Capitolo
3
Ho
chiesto a Matteo di uscire anche stasera: solito pub, solito amico. Quando mi
ha chiesto il motivo di tanta urgenza ho preferito sorvolare, riassumendo il
tutto con un semplice «Ti spiego tutto stasera». E so che quando si tratta di Sofia
non è facile nemmeno cominciare il discorso, sputar fuori le parole. Il
riflesso che lo specchio mi rimanda indietro mi fa riflettere. Forse, per colpa
della mia indole di sognatore ad occhi aperti, forse per il gioco che avevo
inventato da piccolo, proprio davanti allo specchio. Mi vestivo, mi pettinavo i
capelli e poi, nei cinque minuti che mi rimanevano, improvvisavo smorfie per
ogni occasione: un bel sorriso per ringraziare dopo un complimento, una lacrima
per un livido scoperto dopo mesi, un urlo di protesta. Quando raccontavo a mia
madre di questo mio gioco lei mi prendeva in giro, diceva che sarei diventato
un attore ottimo da grande. Quello che non immaginava era che quella mia
abitudine non voleva trasformarsi in lavoro. Che da quelle mie smorfie sarebbe
derivata l’attitudine a fingere, a scappare dalle emozioni vere per rifugiarmi
in un mondo composto da sorrisi e pianti fittizi. E adesso, una dozzina di anni
dopo, mi limito a guardarmi, a studiare il mio riflesso come se non mi
appartenesse. I capelli biondo chiaro non ne vogliono sapere di prendere la
forma che vorrei dare loro, stanno spettinati come al solito. Gli occhi blu non
se ne stanno fermi un attimo, incapaci di fissarsi su un punto solo. Un po’
come me: in bilico. Penso a Matteo, intento ad aspettarmi con la sua nuova
macchina sotto casa, l’orologio in mano quasi a cronometrare il mio ritardo
perenne. Mi scopro a sorridere senza sforzo. Perché le cose che ti piacciono
non le vuoi far aspettare nemmeno un minuto. Arrivi in anticipo per fare uno
sgambetto all’attesa, alla paranoia. Regali sorrisi come fossero fiori, senza
che farlo ti pesi. Perché quando sei felice e lo sei con qualcuno, senti che
niente può andare storto.
Prendo
le chiavi di casa e il portafoglio, con la mano libera accarezzo al volo Alice,
come a ricordarle che nemmeno con tutta la fretta del mondo la dimenticherei.
Mia madre, nel salutarmi, si raccomanda come fa ogni volta che esco con Matteo.
Nonostante lo conosca dalla nascita, il suo modo di divertirsi e di farmi divertire
con lui non l’ha mai attirata più di tanto. Ma piuttosto che vedermi sorridere,
che non farebbe? Mi bacia sulla fronte, lasciando una microscopica impronta che
mi rimane impressa sulla pelle, come quando ero un bambino. Mi dice di non bere
tanto, che stavolta tocca a me guidare al ritorno. Come se cambiasse qualcosa.
Se le cose brutte arrivano, non si fermano certo per bussare ed avvisare.
Arrivano e basta, spazzano via tutto, senza lasciare campo libero. Ma cosa
potrebbe mai capitarci?
La
macchina sportiva di Matteo, scura come la notte, spicca nella sua
brillantezza. Matteo, dal canto suo, se ne sta al posto del conducente con
l’aria fiera di chi sta per guidare per città intere senza nemmeno
accorgersene. Da quando i suoi gli hanno regalato la macchina, la usa anche
solo per fare cento metri. Per sfoggiarla. Non nel senso più negativo del
termine. Come chi vuol far vedere a tutti qualcosa che ha tanto desiderato e
che ha ottenuto. D’altra parte io, quando vedo quella lucentezza blu cobalto,
vedo solo una macchina. Un volante, quattro ruote e una bella carrozzeria. Un
bel colore scuro. Mi siedo al posto del passeggero inizialmente senza troppo
trasporto, aprendomi in un sorriso alla vista del sorriso di Matteo che, con
una naturalezza totalmente dettata dall’abitudine, mi regala uno dei suoi
abbracci veloci, caldi e spaventosi come la scossa. La radio passa una canzone
che non conosciamo, ma che ci sforziamo di cantare. Io e Matteo siamo così:
sempre intenti in quello che non sappiamo fare. E a cosa può mai servire la
radio, quando c’è il suono della sua voce a farmi compagnia? Cosa saranno mai
le parole di uno sconosciuto, se messe in confronto con le sue, con quei gesti
che ci scambiamo inconsapevolmente da anni? Piccolezze, dettagli stupidi.
«Cos’è
tutta questa voglia di vedermi? Sentivi la mancanza di questo bel visino?» mi
chiede scherzosamente Matteo, indicando il proprio volto con un gesto circolare
della mano, passando qualche secondo di troppo a guardarmi coi suoi occhi
languidi. Uno sguardo che so reggere senza far trapelare nulla.
«Quanto sei stupido! Devo parlarti di una cosa
senza avere Elena tra i piedi, tutto qui.» Sfogo il mio risentimento senza
trattenermi, senza paura di sbagliare.
«Ehi,
piano con le parole! È pur sempre la mia ragazza.» mi riprende lui.
O
forse mi sbagliavo. «Va bene, scusa. Possiamo semplicemente non nominarla per
una sera?»
«Questo
lo decidi tu, sei tu che trovi sempre un pretesto per parlarne.» ribatte
polemico. Gli do una piccola pacca sulla spalla, come a ricordare che questa è
la nostra serata, che non sarà lo spettro di Elena, abbinato a qualche cocktail
particolarmente forte che Matteo non saprà reggere, a rovinare tutto come
sempre. Non può essere presente anche non essendoci fisicamente.
«Ma
di chi mi devi parlare stasera?» Il tono della domanda di Matteo non mi
stupisce: la sua curiosità è leggendaria.
«E
chi ha mai detto che si tratta di una persona?» replico io, sulla difensiva.
«Fammi
indovinare. Scontroso, non vuoi dire di chi si vuol parlare, hai detto di avere
molto bisogno di parlarmi, quando sappiamo entrambi che ci siamo visti ieri… Sofia!»
Maschero
il mio sguardo preoccupato con una risata che smorza un po’ la tensione. È
inutile cercare di nascondergli qualcosa: basta un’occhiata storta, una risposta
con un tono diverso dal solito o anche solo una richiesta apparentemente
banale. Potrei mentire a me stesso senza nemmeno accorgermene. Ma quando si
tratta di lui, fingere diventa un’impresa ardua. Anche con tutte le smorfie
davanti allo specchio del mondo.
«Adesso
mi spieghi come hai fatto.»
«Semplice,
ti conosco troppo bene. Dai, scendi, Innamorato, che siamo arrivati.» Sospiro,
sento il cuore più leggero. Una preoccupazione in meno, un nodo in meno da
sciogliere. Il rapporto che si è creato tra noi è complementare, e mi fa star
tranquillo. Il locale che frequentiamo è lo stesso da un paio d’anni, da quando
ci permettono di star fuori fino a tardi senza doverci chiamare ogni quarto
d’ora. Da qualche tempo ci siamo creati una tradizione da seguire: quando
qualcosa non va, o c’è qualcosa di importante da dire, ci troviamo sempre qua.
Il proprietario del locale, un ragazzo che avrà qualche anno più di noi, ci
saluta con un cenno della mano accompagnato da un sorriso radioso, chiedendo ad
una cameriera di portarci al nostro tavolo. Proprio nell’angolo del locale,
appena sotto la luce al neon bianca che rende tutto un po’ opaco e ruvido, con
la cassa della musica non troppo vicina, abbastanza lontana da non perdere un
timpano ogni volta che ci dobbiamo parlare.
Il
locale, piccolo anche se sempre stracolmo di persone, è diventato il nostro
rifugio. «Cosa vi porto, ragazzi?» chiede la ragazza, ammiccando in direzione
di Matteo.
«Fai
tu, ci fidiamo!» risponde Matteo, facendole un occhiolino che la fa sorridere.
La cameriera, su di giri per quella piccola conquista, se ne va via quasi
correndo a passi piccolissimi, volando sui tacchi alti come fosse a piedi nudi.
Matteo, dal canto suo, ride.
«Non
ti basta Elena, eh?»
«Come
sei esagerato, Edo! Ho solo trovato un modo per avere uno sconticino.» Nella
sua leggerezza, anche solo giudicarlo male mi è impossibile. Matteo saluta con
un’occhiata eloquente la cameriera che, ancora più velocemente di qualche
minuto fa, è già di ritorno con le nostre ordinazioni, traballanti sul vassoio.
Qualche lamentela si leva dai tavoli in fondo, scontenti di quel servizio così
repentino.
«La
prossima volta provo anch’io a rimorchiarti, magari sei più veloce!» grida
qualcuno. La ragazza, troppo impegnata a perdersi nel sorriso brillante di
Matteo, che sembra avere occhi solo per lei per quel momento interminabile, non
sembra accorgersi delle lamentele e ci serve i drink come se nulla fosse.
«Sei
stata gentilissima, grazie! Adesso puoi andare.» la liquido io. Il mio tono non
particolarmente accogliente la spinge ad allontanarsi atterrita. Matteo mi
ammonisce con lo sguardo prima di riprendere la parola.
«Dimmi che è successo con Sofia, dai.»
Prendo
fiato, come se qualche boccata d’aria non basti quando si parla di lei, dello
sguardo triste che aveva appena qualche giorno fa al parco, delle lacrime
grandi e chiare. Mi schiarisco la voce e prendo coraggio.
Racconto
tutto: del parco, di come ho lasciato avvicinare Alice ad una Sofia
particolarmente triste, della mia paura di farmi vedere. Non tralascio niente,
nemmeno quell’attimo in cui avrei davvero voluto farmi riconoscere da lei e
abbracciarla. Mi perdo, descrivendo la rassegnazione dei suoi gesti, la
stanchezza dei suoi occhi. Non nascondo il rimorso, la paura e la voglia di
poter tornare indietro per cambiare le cose, per trovare quel poco coraggio che
mi avrebbe fatto affrontare la situazione. Matteo si prende un momento per
rispondermi, evita qualsiasi interruzione.
«Hai
avuto paura, Edo. Però non riesco a capire.»
«Figurati
io.» sospiro io, rassegnato.
«Non
capisco perché ti fa quest’effetto. Insomma, sono passati due anni.» Matteo
conficca il suo sguardo interrogativo dritto nel mio, come a voler cercare un
barlume di speranza, una base da cui poter partire per ricominciare.
«Eppure
quei due anni sembrano aver perso importanza. O almeno, questo è quello che ho
provato oggi.»
«Stiamo parlando degli stessi due anni in cui
avevi promesso di aspettarla e di capirla, mentre lei stava chissà dove a
spassarsela?» mi chiede con una punta di sarcasmo Matteo, avvicinandosi il
bicchiere alla bocca, bevendo una bella sorsata di un drink che non riconosco.
Cerco di ripensare a quei due anni, tentando
di trovarci qualcosa di positivo da poter schierare a favore di Sofia. Mi
accorgo di non avere niente da cercare subito dopo.
«In
effetti, non sono stati due anni facili, quelli.» ammetto.
«Mi prendi in giro? Avevi la voglia di vivere
di mio nonno! Ti ho scarrozzato da una festa all’altra per settimane e tu avevi
anche il coraggio di tornare a casa dopo un’ora.» Rido
con lui, ricordando il pessimismo di quei giorni, di quelle notti in cui tutte
le ragazze me la facevano ricordare. Quando il sorriso di una sconosciuta me la
riportava alla mente, come se la sua allegria fosse la soluzione a tutti i
nostri problemi. Alla sua fuga improvvisa che, tuttora, non so spiegarmi.
«E
con questo che vorresti dire?»
«Che
Sofia ti destabilizza. Non è la persona che ti offre la mano per rialzarti, ma
è quella che ti butta giù.» sentenzia Matteo, con la sua leggerezza
caratteristica che toglie amarezza un po’ a tutto. E in fondo so quanto ha
ragione.
«Matt,
posso chiederti una cosa?»
«Al
suo servizio, signore!» risponde, compiendo una piccola riverenza scherzosa.
«Cosa dovrei fare? Buttare via il fatto che sia tornata?»
Un
sapore amaro mi secca la gola. Sa di sconfitta.
«Non
ho detto questo. Per una volta, non arrovellarti su Sofia, e pensa ad altro.»
mi esorta Matteo, catapultandomi in una vita diversa, presa per quello che è.
Una vita fatta di momenti e non di preoccupazioni. Come quella di qualsiasi
diciottenne che si rispetti.
«A partire da ora!» esulta lui, lasciando
perdere le parole e passando ai fatti. I suoi occhi marroni brillano di vita,
le luci del locale quasi risplendono in lui, con maggiore intensità di quella
usuale. Tutto, in lui, brilla un po’ di più.
«Che
vuoi fare? Devo ricordarti che sei fidanzato?»
«Scappiamo
per un po’.» dice Matteo, strattonandomi con forza verso l’uscita,
dimenticandosi di pagare il conto.
«Tanto
chi vuoi che se ne accorga?» urla, chissà se a me o al mondo intero. Non ha
mezze misure, Matteo: o tutto o niente, senza sfumature. Senza colori che si
mischiano per crearne di nuovi.
«Dove
hai intenzione di andare? Domani hai anche scuola.»
«Vorrà
dire che domani sarò molto malato!» risponde con aria divertita Matteo,
diventando man mano paonazzo per fingere un colpo di tosse convincente. E con
la media che si ritrova a scuola, da vero ragazzo modello come i suoi hanno
sempre sperato, un giorno in meno tra quelle quattro mura non potrà certo
nuocergli.
Decido
di guidare al posto di Matteo, fin troppo preso dall’idea di una fuga verso
chissà dove, verso un posto troppo lontano perché le ombre possano
raggiungerci. Per evitare impicci, avverto mia madre che stasera dormo da
Matteo, e lui fa lo stesso con la sua. Sento il suo profumo, fresco e frizzante
come il suo modo d’essere, inebriarmi la mente e invadere di prepotenza tutta
la macchina, rendendo le cose più difficili del solito. Ma, si sa, ormai sono
un maestro della finzione. Le stelle sembrano guidarci e, senza metterci
d’accordo, capiamo all’unisono la giusta strada da seguire. Una strada che
odora di salsedine e sabbia fresca che rimane incastrata dappertutto, la strada
verso il mare che tutti hanno dimenticato ormai da settimane. Tutti, tranne noi
due. Le stelle più luminose del cielo. Due ore volano sotto le ruote della
macchina che, come se scorresse sul velluto, prende ogni curva con velocità e
leggerezza, quasi fosse un’appendice improvvisata di ogni mossa tipica di
Matteo. Anche se al volante, tecnicamente, ci sono io. Matteo, dal canto suo,
si limita a cambiare ossessivamente stazione radio, canticchiando sprazzi di
canzoni che conosce e inventandosi nuove parole per quelle che sente per la
prima volta con me, coinvolgendomi nella sua risata chiara quando se ne esce
con una delle sue. Con la sua allegria contagiosa che mi fa dimenticare per un
po’ quanto possa essere ingiusto dover fingere persino con lui.
Solo
quando arriviamo nella prima spiaggia che troviamo sul lungomare capiamo quanto
sia normale pianificare le cose: il cancello chiuso si staglia tra noi e la
spiaggia argentea sotto la luce della luna come fosse un muro di mattoni.
«E
adesso che si fa?» chiedo io, già pronto a dover tornare indietro per nulla.
«E me lo chiedi? Hai due gambe: usale.»
risponde Matteo, senza scomporsi. Come a voler dare il buon esempio sul da
farsi, Matteo si dà la spinta e inizia ad arrampicarsi con maestria sul
cancello che, sotto i suoi piedi agili, sembra scorrere fin troppo facilmente.
I piedi non sbagliano un colpo, le mani sembrano delle ventose per quanto sono
capaci di attaccarsi alla vecchia inferriata senza scivolare mai. Lo sforzo fa
gonfiare i muscoli delle gambe e delle braccia, che pulsano armonici, come in
una danza. La fatica di non guardare come vorrei diventa quasi impossibile da
sostenere. Dopo un attimo di difficoltà, nel momento in cui con una gamba deve
darsi lo slancio per passare dall’altra parte del cancello, Matteo finalmente
si lascia andare con naturalezza, atterrando con una delicatezza quasi
innaturale sulla sabbia umida. «Cosa aspetti? Dai, scavalca, forza!» mi incita
lui, scuotendo il cancello con forza. Dopo un momento di incertezza, la paura
viene vinta dalla voglia di raggiungerlo. Il suo sorriso sembra scintillare a
contrasto con il buio che ci circonda.
Cerco
di imitare le sue mosse, col risultato di un bambino goffo che tenta di seguire
i gesti che il padre vorrebbe insegnargli. Al momento, assomiglio ad una
caricatura di Matteo, coi piedi che non fanno che scivolare e le mani sudaticce
che non aiutano nell’impresa. Matteo non trattiene una risata spontanea,
incitandomi con i suoi «Dai, forza, ci sei quasi, ancora un passo e sei
dall’altra parte» anche se, puntualmente, i passi da fare sono più di uno. Mi
concentro sul suono della sua voce, invitante, e mi lascio cadere sulla sabbia,
trovandomi sdraiato per terra senza sapere come ci sono arrivato. Non faccio in
tempo a rialzarmi che Matteo subito mi riempie di sabbia, senza ascoltare le
mie lamentele che, mucchietto dopo mucchietto, si fanno sempre più deboli, fino
ad arrendermi alla sua voglia di giocare come bambini. Quando sento la sabbia
finirmi sotto la maglietta, mi alzo con uno scatto, spingendo Matteo per terra
e afferrandolo per i piedi.
«Ora ti faccio vedere cosa succede a riempirmi
di sabbia!» urlo io, privo di qualsiasi inibizione, come se al mondo ci fossimo
solo noi due. Faccio finta di non sentire le suppliche di Matteo che, pur di
non essere buttato di peso in mare, cerca di far forza sulla sabbia
sottostante, aggrappandosi ai granelli con tutta la forza che gli rimane e
creando così dei piccoli solchi in corrispondenza delle sue mani. Quando si
arrende, la sua risata chiara si mescola con la mia, mi riporta a quando nessun
problema sarebbe mai stato in grado di allontanarci. Quando non c’erano
ragazze, quando per descrivere la nostra amicizia bastava una parola: semplice.
E mentre il vento pigro di inizio settembre ci scompiglia i capelli, sento che
l’amore che mi lega a lui non renderà mai più possibile descriverci come
semplici. Perché l’amore tutto può essere tranne che semplice. Io lo so bene.
La
sabbia sotto i nostri piedi si fa sempre più umidiccia, i piedi, a stento
dentro le scarpe, affondano senza troppe difficoltà mentre le onde si
increspano dietro di noi. Matteo, ormai disteso in tutta comodità, si lascia
buttare in acqua senza opporre più resistenza, alzandosi improvvisamente quando
entra in contatto con l’acqua gelida e trascinandomi dietro di lui. Finiamo
dentro l’acqua con facilità, le onde ci fanno mancare la terra sotto ai piedi.
L’acqua gelida ci fa rabbrividire, sento i vestiti diventare sempre più
aderenti. Troppo infreddolito, seguo Matteo che, prima di me, è già uscito
dall’acqua. Rimpiango i vestiti asciutti di pochi minuti fa, quando sento un
rivolo di vento notturno alzarmi appena la maglia, ormai attaccata alla pelle
per la troppa acqua. Mi volto appena e, nel buio, incontro lo sguardo
sofferente di Matteo, le braccia di entrambi si ricoprono ben presto di brividi
di freddo, evidenziandone la fisionomia: forti e muscolose quanto basta le sue,
magre e del tutto inconsistenti le mie. E lo so io cosa ci vorrebbe per dare un
po’ di calore alle mie braccia mingherline. Mi avvicino a Matteo, disteso sulla
sabbia, i granelli attaccati ai vestiti fradici. Gli occhi rivolti verso le
stelle, i pensieri che volano verso il cielo fino a dissolversi, rinascendo un
attimo prima di scomparire per poi tornare alla mente. Strofino le mani una
contro l’altra per scaldarmi appena, ottenendo scarsi risultati.
Mi sdraio accanto a Matteo, appoggiando la
testa sulla sabbia fresca, morbida come il cuscino che mi aspetta a casa.
«Ci voleva una serata così.» butto lì, per
spezzare il silenzio. Perché se c’è una cosa che amo fare è riempire le pause
silenziose di parole, qualunque esse siano. «Decisamente. Fa bene scappare via,
ogni tanto. Dovremmo farlo più spesso» risponde lui, spostando il suo sguardo
dalle stelle a me, la stanchezza di queste ore passate insieme che non lo
sfiora neanche. Mi costringo a tenere gli occhi aperti, e godo di questo
momento così nostro.
«Ma
a volte non basta scappare via. Dio, è tutto così complicato una volta tornati
a casa. Vorrei solo che le cose fossero semplici.»
«Ti
riferisci a Sofia? È più facile di quanto tu non creda.» La voce secca di
Matteo scuote ogni mio proposito.
«Come
fai a dirlo?» domando io, incuriosito.
«Se
ami qualcuno, niente è davvero difficile. Lo sai e basta, anche se fai di tutto
per non ammetterlo. E poi, i tuoi occhi parlano.» aggiunge Matteo, con un
sospiro rumoroso che gli dona un’aria pensierosa, riflessiva, diametralmente
opposta al suo modo d’essere.
«I
miei occhi?»
«Per
chi ti conosce, si vede se a qualcuno ci tieni. Basta guardarti negli occhi.
Quelli non mentono mai, sono una specie di garanzia. Tu la ami, si vede anche
al buio. E se me ne sono accorto io, dovresti farlo anche tu.»
Matteo
sbadiglia, improvvisamente pieno di sonno. Si alza, facendo forza sui gomiti, e
mi avverte che, se voglio, lo trovo in macchina a dormire. Annuisco,
inventandomi qualcosa pur di rimanere solo per un po’. È questo che succede a
chi vive di bugie come me: prima o poi, una di esse ti intrappola, fino a
convincere anche chi ti circonda. Spazza via tutto, fin quando non rimane
nulla. Arriva il momento in cui l’amore per una persona è ingabbiato in
quell’immensa finzione.
«Si
vede anche al buio. Tu la ami.»
Le lacrime scendono sulle guancie e fanno
quasi male, perché sanno di verità. E con Matteo a pochi metri, basterebbe così
poco.
«Per
una volta ti sei sbagliato, Matt. Non è Sofia che amo.» dico ad alta voce tra
me e me, quasi provando un discorso imparato a memoria, privo di sentimenti.
«E
chi, allora?»
Matteo non è più in macchina. È dietro di me e
aspetta una risposta.