Il villaggio di Hogsmeade
era immerso in una dolce oscurità vellutata.
I tetti imbiancati dalla prima neve di Dicembre sovrastavano la luce gialla e
calda delle piccole finestre: oltre esse c’erano famiglie, intimità. C’era casa.
Le strade erano deserte; in quel freddo lunedì invernale il villaggio sembrava
fatto di case di bambola perfette e silenziose.
Solo una figura percorreva i vicoli lastricati di pietre scivolose.
Non attirava l’attenzione, curvo com’era, con le mani sprofondate nelle tasche.
Alle sue spalle si ergeva maestoso, in lontananza, il castello di Hogwarts, con
le sue mille e più vetrate illuminate dalle torce.
La sagoma camminava lenta, a capo chino, diretta verso una delle principali
fonti di luce nella via buia; le lanterne dei Tre Manici di Scopa
rivelarono che il solitario viandante era un uomo con il colletto del mantello
nero sollevato fino alle orecchie.
Un uomo piuttosto alto e robusto, con lo sguardo rivolto a terra.
Estrasse una mano dalla tasca e la posò sulla maniglia, entrando nel pub.
Il calore dei grandi caminetti accesi gli strappò un sospiro di sollievo e lo
costrinse a slacciarsi il mantello e appenderlo all’ingresso.
Era giovane, certamente aveva meno di trent’anni, e il viso florido arrossato
dal freddo era ornato da una barba un po’ troppo lunga per definirsi ordinata.
Qua e là risuonarono saluti gioviali, che l’uomo ricambiò con vaghi sorrisi e
cenni distratti.
Senza dire una parola si accomodò al bancone; non alzò il viso mentre frugava nella
tasca cercando qualche moneta, non degnò di uno sguardo la barista bionda che,
senza nemmeno aspettare l’ordine, gli mise davanti un boccale di Burrobirra.
L’uomo ringraziò con un sussurro roco e fissò le profondità del liquido ambrato
dinanzi a sé.
Da dove ricomincio?, si chiese
bevendo un lungo sorso.
Era difficile dimenticarla, quella piccola fata sognante. Certo, era anche
difficile capirla e apprezzarla; era stato difficile vincere i pregiudizi e
ammettere di essersene innamorato, e ancor di più vivere con lei e la sua fantasia
giorno dopo giorno.
Ma dimenticarla e riprendere in mano le redini della propria vita… be’, quello
era forse troppo.
Il giovane trasse un altro sorso di Burrobirra con lo sguardo perso nei suoi
stessi occhi, riflessi dallo specchio dietro il bancone.
Le aveva fatto paura in un
primo momento. Quegli occhi svagati lo inquietavano, così come il suo parlare
dal nulla e del nulla, il suo perdersi in dettagli irrilevanti.
“No, qui non mi ci siedo”, aveva pensato quel primo Settembre di tanti anni
addietro, all’inizio del suo quinto anni di scuola. Harry era suo amico –incredibile
a dirsi!- e Ginny… ecco, Ginny gli era sempre piaciuta un po’, ma forse
chiederle di uscire era sopra le sue possibilità. Comunque l’aveva invitata al
Ballo del Ceppo, e quello era già un gran successo.
Comunque quei due erano gente a posto. Avrebbe fatto volentieri il viaggio con
loro.
Però quando, in quello scompartimento, si era accorto che c’era lei...
“Quasi quasi viaggio in corridoio” era stato il suo pensiero. Però insomma… una
cosa così era scortese da dire, specialmente se proferita da uno dei peggiori
imbranati che Hogwarts potesse ricordare.
E invece Ginny aveva insistito.
Pazienza, dopo tutto era solo questione di qualche ora. Certo, ore di disagio,
prima per gli strani discorsi di quella pazza, poi quella scena con la Mimbulus
Mimbletonia… che figura!
Avrebbe voluto seppellirsi.
Ma alla fine erano giunti al castello; con un misto di sollievo e inquietudine
per i tempi bui che si prospettavano aveva salutato gli spaventosi cavalli
alati, neri e scheletrici, che trainavano le carrozze, e a quella ragazza
bislacca non aveva più pensato.
Fino a quel giorno alla Testa di Porco. L’idea di un club per allenarsi a
combattere lo aveva spaventato all’inizio, ma al contempo aveva acceso una
fiammella nel suo petto. Coraggio, forse?
Si era aspettato di vedere mezza famiglia Weasley e buona parte della squadra
di Quidditch; i suoi compagni di dormitorio non erano stati una sorpresa, e a
tanta gente non aveva nemmeno badato.
Lei però lo colse proprio alla sprovvista.
“Ciao!” gli aveva detto con voce velata.
Lui non le aveva risposto.
“Guarda che parlo con te”.
“Io?” aveva balbettato, guadandosi in giro.
“Certo!”
Gli aveva sorriso. Certo che era proprio strana…
Col tempo però si era abituato ai suoi discorsi assurdi, riusciva a sorridere
alle sue teorie sui Nargilli e sulle mire espansionistiche di Caramell.
L’appartenere all’Esercito di Silente li aveva in qualche modo legati.
O forse, come si era trovato a pensare più avanti con amarezza, la solitudine.
Avevano riso e lottato assieme; lui aveva imparato a fidarsi di lei e a
leggerle dentro, scoprendo un mondo colorato ed eccentrico. Affascinante.
Forse un po’ gli piaceva… ma no, figuriamoci, lei?
Eppure anche l’anno dopo si erano avvicinati.
“Mi manca molto l’ES”, gli diceva sempre. “Mi piaceva pensare di avere degli
amici”.
“Anche a me” era la malinconica risposta.
“Era come se piacessi a qualcuno”.
“Ma tu a me piaci”, le aveva sussurrato prima di riuscire a bloccarsi.
Lei aveva riso, una risata limpida e pura che sembrava dissetarlo come l’acqua
di fonte.
“Siamo amici, vero?”
“Io sarò sempre tuo amico. Ricordatelo”.
Lo aveva baciato sulla guancia, e lui per qualche istante si era scordato di
respirare.
E poi… ah, quanti avvenimenti!
Insieme avevano lottato contro i Mangiamorte che avevano invaso il castello,
insieme avevano appreso della morte di Silente e insieme lo avevano pianto.
Ma quella piccola mano sottile stretta attorno alla sua aveva reso più
sopportabile il giorno del funerale.
Poi venne la guerra. Lui a scuola, lei… dove? Si era scoperto a pensarla troppo
spesso, a pregare disperatamente il cielo perché gliela riportasse viva, a
picchiare i pugni contro i muri per la rabbia e l’impotenza.
Eppure alla fine avevano vinto, no? Avevano vinto ed erano vivi. Tra le macerie
e la morte, tra le lacrime e il sangue, il mondo ricominciava a muoversi. E lei
era con lui, spalla a spalla, durante la battaglia definitiva.
Ma la vita va avanti. Finita la scuola si sarebbero persi di vista, ne era
certo, e questo gli straziava il cuore.
Fu il caso a riunirli, quel giorno afoso di agosto. Lui si era diplomato e
aveva ottenuto di continuare la sua preparazione ad Hogwarts, seguito dalla sua
adorata professoressa Sprite.
Solo che gli servivano i libri e gli attrezzi e… ma dannazione, aveva perso di
nuovo la sua Ricordella!
Ci teneva a quell’oggettino. Era un regalo di sua nonna, che con tutti i suoi
difetti era riuscita a crescerlo nel migliore dei modi. L’aveva persa anni
prima e rinvenuta in un angolo del giardino dopo mesi, coperta di terra e
muschio. Da allora non se n’era più separato.
Probabilmente gli era rotolata via di tasca uscendo dal camino.
“Stupida polvere volante!”
Aveva percorso tutta Diagon Alley cercando quella sfera di vetro, ma sembrava
introvabile.
Poi, davanti al Serraglio Stregato, gli parve di vedere qualcosa scintillare
dietro una gabbia piena di minuscoli assioli.
Raggiante si era chinato per raccoglierla, ma una mano lo aveva preceduto.
“Continui a perderla” gli aveva detto una voce dolce. “Dovresti stare più
attento”.
Alzando gli occhi la vide. I grandi occhi chiari, quei capelli biondi…
“Luna!” aveva gridato, dimenticandosi la Ricordella, gli assioli e il
negoziante che sibilava di far meno chiasso.
Si era dimenticato di tutto e l’aveva abbracciata, stringendola a sé con un
impeto tale che molto passanti si voltarono a guardarli sorridendo.
Forse ho esagerato, si era detto mentre l’imbarazzo montava inesorabile. Aveva
fatto per lasciarla andare, ma lei lo stringeva ancora.
Avrebbe tanto voluto dirle qualcosa, ma aveva la lingua paralizzata.
Poi finalmente anche lei lo liberò, ridacchiando del colorito purpureo delle
sue guance.
“Allora, come sono andati i M.A.G.O.?” gli chiese disinvolta.
“Oh… io… ecco… bene, credo bene, ho preso un buon voto di Erbologia e… ecco,
torno a Hogwarts a fare un po’ di pratica, la Sprite è stata gentile…”
“Sul serio?” aveva risposto Luna sgranando gli occhi. “Allora ci vedremo
ancora!”
Quel giorno era tornato a casa galleggiando su una nuvola di felicità.
L’anno successivo fu un lungo sogno. Da quel primo bacio furtivo davanti alla
serra numero tre erano successe molte cose. Mesi di tentennamenti da entrambe
le parti, indecisioni, paure.
“Sei ancora una studentessa, Luna. Rischio il posto!”
“Ma hai solo un anno più di me!”
“Non voglio metterti nei guai”.
Luna però era tenace, e lui, inesorabilmente, aveva ceduto. Se n’era
innamorato.
La guardava per ore mentre era intenta a studiare, la ascoltava parlare di
qualsiasi inezia come se fosse il segreto della felicità eterna, la trascinava
con una scusa negli angoli più remoti del parco di Hogwarts per poter stare da
soli.
Era passato parecchio tempo. Luna gli era stata accanto quando era morta sua
nonna, una presenza silenziosa e discreta eppure confortante. Luna era piccoli
gesti affettuosi, era la frase giusta sussurrata per non disturbare, era un
raggio tiepido e soffice. Lo aveva sostenuto e consolato, e forse anche grazie
a lei il lutto non era stato devastante.
“Lo sai che non se n’è andata sul serio. Ora starà facendo amicizia con la mia
mamma, dicendole quanto sei coraggioso e quanto sono fortunata”.
Molte volte lo aveva accompagnato a visitare i suoi genitori al San Mungo,
ormai completamente inconsapevoli del mondo, irrecuperabili; aveva parlato con
sua madre nonostante questa si limitasse a canticchiare, e gli era persino
parso che quelle visite potessero restituire un’ombra di sorriso a quei due
volti distrutti.
Lui ormai viveva solo, e più volte le aveva chiesto di stabilirsi da lui.
Luna non era il tipo per queste cose.
“Ti amo”, le aveva detto mille volte. Lei gli sorrideva, lo baciava, lo
abbracciava forte con gli occhi che brillavano… ma non gli aveva mai risposto.
Eppure la amava anche per questo, per il suo spirito libero, per i suoi lunghi
viaggi, per il suo essere aria e fuoco.
Per anni era andata avanti così. Insieme, affiatati, eppure diversi.
Lui era acqua e terra, e un giorno sentì di dover mettere radici.
Quel giorno gli avevano proposto la cattedra di professore di Erbologia a
Hogwarts. Quando il nuovo preside gliel’aveva comunicato, aggiungendo che la
professoressa Sprite era entusiasta dell’idea, era caduto dalla sedia.
Ma nella gioia di quella grande possibilità che gli veniva offerta si insinuava
prepotente un presentimento sgradevole.
Incontrò Luna davanti ai Tre Manici di Scopa. Lei era bellissima ai suoi occhi,
come sempre, nonostante lo sguardo serio.
“Io… devo parlarti”, gli disse.
“Anche io”.
Forse già in quel momento capì che qualcosa non si sarebbe più aggiustato.
“Devo partire. Questa volta non tornerò: sarò in Madagascar, con il nipote di
Newt Scamander. E’ un’occasione unica, ed è ciò che voglio fare”.
Lui aveva sospirato. Lo sapeva.
“Io… ecco, mi hanno chiesto di andare a insegnare a Hogwarts. Ma posso ancora
dire di no e venire con te”.
Nel dire quelle parole sentì il suo cuore spezzarsi. Sapeva che non era il suo
destino girare il mondo, e la risposta di Luna non lo sorprese.
“No”, gli disse dolcemente accarezzandogli una guancia. “Non è il tuo sogno. È
il mio, e non posso costringerti a forzare i tuoi desideri. Rimani e sii ciò
che hai sempre voluto essere”.
“Allora noi…”
“Noi saremo felici. Mi mancherai, ma non potrò mai smettere di volerti bene.
Sei stato il primo, e proprio per questo sarai sempre unico”.
Lui aveva abbassato lo sguardo sulle proprie mani. Erano ancora sporche di
terra nonostante le avesse lavate. Le mani di Luna erano bianche.
Un senso di grande malinconia lo aveva invaso. Una dolce tristezza straziante,
tanto bella da assomigliare quasi alla felicità.
“Quindi ci lasciamo qui, giusto?”
Lei aveva annuito con un sorriso. Per la prima volta, però, lui vide che c’era
una lacrima impigliata tra le ciglia dorate.
“Mi dispiace. Però hai ragione: è la scelta giusta. Ti auguro di essere felice”.
Così dicendo si era alzato.
Dopo pochi istanti aveva sentito una pressione leggera sul braccio.
Luna era lì, vicino a lui.
“Ti ho amato”, gli aveva detto per l’ultima volta. “A modo mio, ma dal profondo
del cuore. E per me tu sarai sempre importante”.
Lui aveva sorriso e le aveva accarezzato il viso, scostandole una ciocca bionda
dalla fronte.
“Buon viaggio, Luna. E portami una foto del Ricciocorno Schiattoso, quando lo
troverai”.
La Burrobirra si era ormai
raffreddata.
Sono passati anni e ancora ci penso…
dovrei decidermi a togliermela dalla testa.
Bevve un sorso e fece una smorfia. La Burrobirra fredda gli faceva schifo.
Già, ma con chi? Nessuno sarà mai
importante come Luna…
“Dia qui, gliela riscaldo un attimo”, disse una voce giovane e brillante
poco lontana.
L’uomo alzò lo sguardo e la barista gli sorrise per un istante, prima di
socchiudere la bocca in un’espressione di lieta sorpresa.
“Nev… ehm… professor Paciock!”
Neville aggrottò le sopracciglia, non riconoscendo subito la giovane
biondissima dal viso lentigginoso che lo fissava con i grandi occhi nocciola.
“Chi…”
La barista scosse per un attimo la testa, e Neville notò un paio di codini
legati alla base della testa. Quel semplice dettaglio gli riportò alla memoria
ricordi che pensava di aver smarrito.
“Hanna!” esclamò, alzandosi in piedi. “Santo cielo, è passata un’eternità! E
chiamami per nome, ti prego!”
Hanna Abbott si slacciò il grembiule e uscì dal bancone, tendendo la mano.
“Sono così contenta di rivederti! Quando ho saputo che eri diventato professore
mi è venuto un colpo: deve essere un grande onore… la Sprite parlava sempre
bene di te!”
Neville le strinse la mano, stupendosi di quanto fosse solida e calda. Al
complimento arrossì leggermente, e Hanna lo notò.
“Non sei cambiato”, disse sorridendo.
“Tu… tu sì invece” si lasciò sfuggire, squadrandola con un po’ troppa
attenzione. Madama Rosmerta aveva avuto schiere di ammiratori, ma Hanna era
diventata una degna avversaria.
Era alta e ben tornita, dalle curve morbide, e si muoveva con un’eleganza che
Neville non ricordava. Turbato da quei pensieri si affrettò a cambiare
discorso. “Lavori qui adesso?”
“Sì”, rispose Hanna guardando il locale con affetto. “Rosmerta ha deciso che
non ha più l’età per sbattere fuori la gente con la scopa ed è andata in
pensione. Ho lavorato al Paiolo per qualche tempo e in altri posti, quindi ho
una certa esperienza”.
“Sono… sono contento per te”, balbettò Neville. Si sentiva stranamente
emozionato: la sensazione di calore che gli invadeva il petto aveva ben poco a
che vedere con la Burrobirra.
Il pub si vuotava rapidamente col calare della notte. L’ultimo avventore pagò e
se ne andò con un cenno di saluto, lasciandoli soli.
“Bene, finalmente un po’ di pace”, sospirò Hanna. “Ti va di bere qualcosa in
memoria dei vecchi tempi?”
Neville batté le palpebre.
“Sicuro!” rispose con un entusiasmo sospetto.
“Aspettami, vado a prendere qualcosa di speciale nel retro; tu accomodati”.
Mentre Hanna spariva oltre il bancone Neville si sistemò nuovamente sullo
sgabello, assorto.
Sbirciò l’orlo della gonna sparire oltre la porta con una piacevole sensazione
diffusa in tutto il corpo. Era il piacere di rincontrare una vecchia amica, di
riallacciare qualche filo con un passato lontano… eppure c’era dell’altro.
Nonostante ci avesse rimuginato su fino a pochi istanti prima, la testa era
beatamente libera dal pensiero di Luna.
La cosa lo turbò vagamente, ma il ritorno di Hanna lo strappò a fantasie
dolorose.
“Ecco qui”, disse la giovane mettendogli davanti una bottiglia impolverata. “Idromele
barricato, il migliore della riserva”.
“Lo stesso che Malfoy aveva usato per cercare di avvelenare Silente?”
Hanna sgranò gli occhi.
“Cielo, hai ragione! Io… ecco…”
Arrossì violentemente, e Neville riconobbe la ragazzina timida che un tempo era
stata. Gli venne da ridere.
“Scherzavo, scherzavo! Solo che quella volta Ron Weasley –lo ricordi?-
era quasi andato al creatore”.
“Sì, è vero. Come sta?”
Il tempo perse di consistenza, svolgendosi come un gomitolo tra ricordi,
confidenze, aggiornamenti sulla vita.
“E tu? Stavi con Lunatica… volevo dire, con Luna, vero?”
Neville s’incupì appena, ma Hanna lo notò.
“Oh… scusami, Neville”, disse contrita. “Ho toccato un argomento delicato?”
Così dicendo gli posò affettuosamente una mano sull’avambraccio. Neville sentì
il collo diventargli caldo.
“No, non… non ti preoccupare, ormai è acqua passata. Lei è in giro per foreste,
io qui ad Hogwarts, non poteva funzionare”; bevve un sorso di idromele per
prendere tempo, quindi azzardò: “E tu? Stai con qualcuno?”
Hanna scosse i codini biondi.
“Zero assoluto. Sono stata piuttosto sfortunata con gli uomini, ho trovato un
mentecatto dietro l’altro: prima uno attaccato costantemente alle gonne di sua
madre, poi quello convinto che io dovessi fare la casalinga e sfornare come
minimo quindici figli, poi lo stakanovista che si dimenticava di tornare a casa
per giorni. Alla fine ho scoperto che aveva una tresca con la segretaria
cinquantenne. È stato un duro colpo”.
Tuttavia parlò con leggerezza, scrollando le spalle.
Un campanile, in lontananza, scandì due rintocchi.
“Sono già le due? Per la barba di Merlino, io tra sei ore devo alzarmi!” esclamò
Neville balzando in piedi.
“TI conviene rientrare, non vorrei che i tuoi studenti si trovassero con un
professore addormentato in una carriola di concime!”
Si guardarono per un lungo istante ed entrambi scoppiarono in una fragorosa,
genuina risata.
Neville trasse un lungo respiro.
“Spero tornerai a trovarmi”, disse Hanna guardandolo negli occhi.
Il giovane abbassò il volto sorridendo; estrasse la bacchetta e la agitò
leggermente, facendo apparire un vasetto di coccio pieno di terra che si
appoggiò sul bancone. Frugando in una tasca trovò un sacchetto con un paio di
semi tondi e scuri; ne prese uno e lo posò delicatamente sulla terra umida,
porgendolo poi ad Hanna.
“Abbine cura, bagnalo tutte le mattine e tienilo in una zona soleggiata,
lontano dagli spifferi. Fiorirà questa primavera, e se avrai bisogno di
qualsiasi cosa sarò qui, non hai che da chiedere”.
Hanna guardò il vasetto da cui, per magia, era già spuntato un timido germoglio
verde chiaro. Alzò lo sguardo su Neville e gli donò un luminoso, aperto
sorriso.
“Farò ciò che mi hai detto. Grazie, Neville, è un pensiero carino”.
Neville annuì. Ripose la bacchetta e recuperò il mantello, socchiudendo la
porta.
Aveva già un piede sullo zerbino quando si voltò. Hanna era ancora lì, con le
guance rosse e gli occhi che brillavano.
“A domani. Buonanotte.”
“Buonanotte, professor Paciock”.