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Autore: Dean Lucas    06/07/2014    1 recensioni
Delphi è la prescelta, poiché sul suo corpo è inciso il futuro degli uomini.
Gavri’el è il prescelto, poiché è destinato a trovare il Bastone di Adamo.
Sargon è il prescelto, perché è l’erede del regno di Akkad.
Matunde è il prescelto, perché è il gigante nero dell’impero nubiano.
Babu non è un prescelto, è solo un nano impertinente e pavido.
Lei invece è la Sfinge, altera e bellissima, la creatura più preziosa dell’universo.
Sullo sfondo di un mondo antico e misterioso, oltre le porte del tempo, un viaggio e la lotta contro un male che affonda le proprie radici nella Genesi.
Un viaggio che ha come meta la salvezza dei Figli dell’Uomo.
Genere: Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Gavri’el si alzò dal pagliericcio, sbadigliò e stiracchiò i muscoli.
Come ogni mattino, i genitori erano usciti alle prime luci dell’alba. L’approvvigionamento dell’acqua allo shaduf era la prima incombenza quotidiana di sua madre Nebet, mentre il padre già lavorava nei campi di dhurra e saggina.
La prima cosa che Gavri’el mise a fuoco fu la grande giara di terracotta accostata alla parete di fronte. Quando si avvicinò un odore pungente gli solleticò le narici.
Sfiorò con un dito il delizioso liquido color miele e lo portò alla bocca. L’aroma dell’orzo e del grano fermentato gli ricordò che la Festa del Leone era vicina. Il pensiero lo riempì di gioia: avrebbe rivisto la dea, e dopo la cerimonia, sarebbe iniziato per lui l’addestramento nella caserma di al-Khayma. Sarebbe diventato un soldato e allora nessuno lo avrebbe più chiamato nemeh.
Gavri’el abbandonò lo stanzone dove mangiava e dormiva la sua famiglia ed entrò nel piccolo ambiente riservato al culto domestico. Due lampade a olio gettavano una debole luce sulle numerose tavole offertorie, sui piccoli recipienti di lucida faience azzurra e su ogni genere di monili di argilla. Si diresse senza esitazioni verso il piccolo altare collocato in posizione rialzata sopra tre scalini, nascosto dietro due ante decorate con ritratti della Sfinge.
Gavri’el le aprì lentamente, facendo scricchiolare i vecchi battenti di legno, mentre un largo sorriso gli illuminò il volto. Il khopesch, la caratteristica spada corta di bronzo dell’esercito egiziano, si trovava proprio lì, avvolta in un panno di lino.
Accarezzò la superficie fredda dell’arma, ma le sue fantasie furono subito interrotte dal fragore di ruote che sobbalzavano sul terreno sassoso. Chiuse in fretta le ante e si lanciò verso l’ingresso.
 
***
 
Tary torreggiava sul carro lanciato al trotto come un vero condottiero. Le redini erano annodate più volte intorno ai polsi, in modo da mantenersi in equilibrio sulle assi di cedro d’alto fusto della Fenicia, mentre l’uomo che l’accompagnava, e che vigilava su di lei con evidente preoccupazione, più che il precettore sembrava il suo portatore di lancia.
Tary arrestò la coppia di giumente proprio davanti all’abitazione di fango e argilla di Gavri’el. «Aspettami qui» ordinò all’uomo accanto a lei. «Tornerò prima che si avvicini il tramonto.»
«Principessina Tary, ho ricevuto dal vostro nobile padre l’ordine di non lasciarvi allontanare da sola per nessun motivo» si lagnò il precettore.
Tary gli strizzò un occhio. «Ma il mio nobile padre non lo verrà mai a sapere. Sai di riporre saggiamente in me la tua fiducia.»
Mentre l’uomo scendeva dal carro, sospirando e scuotendo il capo, Tary si morse il labbro inferiore e fissò Gavri’el con impazienza.
«Ai vostri ordini, mia signora!» Gavri’el saltò sul lato posteriore aperto del cassone e si collocò alla destra della ragazza, fingendo di essere il suo portatore di lancia. Tary agitò le redini e il carro da guerra del padre si allontanò al piccolo galoppo.
«Dove siamo diretti, principessina Tary?» la canzonò lui.
La ragazza lo guardò come se fosse uno sciocco. «Alla dimora della dea, naturalmente.»
 
***
 
Una scia di polvere li inseguì fino alle porte orientali di Giza e li scortò ancora, mentre proseguivano al trotto sui sentieri sabbiosi della necropoli.
Le piramidi di Cheope, Chefren e Micerino, disposte in diagonale in modo che nessuna potesse mai oscurare il sole alle altre due, si stagliarono altissime e imponenti davanti ai loro occhi.
Le lucide lastre di calcare bianco che le rivestivano, interamente incise da grafemi, riflettevano la luce del giorno con un’intensità tale da far credere che tre soli fossero caduti sulla terra.
Cheope era la più imponente di tutte. Alta come cento uomini e larga centocinquanta, era visibile da qualsiasi punto sulla piana di Giza. Gavri’el contemplò incredulo la prova della potenza degli dèi. Sarebbero mai riusciti i Figli dell’Uomo, con le loro misere forze, a innalzare opere così grandiose?
Sovrastata dalle tre piramidi, poco più lontana, apparve la monumentale Sfinge di Giza, la dimora della dea. Tary lanciò le due giumente al galoppo e arrestò il carro accanto alle colossali zampe anteriori.
Quando balzarono a terra, erano entrambi ricoperti da un sottile velo di mica che accendeva al sole microscopiche stelle a ogni movimento. Tary lo afferrò per una mano e lo trascinò correndo tra i giganteschi arti di pietra della statua.
 La ragazza si fermò proprio sotto l’enorme testa del monolite, le labbra erano increspate in un sorriso che tratteneva a stento. Gli posò un dito sul petto nudo e cominciò a disegnare sul velo di polvere. Quando ebbe finito, indietreggiò di un passo e aggrottò la fronte come un artista di fronte al suo dipinto.
«Ecco cosa sei, Gavri’el… un grosso somaro!»
Lui strabuzzò gli occhi e abbassò il mento: quando riconobbe le grandi orecchie allungate, lo stupore cedette il passo a un finto sguardo accigliato.
Credendo autentico il suo disagio, Tary si pentì dello scherzo, si affrettò a raccogliere altra sabbia e gliela sparse sul torace. Imperterrita, tornò a tratteggiare nuove linee e quando finalmente fu soddisfatta del disegno, annunciò: «Questo è davvero ciò che sei per me.»
Gavri’el cercò di intuirne la forma, ma non era sicuro.
«Vedi questa?» lo aiutò Tary, ripercorrendo nuovamente con le dita l’agile muscolatura del petto. «È una chioma. Questo invece è il muso, poi i baffi… e queste sono le zanne» scandì con una luce diversa negli occhi, mentre quasi gli graffiava l’addome. «È un leone.»
Le labbra della giovane hyksos rimasero socchiuse, come se restassero ancora altre parole da dire. Come se l’atmosfera intorno al monolite fosse sospesa e il tempo si rifiutasse di scorrere ancora.
Tary si morsicò il labbro inferiore e prese a giocherellare con la coda di zebra che portava annodata in vita.
Tutto era cambiato così in fretta – pensò Gavri’el – da quando giocavano nudi nel fango sulla sponda occidentale del Nilo insieme agli altri monelli di Giza. Sebbene Tary non perdesse occasione per farsi beffe di lui e per irriderlo, come quando erano bambini, ora percepiva nel suo sguardo qualcosa che prima non c’era.
Un lampo di malizia balenò all’improvviso nei grandi occhi nocciola di Tary. «Prendimi...» bisbigliò lei, spezzando quel mutismo delizioso. «Prendimi, se sei capace!» Un istante dopo correva e zigzagava sulla sabbia rovente, strillando e ridendo.
Mentre cercava invano di acciuffarla, Gavri’el non poté fare a meno di ripetere nel silenzio della mente le stesse domande che lo tormentavano da tempo. Cosa ne sarebbe stato della loro amicizia se le avesse confessato i suoi sentimenti? Tary avrebbe mai potuto corrispondere l’amore di un nemeh? Avrebbe rischiato di perderla?
Gavri’el avrebbe dato ogni cosa per conoscere le risposte, eppure non c’era niente che temesse di più del momento in cui le avrebbe ottenute.
Non poteva sapere che un’angoscia persino maggiore tormentava anche lei.
  
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