzata sarebbe importato qualcosa.-.
Certo che non mi sarebbe importato, tanto immaginavo che mi avesse tradita.
Crescendo si peggiora, avrei asserito
qualche giorno prima, ma in quel momento non ne ero così assolutamente sicura.
-Quindi eri la sua… amante, per così
dire?-, chiesi stringendomi le ginocchia con le braccia per frenarle.
-Sono la sua amante, se così mi vuoi
chiamare.-. Sentivo che si stava aprendo sempre di più, anche se lentamente, e
ne fui estremamente lieta.
A giudicare dalla parole di Rori, Shaoran non le aveva ancora confessato di aver
lasciato la sua fidanzata –
incredibile come fosse esilarante quella parola – ma perché? Forse quella
ragazza era solitaria e disimpegnata, dunque non desiderava stringere rapporti
di fedeltà, per quanto potesse essere fedele una relazione con Shaoran? E per
questo il ragazzo le aveva tenuto tutto nascosto, probabilmente perché credeva
che lei fosse innamorata di lui e volesse rimpiazzare il mio ruolo? Era l’unico
motivo che mi veniva in mente in quel momento e anche il più confacente ai due
caratteri, nonostante Rori non paresse affatto innamorata.
La domanda più fondamentale e impertinente mi solleticò la lingua, per poi
perdere sensibilità al mio imperioso ordine. La tentazione però era
insopportabile, insormontabile… Non resistetti, come un’ape che vola su uno
splendido fiore con il timore che, posandovisi, ne incenerirebbe la
magnificenza.
Fissai gli occhi celesti, di una sfumatura cristallina che mi ricordava il
colore dell’acqua clorata delle piscine pubbliche, e notai la loro vivacità,
così parlai:
-Perché frequenti una persona così… Shaoran?-. Un’altra tentazione, quella di
far sgusciare innumerevoli e orribili appellativi, mi stava per annientare, ma
la trattenni: a che pro confessare apertamente di essere una sua ex?
Completamente vano, nonché controproducente e patetico.
Aspettò qualche attimo prima di replicare; quell’attesa mi innervosì: credevo di
essere stata troppo pretenziosa e irriguardosa, ma alla fine non mi interessava
così smaniatamente, anzi.
Si stese sul suo asciugamano rosa – un terribile flashback me ne rigettò uno
simile che ero stata solita portare al mare verso i tredici anni – e si spruzzò
sulla mano della crema protettiva contro i raggi solari da una bottiglietta a
forma di rosa nera attorcigliata intorno ad un leccalecca. L’imboccatura era
posta su un petalo del fiore che sgocciolò un denso liquido rosso che imporporò
il latteo palmo della sua mano, dopodiché si spalmò il prodotto sulle braccia,
sul collo e sulla pancia, fino ai margini del costume rosa – immancabilmente –
con grandi fragole viola. La crema venne assorbita dopo due o tre secondi e di
quel fluido vermiglio non ci fu più traccia.
-Perché Shaoran mi accontenta sempre, rimpinza i miei capricci fino a farli
scoppiare, mi vizia in continuazione affinché io faccia qualcosa che lui
gradisce, senza accorgersi che alla fine piace anche a me. Tuttavia preferisco
che mi tratti come una brava bambina, che mi appaghi sempre. È così stupido e
megalomane da credere di essere lui il vittorioso, ma in realtà comando io, a me
va tutto il piacere, a lui vengono sottratte fatiche su fatiche… A volte vengo
descritta come una stratega infantile, ma non capiscono che proprio la mia
infantilità mi è favorevole e non mi ostacola affatto.-. Per la prima volta vidi
i suoi occhi ravvivarsi, prima che fossero chiusi dai sempre più fragili raggi
solari. Ciononostante, il suo primo sorriso, un ghigno beffardo, non abbandonò
il suo marmoreo volto.
-Non sono cattiva, non voglio illuderlo o fargli del male, per questo ho scelto
lui, perché è insensibile alle emozioni, a quanto pare. Se fosse stata una
persona diversa l’avrei forse amato, oltre che sfruttato, ma lui è così e
anch’io. Compromessi del genere sono inevitabili.-. Quasi per riscattare
quell’improvvisa apertura e loquacità, tacque definitivamente restando immobile
a prendere il sole, con la testa leggermente flessa su un lato e le trecce sulle
rispettive spalle.
Sì, era proprio l’amante perfetta per Shaoran.
***
My song is love
My song is love unknown,
But I'm on fire for you, clearly
You don't have to be alone
You don't have to be on your own
(Coldplay, “A
message”)
Percepii dei passi felpati e attutiti dalla sabbia alla mia destra.
-Come va?-, mi sentii chiedere da una voce leggermente argentina.
Aprii piano gli occhi e scoprii che era ormai sera, anche se un brillante
bagliore baluginava dietro le lontane onde del mare, che ormai scorrevano pigre
e svogliate, quasi fossero insonnolite e aspettassero che quel filo colloso e
iridescente le lasciasse invisibili e confondibili con il cielo oscuro per
addormentarsi beatamente.
In verità non mi ero accorta che fosse passato molto tempo da quando Rori aveva
taciuto, ma evidentemente mi sbagliavo. Un po’ intorpidita per essere stata
stesa tutto il pomeriggio, mi alzai prima a sedere e poi, con fatica, mi misi in
piedi con un leggero barcollamento, subito soppresso.
Notando il mio traballamento, la voce che riconobbi come quella di Yamazaki mi
ammonì scherzosamente:
-Calma e sangue
freddo.-.
Affilai lo sguardo nella semioscurità, accorgendomi per la prima volta che il
chiasso e la confusione del pomeriggio erano drasticamente decrementati.
-Yamazaki… Non me lo sarei aspettato da te.-. esclamai con finto risentimento
per la sua battuta allusiva. Con una seconda occhiata mi resi conto che in riva
al mare Tomoyo cercava di lavar via la sabbia dalla sedia sdraio gialla – che al
semibuio sembrava arancione – mentre Shaoran e Rori erano poggiati al cofano
della Nissan parcheggiata poco lontano e si baciavano profondamente.
Mi apprestai a piegare il mio asciugamano assaporando con il tatto la sabbia
quasi gelata che si stringeva alle mie mani chiedendomi aiuto, volendo gustare
anche lei qualche parte di me per seguirmi testarda.
-Vuoi smetterla di chiamarmi per cognome? Io sono Takashi, non Yamazaki!-,
asserì con enfasi. Ne fui leggermente stupita, ma, mettendo l’asciugamano nella
borsa di Tomoyo, concordai:
-Se ti fa piacere… Takashi. A cosa devo tutto questo sprizzo di vitalità?-,
domandai accorgendomi della sua quasi invisibile espressione briosa.
-Oh, nulla.-, si incupì sensibilmente.
Mi strinsi tra le spalle perplessa e mi incamminai verso l’auto, intenzionata a
sedermi sul sedile posteriore ignorando le prestazioni di Rori e Shaoran.
Non mi accorsi che Yamazaki, oh, pardon, Takashi mi stesse seguendo finché non
ridacchiò sommessamente con un grugno nasale.
In quel momento non stavo pensando a nulla, né ero poco disposta alla
conversazione: semplicemente, volevo estraniarmi, non riflettere sul fatto che
probabilmente Rori aveva reagito molto meglio di me, che quindi era stata più
matura e distaccata. A che sarebbe servito seviziarmi ancora con inutili
paragoni fino allo stremo? Non sapevo come avesse fatto, ma Yamazaki – non ce la
facevo proprio a chiamarlo per nome – aveva insegnato qualcosa a quell’essere
liscio e compatto come marmo e quindi impermeabile che ero: io ero io, nessuno
avrebbe potuto negarlo, modificarlo, infrangerlo, impoverirlo, nemmeno io. O
almeno lo speravo.
Entrai in auto e richiusi la porta con slancio, mentre Yamazaki apriva quella
opposta e si sedeva sul sedile con goffaggine. Io mi trovavo dietro al sedile
del guidatore, lui dietro a quello del passeggero, ai due estremi dei sedili
posteriori. Un attimo di pausa dopo la scrosciante chiusura della portella e:
-Sai, da piccolo ero convinto che le stelle fossero tanti occhi, tantissimi
occhi con cui il cielo ci guardava e ci spiava per conto degli alieni, che però
non erano cattivi, ma solo curiosi del nostro mondo pazzo. Sui loro pianeti era
tutto governato da regole precise, imprescindibili, ineccepibili e
incontestabili, dai caratteri binari dei computer, da una matematica
infrangibile. Le idee erano semplici combinazioni di numeri, come l’HTML. Era
tutto monotono e perfetto e nessuno se ne lamentava. Ma poi hanno visto noi e
non hanno creduto possibile una realtà fatta di immagini, suoni, parole,
sensazioni che non corrispondessero a caratteri precisi, a segni e leggi scritte
e regolate. Per questo ci sorvegliano, per capire come facciamo a essere così
diversi da loro e a riuscire a vivere comunque. I soffitti non ci proteggono,
sai? No, perché una parte del nostro cervello, quella più libera, quella di cui
ci accorgiamo solo quando stiamo scalfendo il comune senso del pudore o la
morale o le nostre stesse regole autoimposte, quella illimitata che corre
dappertutto senza muovere un passo, pensa sempre alle stelle, le proietta nel
nostro cervello cosicché gli alieni ci osservino anche a nostra insaputa, come
il Grande Fratello di 1984. E nemmeno
dormire per sempre ti nasconde dal loro sguardo attento: sogniamo le stelle,
vogliamo le stelle, guardiamo le stelle ed esse guardano noi. Ho trascorso metà
della mia esistenza a credere a questa storia assurda, ci pensi?-, terminò
fissando il poggiatesta davanti a lui.
Era la prima volta che mi parlava così a lungo, che mi confessava qualcosa di
veramente suo, che riguardasse lui e basta e… mi piacque. Mi piacque molto, sì.
Mi resi conto di quanto i miei pregiudizi mi avessero incatenata e imprigionata
fino a credere che Yamazaki fosse solo un ragazzino allegro, fantasioso e
burlesco. Quanto ero stata il errore… Imperdonabilmente, forse.
Comunque, rimasi esterrefatta da quel
racconto, dalla sua fantasia non infondata, ma intelligente e perspicace. Non
era solo fantasy, era vita. Sì, certo, magari le stelle non erano altro che
ammassi di gas e altri materiali, magari gli alieni non esistevano o non
conoscevano la matematica, o magari coloro che ci controllavano non erano poi
così lontani… Eravamo noi, semplicemente noi, regolatori di noi stessi,
limitatori lamentanti. Noi credevamo nella speranza, ma sopprimevamo le nostre;
noi creavamo un nostro mondo, ma non ne accettavamo le leggi da noi stessi
ideate; noi avevamo uno sviluppato istinto di sopravvivenza, ma rischiavamo ogni
giorno di morire strangolati dalle nostre stesse mani fratricide. E allora? Cosa
fare? Abbandonarsi a sé stessi? Incredibile come da una storia così bizzarra
potessero nascere riflessioni del genere.
-Non è assurda, mi piace: è poetica e geniale.-, mormorai concentrandomi anch’io
sul poggiatesta che mi antecedeva.
-Non dovrei essere io a ricoprire il ruolo del consolatore in questa storia?-,
sussurrò ancora più tenuemente di me, abbassando il capo.
Alla luce di un forte lampione vicino notai le sue sopracciglia aggrottate e
l’espressione pensante, non autocommiserata.
-Tu non sei il mio consolatore, tu sei Yamazaki.-, ribadii sorpresa da quel
comportamento: non era offeso, ma sembrava che… che mi volesse dire qualcosa.
-Takashi.-, mi corresse.
-Takashi.-, sospirai scimmiottando la
sua voce.
Scoppiammo a ridere contemporaneamente come due bambini che tirano una torta in
faccia al maestro troppo esigente. Ammirai i capelli scompigliati, bagnati dal
buio e gocciolanti ancora acqua salata, mentre continuava a ridere quasi
mostrando le gengive. I suoi occhi risaltavano per lo splendore di una luce
chiarissima, forse il riflesso del lampione che torreggiava accanto ad un pino,
nei pressi dell’auto.
In quell’attimo giunse Tomoyo con la borsa e la sdraio, fece bruscamente
spostare Shaoran e Rori dal bagagliaio per infilarci il carico e, saliti tutti
sull’auto, ripartimmo.
Disattenta, la mia attenzione vagava frusciando fra le fronde di un albero fino
a raggiungere le stelle.
Ritorniamo sulle
stelle, pensai
distrattamente, Ritorniamoci.
^^^^^^^^^^^^^^^^^^^^^^^^^^^^^^^^^^^^^^^^^^^^^^^^^^
Salve a tutti! Ecco i ringraziamenti:
Faffy:
oh venerabile Plinia! Sono davvero commossa per tutti complimenti che mi hai
fatto – soprattutto quello sulla psicologia interessante, sono rimasta estasiata
come un criceto in agonia (ma non ti avevo detto di limitare le similitudini???
Ndte). Scusa se rispondo così deficientemente alla tua magnifica recensione
(direi più bella della storia), ma tu mi conosci… Spero che Rori ti sia
piaciuta; ho riflettuto sui motivi che potessero spingerla a stare con Shaoran e
ho concluso che secondo me un po’ di strategia non avrebbe guastato (o almeno
spero…). Grazie ancora per la recensione (ricorda di scriverla su Word, te lo
dirò ad ogni capitolo!), ciao Diocleziana!
Sakura182blast:ciao
Alacazip! In effetti nemmeno Sakura, come avrai letto, ripone molta fiducia in
Tomoyo: il tempo guarisce, sì, ma spesso crea ferite i cui lembi non si possono
proprio riunire (per dirla alla Sakura). A volte rileggo i primi capitoli della
fan fiction e mi rendo conto di quanto la prima Sakura (che poi sarebbe uguale a
quella originale) sia davvero poco sveglia, per non essere volgarità! Insomma,
non voglio essere triviale, ma, come ben sai, non capiva un pene di nulla! Spero
che Rori ti sia piaciuta e che l’abbia ritratta abbastanza realisticamente.
Grazie mille per la recensione, non vedo l’ora di risentirti ancora, ciao!
Uobafet ti manda un bacio!
Sakura93thebest:
beh, non è che Sakura avesse dubbi riguardo ad un’altra (o forse più) relazione
di Shaoran. Spero che Rori ti sia piaciuto come personaggio. Per il pistacchio
sono fortemente d’accordo… Io direi un semino di uva! Grazie per la recensione,
ciao!
Bene, allora grazie anche a chi ha solo letto, a prestissimo!
Francy