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Autore: mormic    05/07/2014    5 recensioni
Effie ha estratto decine di nomi da quella boccia di vetro, ma i suoi unici vincitori, nonostante stiano partecipando alla loro seconda arena, sono stati estratti solo una volta dalle sue dita affusolate. Sono volontari. E questo dovrà pur fare la differenza. Una differenza che Effie dovrà affrontare come non avrebbe mai nemmeno sospettato.
E dalla sera dell'intervista di lei non si sa più nulla, fino alla fine, quando riappare provata e fragile.
Questa è la sua storia, mentre in tutta Panem è il caos della rivoluzione.
Genere: Drammatico, Introspettivo | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna, Het | Personaggi: Altri, Effie Trinket, Haymitch Abernathy, Plutarch Heavensbee
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Grigio e Oro'
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CAPITOLO 6
 
Sono ancora li tra le braccia di Haymitch quando il senso di urgenza ci coglie alla sprovvista. Per un attimo abbiamo dimenticato che non abbiamo tempo, che i ragazzi hanno bisogno del nostro aiuto, che ho solo due giorni scarsi per rintracciare una persona che è sparita dalla circolazione anni fa e poi scappare da Capitol City per andare nel tredicesimo distretto.
E io non avevo neanche idea che esistesse un 13.
Ho evitato di chiedere, di fare osservazioni, di cercare spiegazioni per quell’elenco di follie che mi avevano appena propinato.
Quello che ho capito è che la ruota su cui sono salita gira ad altissima velocità, che io non posso fermarla, rallentarla e non posso neanche scendere. Posso solo correre e rimanere in equilibrio come meglio riesco.
Quindi non c’è tempo di mettersi a piangere, di mettersi a fare domande o di puntare i piedi sui modi.
Il volto di Cinna mi passa davanti gli occhi in un lampo, ma cerco di cacciarlo via.
Catturato, non ucciso.
Per ora non c’è altro.
“Dobbiamo andare, bocca di baci. Tutto a posto?” mi domanda Haymitch facendo scontrare le nuvole dei suoi occhi con i raggi dorati dei miei.
“Tutto bene. Posso farcela. Posso trovare Tigris. Un bel respiro e comincia il conto alla rovescia” gli dico cominciando a sciogliere le mie spalle dal suo abbraccio.
Ma lui mi blocca. Mi stringe di nuovo con un braccio e con il dorso dell’altra mano mi accarezza il viso, avvicinandosi talmente tanto che i nostri due nasi quasi si sfiorano.
“Ricordati quello che ho detto a proposito dei baci e del chiedere – mi dice in un sorriso obliquo – e poi la nostra copertura deve essere reale” aggiunge quasi ridendo
“Haymitch Abernathy, se credi che in un momento del genere io possa anche lontanamente pensare ai piaceri della carne, ti sbagli di grosso!– esclamo risentita – e hai decisamente esagerato con i bicchieri stasera, perché hai l’odore di una distilleria!” lo rimprovero posandogli i pugni sul petto e cercando di allontanarlo.
Lui però mi stringe ancora e io so che sto lottando una partita già persa, perché la sua forza fisica è dieci volte la mia e la sua forza mentale, quando decide di usarla, ha il potere di comandarmi come vuole.
“Se non cedi, bocca di baci, dovrò cambiarti il soprannome. E magari darlo a qualcun’altra” mi dice sussurrando sulle mie labbra.
“Odio quel soprannome” gli rispondo iniziando a cedere.
“Odi di più che io lo regali ad un’altra” mi dice lui sempre più vicino.
“Non esiste nessun’altra che ti bacerebbe” gli dico cercando di resistere, ma la mia voce è un filo.
“Non sai quanto ti sbagli Effie Trinket” conclude quando le sue labbra sono già posate sulle mie.
Mentre le sue mani sono voraci sulla mia schiena non posso fare a meno di chiedermi se questa volta è stato lui a prendersi il bacio oppure sono stata io a regalarglielo con tanta facilità.
Gli è bastato giocarsi la carta della gelosia e sei capitolata, Effie. C’è decisamente qualcosa che non va, oggi, in te.
Ovvio che no. Che giornata assurda è mai questa? Non so neanche se domani mattina sarò viva.
Haymitch mi guarda di nuovo negli occhi. Poi scioglie l’abbraccio e si allontana, afferrando un bicchiere dal tavolino da salotto che credo non fosse neanche il suo.
“Non c’è tempo, bocca di baci, per cedere a certe pulsioni. Sparisci di qui e fammi lavorare, per favore” mi dice.
La frase dovrebbe essere terribile, di una scortesia fuori del comune, ma sono io che lo ho appena guardato in quei mutevoli occhi grigi e sono io che leggo tutto quello che non sa dire. Io so che quel sorso di scotch è per mandare giù l’amaro che gli lascia la consapevolezza di non potersi prendere altro. O forse la certezza che se pure volessi regalargli tutto il mio corpo, non potrà averlo stasera.
E poi, in quegli occhi, negli anni, ho imparato a cercare la verità.
E la verità è che Haymitch Abernathy vuole portarmi con lui nel 13.
Sono tanto certa di questo che non posso trattenere un sorriso, uno vero, però.
Mi avvicino di nuovo a lui e sono io ad accarezzargli il viso stavolta, strofinando lievemente le dita sulla sua barba incolta.
“Tieni vivi i miei ragazzi” gli dico salutandolo.
“E tu riporta quelle due gambe mozzafiato sul tetto, domani” ribatte.
Non c’è altro che possiamo dirci.
Haymitch detesta i saluti, so che se mi lasciassi andare a strani sentimentalismi, si affogherebbe in quella maledetta bottiglia di scotch invece di tornare nel salone a lavorare, quindi non aggiungo altro. Semplicemente mi giro sui tacchi ed esco.
E quando mi sono chiusa dietro la porta della mia stanza, finalmente posso abbandonarmi ad un pianto disperato.
 
Mi sveglio all’alba, quando dall’enorme finestra della mia camera filtrano i primi raggi obliqui del sole.
Ho dormito poco più di un paio d’ore, ma me le faccio bastare.
Non accendo neanche il televisore: guardare i miei ragazzi affrontare chissà quale settore del diabolico orologio mi farebbe stare solo peggio di come mi sento e non ho bisogno di ulteriore nervosismo. Se accadrà qualcosa verrò avvertita, in un modo o nell’altro, per cui so, che se non riceverò alcuna comunicazione, non sarà successo niente di rilevante.
Mi vesto e mi sistemo come se fosse un giorno normale: capello mosso ad onde e boccoli, trucco color oro, labbra rosa solo al centro, un bel po’ di cipria in modo da ricordare un’orientale, ed un meraviglioso tailleur giallo con giacca corta in vita e gonna stretta al ginocchio. Mancano solo le scarpe e sono perfetta.
Nel perfetto stile modaiolo di Capitol City.
Non mi interessa niente di seguire la moda al momento, ma se non devo dare nell’occhio non posso cambiare i miei atteggiamenti, anche se sarei volentieri uscita con una tuta di addestramento di Katniss.
Lascio il centro di addestramento di buon’ora, scambiando un rapido saluto solo con il custode nell’atrio, l’unico presente a quell’ora del mattino.
Arriverò a casa mia, lì potrò accedere al mio archivio volutamente retrò (agendine scritte fitte fitte a mano in anni di lavoro) e cercare l’ultimo contatto che ho avuto con Tigris; questo è l’unico punto di partenza decente che ho trovato. Non dovrò chiedere a nessuno se non per necessità, in modo da non lasciare molte tracce da seguire. Nonostante Plutarch mi abbia offerto la copertura necessaria, preferisco non destare sospetti chiedendo.
Decido che, visto la meravigliosa giornata e la frescura mattutina, posso tranquillamente fare una passeggiata a piedi.
Ma camminare per Capitol City questa mattina è un incubo: chiunque mi posa gli occhi addosso sento che cerca su di me un indizio compromettente, ogni sorriso equivale ad uno smascheramento, ogni bambino che mi urta camminando un segnale.
Ogni sguardo che ricevo è uno sguardo di accusa, perché sono una traditrice, perché sto mettendo tutti loro in pericolo.
Ah si? Be’, cari miei, in vero pericolo ci sono i miei ragazzi ora, chissenefrega di tutti voi!
Effie!
Quasi mi rimprovero da sola di tanta silenziosa impertinenza.
Sorrido soddisfatta della mia presa di posizione, affronto a testa alta tutti gli altri visi che incrociano il mio cammino e finalmente sono a casa.
Entrando ho la sensazione di essere stata via per settimane, invece manco solo da un giorno.
Il mio piccolo mondo di riservatezza, a volte di ricercata solitudine, fatto di pareti rosa e argento, di piccoli servizi da caffè in porcellana sulle mensole del salone e da un bagno grande quanto la camera da letto, adesso mi sembra improvvisamente opprimente. L’enorme finestra che da su strada non aiuta a sentirmi meno soffocata, forse perché è una enorme vetrata che non si apre, fatta di spesso vetro infrangibile e specchiata dall’esterno verso l’interno, in modo che nessuno possa guardare dentro.
Abito in un centralissimo quartiere fatto di piccoli appartamenti a schiera ad un solo piano. I viali sono bellissimi, bordati di alberi da frutto e piccoli arbusti. Abbiamo ampli marciapiedi ed un efficientissimo sistema di raccolta rifiuti a scomparsa, tanto spazio e i servizi tutti a portata di mano, consegne a domicilio per i generi di prima necessità e manutenzione convenzionata di tutti gli apparecchi tecnologici in dotazione all’appartamento.
Nonostante questo, stamattina tutto verte su una gradazione di squallore che mi da la nausea.
Tutte queste comodità, questi segni di civiltà fittizia, questi ninnoli che vogliono proiettare un’immagine perfetta e curata di noi, questa smania per l’educazione, per la moda, per la mondanità, per spiccare e poi… poi mandiamo ogni anno al macello dei ragazzini e li guardiamo mentre muoiono, divertendoci.
Il genere umano commette sempre gli stessi errori.
Ho studiato, io. Non sono proprio una cretina.
Certo, probabilmente se mio padre non avesse avuto una naturale curiosità verso il mondo antico, in particolare la storia dell’impero romano, non avrei mai trovato libri del genere da leggere, imparando che Panem prende il nome dalla parola latina e che i romani erano soliti accoppiarla con Circenses per indicare qualcosa di molto preciso. Qualcosa che ogni anno ho visto ripetere davanti ai miei occhi in una ciclicità infinita: l’arena e i tributi, gli ibridi, le trappole, esattamente come nell’antica arena di Roma, e le belve feroci, i gladiatori, le botole, ma soprattutto…il pubblico.
Un pubblico assetato di sangue, che si divertiva al suono del clangore dei combattimenti, che incitava alla cruda violenza , che si radunava per assistere ad uno spettacolo di morte. Un popolo che veniva ammansito con la distribuzione del pane e l’entrata gratuita per assistere ai giochi.
Sono passati migliaia di anni e noi siamo l’esatta replica di quel momento.
L’essere umano non cambia mai.
Trovo, in una scatola del mio ordinatissimo stanzino, tutte le agende degli anni passati e trovo un indirizzo, risalente a non so quando, di Tigris segnato su un biglietto di invito per una festa.
Cerco qualcos’altro, magari di più recente, ma all’epoca non era tanto difficile trovarla, vista la sua appariscente maniera di frequentare tutti gli eventi più importanti della capitale. Inoltre il suo atelier era a due passi dal centro della moda e lei lavorava giorno e notte.
Non ho altro.
Infilo il biglietto in tasca e rimetto tutto nella scatola.
È poco, ma è pur sempre un punto di partenza.
 
 
Mi scuso per la brevità del capitolo, ma sto passando un periodo piuttosto indaffarato, quindi, con mio sommo dispiacere, il tempo per dare forma a tutte le mie idee è veramente poco! Questo è un capitolo di passaggio… ora comincia l’azione!
Grazie a tutti!
Mor
   
 
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