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Autore: RMSG    11/08/2014    2 recensioni
[...] Qualcuno avrebbe detto che poteva sembrare un disperato. Questo qualcuno, forse, avrebbe avuto ragione. Ma lui che ci poteva fare? Ogni mercoledì, infatti, alle dodici e trentacinque circa, Adrian si tendeva lungo il tavolino a prendere la sua agenda, stringendo le labbra sottili per il nervoso, aggrottando le sopracciglia scure e lasciando che una piccola, ribelle ciocca di capelli si scomponesse e scappasse via lungo la fronte liscia.
Lear vide la scena a rallentatore e si sprecò in un sospiro quando Adrian ritornò diritto sulla sua poltrona, più concentrato a sfogliare le pagine stropicciate di un compito a casa completamente sabotato, che a rendersi conto dell'effetto assurdo che aveva su di lui. [...]
Genere: Romantico, Slice of life, Thriller | Stato: in corso
Tipo di coppia: Slash
Note: Lime | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale/vago
Capitoli:
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The Way We Were
Capitolo 12. Angoscia.


Lear sapeva benissimo di aver ripetuto fin troppe volte, nella sua mente, che tutto stava andando come doveva andare, che non ci sarebbe stato niente a impedire l’adozione adesso che gli avevano affidato i cuccioli e che non sarebbero sorti problemi d’alcun tipo. Ryan si stava riprendendo, Samuel era più che pulito, Dante in America stava frequentando un bel tipo biondo…
Tutto andava come doveva andare, si ripeté.
Eppure, a braccia conserte, ancora con la pistola nella fondina alla cintura, residuo del turno notturno appena concluso, non poteva fare altro che fissare i due piccoli addormentati nei loro lettini ancora decisamente troppo grandi.
Si passò una mano sulla fronte sospirando pesante, cercando di scacciar via quello strano senso d’angoscia che lo stava colpendo e lo sconvolgeva. Diventare padre lo aveva reso ansioso, quasi paranoico, perennemente preoccupato, all’erta persino per lo sbattere di una porta a causa del vento.
No, non era il tipo di genitore che dava di matto per un ginocchio sbucciato, quello no. Però Lear era una detective della omicidi, suo marito era un criminologo e curava malati di mente per mestiere. Senza contare, poi, che di pazzi pronti a fare qualsiasi cosa ce n’erano fin troppi al mondo. Chi meglio poteva saperlo di lui?
Si accomodò sulla poltroncina in mezzo ai lettini dei ragazzi e sbuffò, togliendosi un po’ dolorante una macchinina da sotto il sedere. La posò sul comodino di Etienne e sorrise piano. Un inconveniente adorabile, quello dei giocattoli, specie se a inciampare nei camioncini dei pompieri o a schiacciare a piedi nudi un mattoncino Lego era Mister Harvard.
Si voltò verso Christopher, alla sua sinistra, e gli sistemò la liscia frangetta bionda, allontanandogliela dal nasino. Lui e il suo fratellino Enne erano identici, senza ombra di dubbio. A parte per i capelli, ricci per uno e come seta per l’altro. Una curiosa differenza, che gli ricordò un altro paio di gemelli…
Sovrappensiero notò che in effetti era davvero pieno di gemelli nella sua vita. Ryan e Angel erano gemelli, Adrian e Dante… si domandò se non ce l’avesse anche lui un qualche gemello in giro per il pianeta.
Sospirò di nuovo, esausto per la giornata, e alzò piano la testa notando alla porta Adrian. Sussultò visibilmente, spaventato da quell’imponente ombra e lo guardò un po’ confuso. Persino attraverso l’oscurità, Lear riuscì a notare non solo i capelli arruffati del marito, ma anche il suo viso crucciato e nervoso.
"Hai intenzione di non dormire con me anche ‘stanotte?"
Lear deglutì. A dire il vero sì, quella era la sua intenzione. Accucciarsi ancora armato su quella poltrona nella stanzetta dei ragazzi era diventata una piacevole abitudine che lo aiutava a combattere l’ansia.
"Certo che no, amore… sto arrivando. Volevo solo salutare i piccoli, sono appena tornato."
"Non è vero. Ho sentito la porta aprirsi più di un’ora fa." 
Con disappunto Lear notò come la voce di Adrian fosse fin troppo alta per essere nella stanza di due bambini addormentati. Così si alzò dalla poltrona e scansando un orsacchiotto lo raggiunse sull’uscio.
"Abbassa la voce, per piacere…" sussurrò. "Si sveglieranno."
"Li ho messi io a dormire, lo farò di nuovo." chiarì ancora fin troppo rumoroso e alquanto provocatorio.
"C’è qualcosa che non va, Adrian?" domandò paziente, seppellendo a forza il nervosismo.
"Dovrei chiedertelo io, Lear. Hai intenzione di nasconderti in camera dei ragazzi per l’eternità? Siamo sposati da tre mesi, siamo genitori, dovrebbe esserci un po’ più di dialogo tra noi…" disse fra i denti il medico, visibilmente arrabbiato. "L’ultima volta che ho smesso di parlare col mio partner sono finito con te e con un divorzio. Vorrei evitare di perderti." sbottò, allontanandosi e percorrendo il corridoio sino a ritornare nella sua stanza. Forse sperava che Lear lo seguisse e per diversi minuti il biondo rimase fermo sulla soglia della porta indeciso se lasciare i bambini da soli o se raggiungere Adrian.
Razionalmente era perfettamente in grado di rendersi conto che non c’era nulla da temere per i piccoli, che quella casa aveva mille allarmi, che lui era squisitamente provvisto di arma da fuoco e che no, non avrebbe permesso a nessuno di fare del male ai suoi figli. Con una smorfia, quindi, optò per seguire Adrian, rinunciando al suo riscoperto istinto da mamma chioccia e preparandosi a una bella strigliata.
Entrato in stanza però non vide il suo bel marito con le mani sui fianchi e la faccia immusonita nel solito modo buffo, bensì lo trovò un po’ ingobbito seduto al bordo del letto. La luce del lumino lo illuminava appena, dorando la pelle di solito bianca. Sorrise piano, concedendosi di ricordare quanto bello fosse persino coi pantaloni del pigiama, una canottiera e i piedi scalzi.
Si sedette al suo fianco e slacciò dalla cintura la fondina. "Scusa se ti ho trascurato…"
"Non è questo il punto." ringhiò Adrian.
"E allora qual è?" chiese dolce, sfoderando gli occhi da cucciolo che però Adrian nemmeno guardò, concentrato com’era a fissare il parquet.
"Tu non ti confidi con me. Non lo facevi quando ero il tuo psichiatra, non lo fai ora che sono tuo marito e il padre dei tuoi figli."
Lear sospirò mortificato. "Adri, lo sai che non mi piace tanto affrontare dei discorsoni…"
"Non ti piace affrontarli con me."
"E con chi dovrei affrontarli, di grazia?" domandò ironico Lear e ingenuamente servì ad Adrian la scusa perfetta per manifestare il più grande dei loro problemi ancora una volta.
"Con Ryan, mi sembra ovvio." decretò e non diede nemmeno tempo all’altro di controbattere col solito no perché riprese subito a parlare: "E non negare, cazzo. Non ci provare. Stiamo insieme da tanto e tu mi prendi per il culo ogni giorno. Ho fatto finta di niente, ma dio! Siamo arrivati al punto in cui quasi ti nascondi da me! E per cosa? Perché tu hai bisogno di uno con cui parlare, uno con cui scopare, uno che ti consoli, uno che ti faccia ridere, uno che faccia il bagno ai tuoi figli… sei patologicamente ossessionato dal rimanere solo e non riesci a mettere dei paletti tra te e Ryan. Te lo tieni come ancora di salvezza, come ultima spiaggia, perché sai che qualcosa un giorno ti ferirà, ti deluderà, ma che Ryan Ross sarà sempre lì pronto ad abbracciarti e a coccolare la sua scheggia."
Conclusa la furiosa diagnosi, fra di loro calò il silenzio e nemmeno si scambiarono un’occhiata per controllare l’espressione dell’altro. Fu quindi di nuovo Adrian a riprendere parola. "Lear, sono le due del mattino e ho sonno… se sei tanto preoccupato per i bambini ci dormo io da loro ‘stasera, così sarai tranquillo." si alzò dal letto avviandosi alla porta, ma non uscì subito. Si fermò sull’uscio e si girò a guardarlo, cercando invano i suoi occhi. "Ti prego, fai una scelta e comportati come di dovere. Se preferisci Ryan avresti dovuto pensarci un’abbondante decina d’anni fa… io non ho voglia di dividerti con nessuno."
A quel punto Lear rimase solo e si lasciò scivolare indietro sul piumone pesante. Chiuse gli occhi, confuso ed esausto, mentre la pistola rinchiusa nella fondina giaceva come un giocattolo sul letto.

****

"Ciao, Lear. Che bello vederti…" disse un radioso e bellissimo Sam. Lear deglutì appena e lo fissò, quasi abbagliato da quell’aspetto così raggiante e felice. Non lo aveva mai visto così in salute e questo lo fece riflettere molto: sin dai primi incontri con lui lo aveva sempre considerato esageratamente bello, nonostante al tempo in effetti facesse uso di sostanze stupefacenti. Adesso, però, senza più quella robaccia il suo aspetto era seriamente giunto a un altro livello – quello di un angelo caduto dal cielo, probabilmente.
Gli ricordò se stesso da giovane in molte cose, forse troppe, e in cuor suo si domandò se non fosse per questo che Ryan era così preso da lui.
"Ciao, Sammy. Come te la passi?"
Il giovane fece spallucce, lasciandolo entrare nell’appartamento e chiudendosi la porta alle spalle. "Io sto bene. Manca un mese all’esame finale e avrò finito anche il dottorato…" spiegò sorridendo gentile.
"Non ti chiedo se prenderai il massimo perché non penso sia possibile il contrario." Samuel rise piano e dolce, scuotendo la testa e facendogli strada verso il salotto.
"Ryan, c’è Lear… !" annunciò, scomparendo poi verso la cucina per lasciarli soli. Ryan sedeva tranquillo sulla poltrona e a Lear sembrò incredibilmente più adulto e vecchio. Fortunatamente però i capelli erano cresciuti un bel po’ e continuavano il loro percorso verso la normalità. Presto sarebbe tutto tornato come prima.
"Ciao, mostro…" disse il biondo, avvicinandosi alla poltrona. "Come va la schiena?"
"Sta dritta!" disse, guardandolo sereno e poggiando il giornale la cui prima pagina, notò Lear, mostrava una foto di Angel, la sorella del suo amico e ricca presidentessa dell’azienda di famiglia.
"E le gambe?" chiese, decidendo di lasciar perdere il quotidiano.
"Camminano, tranquillo."
"E il mal di testa?" insisté, facendo ridere l’amico.
"Ti prego, ho già un medico con un super quoziente intellettivo come fidanzato, non ti ci mettere anche tu…"
Lear abbozzò un sorriso divertito e si sedette sul bracciolo sinistro della poltrona. Si guardò le mani, preoccupato e nervoso, e cominciò a stringerle fra loro. Da dove poteva cominciare?
"Che è successo, scheggia? Come mai qui?"
Precisa come un orologio svizzero, la voce preoccupata di Ryan raggiunse le orecchie dell’amico, mentre con una mano calda gli accarezzava rassicurante la schiena. Lear rabbrividì e sospirò, girandosi a guardarlo. Non provava alcun fastidio per quei gesti così intimi, ma in realtà il problema stava proprio lì e non poteva più negarlo.
"Volevo parlare con te…"
 Ryan aggrottò le sopracciglia, interrompendo le carezze e alzando le spalle. "Sono qui, dimmi pure."
Il biondo dal suo canto sospirò agitato, cercando le parole giuste. "Io e Adri abbiamo discusso un po’…"
"Che novità." sbottò ironico.
"Beh, in un certo senso sì. Lui non… non si è arrabbiato veramente. Era più che altro molto amareggiato e molto triste…" spiegò svogliato.
"Per quale motivo?"
"Perché è geloso di te, perché dice che fra noi non c’è dialogo e che se ho un problema non mi sfogo mai con lui." Lear sospirò. "Ed è vero, perché in effetti sono qui e non con mio marito adesso…"
"Beh…" cominciò Ryan, "Gli hai spiegato, vero, che è sempre stato così negli ultimi undici anni? E’ un po’ difficile cambiare abitudini tutto d’un tratto… non c’è alcuna malizia in noi, pensavo l’avesse capito." A quelle parole Lear alzò il viso, incontrando gli occhi dell’altro. Si scambiarono un’occhiata profonda, lunga, talmente intensa che Ryan distolse lo sguardo a disagio.
"No, non c’è malizia in noi…" confermò il biondo, il tono piatto.
"E allora dove sta il problema? Ti ha detto che non puoi parlarmi? E’ una cosa stupida e infattibile, lo sa anche lui."
"Non ha detto niente del genere…" mormorò, cercando di difendere il marito. "Ha detto che sono morbosamente attaccato a te e ha ragione, Ryan. Ha dannatamente ragione."
L’altro tacque, per cui Lear si concesse di continuare. "Non è che voglio tagliarti fuori dalla mia vita, sei il mio migliore amico, sei… sei tu, insomma. Sei di più e basta. Però lui non ha torto a pretendere da me più fiducia, più apertura… è mio marito, dopotutto. Devo trovare un equilibrio e non posso continuare a convincermi che tu sarai sempre la mia… via d’uscita, ecco."
Ryan annuì piano, ma poco convinto. "Beh, tu devi fare quello che ti fa felice … vorrei solo capire perché sei venuto fin qui per dirmi questo. C’è qualcosa che posso… o devo… fare?"
"No, niente in particolare. Volevo solo comunicartelo faccia a faccia. Sai, pensavo avrebbe reso il concetto più reale e più facile da accettare per me."
Rimasero di nuovo in silenzio e Ryan allungò una mano per accarezzargli una gamba avvolta nei jeans. "Scheggia, a me non importa cosa dice quel tuo strano psichiatra, ok? A me importa che tu sia felice. Qualunque cosa serva per renderti tale, io la farò. Detto questo… noi non avremo lauree prestigiose, ma siamo in grado di cavarcela e di sistemare questa e anche altre situazioni. Vero?"
Lear non rispose, fissando la grande mano che si muoveva tenera sulla propria gamba.
"Lear?"
Il biondo si riscosse e alzò lo sguardo, annuendo. "Sì, certo. Non è poi così complicato… mi sento solo in colpa. Lo sto facendo soffrire e io non voglio che stia male, tutto qui."
Ryan sbuffò. "Adrian capirà. Ti conosce e ti ama. Sa benissimo che hai difficoltà a fidarti di chiunque e anche se è tuo marito questo non cambia la tua ostilità all’aprirti: ci vuole tempo e pazienza, e lui ha entrambi secondo me." La mano del moro passò dalla gamba al braccio, salendo sulla spalla e finendo sul collo, per un’altra carezza soffusa. "Non affliggerti più di tanto, scheggia. Non ne vale affatto la pena. Avete due marmocchi bellissimi e vi invidio da morire… dovete solo trovare una nuova pace tutta vostra, ok?"
Lear annuì di nuovo, meccanico.
"Eddai, Lee… fammi un sorriso." domandò calmo, pizzicandogli piano la guancia e facendolo ridacchiare.
"Ti trovo bene, Ryan… sei di nuovo sexy e Sam sembra al settimo cielo. Devo supporre che Dante abbia fatto un ottimo lavoro anche col tuo arnese?" disse, cambiando discorso e sistemandosi sulla poltrona. Il collega rise, allontanando la mano e appoggiando la propria nuca all’imbottitura della spalliera in un sospiro.
"Non immagini quanto ci sia stato attento a quello..."
Lear rise divertito e ‘stavolta più forte. "… ma Sam lo sa?"
"Gliel’ho accennato. Ma non c’è stato niente fra noi, siamo solo rimasti amici e ogni tanto gli telefono per assicurarmi che stia bene."
"Come con tutti i tuoi ex…" gli fece notare.
"Dante non è un mio ex. E tu sei un po’ più di un ex e un po’ più di un amico…"
Il biondo si ammutolì e lo guardò crucciato. "Cioè?"
Ryan lo fissò serio, poi si sciolse in un sorriso improvviso e un po’ finto. "Nel senso che sei come un fratello, scheggia. Stai tranquillo, tutto andrà come deve andare, te lo posso giurare."
"… se lo dici tu…"

****

In effetti, tutto andò come doveva andare. Almeno per Adrian e Lear.
La ritrovata vita da genitori e da coppia nuovamente complice aveva dato una sferzata d’allegria a entrambi – o quasi. Adrian era ancora un po’ di malumore certe volte, ma niente che un po’ di coccole o attenzioni non potessero cacciar via.
I bambini, dal loro canto, erano semplicemente bellissimi e straordinari e la cosa che Lear più adorava fare era star lì, in salotto, a osservare Adrian mentre giocava con loro (anche se in realtà non erano veri e propri giochi).
Curiosamente lo psichiatra aveva notato nei piccoli una mente molto sveglia, specie in Etienne, e da quel momento era stato un continuo somministrare indovinelli o giochi di intelligenza, oltre che puzzle sempre più difficili, forse troppo per la loro età. Tuttavia guardare la sua famiglia crescere così, unirsi sempre più intorno a un giocattolo tutta seduta su un tappeto, era seriamente un sogno che si avverava, per Lear. Mai aveva potuto godere di nulla del genere, nemmeno quando sua madre era in vita. Da morta, poi, in quella casa non c’era stato altro per lui.
Sorridendo nostalgico si accorse che l’ultima volta che si era sentito davvero così completo in una casa risaliva all’abbondante decina d’anni fa a cui Adrian aveva accennato qualche settimana prima. Un periodo, quello, in cui un certo attico a Oxford Street col nome Ross sul citofono era diventato per due. Bei tempi, certo, ma di figli lì non ce n’erano – fortunatamente, considerato cosa ci aveva fatto in quella casa con Ryan…
"Lear…" Adrian lo chiamò, continuando però a osservare attento i figli.
"Sì?"
"Dovremmo cominciare a pensare di confermare l’iscrizione dei ragazzi alla scuola privata… anche se l’affidamento è ancora in prova e l’adozione non è ufficiale penso che possano continuare a stare lì. Si son trovati bene in questi mesi. Paghiamo anche la retta per l’anno prossimo."
In effetti Adrian aveva ragione. Mancava una settimana a Natale e subito dopo quel freddo Dicembre i ragazzi avrebbero compiuto sei anni. Il loro primo compleanno in una famiglia, fra l’altro, ed era dunque inutile sottolineare che Lear stava organizzando la loro festa già da un mese prima.
"Sì, amore, è vero. Se i bambini sono felici teniamoli lì… e poi Kyle mi ha detto che secondo lui non c’è pericolo di perderli..."
Adrian si voltò a guardarlo e sorrise piano al suo indirizzo. "Allora è quasi fatta, no?"
"Direi proprio di sì!" Lear si alzò dal divano, gattonando sul tappeto vicino a lui e appoggiandosi alla spalla del marito, guardando insieme a lui i due bambini biondi intenti a giocare. "Non me li starai facendo diventare dei super geni sfigati, vero?"
"Credo che l’unica cosa che non possano mai diventare è degli sfigati. Saranno dei fotomodelli, da grandi, vedrai."
Lear ridacchiò, accarezzando il braccio di Adrian e sospirando contento. Rimase così un po’, sino a che non sentì squillare il telefono di casa. Si avviò per rispondere, ma poi ritornò fra le braccia del marito, decidendo di lasciar partire la segreteria. Non poteva essere niente di grave, a quell’ora. Era da escludere anche una chiamata urgente dalla stazione di polizia visto che era in licenza, finalmente.
Come previsto, dunque, dopo alcuni squilli partì la registrazione del messaggio e udendo la voce di Ryan riecheggiare nel salotto, Lear sussultò. "Scheggia, sono io. Ho bisogno di te in centrale… è successo un casino, io…" sospirò contro la cornetta. "Ti prego…" implorò e in un secondo il biondo si alzò dal tappeto per prendere la telefonata. Ryan aveva ripreso servizio da solo una settimana ed era stato assegnato alle scartoffie e al lavoro d’ufficio. Non era ancora in grado di andare sul campo, ma era pur sempre meglio che rimanere a casa.
"Sono qui, Ryan. Cos’è successo?"
Ci fu un attimo di silenzio dall’altro capo del telefono. "E’ per Elizabeth."
"Elizabeth? Non mi dire che siamo di fronte al ritorno della ex fidanzata che ti ha mollato scomparendo nel nulla…" sbuffò.
"No... è stata arrestata. Possesso e spaccio di droga e…" esitò e Lear poté percepire la paura e l’angoscia anche solo da quel silenzio.
"... e cosa? Ryan, ehi, ci sei?"
"Sì, è che… con lei c’era un bambino, Lear. Si chiama Cole, dice di avere sei anni, non ha documenti, non è registrato all’anagrafe e… te lo giuro, è la mia… la mia…" balbettò agitato, "… la mia fottuta fotocopia."
Russel rabbrividì, inquietato, e si voltò a guardare, bianco come un lenzuolo, Adrian. Che fosse… ?
"… sto arrivando. Hai già richiesto il test del DNA?"
"Sì, ma ne sono sicuro…"
"No, non lo sei!" ribatté cocciuto.
"Invece sì! Cole è mio figlio, lo so!" sbottò arrabbiato l’altro. "E’ mio figlio, è… oddio, Lee, ti prego vieni qui. Sto impazzendo. E’ seduto sulla mia scrivania con la cioccolata calda in mano e mi sta fissando da ore. Ha parlato solo quando gli abbiamo chiesto quanti anni avesse e come si chiamasse, dopodiché ha smesso di fiatare."
Lear si passò una mano fra i capelli e lo salutò veloce, chiudendo la chiamata. Guardò il marito e non vide più il suo sguardo, visto che era tornato a fissare i figli.
"Adri…"
"Sì, ho capito. Vai." rispose atono.
"Guarda che posso spiegarti… c’è un problema davvero serio."
"Ovvio! Come sempre, dopotutto." voltò gli occhi verso di lui. "Ti aspetto per cena?"
Lear sospirò e annuì, raggiungendo i ragazzi e abbracciandoli uno per uno tra baci e pizzicotti. Lo fecero sorridere e un po’ dell’angoscia di prima sparì in tutto quel candore. Poi passò ad Adrian e strofinò il naso contro il suo. "Adri, sul serio. So che sono in ferie, ma Ryan ha bisogno veramente di una mano. La sua ex è stata arrestata e…" provò a spiegare, ma fu interrotto.
"E quindi chiama un altro ex per aiutarlo?" ribatté ironico e Lear gli tirò uno schiaffetto sulla guancia.
"Finiscila con questa storia, ok? Non voglio più litigare per queste idiozie." gli stampò un bacio sulle labbra per zittirlo e si alzò, andando a recuperare la giacca, la pistola e le chiavi di casa. "Ne riparliamo quando torno."
Adrian gli rispose con un mugugno e Lear si sistemò, pronto a uscire. Si fermò tuttavia, recuperando da vicino l’uscio un morbido orsetto ancora intonso e con il cartellino del prezzo attaccato al fiocco blu. Strappò via il prezzo e stringendolo in una mano uscì di casa, con l’intenzione di regalare quel pupazzo a questo misterioso bambino. Non aveva la minima idea di come avrebbero affrontato questa situazione, ma figlio di Ryan o meno, era pur sempre un piccolo bimbo in difficoltà. E lui era un poliziotto… oltre che un papà.
Certo, se quel bambino… se Cole fosse stato realmente il figlio di Ryan, questo avrebbe rimesso in ballo una serie sconfinata di problemi e questioni. Sarebbe stato davvero un duro colpo per qualcuno che stava cercando di ricostruirsi pezzo per pezzo dopo un grave incidente e sarebbe stato un problema ancora più grande considerando che c’era Sam di mezzo. Due bambini da tenere a bada, uno appena uscito dal tunnel della droga e l’altro traumatizzato per una madre pazza.
Sospirò. Povero Ryan.
   
 
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