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Autore: Emera96    21/07/2014    16 recensioni
Come si spiega un bacio su cui ti sei soffermato a fantasticare così tante volte da non riuscire più a tenere il conto? Come descrivi il rumore dei tuoi pensieri che, come in tilt, non smettono di rimbalzare da un angolo all’altro della tua testa, piccole molle alticce perse in un respiro lieve?
Le labbra di Matteo, seppur addormentate e socchiuse in un piccolo cerchio perfetto, sembrano ricambiare l’errore che non sa fermarsi, un errore di cui potrò darmi la colpa e il merito finché la memoria me lo consentirà. Il fuoco che stava per spegnersi sembra bruciarci fino alla morte, quando il mio corpo si appoggia con leggerezza al suo, in un accostamento che va oltre al dormire col proprio amico, che assomiglia più a quello che, di solito, Matteo fa con Elena. Le mie labbra, avide di un piacere succoso, divorano con dolcezza la stanchezza alcolica di Matteo, la sua calma che non riesce a placare la mia insistenza. Il suo sonno che arriva solo a risvegliarmi.
Il nostro, il mio bacio dolce sancisce una promessa fatta a me stesso, una promessa che non sono mai stato capace di mantenere: niente più dolore.
Genere: Drammatico, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Slash
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale/vago, Scolastico
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Prologo

 

 

 

La luce entra dalla finestra, tenue nel suo bagliore mattutino, ma allo stesso tempo incredibilmente energica quando si posa sul profilo del suo corpo. Ne accentua i contrasti tra chiaro e scuro, riempie il volto leggermente scavato intorno agli zigomi e illumina l’espressione rilassata nel sonno, la bocca semiaperta in un sorriso.

Inclino la testa delicatamente a destra, ormai sveglio per la troppa luminosità proveniente dalla finestra. Pochi minuti ad occhi aperti e sono già perso nella precisione di quei piccoli dettagli che, messi assieme, fanno il mio migliore amico. Sorrido e mi lascio sfuggire un sospiro, che nella sua pesantezza esprime il dolore del silenzio e la sua incredibile rumorosità inespressa. Il silenzio che vorrebbe sfociare in un fiume di parole in piena, fino a ricoprire ogni centimetro di quel corpo meravigliosamente imperfetto, in cui ogni cicatrice, mostrata con orgoglio, è un pezzo di storia passata a miglior vita.

I miei occhi attenti, puri e azzurri come il mare al tramonto, assaporano ogni piccolezza di quel corpo immerso nell’ennesimo sogno. Un sogno che assomiglia ad un quadro di cui non mi resta che fare da cornice, mentre Matteo ed Elena ne sono i protagonisti al centro, intenti in una delle loro smancerie. Il volto dapprima disteso di Matteo si apre come le ali di un’enorme farfalla, regalando inconsciamente un nuovo spettacolo da ammirare. Gli occhi, castani come i capelli annodati e scomposti, mi fissano per un attimo mentre, disinvolto, cerco di ritrarmi, spaventato da quel gioco di sguardi. Perché Matteo non deve sapere. Non deve sapere quanto io vorrei mettere qualcosa in più tra di noi rispetto a semplici e fugaci occhiate. Che quello che io vorrei attraversa un limite indicibile, che sfocia nella vergogna di esporsi troppo. Un bacio, una carezza, una frase diversa dal solito.

Un limite che varca la linea sottile dell’amicizia e che si converte in amore.

«Da quanto sei sveglio?» domanda Matteo, lo sguardo ancora smarrito a causa della sbronza della sera precedente.

«Da qualche minuto.» rispondo, omettendo quello che in pochi minuti mi ero ritrovato a pensare. Lo stomaco si contorce al pensiero di un nuovo giorno di bugie e omissioni. Un altro giorno da depennare.

«Ti prego, la prossima volta che decidi di sbronzarti, evita di coinvolgere anche me. Domani inizia anche scuola, in questo stato mi potrebbero scambiare per un nuovo barbone!» aggiunge nel giro di qualche secondo lui, come a voler riempire gli spazi vuoti di una conversazione che si sorregge sul nulla.

Un funambolo, un filo su cui camminare, e nessuna rete a proteggerlo: una parola sbagliata, una giornata storta e la corda si torce, si tende troppo, fino a far cadere l’equilibrista nel baratro dell’imbarazzo. Ho paura, non voglio cadere da quel filo così sottile, e so che basterebbe avvicinarmi di qualche centimetro per ottenere, anche se in una parte infinitamente piccola, quello che vorrei. Ma non lo farò.

«Ma smettila, tanto con Elena non hai problemi in qualunque stato tu sia.» replico, il tono evidentemente scocciato, la voce incrinata.

«Ancora con questa storia? Dai, per favore.»

«Per favore? Ma con che coraggio? Sai come la penso. È una come tante. Lei andrà via col primo che passa e io rimarrò qui, come ogni volta.»

«Perché finisce sempre così?»

«Così come?»

«Basta che venga fuori il suo nome e tu subito diventi una furia. Non ha senso. Adesso c’è lei, e so che domani potrebbe non esserci e tu invece rimarrai. Ma non so che dirti per convincerti e sono stanco. Io torno a dormire.»

Un muro invisibile, suddiviso in milioni di mattoni pesanti come macigni, si erge tra noi al termine della breve conversazione. Il peso di quel silenzio non fa che crescere e crescere, sommergendo la mia bocca. Il respiro di Matteo, aggravato dalla pesantezza dello scontro in corso, si fa regolare e lieve, soave come il ronzio lontano di un’ape che sai essere innocua.

E se stavolta ci riuscissi? No, l’ennesima idea da scacciare via controvoglia. Un’idea pericolosa, che potrebbe spezzare l’equilibrio precario di quell’amicizia costruita in diciotto anni di silenzi. Non posso mandare tutto alle ortiche per un istinto. Non devo. Ma nessuno lo saprebbe. Nessuno lo vedrebbe. Rimarrebbe un segreto incastonato tra le lenzuola leggere, tra la federa colorata del cuscino e le labbra, morbide e carnose, di Matteo. Un segreto suggellato da quel contatto fisico a cui aspiro da tempo immemore.

Ormai non si torna indietro: sarebbe vigliaccheria. Sarebbe idiota lasciarsi sfuggire l’unica cosa che è capace di rimetterti al mondo, abbastanza forte da permetterti di rialzarti in piedi, ma sufficientemente lieve da rimanere sospesa nell’aria respirata, nelle pulsazioni di due cuori che si trovano vicini come mai prima sono stati. Separati da quello che nessuno si aspetterebbe di vedere, una di quelle azioni troppo spontanee per essere razionali.

Ora o mai.

Impegnato nel non fare movimenti troppo bruschi che potrebbero svegliare Matteo, mi alzo dal letto, sentendo il peso del mio corpo completamente fuori controllo.

Niente ripensamenti.

Le molle del letto sembrano volermi spingere nella direzione desiderata, come se ogni oggetto e atomo nell’aria sapesse la cosa giusta da fare.

Marionetta nelle mani di una cosa più grande di me.

Ogni passo è uno sbaglio da non rifare, ogni centimetro che mi lascio alle spalle è un’imprecazione a tutto quello che non ho fatto per paura di un rifiuto che mi avrebbe marchiato a fuoco la pelle, rendendomi visibile a chiunque fosse nei paraggi. Adesso non siamo noi, adesso non ci sono io: ci sono due corpi qualunque, in una stanza qualunque di una città qualunque. C’è qualcuno che dall’alto ha scelto noi, facendo scorrere un dito sul mappamondo e poi fermandone la forza motrice. La gente comune lo chiama destino. Io la chiamo fortuna.

Ma basterà la fortuna a non svegliarlo, a non perdere l’occasione che ho rincorso dal primo momento in cui ho incrociato il suo sguardo? Nessuno può saperlo adesso. Un altro passo e quell’occasione diventerà concreta, trasformandosi in ricordo. Uno dei ricordi ai quali finisci per affezionarti, forse condizionato proprio dalla sua segretezza, dal fatto che solo tu ne sei a conoscenza, e che quella impercettibile esperienza si aggiungerà all’interminabile lista di cose da non dire.

La vicinanza è tale che basterebbe un orecchio più attento per sentire il battito regolare di Matteo che, come musica, dà un ritmo alla mia timidezza e a tutte le paure che non rinunciano a frenarmi nonostante tutto. Ma adesso basta.

 

Di che colore è il coraggio?

La stanza, claustrofobica per la sua improvvisa piccolezza, riflette ogni colore proveniente dall’esterno come uno specchio d’acqua pura in una giornata soleggiata. Il viola che forma una sottile striscia per terra, tra la finestra e la parete bianca. Il rosso, l’arancione e il giallo che come una freccia indicano il percorso da seguire per raggiungere il viso disteso di Matteo, che dorme nella sua inconsapevole bellezza.

Indeciso sul da farsi, scelgo di chinarmi per evitare di far muovere troppo il letto, scansando così la remota possibilità di un risveglio non previsto che rovinerebbe un attimo sconsiderato, cercato infinite volte. Tengo gli occhi ben aperti e catturo ogni istante come una fotografia che potrò rivedere successivamente, quando la mia bolla di sapone sarà scoppiata in aria. Li chiudo solo quando sento il mio naso sfiorare il suo con un brivido.

Pochi secondi e il mondo rinasce e muore istantaneamente, il tempo necessario per la mia mente di scattare quelle famose fotografie che, però, sapranno di un sapore del tutto nuovo, inaspettatamente dolce e leggero, al quale per poco non finisco per abituarmi.

Come si spiega un bacio su cui ti sei soffermato a fantasticare così tante volte da non riuscire più a tenere il conto? Come descrivi il rumore dei tuoi pensieri che, come in tilt, non smettono di rimbalzare da un angolo all’altro della tua testa, piccole molle alticce perse in un respiro lieve? Un bacio si vive, non si racconta.

Le labbra di Matteo, seppur addormentate e socchiuse in un piccolo cerchio perfetto, sembrano ricambiare l’errore che non sa fermarsi, un errore di cui potrò darmi la colpa e il merito finché la memoria me lo consentirà. Il fuoco che stava per spegnersi sembra bruciarci fino alla morte, quando il mio corpo si appoggia con leggerezza al suo, in un accostamento che va oltre al dormire col proprio amico, che assomiglia più a quello che, di solito, Matteo fa con Elena. Le mie labbra, avide di un piacere succoso, divorano con dolcezza la stanchezza alcolica di Matteo, la sua calma che non riesce a placare la mia insistenza. Il suo sonno che arriva solo a risvegliarmi.

Il nostro, il mio bacio dolce sancisce una promessa fatta a me stesso, una promessa che non sono mai stato capace di mantenere: niente più dolore.

Ma l’amore è soffrire. L’amore è aspettare momenti come questo, che ti ripagano di tutte le volte in cui avresti voluto prendere a sberle quel poco che la vita ti offriva. L’amore è a senso unico. L’amore è quel bacio che solo tu ricorderai.

Quando decido di staccarmi, la realtà mi si appiccica addosso come una pellicola trasparente, mi incatena al suolo e non mi lascia muovere, il peso delle emozioni che non mi fa stare in piedi ma al tempo stesso mi permette di non cadere nell’immediato. È una forza invisibile che parte dalla bocca e arriva dritta al cuore, senza seguire un percorso preciso. Zigzaga un po’ ovunque senza un criterio, colpendo muscoli e ossa e lasciando cicatrici come quelle di cui Matteo va tanto fiero. Ma queste cicatrici non si mostrano come un trofeo di guerra, non sono il risultato di una caduta dal motorino, di un taglio con la carta, di un gioco con la sorella che finisce male. Queste sono le mie ferite. Le ferite di un guerriero che combatte contro un nemico silenzioso, identificando quest’ultimo con il silenzio stesso.

Il sangue che sento scorrere nelle vene, fino a evidenziarne il colore bluastro che risalta sulla mia carnagione bianchiccia, corre fregandosene delle pulsazioni, di quello che il resto del corpo decide di fare. E la stanza inizia a girare vorticosamente, in un moto oscillatorio e instabile che mi fa apprezzare l’abituale stabilità che, nella mia vita, regna sovrana. Mi permetto di guardare ancora una volta la persona che riesce a far tremare il pavimento sotto ai miei piedi, e mi sorprendo del suo aspetto: può qualcuno cambiare da un momento all’altro solo grazie ad un bacio?

Gli zigomi, che fino a qualche minuto fa vedevo come una parte insignificante e nemmeno troppo bella del viso di Matteo, adesso sono il punto del suo volto in cui il mio respiro si è posato per la prima e ultima volta.

Gli occhi, che sono in procinto di aprirsi, diventano le finestre sbarrate che non ho avuto il coraggio di spalancare.

La bocca piena diventa il luogo in cui vorrei rifugiarmi nei momenti più neri.

Le braccia, muscolose ma non troppo, in pochi minuti mutano il loro scopo: quelle due braccia, che prima potevano essere utili a sollevare qualche peso in palestra, o magari a cingere la vita stretta di Elena, adesso sono custodi di un segreto indicibile, di quel gesto sconsiderato che farebbe spalancare la bocca ai più bigotti.

 

Il petto si alza e si abbassa a ritmo lento, quasi ipnotizzandomi in una cantilena senza alcun rumore reale, un movimento continuo che sembra evidenziare la maglietta stropicciata, sulla quale ho da poco poggiato le mani. Tutto cambia, tutto cambia e tu non puoi far nulla per fermare il corso delle cose che, a velocità limite, ti sbattono da una parte all’altra della tua realtà. Quel mondo che hai l’impressione giri solo attorno a te solo per un attimo. Non c’è nessun altro: non sei la spalla di nessuno, non sei lì da una parte a guardare la vita degli altri come le persone comuni guardano un bel film. No, stavolta tocca a te, anche se il tuo momento di gloria è durato un solo istante. In quel minuto, in quei sessanta secondi o più, la tua vita, i tuoi problemi, e quella maledetta sensazione permanente di non saper mai fare la cosa giusta al momento giusto spariscono, per lasciar spazio alla parte più audace di te.

Ma basta un minuto ancora, e quelle impronte lasciate diventano invisibili, il sapore del tuo respiro diventa tutt’uno con l’ossigeno, i due battiti cardiaci che sembrano essersi fusi in un cuore solo perdono la loro sincronia. Un minuto soltanto.

Lo stesso lasso di tempo che serve alla causa di tanto trambusto per svegliarsi appena, voltandosi su un fianco in posizione fetale, l’innocenza di un bambino a contrasto con l’alito che manda un forte olezzo alcolico.

«Edo?»

«Che c’è?»

Gli occhi di Matteo stentano nel rimanere aperti, prossimi ad un cedimento che, senza ombra di dubbio, durerà più di qualche minuto.

«Sei il mio migliore amico, vero?»

Eccolo. Il momento in cui potrei rispondere negativamente. Ma anche stavolta mi gioca un brutto tiro, facendo riemergere quella parte di me che alla luce preferisce il buio. Che alla verità preferisce una bugia dolceamara, un segreto sporco.

«Certo, che domande fai?» rispondo, mentre sento un groviglio pesante crescere nella gola, spezzandomi il fiato, troncando seconde opportunità.

Al sentire l’ovvietà di quella risposta, Matteo chiude nuovamente gli occhi e, con un sorriso etereo stampato sul viso, affonda la testa nel cuscino e crolla addormentato.

Senza pensare troppo, esco dalla mia camera sbattendo la porta. Mi trovo faccia a faccia con mia madre che, sbigottita, è accovacciata all’altezza della serratura della mia porta. L’aria colpevole accentua incredibilmente le rughe d’espressione che le incorniciano il viso senza appesantirla troppo, diventando poi più profonde in prossimità degli angoli degl’occhi. Quegli stessi occhi che non è riuscita a tramandarmi, di quel verde chiaro che nelle fredde giornate d’inverno sembrano piccoli cerchietti d’oro puro, adesso schizzano in ogni direzione con frenesia. Come a voler trovare una buona scusa, un nascondiglio, in poco tempo. Ma perché?

«Tutto bene, mamma?»

«Sì, certo. Mi era caduta una molletta e mi sono chinata a raccoglierla. Tutto bene?»

Noto subito che in mano non ha assolutamente niente. Distolgo lo sguardo.

«Sì, Matteo sta dormendo. Ieri  ha bevuto troppo. Devo uscire, ci vediamo dopo.»

E per tranquillizzarla, consapevole di ciò che ha appena visto accadere tra me e Matteo, sfodero il più falso dei sorrisi, uno di quelli talmente forzati da risultare credibili a chiunque.

 

   
 
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