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Autore: RMSG    01/08/2014    4 recensioni
[...] Qualcuno avrebbe detto che poteva sembrare un disperato. Questo qualcuno, forse, avrebbe avuto ragione. Ma lui che ci poteva fare? Ogni mercoledì, infatti, alle dodici e trentacinque circa, Adrian si tendeva lungo il tavolino a prendere la sua agenda, stringendo le labbra sottili per il nervoso, aggrottando le sopracciglia scure e lasciando che una piccola, ribelle ciocca di capelli si scomponesse e scappasse via lungo la fronte liscia.
Lear vide la scena a rallentatore e si sprecò in un sospiro quando Adrian ritornò diritto sulla sua poltrona, più concentrato a sfogliare le pagine stropicciate di un compito a casa completamente sabotato, che a rendersi conto dell'effetto assurdo che aveva su di lui. [...]
Genere: Romantico, Slice of life, Thriller | Stato: in corso
Tipo di coppia: Slash
Note: Lime | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale/vago
Capitoli:
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The Way We Were
Capitolo 11. Via col vento.


"I dottori non dovrebbero fumare." disse Lear pacato, avvicinandosi a uno dei lati della grande scalinata all’ingresso dell’ospedale e fissando Dante. Quello sbuffò, spegnendo nervoso la sigaretta sullo scalino, macchiando la pietra di nero e grigio.
"E i politici non dovrebbero fregarsene dei cittadini, i poliziotti non dovrebbero farsi corrompere e tutti dovremmo amarci senza limiti." ribatté ironico, ma senza guardarlo e continua a stare a testa bassa. Lear lo raggiunse e gli si sedette al fianco, infilando una gamba sotto l’altra in una posa da ragazzino.
"… è successo qualcosa?" domandò scrutandolo attento.
"E a te cosa interessa?"
"Beh, sei mio cognato..." suggerì.
"Io odio mio fratello."
"Oh quante stronzate." sospirò. "Dovreste piantarla con questa faccenda, davvero. Vi odiate, ma quando avete bisogno l’uno dell’altro correte e attraversate oceani in ventiquattro ore!"
Dante tacque, schienandosi contro lo scalino dietro di lui e infilando una mano in tasca. Anche lui, e Lear questo lo aveva notato il secondo giorno in cui gli aveva parlato, aveva il suo tic nervoso. Adri si sbizzarriva con le mani fra i capelli, Dante, invece, preferiva infilarsi le mani nei pantaloni o nel camice ogni volta che era in una situazione scomoda.
"Io credo che tu non sappia cosa mi ha fatto Adrian…"
"Invece lo so che ti ha fatto, Dante. Forse avrebbe dovuto farsi da parte, ma.. guardati ora! Sei un brillante chirurgo, hai messo in piedi Ryan in quattro e quattr’otto, sei all’apice della tua carriera!" Lear mosse il capo, cercando con gli occhi quello dell’altro. "Quello che hai fatto non è stato un miracolo. E’ unicamente frutto del tuo talento e della tua intelligenza."
Dante sollevò la testa, incontrando finalmente il suo sguardo. Apparve sorpreso, come se nessun altro al mondo gli avesse mai detto certe cose.
"Dante…" riprese subito Lear senza lasciarlo blaterare altre sciocchezze. "Adri mi ha parlato tante volte di quello che è successo e ti assicuro che se potesse tornare indietro, lascerebbe andare te ad Harvard. Sa benissimo di aver sbagliato." spiegò conciso e lo osservò sussultare appena.
Era incredibile come in famiglia ci si porti sempre degli inutili rancori da rinfacciare per anni. Dante e Adrian erano l’esempio più limpido di questo: appena diplomati, piccoli geni pronti a sbaragliare tutti in tutto, entrambi avevano inoltrato le richieste per i più prestigiosi college ed entrambi avevano ricevuto responso positivo da tutta l’America. Ogni giorno era un continuo ricevere lettere su lettere e il sogno di frequentare un istituto d’eccellenza era ormai sempre più vicino, sempre più nitido. In particolare per Dante, il più sognatore fra i due. Tutte le mattine era lì fuori dalla porta, ad attendere il postino con la sua lettera d’ammissione ad Harvard. Purtroppo, come poi ben tutti avrebbero saputo, non ci fu alcuna lettera positiva. Almeno non per lui.
Non seppe mai dire per quale motivo Adrian passò avanti nella graduatoria inoltrata dal loro liceo e nemmeno mai si interessò di scoprirlo. Troppo l’imbarazzo e ancor più grande era la paura di scoprire che la colpa di tutto forse derivava solo da una manciata di crediti formativi.
In ogni caso, nonostante la delusione iniziale e il piagnisteo della prima ora, Dante era convinto che l’amato fratello avrebbe fatto un passo indietro e che gli avrebbe concesso di aprire le porte del suo sogno lasciando un posto vacante per lui. D’altra parte, Adrian era stato ammesso in tutte e otto le università comprendenti l’Ivy League: aveva solo l’imbarazzo della scelta, perché mai avrebbe dovuto proprio rubare la sua, di possibilità? Harvard, Yale, Cornell, Brown… per Adri non c’era mai stata differenza e mai gli era importato di scegliere. Tutt’altro, infatti. Quante volte aveva preso in giro il fratello a causa della sua ossessione per Harvard?
Inutile dire che le cose non andarono come previsto.
Entrambi probabilmente ancora ricordavano la litigata che avvenne, le urla dei loro genitori per farli calmare e il rumore dello sportello di un taxi che si chiudeva con Dante dentro, diretto in Connecticut, a Yale. Non si parlarono per quasi un anno, dopo quell’episodio. Poi arrivò il loro compleanno e si scambiarono una telefonata di cui Dante, francamente, ricordava solo degli inutili ‘mi dispiace’ da parte di chi si era appropriato di qualcosa solo per fortuna e non per merito. Erano passati già così tanti anni…
"Dante… ehi? A che pensi?"
Il medico si riscosse, interrompendo il flusso dei ricordi e concentrandosi sul bel biondino accanto a sé.
"Vecchi ricordi, niente." rispose malinconico e distolse lo sguardo, sospirando. "E’ passato così tanto tempo e… ancora non abbiamo veramente chiarito. Lui si sposa per la seconda volta e io… tutto quello che ho fatto… tutto quello che ho… con chi potrei condividerlo? E’ sempre stato Adrian, il mio migliore amico. Credevo non mi avrebbe mai tradito, almeno lui…" commentò, ma non sembrava stesse parlando con Lear. Piuttosto la discussione si era trasformata in una riflessione intestina ad alta voce.
"Dovresti permetterti di perdonarlo. Una parte di te, venendo qui di corsa, in realtà l’ha già fatto." suggerì dandogli un pugnetto affettuoso sulla spalla.
"Non è così semplice perdonare." borbottò.
"Lo so. Ma c’è chi ci riesce, credimi."
"Ad esempio?" sbuffò dubbioso.
"Ad esempio Ryan…" ribatté.
Dante si voltò a fissarlo, un po’ confuso. "Non so di cosa tu stia parlando, ma in ogni caso non mi stupisco. Temo che Ryan non sia in grado di dire no a nessuno."
"Sì, è vero…" ridacchiò Lear. "Non lo nego. Il suo unico modo per essere felice è vedere gli altri esserlo..."
Il medico rimase un po’ in silenzio dopo quelle parole. Infine sospirò, sfilando le mani dalle tasche dei pantaloni e alzandosi dalla gradinata. "Io parto domani sera, Lear. Ormai Ryan sta bene, non ha bisogno più di me e l’elettrostimolazione può essere seguita da qualsiasi altro collega visto che l’abbiamo ridotta una volta a settimana. Per il resto basterà una semplice riabilitazione fisioterapica." dichiarò con aria e voce neutre, come se tutto d’un tratto non gli importasse più nulla. Lear lo squadrò ancora, sorpreso ma curioso.
"D’accordo… però permetti a me e Adrian di accompagnarti in aeroporto, domani. Sono sicuro che tuo fratello vorrà salutarti come si deve e dopo quello che hai fatto per tutti noi, un passaggio è d’obbligo, non credi?" sorrise smagliante, spalancando gli occhi verdi e Dante non riuscì proprio a dire di no a quello sguardo così limpido. Gli mise quasi i brividi, a dire il vero, per quanto gli parve genuino. Nemmeno un bambino avrebbe tirato fuori quella faccia.
"Come volete… parto all’una."
Lear annuì, sorridendogli ancora, e si alzò dal gradino. "Vado da Ryan, adesso. Gli porto i tuoi saluti!" squittì, salendo di corsa le scale senza aspettare altre proteste da parte di Dante. Era felice per come le cose improvvisamente si stavano mettendo. L’affidamento temporaneo per i gemelli era quasi ufficiale, presto lui e Adrian si sarebbero sposati – anche se solo in un polveroso ufficio statale e con una firma su carta –, Ryan migliorava ogni giorno di più ora che Sam era di nuovo al suo fianco e Dante… Dante era diventato uno di famiglia. Che lo volesse o meno.

****

"Mi mancherai." mormorò Adrian al fratello fra il chiasso dell’aeroporto e l’altro sbuffò, roteando gli occhi. Quanto sentimentalismo!
"Sì, beh… non credo."
"Dico sul serio. Mi mancherai veramente… è stato bello averti qui a Londra per così tanto tempo… e aver chiarito, soprattutto."
Dante sospirò, ma si concesse un sorriso bonario prima di avvicinarsi e stringersi in un breve abbraccio ad Adrian. "Ci vedremo presto, Adri, promesso."
Lear osservò la scena un poco in disparte, ma enormemente felice. Era evidente che fosse riuscito ad acquistare e conservare abbastanza karma positivo negli ultimi, difficili, mesi, e questo era il risultato.
I gemelli si separarono, fissandosi, e Lear trattenne un risolino nel notare quanto incredibilmente identici fossero. A parte per i capelli, certo. Da bambini doveva essere davvero impossibile riconoscerli e probabilmente, a causa del genetico fattore figlio-di-puttana, avevano saputo approfittarsene più di una volta.
"Beh, allora…" cominciò Dante, sistemandosi in spalla la borsa e prendendo il grosso trolley nero con una mano.  "Io mi avvio. Apriranno il gate a momenti.. "
"Fai un buon viaggio, Dante!" Lear fece un passo avanti e lo abbracciò rapido, ma affettuoso.
"Grazie…" il dottore si allontanò un po’, girandosi a tre quarti verso l’imbarco. "Un’ultima cosa, Lear…" esitò.
"Certo, dimmi pure."
"Non far sforzare troppo Ryan. Ho firmato la dimissione ieri e lo faranno uscire a giorni, ma questo non significa che può fare tutto quello che gli pare. Non ho… mh… ecco, avuto modo di dirglielo…" distolse lo sguardo, continuando a parlare. "Ma digli questo, ok? Controlla che non si affatichi."
"Ci starò attento…" acconsentì calmo Lear, lanciando un’occhiata eloquente ad Adrian. "C’è anche Samuel con lui, non sarà solo."
Dante gli lanciò un’occhiata indecifrabile. "Certo, c’è anche Samuel…" biascicò appena. "Beh, allora ci siamo! A presto, ragazzi. Buon matrimonio e buona vita. Mandatemi una foto dei miei nipoti." accennò un sorriso morbido e si voltò ancora, trattenendo un sospiro. Non era triste, spaventato o arrabbiato. Piuttosto scosso. Si sentiva un po’ diverso e quella lunga sosta in un paese straniero lo aveva cambiato, come inevitabile. O forse più che la posizione geografica erano stati gli incontri fatti a suggestionarlo. Ma tant’è, lui non poteva fare più nulla su quel fronte, questo era certo. La strada di Ryan era già delineata e lui, il super chirurgo impavido, aveva levato le tende prima di permettersi di desiderare che quella strada convergesse verso altri lidi. Magari gli stessi dove c’era lui.
Sentì la prima chiamata del suo volo e si riscosse da pensieri, tornando a immergersi nel caos aeroportuale e nel rumore delle rotelline dei trolley. Udì persino lo strano sibilo delle scale mobili non molto distanti da loro o le chiacchiere in tedesco di qualche turista poco distante. Tuttavia, in quella frazione di secondo, un altro suono raccolse la sua attenzione. Un suono estraneo, che non riconobbe. Una specie di… tap tap… come fosse qualcosa di simile a… beh, era esagerato dirlo, ma da medico avrebbe osato dire che assomigliasse quasi al ticchettio sordo di un paio di stampelle. La cosa non lo fece voltare, però, e preferì cominciare a camminare sul serio.
"Dante! Aspetta…"
Il medico inchiodò e si morse le labbra, arrossendo, e riconoscendo la voce. Respirò profondamente e scacciò via il rossore, voltandosi con nonchalance e fissando gli occhi dorati di Ryan. Jeans e giacca di pelle al seguito, il suo paziente ‘preferito’ era lì, armato di stampelle, a fissarlo. In piedi.
"Che cavolo ci fai qui in piedi? Ma sei impazzito? Devi riposarti!"
"Te ne vai e nemmeno mi saluti." ribatté crucciato Ross e si avvicinò a lui. D’istinto Dante ebbe il desiderio brusco di indietreggiare e di darsela a gambe. E lo fece, ma andando a sbattere al trolley dietro di lui e fermandosi.
"Io non saluto tutti i pazienti che ho, Ryan."
"Nemmeno quelli per cui rimani tre mesi in un altro paese?"
Dante tacque, osservandolo ancora. Non lo aveva mai visto con niente che non fosse la divisa dell’ospedale e francamente, per la propria sanità mentale ovvio, avrebbe preferito non vederlo affatto al di fuori di quel contesto. Aveva già esageratamente oltrepassato il confine di professionalità che si era da sempre imposto e non voleva peggiorare le cose. Non davanti a quello stupido di suo fratello, peraltro.
"Ti hanno già fatto uscire?" domandò dubbioso il medico.
"Dovevo andare via domani, ma qualcuno ha deciso di partire oggi…"
Tutta questa discussione era solo, per Dante, motivo d’irritazione. Cos’era adesso tutto quell’interesse spasmodico? Avrebbe dovuto tirarlo fuori in un altro momento, non ora che se ne stava per tornare in America.
"E come saresti venuto fin qui, sentiamo…"
"Taxi, ovvio." ribatté, ma Dante lo vide aggrottare appena le sopracciglia in un tic.
"Bugiardo…" ringhiò allora.
"Perché dovrei mentirti?" disse Ryan, fingendo stupore.
"Bugiardo." ribadì l’altro, più aggressivo.
"D’accordo…" sospirò. "Mi ha accompagnato Samuel, è qui fuori."
"E il tuo fidanzato lo sa che sei venuto a salutare me?" insinuò serpentino, dilatando le pupille e cercando di mantenere sobrietà.
"Come se ci fosse qualcosa tra noi…" rispose noncurante Ryan.
"Certo che… mh!" Dante si addentò la lingua per tacere e fulminò Ross e il sorrisino che aveva tirato fuori. "Vai al diavolo. Ho un aereo da prendere e altra gente da salvare. Stammi bene, signor Ross."
Ryan si sporse in fretta poggiandosi innaturale sulle stampelle e gli strinse un braccio. "Aspetta, dai…"
"Mollami o perdo l’aereo."
"Ti prego…"
"Dico sul serio."
"Sono serissimo anch’io…" sussurrò, avvicinandosi al suo viso e lasciando che una delle stampelle cadesse a terra. Col braccio libero finalmente si allungò di più su di lui e grazie all’arto ora svincolato gli strinse la vita. Nuovamente Ryan sentì la morbidezza del suo corpo e ancora si ripeté, un po’ amaramente, che no, tutto quel ben di dio a stelle e strisce non era per lui. Non in questa vita, non in questo universo.
Dante arrossì, come suo solito e come la migliore delle scolarette giapponesi, ma continuò a guardarlo male. "Che stai facendo?"
"Voglio ringraziarti, Dante. Solo questo." spiegò pacato. "Voglio solo dirti che sei stato davvero la mia salvezza e che non dimenticherò mai quello che hai fatto per me…"
"E’ solo il mio lavoro." rispose burbero interrompendolo.
"Era il tuo lavoro operarmi, non consolarmi e starmi vicino quando chi di dovere non c’era. So benissimo cosa ti frulla in quella tua testolina da yankee in questo momento e anche cosa ti frullava fino a una settimana fa, prima che tornasse Sam… vorrei solo che sapessi che ho avuto e ho gli stessi, identici, pensieri."
Il medico si ammutolì, imbarazzato e confuso. Cosa significava tutto questo?
"Io…" riprese Ryan. "Non ti dirò che non volevo assecondarti, perché l’ho fatto e lo rifarei. Non ho giustificazioni, ma per il semplice fatto che non c’è nulla per cui giustificarsi. Tu mi piaci tanto, troppo per un uomo occupato¸ ma adesso io non… ecco…"
Dante si rabbonì. Quanto poteva essere maledettamente onesto, Ryan. "Ho capito... non devi dirmi altro."
Si scambiarono un’occhiata complice e il poliziotto sorrise, rafforzando la stretta attorno al corpo di Dante e avvicinandoselo a sé. Si chinò lento sul suo viso, facendo scontrare i loro nasi e i loro respiri. Con studiata calma colse le labbra dell’altro fra le sue, inumidendole appena con la lingua, e in un istante la borsa sulla spalla di Dante raggiunse la stampella a terra, mentre entrambe le sue braccia si avvolgevano al collo di Ryan. Felici di potersi finalmente godere il bacio che aspettavano entrambi e innegabilmente da mesi, rimasero fermi fra la folla e i rumori e le risate e le sempiterne chiacchiere tedesche ancora lì non tanto distanti da loro. Si strinsero forte, concedendosi, anche se solo per poco e per un bacio solo, di far incrociare due strade già scritte. Un cambio di rotta improvviso era stato necessario.
Fu innegabilmente un lungo bacio, interrotto solo e soltanto dall’ennesima chiamata per il volo Londra-New York (contro cui Dante bestemmiò mentalmente).
"Perderò l’aereo così…" gli sussurrò e Ryan strofinò la fronte alla sua e i loro nasi, poi annuì dispiaciuto, lasciandogli un ultimo bacetto sullo zigomo.
"Fai buon viaggio."
"Direi proprio di sì…" ridacchiò Dante, riprendendo la borsa e recuperando anche la stampella per Ryan. "Ah, un’ultima cosa..." Il dottore si mise una mano nella tasca della giacca e tirò fuori un bigliettino da visita. Con uno sguardo lascivo glielo agitò sotto il naso e impertinente lo andò a infilare nella tasca posteriore dei jeans di Ryan. Una scusa come un’altra per toccargli il fondoschiena, fondamentalmente.
"Ci vediamo, signor Ross. Vedi di non farti investire di nuovo, ho fatto un capolavoro con la tua schiena… usala come si deve in mia assenza."
Si sorrisero di nuovo e poi Dante si avviò definitivamente, prendendo in mano il biglietto dalla giacca. Si sentiva più sereno e sì, ora poteva partire tranquillo.
Ryan, dal suo canto, rimase a guardarlo andar via sino a che non lo perse di vista. Avrebbe sentito la sua mancanza, probabilmente, ma gli avrebbe telefonato.
Rimase fermo a guardarlo per almeno un altro paio di minuti, quando però si ricordò improvvisamente di due spettatori alle sue spalle. Lento dunque si voltò a guardare Adrian e Lear e quello che vide fu… beh, interessante.
Non seppe dire se lo colpì più la mascella quasi a terra di Lear o la faccia praticamente verde di rabbia di Adrian, però di una cosa era certo: l’istinto di sopravvivenza, onde evitare di ritornare già in ospedale, gli consigliò di riavviarsi, zitto e tranquillo, all’uscita.
"Io lo ammazzo…" sibilò Adrian. "E va bene te, Lear, lo capisco, vi conoscevate da prima, siete amici, colleghi, amanti, tutto quello che vuoi… ma pure mio fratello no, cazzo, eh!" sbottò lo psichiatra, incenerendo con lo sguardo la schiena di Ryan che si allontanava. "Dico sul serio! Perché non se lo tiene nei pantaloni una volta tanto?!"
Era davvero arrabbiato, Adrian. E geloso marcio, anche. Di Ryan e del fatto che pure da moribondo su un letto d’ospedale finisse per conquistare tutti. Senza contare poi quella scena da finale di una commedia da quattro soldi a cui avevano appena assistito. Vomitevole.
Scocciato e imbronciato, oltre che a braccia incrociate, aspettò paziente arrivare la frase consolatoria e dolce del suo quasi marito. Dopotutto l’unico in grado di placarlo come si deve era sempre e solo Lear.
Dal fronte occidentale, però, tutto sembrava tacere. Adocchiò quindi Lear al suo fianco e lo scosse appena per una spalla con due dita. "Mi hai sentito?"
"I-io…" Lear si girò a guardarlo, spalancando gli occhi visibilmente emozionati. "Cioè… a conti fatti è come se avesse baciato te!"
"Cosa?!" Adrian smise di toccarlo, indietreggiando disgustato e arrossendo.
"Arrossite anche allo stesso modo, guarda!" disse Lear entusiasta, additandolo e premendo l’indice sul naso del compagno.
"Siamo gemelli, è ovvio che…" si interruppe, con una smorfia imbarazzata. "Oh mio dio… ora l’ho capito quel sogno che avevi scritto sull’agenda… parlavi seriamente di me e Ryan!"
Lear lo guardò appena confuso, non riuscendo a far subito mente locale, poi scoppiò a ridere, asciugandosi le lacrime che cominciavano a sbucare. Di quel sogno si era in effetti dimenticato, ma paradossalmente quello era stato uno dei pochi che non aveva inventato. Era vero, sì, al tempo della terapia c’era stato questo sogno nella sua testa in cui facevano una cosa tre. Non che adesso non ci fosse o tanto meno non lo desiderasse, ma le loro vite erano cambiate radicalmente e bisognava adattarsi. Bambini in arrivo equivaleva a niente sesso extra-coniugale e soprattutto niente pensieri da depravato su Ryan. Almeno non tanti.
Certo era, però, che faceva davvero ridere quella situazione.
"Lear, vuoi piantarla di ridere?!"
"Scusa, scusa! E’ che stavo immaginandoti… mfff! Ahahah!" Lear rise di nuovo, avvicinandosi però al fidanzato e stringendo le braccia al suo collo per rubargli un bacio sul burbero muso che aveva messo.
"… che cosa ti stavi immaginando…" ringhiò.
"… immaginavo te che stai sotto con Ryan. Dio, dev’essere tipo lo spettacolo più bello del pianet… no, che dico, dell’universo! E… amore, ehi! Oh, andiamo, aspetta! Non andartene, dai! Adriiii!" Ridendo ancora come un matto, Lear rincorse il fidanzato, stringendosi al suo braccio per farsi trascinare con lui mentre cercava, quanto meno, di acquietarlo un po’. Sapeva ovviamente che in qualche ora gli sarebbe passata – giusto il tempo di tornare a casa e fare sesso –, ma non poteva fare a meno di infierire un pochettino su di lui. Dopotutto aveva appena assistito all’uomo che amava mentre baciava il sosia di…
"Ah!" Lear sussultò e si mise a ridere nervoso. Adesso cominciava anche a fare confusione… meglio chiudere lì la questione gemelli, si disse.

   
 
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