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Autore: hiccup    22/06/2014    2 recensioni
“Anno nuovo, vita nuova, giusto?”
“Speriamo siano trecentosessantacinque giorni unici, emozionanti, miei. Non chiedo altro”
“Si inizia oggi; con questo sole aranciato e con questo sguardo stanco, ereditato dal passato.”
[365 poesie per 365 giorni]
Genere: Generale, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: Raccolta | Avvertimenti: nessuno
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Ventidue giugno: basta così.


 
La nuova giornata è iniziata da appena un’ora
e già a me basta così.
 
La notte si è trascinata sul mondo a carponi,
graziando gli abitanti con un cielo più o meno glabro;
qualche nube scura e gravida, ma sprazzi di azzurro ed indaco
così belli e perfetti da stordire i sensi con la loro luce.
Ed è buffo – anzi, è persino esilarante – la velocità
con cui le cose possano mutare da un momento all’altro;
come un no possa diventare un ,
come un sorriso possa sciogliersi in una smorfia.
 
Una serata piacevole ha dipinto tele dai toni pastello,
caldi e avvolgenti; delicati tanto quanto le amicizie,
dolci come gli zuccherini caramellati nel tè bollente,
mozzafiato come una chiamata; ma va bene così.
 
Si dice che c’è sempre di peggio, giusto?
Non è così che si suole dire, di tanto in tanto?
 
Eppure ogni sera sembra precipitare una stella,
una galassia implode, un enorme buco nero
che risucchia ogni sfumatura piacevole in moti bruschi e violenti;
passi concitati sulle scale di granito, porte che sbattono,
domande infantili strappate da sogni d’incanto,
voci ed urla - urla e voci - ad un passo dal sonno ambito.
Ogni sera sembra che non ci sia un limite al peggio;
si precipita ancora, sempre di più, senza mai toccare, però, il fondo.
 
Come Alice che precipita nella tana del Bianconiglio;
povera sciocchina avrebbe dovuto temere di non toccare mai più terra –
Perché dal fondo ci si rialza; ma come ci si può rialzare
se si rimane sempre sospesi a mezz’aria senza alcun appiglio?
 
E precipitare senza sfiorare suolo alcuno mi stanca;
mi smantella le ore vivaci e vivide vissute; mani invisibile
le prendono e le fanno a brandelli davanti ai miei occhi;
amare troppo ti ucciderà, diceva qualcuno una volta, ma
amare troppo la vita ti uccide un po’ di più   
con sotterfugi e senza che tu te n’accorga; i sentimenti sono viscosi e
all’improvviso non hai più nemmeno un briciolo di forze;
accetti quello che arriva, lo maneggi con cura, ma senza guardarlo in fondo;
tutto è uguale, conta solo il silenzio che ti auguri possa arrivare prima o poi.
 
Non vedi più nemmeno la malattia a dirla tutta;
non senti più nemmeno le gambe che gridano stanche,
né gli occhi che bruciano e lacrimano e pizzicano;
compi pochi gesti abitudinari: pastiglie, ne conti tre di quelle
e due di quest’altre, prendi un bicchiere d’acqua,
e costringi quella bocca che inveisce, brutale, ad inghiottirle.
 
Non senti nemmeno la fitta di dolore quando occhi vacui
ti fissano senza riconoscerti – eppure sono vent’anni di esistenza, pensi;
ti ripeti che è la malattia, che è sempre e solo quella,
ma l’abitudine annichilisce tutto: l’obiettivo è ovattare ogni suono,
ogni percezione, ogni dolore; l’unica cosa che deve rimanere è la veglia;
se ti addormenti sei perduto. Il debito che devi a Morfeo è immenso;
se posassi il capo, se celassi il tuo sguardo dietro le palpebre,
potresti perderti nel mondo della notte, dei sogni, e tutto verrebbe ignorato.
 
Hai imparato a prestare ascolto, a riposare con i sensi più o meno all’erta
- Sono dei passi? Sono dei singhiozzi? Sono delle urla? –
Ma la notte è dieci volte più lunga del giorno – l’hai mai notato?
Non c’è luce, non c’è sfumatura, non c’è paesaggio che muta nel buio:
rimani tu, seduta ad un tavolo illuminato alla ben’e meglio,
qualche rimorso, qualche sbadiglio represso, una tazza fumante,
forse un libro, forse un foglio, forse addirittura un film
- rigorosamente muto con i sottotitoli;
ma la tazza ustiona le dita, le lettere del libro appaiono sbiadite,
la mano non riesce a scrivere e i film non sono mai così belli.
 
Scuoti le spalle – potrebbe andare peggio, ti ripeti assiduamente,
ed immergi il volto assonnato nel lavandino colmo di acqua gelida;
permetti alla pelle di rabbrividire, poi riemergi, eviti la tua immagine
riflessa, affondi nei panni morbidi e ti convinci di essere sveglia.
Ma ogni minuto sembra un’ora, ogni ora sembrano due ore e così via.
Il collo guaisce e le tempie scricchiolano debolmente – avverti
i pensieri farsi più recalcitranti – e socchiudi i sensi giusto per cinque minuti,
o forse dieci; è lo schiaffo del vento contro le vecchie imposte a riportarti alla realtà;
boccheggi, ascoltando il silenzio:
sono dei passi? Sono dei singhiozzi? Sono delle urla? –
 
 
Decisa a vigilare sul suono del silenzio, intessi vicende e storie,
raccontandotele sorseggiando piccoli sorsi d’acqua;
è come un turno di guardia in quelle grandi saghe fantastiche
- anche lì le notti sono oscure e piene di terrori;
e un po’ riesci anche a sorridere tra te e te.
Riesci ad eclissarti nella tua stessa testa;
non c’è più nient’altro: sei lì, ma non ci sei;
immagini, ma sei razionale.
(E intanto la notte non passa.)
Ma va bene così perché potrebbe andare peggio – e tu potresti addormentarti.
 
È un’insonnia forzata, la tua; in dodici mesi il tuo organismo
ha imparato a sussistere con una manciata di ore,
quattro o cinque al massimo; riesce persino a sostenere ritmi così
per una settimana o poco meno - caffeina ad aiutare;
solo una manciata di ore.
E intanto la pelle si opacizza, il sistema nervoso s’incrina alacre,
i sorrisi sono meno sciolti, ma continuano ad esserci
- le brave bambine sorridono sempre,
 i musi lunghi non servono al mondo
gli occhi si cerchiano d’un grigio fumo che non è attraente,
i capelli si sfibrano e il metabolismo rallenta per sopravvivere.
 
 
“Perché non te ne vai? Puoi fare come ho fatto io che sono andata qui
e sono rimasta là per otto mesi, in Germania, dovresti farlo anche tu.”
 
 
Perché non posso – e non me la sento;
perché mi hanno insegnato ad amare troppo le persone,
ad amare troppo la vita; e le persone nell’ora del bisogno
non si abbandonano, non si mettono da parte,
non sono pezzi di carne da scrollarsi di dosso quando diventano rancidi;
perché la famiglia è sacra; perché senza la mia io non sarei qui;
perché ci sono pesi che vanno suddivisi e portati insieme;
perché nessuno può camminare da solo. Perché andarsene significa
ripudiare tutto, significa essere ingrata;
significa non assumersi le proprie responsabilità ed essere maturi.
 
Scapperei anch’io, molto volentieri, ma tu non sei me ed io non sono te;
non ho le tue possibilità, non voglio lasciarmi alle spalle nulla e nessuno;
invento storie e le racconto, ecco quello che faccio; le racconto
ad occhi e ad orecchi che non capiscono che cosa significano le parole
demenza, schizofrenia, decadimento cognitivo; le racconto a me stessa
per svegliarmi la mattina e fingere che la sera successiva non diventi ancora buia.
E non c’è alcuna vergogna in questo.
 
“Ma se rimani sempre ferma non fai esperienza
e ti perdi i tuoi anni migliori!”
 
Mi hanno detto che c’è più tempo che vita,
che non si finisce mai d’imparare ogni giorno,
che non si può mai dire mai – e io ci credo.
Ci sono bagagli che si acquisiscono inconsapevolmente
da bambini, ci sono l’innocenza e curiosità tra le pietre pesanti
e non si notano tanto è l’entusiasmo di sentirsi grandi;
ci sono anche scheletri dentro l’armadio che non marciranno mai:
si prende la giornata ora per ora – e si aspetta, si agisce, si propone,
si rifiuta, si va’ avanti nonostante tutto.
Che si rida o che si pianga la strada è quella; anche se lentamente
si procede nonostante tutto, nonostante le guance brucino un pochino
per le lacrime o per le risate sincere; nonostante il telefono squilli di nuovo;
nonostante il tè non si sia ancora raffreddato; nonostante il capitolo lasciato a metà.
 
 
Mi hanno insegnato a non chiedere mai nulla più
di quanto io non possa restituire;
di seguire i miei sogni tenendo i piedi ben puntellati al suolo;
di non aspettarmi nulla senza un equivalente;
di non dare per scontata nemmeno la più piccola parola, relazione, sorpresa;
mi hanno detto che i mostri sotto al letto non esistono e che il buio
è solo una non-luce; mi hanno mostrato le dosi e i numeri d’emergenza;
mi hanno costruito un sorriso bellissimo per i bambini;
mi hanno detto di non fermarmi mai - chi si ferma è perduto.
 
E io ho fatto esattamente tutte queste cose
eppure mi ritrovo ancora qui, a crogiolarmi in un dormiveglia
insidioso; ma la luna non c’è e nemmeno le stelle fanno capolino;
non c’è nessuno ad ascoltarmi sospirare e sbadigliare;
se io dico che vorrei un po’ di sogni da ricordare
e non incubi da dimenticare, non mi sente nessuno, giusto?
Se mi sfioro il viso dilaniato dalla stanchezza, col respiro tremulo,
nessuno farà caso a me, giusto?
Se scuoto il capo e ripeto che questa è l’ultima volta,
che non ce la faccio più, che non ho abbastanza coraggio,
nessuno mi crederà, giusto?
 
La nuova giornata è iniziata da appena due ore
e già a me basta così.
 
 
 
*


 
  
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