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Autore: Michan_Valentine    14/08/2014    4 recensioni
Hojo risveglia Vincent Valentine dal coma ben prima degli avvenimenti di Final Fantasy VII, ansioso di dedicarsi al Progetto Omega. Un anno dopo, Sephiroth ha sei anni e non vuole mangiare.
Genere: Angst, Introspettivo, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Shonen-ai | Personaggi: Altro Personaggio, Sephiroth, Vincent Valentine
Note: What if? | Avvertimenti: Tematiche delicate | Contesto: Nessun gioco
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Progetto Jenova: 12 anni dopo.

Recuperò la cartella e si avvicinò al contenitore del Soggetto N. La luce proveniente dalla capsula l’accecò. Assottigliò le palpebre e analizzò le condizioni della cavia. Fra i reflussi verdastri del Mako, il bambino galleggiava in posizione fetale, con gli occhi chiusi, le ginocchia ritirate e i piccoli pugni stretti al petto. Si era stabilizzato, constatò, nonostante scure vene si diramassero lungo i suoi arti e sotto la sua pelle, dandogli un’aria quasi malsana. Di tanto in tanto, degli sbuffi di tenebra si manifestavano attorno alle membra nude del bambino. Un fenomeno imprevisto e del tutto sconosciuto che si dissolveva nel breve spazio di un istante.

Arricciò le labbra verso l’alto e fremette; mentre un brivido d’eccitazione gli percorreva la colonna vertebrale. Era interessante. Oltre che completamente inesplorato. Quel piccolo mucchietto d’ossa era forse il clone meglio riuscito della serie. Intanto non era ancora morto, sopraffatto dal CG. Non era resistente come l’originale, né come il Soggetto W; pertanto non avrebbe potuto usarlo come contenitore. Ma aveva sviluppato quel singolare, allettante potere… che gli apriva innanzi un mare di possibilità. Ancora da verificare. Al contempo un risultato degno di nota e uno stimolo per il suo superiore intelletto. Era inarrivabile.

Rise fra sé, immaginando l’invidia di assistenti e colleghi, e appuntò velocemente lo stato del Soggetto N sulla cartella. Per il momento avrebbe continuato a tenerlo in animazione sospesa e a monitorarne ciascuna fase di sviluppo. Non poteva permettersi di perderlo, non dopo gli ultimi risultati ottenuti. Poi l’avrebbe inserito nel Progetto G. Hollander sarebbe rimasto a bocca aperta innanzi al suo genio. E chissà, confrontando un così perfetto esemplare con i suoi scarti di laboratorio avrebbe perfino imparato qualcosa, risollevando la sua mente dal baratro di mediocrità in cui era caduta. Ne dubitava, comunque. Se uno scienziato restava sempre uno scienziato, un ciarlatano restava pur sempre un ciarlatano.

Tornò alla scrivania, illuminata unicamente dal riverbero dei monitor lì disposti, e sedette. Frugò fra le scartoffie del Progetto Omega e recuperò i dati relativi al Soggetto CG. Il suo adorato Vincent Valentine. Sfogliò la cartella e si soffermò sui risultati degli ultimi test; dopodiché recuperò il registratore vocale dal primo cassetto della scrivania e se lo portò alle labbra, acceso.

“Deprivazione del sonno. Deprivazione sensoriale. Deprivazione dei bisogni elementari. Negativo.” recitò, scorrendo le righe del rapporto “Il Soggetto, pur riscontrando i relativi sintomi psicologici, ne subisce gli effetti fisici, quali stanchezza, disidratazione, indolenzimento, solo in parte e per breve periodo. In maniera pittoresca, il fenomeno potrebbe quasi definirsi una sorta di “incapacità a morire”. La creatura ospite, Chaos, sopperisce laddove il Soggetto raggiunge il limite, ripristinando le normali funzioni vitali. A tal proposito, mi accingo nuovamente a valutarne i tempi di reazione tramite stimolazione elettrica.”

Spense il registratore e lo poggiò sul piano. Poi, ammantato d’infida calma, si sistemò gli occhiali sul naso e rivolse le iridi ai monitor. Le inquadrature mostravano il laboratorio sotterraneo, ripreso da diverse angolazioni. Al centro della stanza stava il tavolo operatorio, su cui giaceva supino Vincent Valentine, trattenuto da robuste, spesse cinghie. Un utile e indispensabile accorgimento per un animale. Una bestia dissennata, per la precisione.

Nella penombra dell’ambiente le membra nude dell’altro apparivano pallide, quasi fragili. Sbattute dalla luce della lampada scialitica, svilite dalle cicatrici e dagli elettrodi che gli ricoprivano il busto, le braccia e le gambe. Avrebbe potuto apparire prostrato, sconfitto e assoggettato alla sua mente superiore. Eppure negli occhi rossi che lo fissavano di rimando attraverso le telecamere s’agitava un fuoco indomito e imperituro. Uno sguardo che non aveva mai visto in nessun’altra delle sue cavie, nemmeno negli occhi di giada di suo figlio. Uno sguardo che lo raggiungeva, lo trafiggeva nonostante l’altro non potesse affettivamente vederlo. E che lo rendeva speciale. Perché quella che vedeva non era né paura, né speranza, né una tacita e vana supplica. No. Era qualcosa di più profondo, di più pericoloso. Una promessa, forse.

Si umettò le labbra, fremette; e il desiderio di fargli del male lo colse impreparato. Voleva vederlo contorcersi, voleva sentirlo urlare. Voleva piegarlo. E non perché la scienza glielo imponesse, in qualità di dazio per la conoscenza. Era una questione… personale. E ammetterlo gli comportò sforzo. E una buona dose di frustrazione. Dannato Vincent Valentine!

Tuttavia sapeva che quell’inutile, sporco Turk non avrebbe emesso un suono. Non subito, almeno. Ottuso e ostinato come sempre, considerò scuotendo la testa. Eppure avrebbe dovuto saperlo: resistergli era inutile. E doloroso. Perché in un modo o nell’altro otteneva sempre ciò che voleva. Come quando quella stupida donna aveva fatto la sua scelta. Confortato da ciò, arricciò le labbra in un sogghigno sghembo e abbassò la leva del macchinario. Di rimando lo schermo proiettò la figura di Vincent Valentine che s’incurvava, sbatteva e si attorcigliava, mentre le cinghie gli affondavano nella pelle e gli tagliavano la carne.

“Com’è?” chiese, assottigliando le palpebre e godendo di quello spettacolo “Che cosa si prova? Desiderarla… arrivare a un passo da essa, sfiorarla, assaporarla. E non poterla avere.” rise, rise ancora e si beò della sottile ironia insita in quelle parole “A quanto pare scegli sempre l’amante sbagliata. E perfino la Morte ti rifugge, Valentine.”
 
***
 
Strinse i denti e sibilò di dolore, muovendosi lentamente lungo il corridoio. La testa sembrava volergli scoppiare e la schiena gli faceva male da impazzire, pulsava e bruciava a ogni minimo movimento, rendendogli difficile stare in piedi e camminare. Tuttavia aveva rifiutato la sedia a rotelle. Poteva farcela, anche se le gambe gli tremavano. Si soffermò, rilasciandosi con la spalla lungo la parete, si portò la bottiglietta alle labbra e prese un altro, lungo sorso d’acqua. Dopo la rachicentesi doveva sempre ripristinare il liquor spinale. E starsene a letto, supino; a fissare il soffitto della sua piccola, asettica stanzetta. La sola idea gli rivoltò lo stomaco. E per poco non ricacciò i liquidi che aveva appena ingerito. Un altro effetto collaterale della puntura lombare, considerò.

Sollevò lo sguardo e osservò l’assistente che l’accompagnava. L’ultima volta che gli avevano estratto il Liquido Cefalorachidiano era stato Vincent ad accompagnarlo. E gli aveva tenuto la mano per tutto il tempo. La persona che gli stava accanto in quel momento, invece, non aveva fatto altro che fargli tediose lezioni sulla procedura, descrivendogli passo passo definizioni, finalità, esecuzione e controindicazioni. Tutte cose che conosceva meglio di lui. Ed ora, mentre lo scortava in camera, continuava a leggere appunti e analizzare dati, con la testa sprofondata nel suo taccuino. Senza degnarlo d’attenzione.

“Perché Vincent non è qui?” domandò; e quello quasi sobbalzò, forse preso alla sprovvista.

L’assistente sollevò la testa dagli appunti, batté le palpebre e lo fissò stranito.

“V-Vincent?” chiese, dandogli l’impressione di non sapere di chi stesse parlando “Ecco… Oh, ma certo! Vincent. È impegnato altrove, con il Professor Hojo.” soggiunse l’altro; e tornò ai suoi dati.

Arricciò il naso e fece una smorfia. Che voleva quel vecchio da Vincent? Sorseggiò nuovamente dalla bottiglietta e riprese il cammino. L’assistente gli andò dietro, senza nemmeno guardare dove metteva i piedi. L’adocchiò di sottecchi finché raggiunsero la diramazione. Dopodiché, invece di girare a sinistra, imboccò il corridoio di destra, sul cui fondo spiccava l’uscita d’emergenza. L’altro nemmeno se ne accorse e continuò nella direzione prestabilita e verso la sua stanza. Idiota.

Allungò il passo. O almeno ci provò, mettendo quanta più distanza possibile fra sé e l’assistente in questione. Dopotutto si sarebbe accorto a breve della sua assenza. Molto probabilmente avrebbero entrambi passato dei guai a causa di quella bravata; ma non gli importava. Voleva vederlo. Voleva vedere Vincent; e sentire il tocco rassicurante di quelle dita sulla sua mano. Soltanto così si sarebbe fatto una ragione di quel tormento. Del dolore pulsante alla schiena, della nausea, della cefalea e degli arti così intorpiditi da dargli la sensazione che presto o tardi sarebbero caduti e finiti in pezzi.

Strinse i denti, raggiunse l’uscita di sicurezza e imboccò le scale. Non sapeva dove andare e per un attimo la paura prese il sopravvento, facendogli riconsiderare l’eventualità di tornare in camera e di sdraiarsi come da indicazioni. Ricacciò i dubbi, si ancorò disperatamente al corrimano e scese lentamente, dolorosamente i gradini che gli si profilavano innanzi. Raggiunse il piano inferiore e si fermò a riprendere fiato. Bevve ancora; poi fece per aprire la porta e addentrarsi nel piano. Tuttavia vociare e rumori di passi lo costrinsero a ritrarsi e a nascondersi nell’ombra, dietro la porta. Quest’ultima s’aprì e due inservienti imboccarono le scale, risalendo lì da dov’era venuto. Il cuore gli arrivò direttamente in gola, certo che se l’avessero scoperto l’avrebbero riportato immediatamente in camera. Per poi chiamare il professore.

Si fece più piccolo, finché i due scomparvero al piano di sopra. Riprese a respirare. Raggiunse l’uscio, si sollevò sulle punte e si sporse a guardare oltre la piccola finestrella che stava sulla porta. Aggrottò le sopracciglia quando incappò in uno scenario che poco aveva a che vedere con i corridoi luminosi, bianchi e asettici cui era abituato. Semplicemente, oltre regnava il caos. Sul pavimento c’erano macerie, detriti, porte divelte, mobilio fatto a pezzi. E ogni superficie era sfregiata da profondi, irregolari solchi.  Degli operai stavano sgombrando l’area, caricando le scorie su una carriola. Che cosa era successo?

Incuriosito schiuse la porta e sgusciò oltre, nascondendosi dietro un grosso cumulo di macerie. Poco più in là due assistenti supervisionavano ai lavori, parlottando fra loro. Tese le orecchie.

“…diventa sempre più forte. E più aggressivo. Quel… quel mostro! Non si può andare avanti così. La settimana scorsa ha sorpassato tre porte a tenuta stagna ed è arrivato fin quassù. Mi vengono i brividi solo a ripensarci. Io c’ero e l’ho visto. Ha disseminato il panico fra i dipendenti e ha ucciso tre persone …” stava dicendo uno di loro.

“Mi hanno detto che è stato impossibile distinguere i resti gli uni dagli altri.” commentò l’altro, scrollando il capo e le spalle “Quell’Hojo si crede un genio, ma è solo un pazzo. Un megalomane visionario. Mi da la nausea. Vedrai che presto o tardi il Presidente Shinra si stancherà di lui e smetterà di finanziare le sue ricerche. O di scucire Gil per riparare a tutti questi danni!”

Batté le palpebre, tralasciò i due e appuntò lo sguardo sul varco che conduceva al sotterraneo. Qualunque cosa fosse passata da lì, considerò, aveva divelto una porta a tenuta stagna di almeno trenta centimetri. Schiuse le labbra, incuriosito, stupito. E anche un po’ ammirato. Deglutì e si guardò attorno, valutando la posizione di operai e assistenti.  Voleva scendere di sotto, saperne di più. Voleva vederlo con i suoi occhi, il mostro. Che avesse ucciso tre persone lo spaventava un po’; ma nessuno meglio di lui poteva comprendere il desiderio di libertà, il bisogno di fuggire da quel posto. Dalle iniezioni, dai dottori, dai laboratori che puzzavano di disinfettante. A qualunque costo.

Sentì gli occhi pungere, ma ricacciò lo sconforto. Non gli serviva. Si morse il labbro inferiore, invece, e manifestò la propria impazienza; poi, inaspettatamente, uno degli assistenti propose all’altro la pausa caffè. Li seguì con lo sguardo, mentre si allontanavano. Aspettò che anche gli operai si spostassero con la carriola carica e sgusciò oltre il proprio nascondiglio, dritto verso il passaggio che s’apriva sul sotterraneo.

Il buio e l’umidità l’accolsero. Discese la scalinata il più velocemente possibile, certo che almeno gli addetti ai lavori sarebbero presto tornati. Lo sforzò lo sfinì. Inciampò nei suoi stessi, stanchi piedi e ruzzolò sugli ultimi tre scalini. Atterrò di sedere e gemette, mentre scariche di dolore si propagavano dalla schiena a tutto il resto del corpo; tuttavia piantò i palmi, le ginocchia a terra e si rialzò ostinatamente.

Forse non sarebbe riuscito a vedere Vincent, a sentire il tocco rassicurante di quelle mani, il tono caloroso di quella voce… ma sarebbe sceso e avrebbe scoperto cosa gli altri nascondevano lì sotto. Doveva farlo. Lo sentiva. Pertanto strinse i denti e proseguì lungo il corridoio che si stendeva alla base della scalinata. Il ronzio dei neon accompagnò il suono dei suoi passi; mentre la luce illuminava il cammino a tratti e solo a intermittenza. Cercò sostegno e poggiò la mano contro il muro, incappando nei segni impressi sulla parete. Ne delineò la traiettoria con i polpastrelli e li analizzò attentamente. Sembravano profonde, decise artigliate. Ciò non lo scoraggiò, anzi. Acuì la sua determinazione e lo spinse ad affrettarsi.

Poco dopo un boato riecheggiò lungo il corridoio. E poi un altro e un altro ancora. Le vibrazioni si propagarono lungo i muri e lo raggiunsero, strappandogli un sussulto. Non sapeva di cosa si trattasse, ma l’avrebbe scoperto. Si diresse da quella parte e tese le orecchie ai rumori, il fiato corto e il cuore a mille nel petto. Ancora tonfi, schianti e… si concentrò al massimo e riconobbe in quel suono le sfumature bestiali di un ringhio. Il mostro! Dunque era lì che lo tenevano rinchiuso.

Spiccò la corsa, sibilò di dolore e incespicò nei propri piedi una, due volte, rischiando di finire lungo disteso. Mano a mano che si avvicinava gli schianti si facevano sempre più forti, più frequenti e andavano a contundergli l’udito, le membra… e il cuore, comunicandogli l’impellente desiderio di fuggire. Di liberarsi da quella prigione fatta di pietra e acciaio. E ciò che percepiva nel verso disumano di quell’essere non era forse rabbia?  Sì. Molta. Esuberante, incontenibile. Disperata. Gli si strinse il cuore a sentirlo; perché lo capiva molto più di quanto gli piacesse ammettere.

Raggiunse la porta a tenuta stagna che il fiato gli mancava. Le membra invece gli tremavano a causa dello sforzo e del dolore. Gemette e si sentì quasi svenire, ma persistette. Allungò il braccio e poggiò la mano sul freddo metallo di quell’ingresso, chiedendosi se l’altro potesse sentirlo. Percepirlo, comprenderlo e afferrare quanto li accomunava. Dall’altra parte il mostro impattò contro la superficie e sotto il suo tocco. Sgranò gli occhi, schiuse la bocca e rifuggì il contatto, ritraendo l’arto e facendo un passo indietro. Seguirono altri colpi, più violenti dei primi. Il metallo s’incurvò, si dilatò, finché cedette come burro. Degli artigli si fecero spazio fra le lamiere e disegnarono sulla porta varchi paralleli fra loro. Sgomento e vagamente intimorito scorse degli occhi gialli fissarlo di rimando attraverso le fessure. La creatura emise un basso, sordo ringhio che poco aveva a che vedere col ruggito rabbioso che l’aveva investito in precedenza; e gli sembrò di percepire del cordoglio. Spinto da ciò tornò ad avvicinarsi, ad allungare il braccio; e sfiorò gli artigli conficcati fra le lamiere come fosse la cosa più naturale del mondo. Dopotutto era così che Vincent gli donava conforto…

Il mostro fremette e si ritrasse come se l’avesse scottato. E ruggì. Ruggì così forte che per un attimo pensò avrebbe buttato giù tutto il sotterraneo. Incespicò all’indietro, perse l’equilibrio e cadde a terra, mentre le sfumature nel verso cambiavano e divenivano man mano meno vibranti, meno bestiali. Quasi umane.

L’istante successivo calò il silenzio; e si accorse di aver sudato freddo. Deglutì e riprese fiato, incapace di muoversi. Dall’altra parte pervennero fruscii e lamenti. Batté le palpebre, confuso. Che cosa era successo? Si alzò, combattendo contro la stanchezza e il dolore sempre più pulsante. Raggiunse nuovamente la porta e si sollevò sulle punte dei piedi, deciso a sbirciare attraverso i varchi impressi nel metallo.

Si accorse dei passi troppo tardi; e qualcuno gli artigliò il braccio. Serrò le palpebre e squittì, colto alla sprovvista, mentre veniva strattonato via. Sentì le gambe cedere, ma la morsa attorno all’arto gli impedì di cadere. Riaprì gli occhi e sollevò lo sguardo. Il professore lo stava fissando dall’alto con i suoi piccoli, pungenti occhi. Il biasimo trapelava chiaro dai suoi aspri tratti, dalla bocca piegata verso il basso alle sopracciglia severamente aggrottate. Nel suo sguardo, invece, si leggeva irritazione e un pizzico di disprezzo.

“Ah! Mi sembrava di aver sentito un ratto quaggiù!” esordì l’uomo; e quella voce stridula gli arrivò dritta al cervello.

Serrò le labbra, piantò i piedi a terra e cercò di divincolarsi. Di conseguenza l’altro rafforzò la stretta. Non si arrese.

“Dov’è Vincent?” sputò, accigliandosi a sua volta.

Gli occhi di Hojo lampeggiarono d’ira, come se quella domanda l’avesse schiaffeggiato in pieno volto. Non se ne stupì, comunque. Tuttavia l’attimo dopo il sogghigno tornò a delinearsi sulle labbra dello scienziato, rendendolo decisamente più inquietante. E infido.

“Che ragazzino sfrontato.” osservò l’altro, trascinandolo lungo il corridoio “Ti piace gironzolare, vero? Dev’essere perché sei giovane e pieno di energie. Oltre che totalmente sconsiderato. Ma tu non dovresti essere qui.” sottolineò “Dovresti essere a letto, a riposare. Il tuo organismo ne ha bisogno e io non ho intenzione di mettere a repentaglio il tuo glorioso futuro.”

Scosse la testa. Non gliene importava niente di quali erano o non erano le intenzioni di Hojo. Né del futuro di cui stava blaterando. Puntò i piedi, tirò e cercò di scansare quelle dita con l’altra mano.

“Che cosa c’è lì dentro? Perché lo tenete rinchiuso?” strillò, sordo agli ammonimenti impliciti.

Non ottenne risposta, soltanto la lancinante sensazione di essere dilaniato da quelle dita ossute e adunche.

“Hai una mente vivace, Sephiroth. Me ne compiaccio davvero.” continuò Hojo; e il suo sguardo si fece più affilato “Eppure il rispetto ti manca del tutto. Ma non temere, ci penserò io. Il Presidente Shinra ha manifestato il suo interesse per te. E sono sicuro che fra i ranghi dei SOLDIER imparerai il significato della parola deferenza. E ora ascoltami bene…”

L’altro lo strattonò nuovamente, s’incurvò su di lui e lo costrinse a fissarlo dritto in faccia.

“Tu non mi deluderai, ragazzino. In nessun modo. Sei destinato alla grandezza. Ce l’hai nel sangue. Perciò questa è l’ultima volta che mi disubbidisci. È chiaro?”

Aggrottò le sopracciglia e lo fissò con astio; ma la paura era più forte dell’odio.

È chiaro?” reiterò l’altro, senza sciogliere di un minimo la tenaglia che gli dilaniava le carni.

“Sissignore.” rispose infine, abbassando la testa; e Hojo ritrasse finalmente la mano, lasciandogli evidenti segni rossi sul braccio.

“Ora torna in camera tua e resta a letto. Se ti trovo qui sotto un’altra volta a piagnucolare sciocchezze su Vincent Valentine, stai pur certo che non ti permetterò di vederlo mai più.” concluse lo scienziato; e si allontanò.

A quella minaccia sentì gli occhi pungere, il fiato mancargli. Si sentiva a pezzi, nel corpo per via delle punture, nello spirito per via di quella resa incondizionata. E ora quell’uomo infieriva anche dov’era più vulnerabile: nei sentimenti. Era troppo. La rabbia l’invase. Strinse i pugni, serrò i denti e immaginò di saltargli addosso, di strappargli la giugulare a morsi e di osservarlo mentre si dissanguava rantolando sul pavimento. Di rimando l’adrenalina gli scivolò lungo tutto il corpo, in ogni fibra, in ogni cellula…
…poi lo sguardo triste di Vincent gli balenò alla mente e si sentì in colpa anche solo per aver concepito un simile pensiero. Non doveva lasciarsi andare. No. Perché se c’era un mostro in quella struttura, quello era lui: il professore.
 
Non ho idea di come sia venuto fuori. oo''' Questa storia continua a essere "particolare", come dice la cara One Winged Angel! xD Perciò boh. oo' Ditemi voi. Sono accettate anche le critiche, ovviamente. Qualsiasi cosa per migliorare. >////< Intanto ho cambiato un po' di cose negli eventi di FF. Lol. Spero che siano modifiche gradite. ùù''' A parte ciò... siate clementi! °A°
Alla prossima! 
CompaH
   
 
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