Capitolo 3| Putting it back Together;
Passarono parecchi mesi prima che
potessimo tornare a vivere nel Distretto 12. Molte persone vi si erano
stabilite già da tempo, e i più stavano dando una mano a ripulire le strade e
gli edifici dalla cenere e dalle macerie. Trascorsi il viaggio di ritorno verso
casa trotterellando qua e là per l’hovercraft e trascinandomi dietro Dru, un ragazzino dai capelli rossi con cui Vick ed io
avevamo fatto amicizia durante il periodo
sottoterra, così come lo chiamavo io. Ero impaziente di arrivare, perché
credevo che una volta atterrati avremmo trovato Gale ad accoglierci, magari con
una Lilo sporca di cenere, ma sana e salva fra le
braccia. Un mese prima si era fatto trasferire nel Distretto 2, ma speravo
ancora che, presto o tardi, sarebbe tornato a vivere con noi. Quando finalmente
venimmo lasciati ai margini del distretto, tuttavia, mio fratello non c’era e
nemmeno la mia bambola. Mi guardai attorno un po’ intimidita, disorientata dai
tanti cambiamenti che aveva subito il posto che ancora ci ostinavamo a chiamare
casa.
“Dove siamo?” chiesi, spaesata, quando
raggiungemmo la zona del Giacimento. Non riconoscevo le case, né i profili
delle botteghe che si potevano notare in lontananza. Quando passammo vicino al
Prato mi accorsi che era stato sostituito da una gigantesca fossa, per gran
parte già riempita di terra. Notai che mio fratello Rory
camminava a testa bassa, lo sguardo velato da una maschera di rabbia e dolore.
Vick, alla sua sinistra, sembrava altrettanto triste. Quando raggiungemmo il
punto in cui un tempo c’era stata casa nostra, mia madre aveva ormai gli occhi
lucidi. La vecchia abitazione a tre stanze in cui avevo vissuto fin da quando
ero nata non c’era più: il suo posto era stato occupato da un piccolo edificio
bianco che ricordava più lo stile sobrio del Distretto 13 che non le strutture
malandate e scurite dalla polvere di carbone del Giacimento. Quell’abitazione
modesta divenne la nostra nuova casa, ma ci vollero diversi mesi prima che mi
abituassi a considerarla come tale. Trascorsi quel primo pomeriggio a
scandagliare in lungo e largo la zona in cui vivevamo alla ricerca di Lilo, ma ovviamente non la trovai. Nei giorni successivi
proseguii con le mie opere di ricerca, raccattando qualsiasi oggetto mi
ricordasse anche solo minimamente la mia vita prima dei bombardamenti. Cercavo
una prova, qualcosa che mi aiutasse a credere che quel posto, così diverso da
quello che avevo lasciato quasi un anno prima, fosse ancora il Regno di Posy.
Tuttavia non ottenni mai un granché e così, gradualmente, smisi di cercare. Con
il passare dei giorni diventai sempre più irritabile e ribelle. Combinavo guai
di continuo e mia madre, che lavorava spesso fino a tardi, quando rincasava
doveva anche trovare il tempo per porre rimedio alle mie marachelle. Non sono
sicura del perché mi comportassi così; credo fosse il mio modo di reagire alla
tristezza che mi vorticava intorno e che percepivo ovunque: negli sguardi dei
passanti, che avevano perso una casa e dei familiari a cui volevano bene. Nei
sospiri di mia madre, che guardava spesso fuori dalla finestra come se si
aspettasse di veder tornare Gale da un momento all’altro. Nei silenzi di Rory, che era diventato insolitamente chiuso e taciturno,
da quando Prim era morta. Combinare guai fu il
rimedio migliore che mi venne in mente per sovrastare il rumore di tutta quella
tristezza, in maniera da non doverla più sentire.
E poi, un giorno, Dru
ed io trovammo la scatola. Non era
niente di speciale: solo una cassetta di legno un po’ sporca, di quelle che si
trovano sui banchi di frutta e verdura al mercato. Qualcuno l’aveva abbandonata
sul vialetto di fronte a casa di Dru e, quando passai
da lui quel pomeriggio, trovai il mio amico pel di carota intento a gettarci
dentro dei sassolini. La vista di quella scatola risvegliò qualcosa, in me.
Ricordai il pomeriggio in cui avevo visto per la prima volta la torre di Lilo ed evocai la gioia con cui avevo appoggiato la mia
bambola sulla cassetta più alta.
“Una volta avevo una torre” rivelai a
quel punto con un sorriso, accovacciandomi per poter esaminare meglio la
cassetta. “L’avevano fatta i miei fratelli con tante scatole come questa.”
“E a cosa serviva?” chiese Dru, sfregandosi il naso puntellato di lentiggini.
“A tenere lontani i draghi dal mio
regno” spiegai con orgoglio. “Il Regno di Posy.”
Dru mi rivolse
un’occhiata confusa, così mi sedetti accanto a lui e incominciai a raccontare.
Gli parlai dei reali della casata degli Hawthorne,
del soldato Lilo e dei Draghi Pacificatori. Man mano
che ricostruivo a voce alcuni particolari del mio mondo di fantasia, il Regno
di Posy tornava ad assumere forme maggiormente distinte anche nella mia testa.
Da bravo maschietto di quasi otto anni qual era, Dru
tentò di mostrarsi scettico nei confronti del mio racconto. Tuttavia non mi
sfuggì la scintilla di curiosità che si era accesa nel suo sguardo mentre
parlavo, come accadeva ogni volta che suo nonno Jonathan ci raccontava una
storia.
“E adesso dov’è questa torre?” chiese
infine, sollevando la scatola per esaminarla meglio.
“L’hanno distrutta” mormorai, chinando
il capo. “È stato il cielo” aggiunsi, appoggiando il mento sui palmi delle
mani. Lui mi rivolse un’occhiata interrogativa, ma non fece altre domande. Il
mio sguardo si fece vacuo per qualche istante, prima di tornare alla scatola.
Un pensiero improvviso mi stuzzicò la mente e raggiunse le mie labbra,
inarcandole in un sorriso. Scattai in piedi sotto l’espressione sorpresa del
mio amico.
“Costruirò un’altra torre” dichiarai
infine, annuendo soddisfatta. “E la regalerò ai miei fratelli!”
Dru valutò le mie
parole con espressione pensosa, prima di ricambiare il mio sorriso.
“Ti aiuto!” propose infine, alzandosi
in piedi con la scatola sotto il braccio. Avremmo dovuto ripartire da zero, ma
quel pensiero non mi spaventava. Il cielo era crollato una volta, ma il Regno
di Posy c’era ancora e, da quel giorno, incominciai a rimetterlo in piedi.
*
Nel corso dei giorni successivi Dru ed io andammo alla ricerca di cassette, assi e pezzi di
legno, che accumulammo nel prato dietro casa mia. Spiegai a Vick che cosa avessimo
intenzione di fare e lui chiamò a raccolta un paio di suoi coetanei, perché ci
dessero una mano. Quel pomeriggio incominciò ad assemblare con loro la
piattaforma su cui avremmo costruito la torre. Avrei voluto chiedere aiuto
anche a Rory, ma in quel periodo trascorreva interi
pomeriggi nei boschi per conto suo e di rado rincasava prima di cena. Ben
presto la legna che avevamo messo da parte incominciò a scarseggiare, così
ripresi a ispezionare le bancarelle dei mercati e il retro delle botteghe alla ricerca
di cassette. Non soddisfatta del poco che ero riuscita a recuperare, pensai di
provare a cercare della legna nel bosco. L’idea di addentrarmici da sola mi
spaventava, perciò mi limitai a ispezionarne i margini, alla ricerca di piccoli
tronchi e bastoni. Un mattino, mentre tentavo di spezzare un ramo basso di un
albero, attirai l’attenzione di un ragazzo che stava maneggiando una carriola.
Smisi subito di tirare, per paura di venire sgridata: non ero sicura di poterlo
fare e non volevo che quel giovane andasse a riferire tutto a mia mamma.
“Ciao!” mi salutò lui, avvicinandosi di
qualche passo. Aveva un sorriso gentile, ma gli scoccai comunque un’occhiata
diffidente. “Vuoi che ti aiuti?” chiese ancora il ragazzo, indicando l’albero.
Non risposi subito: mia madre mi
ricordava di continuo che non dovevo parlare con gli sconosciuti. Lui però lo
conoscevo, anche se non bene: si chiamava Peeta. L’avevo visto spesso con
Katniss e, qualche volta, anche a casa del signor Abernathy, quando mia madre
mi portava con sé al Villaggio dei Vincitori. Tuttavia, ogni tanto, avevo
sorpreso Gale a lanciargli strane occhiate e non ero sicura che gli stesse
molto simpatico. Per questo scossi il capo e mi nascosi dietro l’albero, quando
il giovane si accovacciò di fianco a me.
“Sei Posy, vero?” domandò lui,
continuando a sorridermi con gentilezza. Annuii. Non sapevo come facesse a
conoscere il mio nome, ma quel fatto mi tranquillizzò leggermente. Se sapeva
come mi chiamavo era ancor meno un estraneo di quanto pensassi.
“I tuoi fratelli non ci sono?” chiese
ancora il ragazzo. Feci di nuovo no con la testa e sgusciai fuori da dietro
l’albero.
“Ci serve della legna per costruire una
torre” rivelai poi, aggrappandomi a un ramo.
“Una torre?” ripeté lui, incuriosito.
Annuii nuovamente. Peeta mi rivolse un’occhiata pensierosa.
“Sai, ho giusto un po’ di legna che mi
avanza, a casa” disse infine. “Vuoi che te la porti?”
Quella proposta sciolse la punta di
diffidenza che era rimasta sul mio volto. Sorrisi raggiante e Peeta interpretò
quell’espressione come un sì.
“Vado a prendertela” dichiarò infine,
tornando alla sua carriola. Quando, poco più tardi, fece comparsa sul vialetto
di fronte casa nostra, gli andai incontro correndo, mentre mia madre mi
sorvegliava dall’ingresso. Ricordo bene il loro scambio di sguardi e
l’espressione d’un tratto esitante di Peeta. Sembrava quasi che volesse
scusarsi o chiedere il permesso per poter parlare con me. Dopo quel primo
momento di disagio mia madre lo ringraziò e gli offrì qualcosa da bere, ma lui
declinò con gentilezza. Portò la legna sul retro e si offrì di dare una mano a
Vick con la torre. Al contrario di Rory, che si
mostrò insolitamente freddo con lui, il minore dei miei fratelli accettò di
buon grado, lieto di avere un po’ di aiuto in più. Nel corso della settimana
successiva ci spostammo a lavorare nel prato di fronte casa e le nostre operazioni
incominciarono ad attirare l’attenzione dei passanti. Peeta Mellark era
stato il primo a offrirci il suo aiuto, ma presto arrivarono altre persone. Rory, che aveva messo da parte le sue abitudini solitarie
per partecipare a tempo pieno al progetto, ingaggiò alcuni compagni di scuola e
Dru chiese aiuto al padre e a sua sorella Maki. Thom, un amico di
Gale, portò altra legna, dei chiodi e qualche attrezzo, offrendosi di montare
le pareti della torre sulla piattaforma.
Mentre il nostro progetto
germogliava, anche la zona del Giacimento stava tornando a fiorire. I detriti e
le macerie erano già stati per la maggior parte rimossi e molte case
danneggiate dai bombardamenti, ma ancora agibili, vennero riparate. Il Prato
ricominciò a crescere e riprese presto a riempirsi degli schiamazzi dei
ragazzini della zona. Anche la mia torre crebbe, grazie al lavoro di un gruppo
sempre più numeroso di persone. Quando fu ultimata qualcuno propose di ampliarla,
affiancandoci un fortino. Approvai con entusiasmo, immaginando quanto sarebbe
stato bello avere uno spazietto tutto per me in cui poter giocare. Il nostro
progetto, sviluppato al solo scopo di far sorridere me e i miei fratelli,
sembrava aver smosso qualcosa in alcuni dei superstiti dei bombardamenti. Tutti
loro avevano perso una casa e molti avevano avvertito la terra tremare sotto i
propri piedi, la notte delle esplosioni. Quelle persone, come me, avevano visto
il cielo crollare e grazie a quel fortino incominciammo a ricostruirlo, pezzo
per pezzo. Assieme, perché non cadesse mai più. A lavoro ultimato, la mia torre
si era trasformata in un autentico castello in miniatura con tanto di ponte
levatoio e una pedana a pioli che portava alla piattaforma. Dipingemmo il
fortino di blu e ne tappezzammo il soffitto con stelle di vernice gialla. Peeta
disegnò per me i ritratti degli abitanti del Regno di Posy, perché li potessi
affiggere alle pareti. Ne fece diversi, incominciando da quelli delle persone che
erano cadute in battaglia come eroi, combattendo per proteggere il nostro
regno. La prima fu la soldatessa Lilo con i suoi
capelli rosa: venne raffigurata in bilico sulla nostra prima torre di legno.
Poi fu il turno della dottoressa Prim, con le guance rosse
e il suo solito sorriso gentile. Quei ritratti mi aiutarono a mantenere vivo il
ricordo di tutto ciò che la guerra mi aveva portato via. Al sicuro nel mio
fortino scelsi di credere che le persone che io e gli altri abitanti del
Distretto 12 avevamo perso durante la rivolta non se ne sarebbero mai andate
veramente: facevano ancora parte del Regno di Posy e sarebbero rimaste lì, fino
a quando non le avessimo dimenticate.
Con il trascorrere dei mesi, ripresi a essere
la bambina solare e vivace di un tempo. Di tanto in tanto i draghi del passato
tornavano a farmi visita, ma il più delle volte erano sufficienti un abbraccio
di mia madre, le parole di conforto dei miei fratelli o una favola raccontata
da Dru per riuscire a scacciarli.
Questi sono i ricordi che conservo di
quel periodo; non sono certa che ogni cosa sia andata esattamente come l’ho
memorizzata. In fondo, all’epoca, avevo solo cinque anni. Questo è
semplicemente il modo in cui ho scelto di ricordare ogni cosa.
Nota dell’autrice.
Ed eccoci finalmente arrivati all’ultimo capitolo di
questa storia (manca solo più l’epilogo!). Qui fanno comparsa un paio di
personaggi che non c’erano nei precedenti; Dru, che
qualcuno conosce, è il piccolo co-protagonista di nonno Jonathan in “Raccontami il
Verde”, ed è un ragazzino del Distretto 13. Ho sempre pensato che, dopo la
rivolta, Dru e la sua famiglia avessero deciso di
cambiare aria e che si fossero trasferiti nel Distretto 12. Era già stato
menzionato anche verso la fine di A Flower
that Blooms in Adversity”, anche se non era stato detto il nome. Per
quanto riguarda Peeta, mi sembrava la persona più adatta ad aiutare Posy; in
fondo quel ragazzo ha seriamente tanta pazienza e un cuore grande come una casa
e vedevo il suo gesto plausibile. Credo che non sia stato semplice per Hazelle e soprattutto Rory (che
ho sempre immaginato molto legato a Gale) accettare il suo aiuto, ma penso
anche che volessero tutti fare il possibile per aiutare Posy a tornare la
bambina spensierata di una volta. Tra l’altro lo vediamo vicino ai boschi con
la carriola, perché stava andando a prendere le primule per Katniss, come si
accenna ne “Il Canto della Rivolta”.
Per quanto riguarda la lunghezza dei capitoli, credo che
questo sia il più lungo dell’intera mini-long e in effetti c’è un motivo a
riguardo, che si allaccia alla citazione iniziale inserita nel prologo, quella
di Finnick: di suddividere le varie scene seguendo
una mia logica un po’ bizzarra. Come dice Finnick in Mockingjay, «Rimettere insieme i pezzi richiede dieci volte il
tempo che serve per crollare.» Per
questo la parte di storia legata al “rimettere insieme i pezzi” e dunque alla ricostruzione è piuttosto lunga, mentre
la parte incentrata sul crollo, in confronto, è molto breve. Al tempo stesso ho
pensato che Posy ricordasse molto poco delle esplosioni, proprio perché era
stato un episodio inaspettato e traumatico. Per questo la ragazza si sofferma
così poco sulla parte dei bombardamenti. Che altro aggiungere? Questa parte
avrebbe dovuto essere ancora più lunga, e avrebbero dovuto far comparsa altri
personaggi – fra cui Delly Cartwright che ha dato una
mano nel dipingere e decorare l’interno della casetta – ma ho dovuto tagliare
un po’ di scene per riuscire a rientrare nel limite previsto dal contest.
Penso di aver detto tutto! Un grazie di cuore alle persone che hanno
continuato a seguire e a recensire questa storia! Spero tanto che questo
capitolo non vi deluda, così come l’epilogo (che sarà ambientato nel futuro,
quando Posy ha più o meno 20 anni).
Corro a rispondere ai vostri commenti!
Un abbraccio e a presto!
Laura