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Autore: lulaan    12/07/2014    0 recensioni
Anche stare nel posto più pregno di bei ricordi fa male, fa pensare, fa dubitare. Stavo di certo compiendo il gesto più vigliacco, ma è in parte quello che avevamo deciso, e qualcuno questo primo passo doveva pur farlo. Andare via, e se fosse stato possibile farlo dopo averlo pensato per la prima volta sarebbe stato meno doloroso.[..] A detta di tutti lui è perfetto, o così sembra. Sembra. Ma è ben noto che ognuno ha i propri difetti.
Genere: Drammatico, Introspettivo, Malinconico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Le due settimane seguenti il mio ritorno erano state peggiori di quanto avessi mai potuto immaginare. “Peggiori” non perché avessi passato tutte e due le settimane in reclusione, a rimuginare e pentirmi di quello che avevo fatto, ma bensì perché mi ero allontanata completamente da tutto ciò che potesse appartenergli, lo avevo nascosto. Avevo negato che tutto ciò fosse successo. Io ero io, per New York non ero partita e con Tom era finita prima che potesse recarsi  oltreoceano.
Il cellulare era spento da dodici giorni e ventidue ore. Il computer era spento da dodici giorni e ventidue ore. Andavo regolarmente a lavoro da altrettanti giorni ed altrettante ore, lavorando su un grosso progetto che mi era stato tenuto da parte. Stavo vivendo tutto alla giornata, sfruttando al massimo le relazioni sociali, riscoprendo rapporti umani che erano stati gettati nell’oblio. Aveva un sapore diverso poter andare a cena da qualche parte senza dover  ordinare il cibo a domicilio “perché altrimenti siamo disturbati e allora che senso ha andare fuori insieme” . Aveva  un sapore diverso poter andare in giro per i negozi senza dover  fare shopping online “perché altrimenti siamo disturbati e allora che senso ha andare fuori insieme” . La mia visione delle cose è indubbiamente alterata, e a parlare sarà sicuramente quel lato di me che è in negazione.
E’ la ventiduesima ora di quel dodicesimo giorno e io mi ritrovo con un paio di amiche in un bar, affollato, affollatissimo, e nessuno ci addita, o ci guarda, o sembra essere minimamente interessato a noi. Dopo una cena passata ad aggiornarci su quelle che sono divenute le nostre vite è da circa un’ora che siamo con pinte, calici di vino e alcolici vari vicino ad un bancone. Una si è sposata da poco, l’altra ha il fidanzato dei suoi sogni, un’altra è in pensiero per il bambino che ha lasciato a casa con il suo compagno. E io? Sono ancora fidanzata, aspetto Tom che ritorni dall’America e tutto va bene.
Già.
No, non sono capace di dire la verità. Non riesco a dire che le cose, dopo l’ennesima comunicazione di riprese all’estero sono precipitate. (E allora lascio che nel mio calice sia versato dell’altro vino.)  Non riesco a dire che la stabilità che cerco lui ancora non è sicuro di darmela. (E allora lascio che nel mio calice sia versato dell’altro vino.)  Non riesco a dire che la realtà è che io ho voglia di costruire un qualcosa di concreto, e che i tempi dei viaggi romantici e delle fughe d’amore vorrei diventassero qualcosa di cui poter parlare serenamente a casa nostra, magari mentre ci preoccupiamo che nostro figlio stia dormendo. E a questo punto, il calice è stato riempito così tante volte che gli effetti dell’alcool sono tutti con me. «Beh, ragazze, domani ho veramente da fare» Biascico. «Da fare, dici? Giornata nel nido d’amore con Tom, eh? » Mi ammicca Tania mentre, più che brilla, lascio venti pound sul bancone. «Ma se non lo sento da quasi due settimane!» Mi lascio scappare, cominciando a ridere. «Come?!» Incalza l’altra. Mi rendo conto di aver detto qualcosa che alle loro orecchie sembra assurdo dato i racconti fantastici che ho fornito loro fino a mezz’ora fa. Infilo il giaccone e la sciarpa ancora seduta  e solo dopo, alzandomi e mettendomi al lato dello sgabello capisco di essere in precario equilibrio. «Allora, è stato un vero piacere! Quando ci si rivede?» Chiedo in un entusiasmo non del tutto sobrio. «E ci lasci così?» Chiedono in coro.
«Insomma.. così come?» Aggrotto la fronte, tenendomi stretta al bancone
«Credo sia ora di andare per tutte, ragazze» Cerca di chiudere il discorso Lucy, mentre mi prende sottobraccio e mi accompagna fuori.
«Va tutto bene?» Mi chiede in modo premuroso, tenendomi un braccio attorno alle spalle.
«Sì, sì.. Ho solo bevuto un po’ troppo» Cerco di dire in preda al freddo.
«Ti chiamo un taxi, dai.» Ed eccolo di nuovo quel tono premuroso. E’ sempre stata la più responsabile sicuramente, ma il suo essere diventata mamma la rende ancora più bella, una persona migliore. I miei pensieri divagano, ed è colpa dell’alcool che è in circolo. Mi rendo conto che Lucy è intenta a cercare nella sua borsa freneticamente qualcosa.
«Credo di aver lasciato il mio cellulare dentro, usiamo il tuo?» Cellulare. Tuo. Mio. Il mio cellulare. Quello spento da dodici giorni e ventidue ore. Non mi degno nemmeno di cacciarlo fuori dalla borsa e lo accendo. Messaggi e notifiche cominciano ad arrivare a raffica: -Tom: ho provato a chiamarti mentre il tuo telefono era irrag- Uno, due, tre, quattro..trentadue.
Sento lo sguardo di Lucy fisso sullo schermo. Ha capito che qualcosa non va, ma non chiede. E non sa quanto le sono grata per questo. Compongo in fretta il numero del servizio taxi, affisso alla porta del bar, mi dicono che in meno di un minuto qualcuno sarà da me, dato che lo stazionamento è dietro l’angolo. Non appena chiudo la chiamata il telefono comincia a squillarmi: Tom. Rifiuto la chiamata e prima che possa squillarmi di nuovo spengo il telefono. «Grazie» sussurro mentre vedo il taxi avvicinarsi. Lucy non dice niente, si limita ad alzare un braccio per indicargli la posizione. «Fammi sapere come ti senti, ok?» Mi dice mentre mi accompagna all’auto. Le sorrido e chiudo la portiera. Fondamentalmente il bar è poco distante dal mio appartamento e non sarebbe stato un problema tornare a piedi, in differenti condizioni. Arrivati sotto al palazzo indico all’autista di fermarsi e gli tendo quindici sterline. Esco dall’auto e spendo fin troppi secondi a cercare le chiavi di casa. Mi appoggio al portone e dopo un paio di tentativi riesco ad infilare la chiave nel verso giusto. Mi infilo nell’ascensore, e non riesco a pensare ad altro che alle trentadue, ora trentatrè chiamate perse. A chissà quanti altri messaggi ed e-mail. Mi sento la persona peggiore al mondo. Voglio dormire, e risvegliarmi quando sarò lucida abbastanza per affrontare quello che ho cercato di nascondere in queste due settimane. Quasi inciampo quando le porte si aprono, non mi ero accorta di essermi appoggiata dal lato sbagliato. Mi cadono le chiavi, mi abbasso per prenderle ed esco dall’ascensore. Finalmente casa. Finalmente pace.
Mi volto, credo di avere le allucinazioni.
«Potrei avere delle spiegazioni?!»
E’ lui. E’ qui. All’in piedi vicino alla mia porta di casa. Lo fisso, interdetta, pietrificata. Indossa una tuta, ha al suo fianco un borsone, ha delle occhiaie che hanno vita propria, gli occhi gonfi. Sembra spossato, stanco. Capisco che è appena tornato, che il suo soggiorno a New York è durato più a lungo del previsto.
«Hey!» Esclamo, odiandomi per non avere la facoltà di fare e dire quello che penso. «Se permetti» sussurro scavalcando il suo borsone e avvicinandomi alla porta. In pochi secondi è spalancata, io sono già dentro e lancio dove capita la giacca, le scarpe, la sciarpa. I pensieri sono confusi, e non ho idea di cosa fare, come farlo. Ho lo stomaco che è simile alla centrifuga di una lavatrice e la gola secca. Tom è ancora fuori, mi fissa. «Non vuoi entrare? Fa così caldo» e lancio via anche il golfino. A questo punto mi rendo conto di stare veramente male. Di essere non inopportuna, di più. Tom lancia dentro il suo borsone, chiude la porta e si appoggia al muro, con lo stesso sguardo e la stessa postura. E’ chiaro che è in attesa di un risposta che al momento non ho idea come dargli.
«Sei ubriaca» E non è una domanda. «L’alcool non ti piace nemmeno.» Inveisce. Mi conosce, e non stenta a dimostrarlo. Mi limito ad annuire sorridendo, come una bambina che gongola per un qualche complimento. «Perché?» continua.
«Oh, insomma Tom, che t’interessa?» chiedo sarcastica prima di attaccarmi al collo di una bottiglia di acqua. La peggior idea di sempre. Lui sgrana gli occhi, incredulo per quello che ho appena detto. E’ come se fossi sulla difensiva. Sono sulla difensiva. Giuro, che ho avuto le mie ragioni. Per aver bevuto, per essermene andata, per tutto. Lo fisso mentre avida butto giù mezzo litro di acqua. Accartoccio la plastica e mi asciugo con una manica le labbra. Ci guardiamo, e una morsa mi si stringe allo stomaco. E’ esausto, è a pezzi ed è solo colpa mia. Vorrei potergli dire che va tutto bene, coccolarlo, ma non è così. Mi salgono le lacrime agli occhi e la morsa allo stomaco è sempre più forte, più per motivi fisiologici che emotivi. «Scusami» riesco a dire prima di correre al bagno.
Eccoli i contro dell’alcool. Lui non esita nemmeno un secondo a venirmi dietro. Mi tiene i capelli, la fronte, mi passa un asciugamano ed è qui ad asciugarmi le lacrime dovute allo sforzo. Passo circa un quarto d’ora o in realtà non ho idea di quanto tempo a fissare il soffitto, seduta ai piedi della vasca da bagno. Lui al mio fianco. «Va meglio?» mi chiede. Annuisco, avvertendo una malsana voglia di stringerlo a me, di dimenticare tutto, di far finta che niente sia successo. «Vado a prenderti dei vestiti, ti suggerisco una doccia fredda, ti farà riprendere.» E si alza. «Stanotte rimango sul divano, per qualsiasi cosa sono lì» dice mentre esce fuori. Lo vedo scomparire nella mia camera da letto e tornare con dei pantaloncini e una sua maglietta, una che ho qui da quattro anni, uno dei nostri primi ricordi. «Grazie, davvero» gli dico trattenendogli un braccio. Mi alzo, gli accenno un sorriso. Lui fa altrettanto ed esce fuori, chiudendosi la porta alle spalle. Seguo il suo suggerimento e lascio che l’acqua della doccia mi accarezzi, il che si rivela più piacevole di quanto mi aspettassi. Lascio i capelli bagnati e mi infilo a letto. Mi avvolgo nelle coperte e vorrei pensare, agire per il bene, ma la stanchezza riesce a sopraffarmi.
  
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