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Autore: ___Ace    08/09/2014    5 recensioni
Non c’è mai nulla di sicuro. Un giorno sei vivo e quello dopo sei morto. Niente è certo, niente è scritto, niente è indelebile. E allora, cosa ti rimane? Perché vivere fuori se si muore dentro?
La vita apparentemente perfetta di Eustass Kidd cambia in un istante. Il suo cuore l’attimo prima funziona e l’attimo dopo si blocca. Quando riprende a battere, la sua esistenza si trasforma e la sua strada incrocerà quelle di altre persone con problemi e punti di vista differenti. Speranze, sogni, ideali, tutto verrà condiviso, giudicato e, forse, esaudito.
Oltre a questo, però, si scontrerà anche con la vita apparentemente pacata di Trafalgar Law e, se prima Kidd era convinto di non aver bisogno di nessuno aiuto per andare avanti, si dovrà ricredere. Perché potrebbe scoprirsi bisognoso di un cuore nuovo per sopportare quel saccente e malefico bastardo se non vuole finire all’obitorio prima del previsto.
Kidd/Law.
Ace/Marco.
Penguin/Killer.
See ya.
Genere: Commedia, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: Shonen-ai | Personaggi: Eustass Kidd, Marco, Penguin, Portuguese D. Ace, Trafalgar Law | Coppie: Eustass Kidd/Trafalgar Law
Note: AU | Avvertimenti: Tematiche delicate
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Capitolo 9.

 

(Una settimana e mezza più tardi)
Vedi, la vita è una piuma. Si balla e si trema amore mio.
 
Aprii l’ultimo cassetto dell’anonimo comodino in legno bianco e antiestetico che tanto avevo odiato durante quei due mesi passati in osservazione. Mordicchiandomi distrattamente un labbro, iniziai ad estrarre tutto quello che vi era all’interno, come calzini, una bottiglietta d’acqua, un peluche che mi avevano portato i bambini dell’orfanotrofio, un paio di disegni di quella piccola peste di Rufy, un quaderno, il libro de Lo Hobbit e una maglietta a maniche corte che avevo rubato a Kidd che usavo per dormire la notte. Buttai tutto sul letto per poi iniziare a riempire l’ultimo zaino, gettando dentro la roba in disordine e faticando alla fine per farci stare tutto.
Una volta finito, poggiai le mani sul materasso del letto ancora sfatto nel quale avevo dormito fino a poco prima e sospirai abbassando il capo, godendomi il silenzio e la tranquillità della stanza, pensando al casino che avrei ritrovato una volta tornato a casa.
Mi avevano dimesso il giorno prima, dicendomi che stavo bene, che gli ultimi esami erano risultati positivi e che nulla mi tratteneva più all’ospedale. Mi avevano stretto la mano e augurato buona fortuna e poi mi avevano lasciato a rielaborare la notizia e a fare le valigie, dandomi un giorno, al massimo due, per organizzare il trasferimento e ritornarmene a casa mia. Avrei potuto benissimo schizzare fuori da quell’edificio non appena mi avevano parlato delle mie dimissioni, ma la verità era che quelle parole mi avevano fatto sentire pesante, come se fossi stato ancorato al suolo.
Faticavo ancora a crederci: era tutto finito, potevo ritornare alla mia vita di prima, potevo rivedere tutta la mia famiglia e riprendere a stare con loro senza separarmi mai più. Avevo lottato e avevo vinto. Ero uno di quelli che ce l’avevano fatta.
Deglutii rumorosamente e alzai gli occhi sulle pareti della stanza, lasciandoli scorrere sui molteplici disegni raffigurati e sulle frasi di incoraggiamento per poi fermare la loro corsa sul dipinto che svettava sopra alla testiera del letto. Osservai ogni dettaglio di quella fenice azzurra, imprimendola nella mente e ragionando sul fatto che, alla fine, ero stato davvero molto fortunato.
Respiravo ancora; il mio cuore batteva e pompava sangue e vita; le mie gambe si muovevano agili e rispondevano ai comandi; la mia testa funzionava ed io esistevo. Vivevo.
Ed ecco che l’ondata di senso di colpa mi investì come un uragano. A me era andato tutto bene, ero fuori pericolo, ma quanti altri sarebbero dovuti rimanere all’ospedale in attesa che qualcosa cambiasse? Quanti altri sarebbero morti? Chi altro sarebbe rimasto solo, quando invece a me veniva concessa l’opportunità di uscire, ricominciare a vivere ed essere felice? Tutto ciò mi faceva sentire così male. Era ingiusto, inadeguato, era da egoisti. Me l’aveva detto anche Kidd, quella mattina, quando ero andato a dargli la notizia e a salutarlo. Ero entrato nella sua stanza con la testa bassa, quasi come un cane bastonato. Gli era bastato un’occhiata alla mia espressione dispiaciuta per sospirare e recepire la notizia.
‘Un altro che ci abbandona’ aveva detto. Ed era sembrato così solo, così piccolo, nonostante l’aspetto e il carattere burbero. In quel momento, Kidd era apparso esattamente come tutti gli altri: malato, indifeso e senza speranze.
Mi ero sentito un verme, non solo per la mia condizione, ma anche per Trafalgar. A dire la verità, tutti ce l’avevamo un po’ con lui. Una settimana prima ci eravamo svegliati e non l’avevamo più trovato. Era sparito nel nulla, senza salutare e senza lasciare un biglietto o qualcosa del genere. Solo Eustass sembrava conoscere la realtà dei fatti, ma non aveva detto niente e noi non avevamo insistito per saperne di più. Ad ogni modo, non riuscivo a non sentirmi male: rimanevano solo lui e Killer a sostenersi. Come avrebbero fatto, quando la maggior parte di noi se ne era andata, o lo stava per fare?
Qualcuno bussò lievemente alla porta che poi si schiuse fino a rivelare l’identità del nuovo arrivato. Non mi voltai a controllare chi fosse, non ne avevo bisogno.
«Sei pronto?» mi chiese Marco una volta che ebbe azzerato le distanze, raggiungendomi e affiancandomi.
Corrugai un po’ la fronte, indeciso su cosa dire. «Se ti dicessi che non ne sono sicuro ti stupiresti?» domandai infine, continuando a rimirare il muro colorato.
«No» sussurrò, «No, non mi stupirei affatto» affermò pacato, affondando le mani nelle tasche dei pantaloni e guardandosi attorno.
Restammo qualche minuto in silenzio, poi la marea di frasi che mi premevano sulle labbra mi sfuggì di mano e mi ritrovai a dare voce ai pensieri che mi tormentavano da quella mattina. «E’ come se li tradissi tutti».  Insomma, non era giusto nei confronti dei miei compagni: io ero libero e loro dovevano continuare a rimanere imprigionati dentro quelle quattro mura chissà ancora per quanto tempo.
La cosa triste era che non sarebbero più stati un gruppo; non avrebbero più corso per i corridoi e non avrebbero nemmeno passato le nottate svegli a chiacchierare seduti sul mio letto. Kidd non avrebbe più rischiato un infarto salendo le scale; Law avrebbe smesso di sogghignare malefico e lanciare il malocchio ai dottori; Killer non avrebbe mai più osato correre lungo i corridoi con la sedia a rotelle e Penguin… Beh, lui se ne era andato da un pezzo, ormai.
«Dispiace anche a me» confessò pure lui con lo sguardo perso nel vuoto.
«Eravamo una bella squadra» mormorai distrattamente, ricordando tutti i guai che avevamo combinato in quell’anno. «Non doveva finire così».
Sentii lo sguardo di Marco addosso e fu allora che prese a ridacchiare. Poi mi diede una leggera spallata per attirare la mia attenzione su di sé e mostrarmi il piccolo sorriso rassicurante che stava sfoggiando. «Ma lo siamo ancora» chiarì, «Non deve per forza andare in questa maniera. Possiamo tornare tutte le volte che vogliamo e quando verranno dimessi inizieremo a combinare disastri in giro per il mondo».
Lo guardai come se fosse pazzo. Certo, era una bellissima prospettiva, ma altamente difficile da compiere. Eppure sembrava sicuro e sincero, troppo per pensare ad uno scherzo o ad un misero tentativo di tirarmi su il morale. Perché Marco non era mai stato una persona che dava false speranze, no. Lui non parlava a vanvera per il gusto di farlo e non illudeva nessuno. Lui dava speranze, le alimentava e aiutava chiunque a portare a termine i propri obbiettivi. Marco era così: un fratello per tutti.
Mi afferrò un braccio e mi tirò su dal letto, rimettendomi dritto e recuperando lo zaino con l’altra mano. Sempre ridendo e senza lasciarmi il tempo di ribattere o di soffermarmi a pormi altri problemi o sensi di colpa, mi trascinò con sé fuori dalla stanza e lungo il corridoio fino alle scale che iniziammo a scendere velocemente, due gradini alla volta, tanto che rischiai più volte di perdere l’equilibrio dato che quello scemo non mi mollò nemmeno un istante fino a che non raggiungemmo il piano terra con il fiatone.
«Non preoccuparti Ace,» disse entusiasta, «Andrà tutto bene. Usciremo di qui e andremo a riprenderci la nostra vita. Poi arriveranno anche Kidd, Killer e quel sadico di Trafalgar!».
Alzai gli occhi al cielo per non scoppiare a ridere, sentendo sempre meno dentro di me il peso di tutta la tristezza e della sofferenza che ognuno di noi aveva patito stando chiuso lì dentro. Non avrei mai dimenticato quell’esperienza, era stata una cosa troppo forte e burrascosa che aveva lasciato segni indelebili nel mio animo, ma avrei conservato il ricordo con affetto perché avevo avuto l’opportunità di trovare la mia luce nel buio, ovvero un sacco di persone speciali alle quali mai avrei voluto dire addio. Sarebbero rimasti nel mio cuore per sempre.
Raggiungemmo le porte scorrevoli che si aprirono al nostro passaggio e, quando mi ritrovai fuori dall’ospedale, lontano da quelle mura e all’aperto, con un sole accecante che mi fece chiudere gli occhi per un istante, percepii il cuore tremare per l’emozione.
Stavo bene, ero vivo e davanti a me c’era il mondo che mi aspettava.
«Vivremo come vorremo, saliremo sul tetto ogni notte per vedere le stelle, o i fuochi d’artificio, e sfideremo Kidd a chi beve di più senza svenire. Killer si rimetterà in sesto e lo inviteremo da noi a fare da baby-sitter ai mocciosi. Faremo tutto ciò che vuoi!» riprese Marco con i capelli scompigliati per via del venticello invernale e con gli occhi chiari che brillavano. Non era mai stato così bello e non gli avevo mai voluto così tanto bene. Mi sentivo quasi scoppiare.
Fui contagiato da quel suo buonumore e lo ascoltai fino alla fine del suo discorso contorto e dannatamente assurdo, ridendo e lasciando che la luce mi accecasse e che l’aria mi riempisse i polmoni fino a star male. Annuii più volte davanti alle sue proposte, scossi il capo con esasperazione nell’immaginarmi le scene, pensai a quanto mi sarebbe piaciuto vivere tutto ciò e condividerlo con lui e il resto dei nostri compagni.
Alla fine, quando non seppe più cosa dire, fece una pausa per riprendere fiato, guardandomi negli occhi senza nascondere la carica di affetto che mi sentii trasmettere in quell’istante.
«E, se non hai nulla in contrario, lo faremo insieme» promise, porgendomi la mano per invitarmi a seguirlo. Dopo di che sorrise divertito, guardandomi con sfida. «Allora, ti va, oppure preferisci tornare dentro?».
Lo fissai per qualche attimo senza sapere bene cosa dire. Forse non c’era nemmeno il bisogno di parlare, aveva già detto tutto quello di cui avevo bisogno per svegliarmi dal mio coma e prepararmi a riprendere a correre.
Una folata di vento mi investì in pieno viso, portando con sé l’odore di erba appena tagliata, hot dog e Penguin. Così chiusi gli occhi e me lo immaginai mentre si sbracciava per incitarmi a muovermi e a cogliere l’opportunità al volo. Conoscendolo, avrebbe ingranato la marcia immaginaria della sua sedia a rotelle e mi avrebbe preceduto, sghignazzando come un pazzo e alzando le braccia al cielo, felice.
Alla fine sorrisi, prima solo mestamente, poi scoppiando a ridere, afferrando la mano di Marco e lasciandomi accompagnare lungo il viale che portava lontano, verso un nuovo inizio.
«Si, mi va».
E c’era Marco.
E c’ero io.
 

 

*
 
(Sei mesi dopo)
Non sono per niente vicino a un addio. Non essere triste amore mio.
 
La lancetta della sveglia segnava le cinque del pomeriggio. Un orario assurdo e di stallo, decisamente quello che odiavo di più durante il giorno. Era l’ora che passava più lentamente delle altre e durante la quale non accadeva mai niente. Zero. nessuna visita, nemmeno un controllo da parte dei medici. Qualche volta, in corridoio, qualcuno suonava il campanello per ricevere attenzioni, o semplicemente qualcun altro schiattava, ma quegli avvenimenti erano così rari che non facevo altro che annoiarmi a morte.
Me ne stavo stravaccato a letto, con le braccia incrociate dietro la testa, un ginocchio piegato e una gamba a penzoloni. Avrei potuto farmi un giretto per i piani, ma l’ospedale lo conoscevo così bene che ormai non c’era nessun luogo che mi suscitasse un po’ di interesse. Sapevo che in qualche sgabuzzino avrei potuto trovare qualcuno intento a scopare, ma non mi andava di rovinare l’orgasmo a nessuno quel giorno, perciò lasciai perdere e mi preparai a spaccarmi i timpani con la musica a tutto volume nel mio lettore.
Misi le cuffiette e chiusi gli occhi, rilassandomi e sperando di assopirmi per risvegliarmi magari due ore dopo, almeno il tempo sarebbe volato in quel modo.
Mi resi conto che attivare la modalità di riproduzione casuale fu una pessima idea quando riconobbi le note di quella stupida e insulsa canzoncina che, a furia di ripeterla, Penguin mi aveva cacciato in testa mezzo anno prima. Non potevo sopportarla e mi domandai come mai non l’avessi ancora cancellata.
Sbuffai, ma non mossi un muscolo per cambiare con un altro brano, non ne avevo voglia e volevo solo estraniarmi dal mondo e dimenticare tutto. Era chiedere troppo non pensare e non sentire nulla per un minuto? Uno solo, non chiedevo altro.
 
Ci metto il coraggio che è parte del tuo.
 
Coraggio. Coraggio per fare cosa? Io ne avevo di coraggio, e da vendere anche, infatti mi trovavo ancora li, rinchiuso in quello schifo di ospedale a lasciare che i dottori continuassero a fare test, esami e scemenze varie quando ormai era chiaro a tutti che stavo bene, che ero stabile e che il mio organismo non avrebbe rigettato quel cazzo di cuore nuovo che mi avevano dato.
Mi si mozzò il respiro a quel pensiero e a quello che avrebbe comportato se avessi continuato a ripetermi tutto ciò, così strinsi gli occhi, scossi lievemente la testa e mi concentrai, mio malgrado, sulla canzone, sperando di distrarmi un poco.
Riguardo al coraggio, io sono un leone. Ho una folta criniera rossa, sono forte e, ma cazzo, che diavolo di discorsi sono?
Con stizza cambiai posizione e diedi le spalle alla porta chiusa, osservando come fosse il tempo fuori e sorridendo nel vedere che ormai le giornate avevano iniziato ad allungarsi definitivamente. Fuori c’era il sole e il tempo era abbastanza bello per tenere aperta la finestra senza problemi. Davvero una bella giornata, peccato doverla sprecare in quello stato catatonico come facevo da mesi, ormai.
Ero rimasto l’unico all’ospedale.
Il gruppo si era sciolto. Prima se ne era andato Penguin, poi Marco, seguito da Ace. Killer era stato dimesso circa quattro settimane prima ed ero stato davvero felice quando l’avevo visto entrare nella mia stanza, con i capelli tutti arruffati e il fiatone. Mi aveva guardato e mi aveva detto che aveva corso per trovarmi. L’avevo sondato da cima a fondo alla ricerca delle stampelle e, quando non le avevo trovate, avevo iniziato a ridere, rispondendo con calore all’abbraccio quando il ragazzo che era diventato il mio migliore amico mi si era gettato addosso a braccia aperte, scoppiando a singhiozzare.
Ne aveva passate di tutti i colori ed ero stato così contento quando mi aveva dato la notizia delle sue dimissioni che non aveva affatto pensato a quello che sarebbe toccato a me. La depressione era arrivata dopo la sua partenza, come mi ero aspettato, ma ormai avevo imparato abbastanza a lasciarmi scivolare tutte le brutte esperienze addosso e ne ero uscito piuttosto illeso. L’essermi ritrovato senza nessuno accanto non si era dimostrato così terribile, alla fine. Era bastato smettere di pensare a quello che facevo prima quando erano ancora tutti all’ospedale e la cosa aveva funzionato.
Ad ogni modo, loro cercavano di renderla meno dura possibile. E ciò, anche se non volevo ammetterlo, mi faceva piacere.
Era strano e bello allo stesso tempo sapere che non mi avevano dimenticato, nonostante il mio caratteraccio e i miei modi che lasciavano spesso e volentieri a desiderare. Non ero mai stato troppo gentile nei loro confronti, ma nonostante tutto, continuavano a tenermi in considerazione e a rendermi partecipe della loro vita.
Killer passava ogni giorno, mattina e sera e rimaneva a tenermi compagnia fino a tardi, fregandosene dell’orario. I medici, comunque, infermieri compresi, lo conoscevano tutti e, pur di evitare il mio malumore, preferivano lasciarlo fare senza sgridarlo o cacciarlo via.
Anche Ace, nonostante il modo egoista in cui lo avevo salutato quando era venuto da me per dirmi che se ne andava, non si era dimenticato. Non aveva un orario preciso nel farmi visita, lui, semplicemente, potevo aspettarmelo a qualsiasi ora del giorno e vederlo mi faceva pure piacere, dato che avevamo più o meno la stessa età. Un’altra cosa che mi piaceva di lui, era il caratterino ribelle e la propensione a combinare guai. Insomma, chi poteva essere tanto idiota da rubare un manichino, camuffarlo da Babbo Natale, assicurarlo ad una dozzina di fuochi d’artificio e spararlo in cielo la notte di Natale? Solo lui, perciò aveva tutta la mia stima. Inoltre mi ero fatto promettere che, quando sarei uscito, avrebbe rifatto una cosa simile, ma con un pollo o qualche altro essere inutile. Volevo vedere il botto, accidenti.
Per quanto riguardava Marco, beh, anche lui veniva a salutarmi parecchie volte durante la settimana, quando il lavoro glielo permetteva. Passava con Ace alle calcagna, oppure anche da solo, ad ogni modo mi portava sempre qualcosa di buono da mangiare, come torte o dolci. Diceva che a casa, all’orfanotrofio, uno dei loro fratelli passava le giornate a sfornare delizie e gli faceva piacere condividerle con me.
Io lo ringraziavo e mi tenevo tutto per la sera, dividendo il bottino anche con Killer e adorando quel personaggio che non conoscevo, ma al quale avrei voluto fare i complimenti e stringere la mano.
Non ero solo, in fin dei conti, ma era come se lo fossi.
 
A volte ci perdiamo i sottotitoli del cuore.
 
E poi c’era il mio cuore.
Il mio nuovo cuore, me lo devo mettere in testa, pensai, alzando gli occhi al cielo. Alla fine, anche se avrei preferito cavarmela da solo con le mie forze, ero stato costretto ad accettare di sottopormi ad un trapianto di cuore che, a detta dei dottori, era stato un successo.
Un successo sto cazzo, io sto ancora qui!
L’operazione era andata a buon fine ma, secondo il loro parere professionale, era meglio essere certi della riuscita e tenere sotto controllo la mia situazione per evitare ricadute o complicazioni drastiche. Su quel punto erano stati molto chiari: se il cuore non risultava compatibile e veniva respinto, io ero finito.
La fortuna, o il Signore, dipendeva dai punti di vista, però, mi aveva favorito, e mi trovavo ancora sulla Terra a respirare, vivendo però in un mondo in stallo. Non sapevo che fare, non sapevo quando me ne sarei andato, non sapevo cosa ne sarebbe stato di me e non sapevo nemmeno più come sopportare tutta quell’orrenda situazione. Stavo aspettando qualcosa senza sapere cosa.
Parliamoci chiaro, Kidd. Ti senti una merda per essere stato abbandonato, ammettilo.
Una cosa che odiavo era che, stando tanto tempo in solitudine, avevo preso a parlarmi e a darmi le risposte da solo. Da un lato ciò poteva indicare un aumento della mia intelligenza mista a furbizia, ma dall’altro era una vera e propria seccatura.
Io non mi sentivo uno schifo e non me ne poteva fregare di meno se quello stronzo saccente, mezzo morto, alla fine aveva deciso di voltare le spalle a tutto e tutti, dimenticare quello che aveva condiviso con i suoi compagni, per andarsene a fare in culo altrove. Per quanto mi riguardava poteva schiattare. Anzi, non si era fatto più sentire, quindi, probabilmente, era bello che morto.
Strinsi i pugni sul lenzuolo, intimandomi di calmarmi, ma la verità era che da troppo tempo me ne stavo tranquillo e buono, prima o poi sarei scoppiato, ne ero certo.
Non riuscivo nemmeno a pensarci: quel rognoso mi aveva salvato la vita, per quanto odiassi ammetterlo, e poi se ne era semplicemente andato come se niente fosse successo, come se tutti i suoi discorsi sul non gettare la spugna me li fossi sognati solo io e come se il resto dei ragazzi non fossero stati altro che cenere.
Come se io non fossi stato niente per lui.
Dopo l’operazione miracolosa in ascensore mi era stato accanto come al solito, nulla di strano dato che sembrava godere nel non lasciarmi mai il tempo e lo spazio per respirare, ma avevo capito subito che qualcosa non andava. Inizialmente, avevo creduto che i medici gli avessero dato poco tempo da vivere, che si fosse ammalato, invece no.
Se ne andava e basta.
Doveva riprendere l’università e concludere i corsi, fare il tirocinio, laurearsi, vivere la sua vita e coronare il suo sogno. Mi aveva persino chiesto se riuscivo a capire cosa intendeva, ma non avevo risposto. Non avevo aperto bocca per tutto il tempo successivo che aveva sprecato per spiegarmi la situazione e per dirmi, in poche parole, che lo avevano dimesso e che doveva tornare alla sua vita andando via.
Ovviamente non l’avrei trattenuto lì, avrei fatto lo stesso se fossi stato al suo posto e mi ero persino sentito sollevato nel sapere che era guarito e che non era più a rischio. Alla fine ce l’aveva fatta, aveva superato il suo problema ed io avevo mantenuto la promessa fatta a Penguin. Tutto era andato per il meglio e, quando me lo aveva detto, all’inizio ero persino stato tentato di dirgli in faccia che… beh, ormai erano passati la bellezza di sei mesi e lui era sparito nel nulla senza mai farsi sentire o scrivere. non mi importava se delle mie condizioni non gli interessava, non volevo essere compatito e, forse, era stato meglio così, ma le cose che mi faceva incazzare erano due. La prima riguardava il fatto che si fosse scordato degli altri, insomma, alla fine anche loro lo avevano aiutato e gli erano stati vicini, un po’ di gentilezza nei loro confronti avrebbe anche potuto dimostrarla; la seconda, invece, mi faceva davvero salire il crimine. Insomma, che cazzo pensava che me ne facessi io dei libri di medicina?
Si, perché il coglione, oltre a non farsi sentire, mi inviava ogni mese un volume sulla ricerca o sul corpo umano, o su qualsiasi altra cazzata biologica e medica. E sapevo che era lui, ne ero certo, dato che i sei libri che mi erano arrivati li avevo tutti visti nella sua stanza. Non mi ero mai sognato di leggerli o di sfogliarli. Cosa me ne poteva interessare? Preferivo tenerli rinchiusi nell’armadio a prendere polvere, quello era il loro posto.
Sospirai, sentendo gli occhi farsi leggermente più pesanti mentre quella stupida canzoncina continuava a strimpellarmi nella mente.
Ecco che arrivavano i cinque minuti di tristezza che, di tanto in tanto, mi facevano visita quando abbassavo le mie difese. Certo, ero una corazza d’acciaio, ma anche io ce l’avevo un cuore, pure nuovo, figuriamoci se non ero in grado di provare almeno un minimo di emozione.
Quando avevo avuto l’infarto all’università nessuno si era più interessato a me, nessuno di quelli che conoscevo era venuto a cercarmi. Mi avevano tutti messo da parte e ricominciare era stata dura, soprattutto con i problemi che si erano presentati, ma ce l’avevo fatta. E, per quanto mi costasse ammetterlo, il merito era di quei cinque idioti mezzi svampiti che avevo trovato in giro per i reparti. Uno più suonato dell’altro, ma era ciò che li rendeva differenti e speciali. Mi avevano fatto sentire bene quando ero malato, mi avevano consolato quando mi ero sentito uno straccio e mi avevano tenuto compagnia quando avevo creduto di essere solo al mondo. Li consideravo miei amici, tutti, e continuavo a farlo.
Non era vero che lo odiavo, semplicemente facevo fatica a sopportarlo, ma non avrei voluto vederlo scomparire così, senza poter fare nulla per impedirlo.
La nostra uscita di scena non era stata come me l’ero immaginata, ovvero tra insulti, pugni e un bacio, ma pazienza, ci avevo fatto l’abitudine e, prima o poi, sarebbe passato.
Avevo quasi preso sonno, quando il rumore di una porta che sbatteva sovrastò la musica, destandomi e facendomi sussultare. Mezzo intontito tolsi con un gesto secco le cuffiette dalle orecchie e sbadigliai, convinto che fosse un medico o Killer arrivato in anticipo.
Guardando l’ora mi resi conto di aver effettivamente dormito un bel pezzo dato che erano le sei e un quarto. Che bellezza, potevo mangiare il dolce di Marco e sentire come era finito l’allenamento di Killer e Shachi quel giorno.
Stavo appunto per voltarmi con un sorriso allegro quando una voce interruppe ogni mia azione e frase, facendomi perdere un battito e gelare il sangue.
«Allora è vero che chi non muore si rivede, Eustass-ya».
 
*
 
Guarda che cosa mi tocca: cucirmi la pelle e poi la bocca.
 
Dovetti usare tutta la mia buona volontà per non perdere la calma e iniziare a urlare. Ero arrivato da una mezz’ora buona e quel deficiente con i capelli rossi mi aveva già fatto incazzare. Da quando le persone si salutano con un pugno sullo stomaco? Il fatto che forse me lo ero meritato, poi, non mi passò minimamente per la testa. L’unico che meritava di essere preso a sberle era solo lui!
«Cosa cazzo ti dice il cervello? Sparisci per sei mesi e poi ti rifai vivo come se niente fosse?» ripeté Kidd per la terza volta, alzando sempre di più la voce e fissandomi furente con una mano a mezz’aria pronta a colpirmi. Avevo immaginato che non sarebbe stato facile tenerlo buono, ma non mi ero di certo aspettato un’accoglienza così pessima.
Così non potei fare a meno di ripagarlo con la stessa moneta, deliziandolo con uno dei miei classici sorrisetti di sufficienza e regalandogli una delle mie acidissime battute. «Hai contato pure il tempo? Che carino».
«Apri ancora la bocca e giuro che te la spacco» soffiò minaccioso e la determinazione nella sua voce mi fece intendere che non stava affatto scherzando e che l’avrebbe fatto davvero.
Mi chiesi il perché di tutto quel comportamento. Anche io ce l’avevo con lui per non aver mai risposto a una delle mie lettere, eppure mi stavo facendo violenza per comportarmi in modo civile nell’attesa di una qualche spiegazione. Sicuramente avrei provveduto a vendicarmi in un secondo momento.
«Piantala di fare la voce grossa, Eustass-ya,» risposi, fulminandolo con un’occhiataccia e preparandomi ad uno scontro, «Se c’è qualcuno che deve essere preso a calci, tra i due, sei solo tu!».
«E che cosa avrei fatto io? Sentiamo!».
«Non mi hai più cercato!» sbottai.
Spalancò gli occhi e mi guardò come se avessi appena vomitato arcobaleni, ma si riprese abbastanza in fretta, tanto che finì per l’arrivarmi ad un soffio dal naso, sovrastandomi. Era diventato ancora più alto.
«Cos'é che ho fatto?» sibilò con astio.
«Sei sparito» dissi apatico, permettendo solo alla rabbia e alla delusione di accecarmi, ma stando attento a tenere bene rinchiuse le emozioni come la tristezza, il senso di abbandono e solitudine che avevo provato in quei mesi. Io gli avevo scritto senza mai ricevere risposta e lui mi trattava in quel modo? Non esisteva, se era la guerra che voleva, allora l’avrebbe avuta.
Strinse entrambe le mani a pugno, forse per non lasciarsi prendere dal momento e colpirmi in pieno viso. «Stai scherzando spero».
«No, razza di deficiente! Ho capito che ci sei rimasto male quando mi hanno dimesso, ma mettermi da parte in quel modo potevi risparmiartelo. E adesso vuoi anche avere ragione quando io non ti ho fatto assolutamente niente!». Mi stavo lasciando andare un po’ troppo, ma non importava. Fino a che non iniziavo ad urlare andava tutto bene, ma avrei continuato. Non poteva passarla liscia e credere che non gli avrei detto il fatto suo.
Kidd alzò il viso verso il soffitto e sospirò. «Te ne sei andato» fece lapidario, tanto che riuscì per la prima volta a zittirmi e a lasciarmi senza parole con cui ribattere. Che diavolo stava dicendo?
«Eustass-ya ma che…».
«Non mi importava se ti dimettevano o meno, quello che non dovevi fare era sparire e dimenticarti di tutti. Come se noi non avessimo contato nulla per te, quando è stato solo merito nostro se non ti sei lasciato morire. Invece hai preso e ci hai voltato le spalle senza dire nulla, senza mai scrivere o chiamare. Niente, Trafalgar. Per sei, lunghi, maledetti e fottutissimi mesi».
 
Anche con i crampi, con la fine sulla faccia, col dolore che mi schiaccia e non lo sai.
 
Rimasi in silenzio a guardare come sulle labbra del rosso apparisse una smorfia amara, che sapeva tanto di tristezza. Distrattamente notai anche come i capelli, già folti, gli erano cresciuti, ricadendogli più di frequente sugli occhi, gli stessi che avevano bruciato di rabbia e di passione mesi addietro, quando stavamo assieme.
Assieme, come? pensai, lasciando subito perdere il discorso. Non mi ci volevo nemmeno soffermare su quel particolare. Eustass-ya non aveva contribuito ad aiutarmi, me l’ero cavata benissimo da solo.
E quello che mi sto ripetendo per auto convincermi sono tutte balle.
Ad ogni modo, capii che qualcosa non andava. Kidd sembrava davvero stanco e abbattuto; più precisamente aveva l’aria di un animale che era stato abbandonato a se stesso, lasciato solo ad affrontare tutto, senza nessuno accanto. Per quello ringhiava, era il suo modo di difendersi dalle avversità e dagli estranei, peccato che non fosse mai stato bravo a nascondersi dietro al suo carattere da duro. Per me era sempre stato facile capirlo, era un libro aperto. Tutto di lui mi interessava e mi incitava a continuare a gravitargli attorno; poteva apparire banale, uno stupido scimmione senza cervello, ma, in realtà, era pieno di sorprese. Non reagiva mai come mi aspettavo ed era un continuo evolversi di sensazioni, espressioni, emozioni e scene. A volte complicato, ma mai impossibile da capire, e così fu anche per quel particolare momento.
Abbassai gli occhi, riflettendo che, almeno in parte, aveva ragione. Me ne ero andato e lo avevo lasciato senza troppe cerimonie. Era stato un periodo difficile, quello, prima la morte di Penguin, poi il collasso, il trapianto in previsione e la mia partenza. Era stato un miracolo che non si fosse lasciato andare. La mia intenzione, comunque, non era mai stata quella di sparire nel nulla, assolutamente. Avevo assistito dall’alto dell’osservatorio la sua operazione prima di partire e mi ero voluto assicurare che fosse andato tutto bene, quindi, infine, avevo provato a contattarlo. Infatti gli avevo spedito un sacco di libri, possibile che non li avesse ricevuti?
«Eustass-ya, mi dispiace» dissi sommessamente, spiando di sottecchi la sua reazione e capendo che avrei dovuto fare di più per sistemare le cose quando lo sentii sospirare frustrato e amareggiato. «So che non ho scelto il momento migliore per tornare all’università, ma non ho potuto fare altrimenti. E non è vero che non volevo avere più niente a che fare con te –perché ero certo che gli altri non c’entrassero, dicesse pure quello che voleva- perché ti ho scritto volumi e volumi di lettere» confessai a disagio e un po’ in imbarazzo, sentendolo trattenere il respiro e decidendo di alzare lo sguardo per incrociare i suoi occhi, lasciandogli intendere che non gli stavo mentendo.
Ebbi la risposta ai miei dubbi quando lo vidi corrugare la fronte confuso. C’era stato un malinteso.
Allora sospirai, incerto se porre la domanda o meno. «Dì un po’, ti è mai arrivato qualche libro di medicina in questo tempo?».
«Quella merda? Si» rispose subito, irritandomi un poco.
«E immagino che tu non abbia mai pensato di aprire quelle pagine, o sbaglio?» domandai con un sorrisetto sarcastico e per niente divertito.
Rimase a fissarmi qualche momento prima di dirigersi verso l’armadietto, aprendolo e mettendosi a cercare qualcosa sotto ad alcune coperte. Alla fine trovò quello che stava cercando, ovvero i miei volumi. Li sollevò tutti assieme e li scaricò senza grazia sul letto, mentre io mi maledicevo per aver consegnato dei tesori ad una persona che non ne aveva il minimo rispetto. Quando poi ne aprì uno a caso e vi trovò dentro una busta bianca ancora sigillata, mi venne una voglia matta di prenderlo a ceffoni fino a farlo svenire.
Si poteva essere così idioti?
«Questa cos’é?» ebbe il coraggio di chiedere, rigirandola tra le mani per poi iniziare a scartarla fulmineo, come facevano i bambini con i regali di Natale, sotto il mio sguardo assassino.
«Secondo te?».
Quando si ritrovò davanti due fogli riempiti con la mia calligrafia il tempo sembrò fermarsi. Iniziò a leggere tutto quello che c’era scritto con avidità, tanto velocemente che mi chiesi se riuscisse almeno a capirci qualcosa, ma lasciai perdere quasi subito. Dopotutto, non le aveva mai lette e, se non gliel’avessi detto, nemmeno avrebbe scoperto l’esistenza di quelle lettere riempite per metà di insulti rivolti al fatto che non mi avesse degnato di risposta. Se l’avesse fatto, avrebbe saputo certamente dalla novità che ero venuto a portargli.
Meglio così, mi dissi sogghignando, mi godrò la sua faccia sorpresa.
«Ehi, Capelli Rossi» lo chiamai, togliendomi la giacca leggera e sedendomi comodamente sul suo letto.
Non alzò nemmeno gli occhi dal foglio e si limitò a rispondermi con un mezzo mormorio incomprensibile, segno che avevo la sua attenzione almeno per metà.
Così mi passai una mano tra i capelli con disinvoltura, incapace di trattenere quel ghigno carico di aspettativa che, fortunatamente, non stava notando. Fu senza preavviso che gli sganciai la bomba.
«Sai, svolgerò qui il mio tirocinio».
I suoi occhi saettarono nei miei in quell’esatto istante e la sua faccia divenne, se possibile, ancora più pallida.
«Vuoi dire che…» sussurrò, senza finire la frase.
«Si,» lo interruppi, «Sono tornato per restare».
 
Anche con la gioia di sapere che dovunque ce ne andremo, non ci lasceremo mai.
 
Non vidi nemmeno i fogli cadere per terra, mi importava solo di sapere che quell’irascibile ragazzo stava bene ed era vivo e mi stringeva con fare possessivo come se volesse togliermi tutta l’aria, ma era perfetto in quel modo. Era tutto ciò di cui avevo bisogno e, anche se non l’avrei mai ammesso ad alta voce, ero contento che nessuno dei due, alla fine, avesse vinto la scommessa. Un pareggio poteva bastare per soddisfare l’ego smisurato di entrambi. Come sarebbero andate le cose in futuro non aveva importanza; eravamo totalmente differenti ed ero certo che non avremo mai perso occasione per scannarci a vicenda, ma ero anche sicuro che lui, come me, non vedeva l’ora di riprendere da dove avevamo lasciato.
«Ehi, Trafalgar» sussurrò con le labbra già sul mio collo.
«Che vuoi adesso?» mormorai seccato. Gli pareva forse il momento per adatto per chiacchierare?
Portò il viso a pochi centimetri dal mio per mostrarmi il ghigno bastardo che esibì con orgoglio. No, se me lo avessero chiesto, avrei risposto che non mi era mancato per niente quello stronzo.
«Ti ricordi ancora chi comanda?» ghignò.
Come potrei dimenticarlo.

 

*
 
(Due anni dopo).
Io non ho finito perché ho sete ancora.
 
La spiaggia era quasi deserta a quell’ora del mattino: pochissime persone passeggiavano con calma sul bagnasciuga, affondando i piedi nella sabbia fine, oppure lasciando che le onde li bagnassero, saltellando per il freddo contatto con essa. Il cielo era di un azzurro chiaro, sfumato all’orizzonte dai colori dell’alba, mentre il sole, lentamente, sorgeva.
Poggiai le infradito sulle assi di legno e mi sedetti sul pontile con le gambe a penzoloni sul mare, inspirando a pieni polmoni l’aria fresca e muovendo i piedi sul bordo dell’acqua, felice di aver riacquistato pienamente tutte le facoltà motorie dopo l’incidente, nonostante le aspettative non del tutto rosee e tutte le sofferenze che avevo dovuto sopportare oltre alla riabilitazione. Alcune si erano cicatrizzate bene, altre meno, altre ancora, invece, erano e sarebbero rimaste sempre aperte.
«Killer!».
Una vocina dal timbro alto e quasi infantile richiamò la mia attenzione e, con un sorriso spontaneo sulle labbra, uno di quelli che a fatica avevano ripreso a riapparire sul mio viso, voltai la testa di lato, poggiando il mento sulla spalla e inquadrando il ragazzino minuto che, con due borse per ciascuna mano e un ombrellone sotto il braccio, mi sorrideva allegro con gli occhiali da sole a specchio calati sugli occhi.
«Shachi» lo salutai allegro, «Ti vedo un po’ affaticato» scherzai, indicando con un cenno del capo il suo carico.
Con un’alzata di spalle e uno sbuffo mi diede ad intendere che per lui quella era roba da niente, ma il leggero tremolio delle braccia e il sudore sulla sua fronte dicevano il contrario. Così mi alzai e mi diressi verso di lui per prendere io le borse e dargli il tempo di riprendere fiato. Quel moccioso voleva sempre strafare per non essere mai un passo indietro agli altri.
«Ce la potevo fare tranquillamente da solo» borbottò, iniziando a seguirmi e dovendosi affrettare per stare dietro alle mie falcate, inciampando di tanto in tanto.
Ghignai poco convinto. «Certo, certo».
«Solo perché tu sei tutto muscoli e niente cervello non significa che…».
«Ehi, che hai detto?» chiesi, fermandomi all’improvviso, tanto che Shachi, distratto come al solito, mi venne addosso, sbattendo il naso contro la mia schiena.
Si riprese subito e, massaggiandosi la parte lesa facendo finta di nulla, mi superò, diretto verso lo zaino che avevo abbandonato sotto all’ombrellone che mi ero offerto di portare da casa.
«Niente» esordì con nonchalance, incrociando le braccia dietro la testa, «Devi sicuramente aver capito male!».
Roteai gli occhi con fare scocciato. A volte mi sembrava di aver a che fare con un bambino.
Scuotendo la testa esasperato e rassegnato a quel suo caratterino, lo raggiunsi e lasciai cadere gli zaini addosso a lui apposta, fingendomi sbadato o poco attento solo per farlo innervosire e vendicarmi della sua precedente frecciatina sarcastica, riuscendoci divinamente, ma beccandomi un pugnetto deciso sulla pancia.
Da quando l’avevo incontrato all’ospedale, Shachi era diventato un’ancora di salvezza per la mia sanità mentale. Anche lui, come me, era stato molto affezionato a Penguin, ci era cresciuto assieme, perciò mi era sembrato l’unica persona capace di capirmi davvero. Infatti avevamo passato ore e ore a parlare, a sfogarci, a piangere e a consolarci, ricordando i momenti migliori passati in compagnia del nostro amico speciale, felici di poter finalmente esprimere liberamente quello che sentivamo e che provavamo. Insieme ci eravamo sostenuti e avevamo affrontato la solitudine, contando l’uno sull’altro e ricominciando da capo, con le nostre sole forze.
 
Io non ho finito, fuori è primavera.
 
«… E poi le ho risposto per le rime, citandole tutte le nozioni a memoria e beccandomi il mio meritatissimo trenta e lode. Fanculo anche quella baldracca!» stava dicendo intanto Shachi, raccontandomi dei suoi ultimi esami all’università.
«Ma da quando sei diventato così volgare?» mi premurai di domandargli, ricordando di come, i primi tempi, fosse un ragazzo così timido ed educato, sempre rispettoso e gentile con gli altri.
Mi guardò come se fossi scemo, ma alla fine decide di rispondermi lo stesso, forse per pietà. «E’ l’influenza di Eustass» usò come spiegazione, facendomi sorridere.
A proposito di lui.
«Ohi, Kidd! Da questa parte!» urlai in direzione del rosso che, accortosi della mia mano alzata, avanzava verso di me facendosi largo a forza tra il via vai di gente che, approfittando della bella giornata, aveva deciso di fiondarsi al mare, imitando così la nostra idea.
«Vorrei sopprimerli tutti, soprattutto i ragazzini» borbottò quando mi fu vicino, fulminando con lo sguardo un moccioso che gli aveva tagliato la strada, correndo come un pazzo con un cono gelato in mano, brandendolo come un trofeo.
Sorrisi e mi strinsi nelle spalle, incitandolo poi a seguirmi fino alla nostra postazione dove Shachi ed io avevamo piazzato un paio di ombrelloni abusivi proprio sulla riva, in modo da evitare scocciature come vicini rumorosi o anziani curiosi.
«Siamo solo noi?» chiese, dopo aver gentilmente salutato il ragazzino dai capelli ramati stravaccato sulla sabbia. Per quanto il suo carattere fosse poco avvezzo ad apparire simpatico alle persone, con Shachi non riusciva ad essere scortese. Diceva che gli ricordava troppo Penguin.
Si tolse la maglia e poi la gettò malamente dentro lo zaino. La cicatrice all’altezza del cuore si era ridotta ad una piccola linea verticale rosa pallido e sarebbe rimasta a svettare sul suo petto come un segno, o un ricordo, indelebile della sua avventura.
«Per ora, ma ho mandato un messaggio agli altri. Tra poco dovrebbero arrivare» spiegai, imitandolo e stendendo poi a terra un asciugamano, litigando con le punte per sistemarle ed evitare che ci andasse sopra della sabbia.
I dieci minuti successivi li impiegammo mettendoci comodi. Kidd indossò un paio di occhiali da sole neri che, di tanto in tanto, sollevava sulla fronte per scostarsi i ciuffi vermigli dagli occhi, mentre io meditavo sull’idea di tagliare i miei per non dover soffrire il caldo. L’idea mi era venuta molte volte, ma sapevo che non l’avrei mai presa sul serio in considerazione.
«Che mi venisse un colpo se quello non è Ace!» disse ad un tratto Kidd, mettendosi a sedere e fissando un ragazzo in lontananza che, completo di costume arancione e cappello da cowboy, avanzava tranquillo con uno zaino verde in spalla. Dal sorriso che fece non appena ci notò, capimmo che doveva per forza trattarsi del nostro miracolato amico.
«Ciao ragazzi! Era da un po’ che non ci si vedeva!» esordì, lasciando cadere la borsa sulla sabbia e abbracciandomi, dato che mi ero alzato per andargli in contro. Fu poi il turno di Kidd che, allergico ai gesti affettuosi, si limitò ad una virile pacca sulla spalla che quasi mandò Ace per terra.
«E Marco?» domandai, non vedendolo da nessuna parte.
«Quell’idiota? Non preoccupatevi, è in arrivo» rispose con una faccia strana.
«Ma non vivete…» iniziò a dire Kidd.
«Sotto lo stesso tetto? Si, ma stamattina uno dei nostri fratelli si è sentito male, così lui lo ha accompagnato dal medico» spiegò tranquillo.
Il moro salutò Shachi, con il quale andava molto d’accordo avendo entrambi la stessa età, e si sedette tra me e lui, iniziando a chiacchierare di un sacco di cose e saltando da un argomento all’altro senza una qualche connessione logica. Pazienza, ormai ci avevo fatto l’abitudine al suo modo di esprimersi: aveva, semplicemente, tante cose da dire.
Lo osservai attentamente e fui contento di trovarlo solare, sorridente e rilassato come al solito. Dopo il coma, da quello che avevo sentito dire da alcuni suoi famigliari, era diventato iperattivo e raramente se ne restava fermo e tranquillo, sentendo costantemente il bisogno di fare qualcosa e di non fermarsi mai, ma era contento e in salute, ciò era l’importante.
Non aveva avuto altre ricadute ed era stato uno dei più fortunati tra noi, povere anime dell’ospedale: quando lo avevano dimesso, lo avevano fatto definitivamente.
Certo, lui aveva continuato a far visita a me, fino a quando non mi avevano mandato a casa, e a Kidd.
Soprattutto a Kidd.
Osservai con la coda dell’occhio il ragazzone dai capelli fulvi che stava litigando con il lettore musicale in quel momento, togliendosi le cuffiette che sembravano in procinto di esplodere per il volume troppo alto e spegnendo l’aggeggio in un sottofondo di parolacce e maledizioni. A quanto pareva aveva rischiato di perdere l’udito.
Due anni prima, quando si era ritrovato da solo in reparto, dato che praticamente tutti avevamo ottenuto il permesso di passare la convalescenza a casa, avevo creduto che non ce l’avrebbe fatta. Non che non avesse avuto delle buone possibilità, semplicemente sembrava che avesse smesso di lottare come aveva fatto costantemente per un anno.
E poi un giorno accadde il miracolo: era bastato che Trafalgar Law tornasse in città durante una pausa clandestina dall’università, passando a salutarlo, e Kidd era resuscitato come Lazzaro.
Certo, era diventato anche più scorbutico e irascibile, perché, da quello che mi avevano raccontato due infermieri che avevano avuto la sfortuna di ritrovarsi di turno durante la visita di Law al rosso, l’incontro non era stato affatto dolce e commovente, al contrario. Avevano descritto la cosa come uno scontro fra titani, fatto di urla, bestemmie, insulti e le peggiori minacce di morte che avessero mai udito. Comportamento tipico di entrambi, sarebbe stato strano se nulla di tutto ciò fosse avvenuto.
 
Io non ho finito, non ti lascio ora.
 
«Guarda chi arriva» sentii dire da Ace, il quale aveva un tono parecchio divertito, tanto che mi chiesi il perché, almeno fino a quando non adocchiai Marco avanzare con le mani nelle tasche e la camicia sbottonata sul petto, mentre, accanto a lui, Law si guardava attorno con fare curioso, come se stesse cercando qualcuno. Noi, per l’appunto.
Non feci nemmeno in tempo ad alzare un braccio per avvisarlo della nostra presenza che qualcosa alle mie spalle si mosse velocemente e, l’istante dopo, Ace stava schizzando veloce come una freccia nella sua direzione, riuscendo nell’intento di coglierlo alla sprovvista e rovesciandolo a terra quando gli saltò addosso con tutto il suo peso.
Alla faccia degli abbracci, pensai, scoppiando a ridere assieme a Kidd e facendo svegliare Shachi di soprassalto che si era appisolato sotto al sole.
«Brutto idiota!» iniziò ad inveire il biondo, tentando di spostare Ace che, nel frattempo, si era accomodato a gambe incrociate sopra al suo stomaco tutto ghignante e soddisfatto. «Volevi rompermi l’osso del collo?».
«Oh, quante storie» lo sminuì il più giovane, «Come se potessi farlo». Detto questo lo vidi abbassarsi sul viso di Marco con un sorrisetto malcelato.
Alzai gli occhi al cielo e prestai attenzioni alle lamentele di Shachi, il quale insisteva per sapere cosa si era perso e cercava di sovrastare la mia stazza allungando il collo per riuscire a vedere costa diavolo stessero facendo quei due.
«Che domande! Scopano» disse tranquillamente il rosso con fare malizioso, beccandosi un’occhiata torva da parte mia. C’era modo e modo per dire le cose e lui usava sempre quello medo adatto.
«Almeno Ace non si fa problemi ad esporsi» lo riprese Law, il quale ci aveva raggiunti, ignorando bellamente i due ragazzi che si erano appena sdraiati sulla sabbia.
«Ti piacerebbe dare spettacolo, ammettilo» fece Kidd con malizia.
«Non lo nego. Immagina le facce scandalizzate dei genitori qui attorno» iniziò a dire il neo chirurgo con fare macabro e inquietante.
«E l’infanzia rovinata dei loro bimbi» concluse il rosso per lui. Poi, sorridendosi con fare poco innocente, si scambiarono un’occhiata complice che mi diede ad intendere che non sarebbe seguito nulla di buono.
Sospirai e piazzai una mano fra i capelli del piccoletto, ricacciandolo al suo posto e spiegandogli con qualche giro di parole in più che stavano facendo i piccioncini romantici.
«Bleah!» mormorò con una faccia schifata, sistemandosi gli occhiali e voltandosi a guardare altrove, deciso a non voler assistere a scene del genere.
Quel comportamento mi lasciò un po’ perplesso, tanto che mi ritrovai per la prima volta a chiedermi il perché di quella reazione. Insomma, la cosa aveva un che di divertente, a parte l’imbarazzo per i nostri amici che non perdevano mai un momento per infilarsi reciprocamente la lingua in bocca. Vederli era normale, quindi: o il ragazzino era esageratamente timido, o la sua era tutta una finta, esattamente come facevano i bambini da piccoli quando vedevano gli adulti abbracciarsi.
«Shachi?» lo richiamai, ritrovandomi poco dopo i suoi occhi curiosi che mi fissavano al di sotto delle lenti scure.
«Che c’è?».
«Faresti lo schizzinoso se qualcuno ti baciasse?».
Sbatté le palpebre e mi guardò interdetto per qualche istante, lasciando poi che sulle sue labbra spuntasse un ghigno degno di nota quasi quanto quelli subdoli di Eustass Kidd.
«Chi lo sa» rispose vago, poggiando i gomiti sull’asciugamano e sollevando il busto con disinvoltura e guardando il mare.
Scossi il capo, lasciando perdere l’argomento. Sapevo che, se avessi continuato, non avrebbe fatto altro che rispondere in modo fastidiosamente malizioso e con una faccia da schiaffi con quegli occhiali che celavano la furbizia che spesso gli leggevo negli occhi.
«Tu se vuoi provarci fa pure» disse ad un tratto, cogliendomi impreparato e zittendo nello stesso istante pure il mio migliore amico, il quale era sembrato sul punto di dire qualcosa, «Magari sei fortunato».
Kidd restò a bocca aperta per circa dieci secondi prima di scoppiare a ridere fragorosamente, rotolandosi sull’asciugamano a faccia in giù per trattenersi almeno un poco, seguito a ruota da Shachi che, imitandolo e venendomi addosso, non sembrava essersi mai divertito così tanto. Law si finse al di sopra di quelle scemenze, ma non mi sfuggì il sorriso che gli si modellò sulle labbra di fronte a quella scena.
Sbuffai esasperato. «Tu hai qualche problema, te lo dico io».
Tutto sommato avevo delle cicatrici, vero, e le portavo ancora con me, solo che, a volte, le dimenticavo.
 
Io non ho… Finito.
 
The Fucking End.

 

 

 

 

 

 

 

Angolo Autrice.
Buonasera a tutti! Insomma, è con immensa gioia e piacere e biscotti al cioccolato che annuncio la fine di questa fiction per la quale ho dato di matto l maggior parte del tempo. da notare la mia bravura: l’ho iniziata di lunedì e l’ho terminata di lunedì, non so se rendo. Dai, un po’ di applausi me li merito, su.
Scherzi a parte, credo di dovermi meritare solo pomodori, ma va bene, tralasciamo.
Prima di passare alle note finali voglio scusarmi ancora per l’immenso ritardo. Un’estate di silenzio, che vergogna, ma, come ho ribadito nelle varie altre pubblicazioni, il lavoro mi ha tolto un sacco di tempo e di energie e l’ultimo capitolo è rimasto in cantiere per molto. Due giorni fa, però, mi sono detta che dovevo ASSOLUTAMENTE terminarlo, così mi sono messa di impegno e, beh, spero di non aver deluso le aspettative di nessuno. Ad ogni modo, vi prego di perdonarmi e portare pazienza, e ancora mille scuse.
Dunque, eccome come tutto è bene quel che finisce bene, si dice così no? Ace e Marco, Kidd e Law e Killer. Vorrei tanto dire Killer e Shachi, ma il finale ho preferito lasciarlo un po’ nell’ambiguità. Chi vuole si può immaginare un futuro tra i due, chi li preferisce come amici se li tiene come sono, dato che avevo letto alcuni commenti a riguardo nelle recensioni. Non so voi, ma a me è parsa la scelta migliore per concludere tutto.
Killer ha le sue ferite e cicatrici che si porterà sempre appresso ma, ehi, come dice anche lui, la vita va avanti, nel bene e nel male, e lui ha trovato le persone giuste con cui condividere gioie e dolori.
Ace, la mia ossessione, lo giuro, è tornato ad essere lo scoppiettante ragazzo di sempre, super sexy e meraviglioso, lasciatemelo dire. Anche lui, nonostante i problemini iniziali, sembra scoppiare di salute e di entusiasmo, basti guardare come scatta per stendere il povero Marco. non sembra comunque dispiacergli di venire buttato di peso sulla sabbia, comunque, mlmlml ^^
Io non ho resistito a fare la sviolinata tra i due alla fine della storia, insomma, ce la dovevo mettere per forza, dovevo risollevare l’opinione pubblica del biondo e renderlo una specie di santo, mentre Ace doveva ritrovare il buonumore e un morivo per sorridere e, beh, ecco, ci stava secondo me. Vabbé, poco importa che siano la mia OTP e che li adoro alla follia, non sono stata di parte, proprio no…
Andiamo avanti.
Aperta parentesi: la frase finale ‘E c’era Marco. E c’ero io.’ l’ho presa dal finale del libro ‘Io non ho paura’ che consiglio a tutti, bellissimo.
E poi c’è Kidd. E poi c’è Law. Insomma, non so più cosa dire di questi due. Assieme credo che siano una cosa assolutamente perfetta, senza se e senza ma. Sono fatti l’uno per l’altro e quando si vogliono ammazzate smatto. Kidd credeva di essere stato abbandonato, povero, invece no! Trafalgar non lo aveva dimenticato, come avrebbe potuto, e alla fine ha colto la prima occasione per tornare da lui e adesso possono stare assieme, awawawawa **
Malintesi e lettere non lette a parte, si è risolto tutto per il meglio. Kidd alla fine è stato dimesso ed è nuovo di zecca, così Law potrà strapazzarlo quando vuole, io di certo non mi lamento.
Che altro dire, non saprei proprio. Sono felice di aver concluso questo racconto perché ci tenevo davvero tanto e, anche se è stato un calvario, ora posso davvero mettere un punto e la parola fine.
Un po’ mi dispiace, ma credo sia normale ;_____________;
Vi lascio qualche immagine per concludere in bellezza :3
Iniziamo da Kidd e Law che non si vedevano da taaaaaaanto:
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Poi Ace che arriva tutto tranquillo in spiaggia:
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E arriva anche Traffy, non dimentichiamocelo:
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E passeranno una bella giornata:
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Tutti assieme per manina:
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Concludendo con Shachi curioso che vuole vedere cosa combinano i ragazzi:
https://fbcdn-sphotos-b-a.akamaihd.net/hphotos-ak-xap1/v/t1.0-9/p526x296/10245280_674305985980281_5058904685773069015_n.jpg?oh=1a33b1d4b01cfc83704c5347986441eb&oe=5490CB7B&__gda__=1418408485_495b64504b580c2995f28cac932dc645
E adesso mi pare giusto RINGRAZIARE TUTTI.
Ringrazio Okami D Anima, KillerxPenguen_93,TKJolly, FlameOfLife, _Rouge (mia adorata), FemPhoe, An11na, Ikki, callas d snape, I_S_Acquamarine, Crazy demon e Incantatrice_Violeta per le splendide recensioni che mi avete lasciato e per avermi fatta sorridere e sentire apprezzata, davvero. Siete state tutte gentilissime, dalla prima all’ultima, e, anche se non ho sempre potuto rispondere, sappiate che ho tutto nella mia mente e che avete contato molto per me. Perciò grazie ancora, un abbraccione a tutte.
Ringrazio in particolar modo tutti i lettori silenziosi e tutti coloro che hanno iniziato, continuato, abbandonato, o pazientato per vedere la fine di tutto questo. Grazie mille per tutto, nessuno escluso.
 
Ora scusate per le smancerie, ma voglio prendermi, ora, un angolino per ringraziare una ragazza speciale solo per la pazienza che ha portato, e che sta portando, nel seguirmi e nel recensirmi nonostante io sia diventata un fantasma.
EmmaStarr.
Grazie di cuore. Grazie per tutto, ma aspetta che IO NON HO FINITO.
In una delle tue recensioni mi hai detto che, leggendo questa fic, hai iniziato a seguire anche Braccialetti Rossi. Mi hai detto che la canzone e la serie ti sono piaciuto un sacco, che hai adorato Kidd e Law e, beh, mi hai pregato per avere l’ultimo capitolo proprio stasera ed io guarda cosa sto facendo. Lo sto pubblicando proprio ora e voglio solo dire, o annunciare, una cosa.
Dedico tutta questa long a te, bellezza.
Spero basti per scusarmi della mia assenza e per ringraziarti di tutti i commenti, i consigli e i complimenti non meritati che mi hai lasciato. Mi sembra un bel modo per dimostrarti che ho apprezzato tutto tantissimo, sempre.
Quindi Grazie Infinite, per davvero.
Okay? Okay.
 
Bene signori, siamo alla fine e io spero di aver soddisfatto tutte le aspettative e di non aver dimenticato nulla. Per qualsiasi cosa sapete dove trovarmi. LOL, sembra una barzelletta.
Anyway, un dolce e un abbraccio enorme a tutti e GRAZIE ancora per, beh, per tutto quello che fate.
Spero di riuscire a finire presto ‘It’s alla about you’ e per ‘Portuguese D. Ace’ abbiate fede che la porterò avanti, con calma,  A QUALSIASI COSTO, I promise.
E insomma, a presto. Mi sento male, davvero.
 
Vi voglio bene, penso di doverlo dire.
See ya,
Ace.
 
  
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