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Autore: Emera96    09/09/2014    6 recensioni
Come si spiega un bacio su cui ti sei soffermato a fantasticare così tante volte da non riuscire più a tenere il conto? Come descrivi il rumore dei tuoi pensieri che, come in tilt, non smettono di rimbalzare da un angolo all’altro della tua testa, piccole molle alticce perse in un respiro lieve?
Le labbra di Matteo, seppur addormentate e socchiuse in un piccolo cerchio perfetto, sembrano ricambiare l’errore che non sa fermarsi, un errore di cui potrò darmi la colpa e il merito finché la memoria me lo consentirà. Il fuoco che stava per spegnersi sembra bruciarci fino alla morte, quando il mio corpo si appoggia con leggerezza al suo, in un accostamento che va oltre al dormire col proprio amico, che assomiglia più a quello che, di solito, Matteo fa con Elena. Le mie labbra, avide di un piacere succoso, divorano con dolcezza la stanchezza alcolica di Matteo, la sua calma che non riesce a placare la mia insistenza. Il suo sonno che arriva solo a risvegliarmi.
Il nostro, il mio bacio dolce sancisce una promessa fatta a me stesso, una promessa che non sono mai stato capace di mantenere: niente più dolore.
Genere: Drammatico, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Slash
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale/vago, Scolastico
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Capitolo 3

 

                              

Ho chiesto a Matteo di uscire anche stasera: solito pub, solito amico. Quando mi ha chiesto il motivo di tanta urgenza ho preferito sorvolare, riassumendo il tutto con un semplice «Ti spiego tutto stasera». E so che quando si tratta di Sofia non è facile nemmeno cominciare il discorso, sputar fuori le parole. Il riflesso che lo specchio mi rimanda indietro mi fa riflettere. Forse, per colpa della mia indole di sognatore ad occhi aperti, forse per il gioco che avevo inventato da piccolo, proprio davanti allo specchio. Mi vestivo, mi pettinavo i capelli e poi, nei cinque minuti che mi rimanevano, improvvisavo smorfie per ogni occasione: un bel sorriso per ringraziare dopo un complimento, una lacrima per un livido scoperto dopo mesi, un urlo di protesta. Quando raccontavo a mia madre di questo mio gioco lei mi prendeva in giro, diceva che sarei diventato un attore ottimo da grande. Quello che non immaginava era che quella mia abitudine non voleva trasformarsi in lavoro. Che da quelle mie smorfie sarebbe derivata l’attitudine a fingere, a scappare dalle emozioni vere per rifugiarmi in un mondo composto da sorrisi e pianti fittizi. E adesso, una dozzina di anni dopo, mi limito a guardarmi, a studiare il mio riflesso come se non mi appartenesse. I capelli biondo chiaro non ne vogliono sapere di prendere la forma che vorrei dare loro, stanno spettinati come al solito. Gli occhi blu non se ne stanno fermi un attimo, incapaci di fissarsi su un punto solo. Un po’ come me: in bilico. Penso a Matteo, intento ad aspettarmi con la sua nuova macchina sotto casa, l’orologio in mano quasi a cronometrare il mio ritardo perenne. Mi scopro a sorridere senza sforzo. Perché le cose che ti piacciono non le vuoi far aspettare nemmeno un minuto. Arrivi in anticipo per fare uno sgambetto all’attesa, alla paranoia. Regali sorrisi come fossero fiori, senza che farlo ti pesi. Perché quando sei felice e lo sei con qualcuno, senti che niente può andare storto.

Prendo le chiavi di casa e il portafoglio, con la mano libera accarezzo al volo Alice, come a ricordarle che nemmeno con tutta la fretta del mondo la dimenticherei. Mia madre, nel salutarmi, si raccomanda come fa ogni volta che esco con Matteo. Nonostante lo conosca dalla nascita, il suo modo di divertirsi e di farmi divertire con lui non l’ha mai attirata più di tanto. Ma piuttosto che vedermi sorridere, che non farebbe? Mi bacia sulla fronte, lasciando una microscopica impronta che mi rimane impressa sulla pelle, come quando ero un bambino. Mi dice di non bere tanto, che stavolta tocca a me guidare al ritorno. Come se cambiasse qualcosa. Se le cose brutte arrivano, non si fermano certo per bussare ed avvisare. Arrivano e basta, spazzano via tutto, senza lasciare campo libero. Ma cosa potrebbe mai capitarci?

La macchina sportiva di Matteo, scura come la notte, spicca nella sua brillantezza. Matteo, dal canto suo, se ne sta al posto del conducente con l’aria fiera di chi sta per guidare per città intere senza nemmeno accorgersene. Da quando i suoi gli hanno regalato la macchina, la usa anche solo per fare cento metri. Per sfoggiarla. Non nel senso più negativo del termine. Come chi vuol far vedere a tutti qualcosa che ha tanto desiderato e che ha ottenuto. D’altra parte io, quando vedo quella lucentezza blu cobalto, vedo solo una macchina. Un volante, quattro ruote e una bella carrozzeria. Un bel colore scuro. Mi siedo al posto del passeggero inizialmente senza troppo trasporto, aprendomi in un sorriso alla vista del sorriso di Matteo che, con una naturalezza totalmente dettata dall’abitudine, mi regala uno dei suoi abbracci veloci, caldi e spaventosi come la scossa. La radio passa una canzone che non conosciamo, ma che ci sforziamo di cantare. Io e Matteo siamo così: sempre intenti in quello che non sappiamo fare. E a cosa può mai servire la radio, quando c’è il suono della sua voce a farmi compagnia? Cosa saranno mai le parole di uno sconosciuto, se messe in confronto con le sue, con quei gesti che ci scambiamo inconsapevolmente da anni? Piccolezze, dettagli stupidi.

«Cos’è tutta questa voglia di vedermi? Sentivi la mancanza di questo bel visino?» mi chiede scherzosamente Matteo, indicando il proprio volto con un gesto circolare della mano, passando qualche secondo di troppo a guardarmi coi suoi occhi languidi. Uno sguardo che so reggere senza far trapelare nulla.

 «Quanto sei stupido! Devo parlarti di una cosa senza avere Elena tra i piedi, tutto qui.» Sfogo il mio risentimento senza trattenermi, senza paura di sbagliare.

«Ehi, piano con le parole! È pur sempre la mia ragazza.» mi riprende lui.

O forse mi sbagliavo. «Va bene, scusa. Possiamo semplicemente non nominarla per una sera?»

«Questo lo decidi tu, sei tu che trovi sempre un pretesto per parlarne.» ribatte polemico. Gli do una piccola pacca sulla spalla, come a ricordare che questa è la nostra serata, che non sarà lo spettro di Elena, abbinato a qualche cocktail particolarmente forte che Matteo non saprà reggere, a rovinare tutto come sempre. Non può essere presente anche non essendoci fisicamente.

«Ma di chi mi devi parlare stasera?» Il tono della domanda di Matteo non mi stupisce: la sua curiosità è leggendaria.

«E chi ha mai detto che si tratta di una persona?» replico io, sulla difensiva.

«Fammi indovinare. Scontroso, non vuoi dire di chi si vuol parlare, hai detto di avere molto bisogno di parlarmi, quando sappiamo entrambi che ci siamo visti ieri… Sofia!»

Maschero il mio sguardo preoccupato con una risata che smorza un po’ la tensione. È inutile cercare di nascondergli qualcosa: basta un’occhiata storta, una risposta con un tono diverso dal solito o anche solo una richiesta apparentemente banale. Potrei mentire a me stesso senza nemmeno accorgermene. Ma quando si tratta di lui, fingere diventa un’impresa ardua. Anche con tutte le smorfie davanti allo specchio del mondo.

«Adesso mi spieghi come hai fatto.»

«Semplice, ti conosco troppo bene. Dai, scendi, Innamorato, che siamo arrivati.» Sospiro, sento il cuore più leggero. Una preoccupazione in meno, un nodo in meno da sciogliere. Il rapporto che si è creato tra noi è complementare, e mi fa star tranquillo. Il locale che frequentiamo è lo stesso da un paio d’anni, da quando ci permettono di star fuori fino a tardi senza doverci chiamare ogni quarto d’ora. Da qualche tempo ci siamo creati una tradizione da seguire: quando qualcosa non va, o c’è qualcosa di importante da dire, ci troviamo sempre qua. Il proprietario del locale, un ragazzo che avrà qualche anno più di noi, ci saluta con un cenno della mano accompagnato da un sorriso radioso, chiedendo ad una cameriera di portarci al nostro tavolo. Proprio nell’angolo del locale, appena sotto la luce al neon bianca che rende tutto un po’ opaco e ruvido, con la cassa della musica non troppo vicina, abbastanza lontana da non perdere un timpano ogni volta che ci dobbiamo parlare.

Il locale, piccolo anche se sempre stracolmo di persone, è diventato il nostro rifugio. «Cosa vi porto, ragazzi?» chiede la ragazza, ammiccando in direzione di Matteo.

«Fai tu, ci fidiamo!» risponde Matteo, facendole un occhiolino che la fa sorridere. La cameriera, su di giri per quella piccola conquista, se ne va via quasi correndo a passi piccolissimi, volando sui tacchi alti come fosse a piedi nudi. Matteo, dal canto suo, ride.

«Non ti basta Elena, eh?»

«Come sei esagerato, Edo! Ho solo trovato un modo per avere uno sconticino.» Nella sua leggerezza, anche solo giudicarlo male mi è impossibile. Matteo saluta con un’occhiata eloquente la cameriera che, ancora più velocemente di qualche minuto fa, è già di ritorno con le nostre ordinazioni, traballanti sul vassoio. Qualche lamentela si leva dai tavoli in fondo, scontenti di quel servizio così repentino.

«La prossima volta provo anch’io a rimorchiarti, magari sei più veloce!» grida qualcuno. La ragazza, troppo impegnata a perdersi nel sorriso brillante di Matteo, che sembra avere occhi solo per lei per quel momento interminabile, non sembra accorgersi delle lamentele e ci serve i drink come se nulla fosse.

«Sei stata gentilissima, grazie! Adesso puoi andare.» la liquido io. Il mio tono non particolarmente accogliente la spinge ad allontanarsi atterrita. Matteo mi ammonisce con lo sguardo prima di riprendere la parola.

 «Dimmi che è successo con Sofia, dai.»

Prendo fiato, come se qualche boccata d’aria non basti quando si parla di lei, dello sguardo triste che aveva appena qualche giorno fa al parco, delle lacrime grandi e chiare. Mi schiarisco la voce e prendo coraggio.

Racconto tutto: del parco, di come ho lasciato avvicinare Alice ad una Sofia particolarmente triste, della mia paura di farmi vedere. Non tralascio niente, nemmeno quell’attimo in cui avrei davvero voluto farmi riconoscere da lei e abbracciarla. Mi perdo, descrivendo la rassegnazione dei suoi gesti, la stanchezza dei suoi occhi. Non nascondo il rimorso, la paura e la voglia di poter tornare indietro per cambiare le cose, per trovare quel poco coraggio che mi avrebbe fatto affrontare la situazione. Matteo si prende un momento per rispondermi, evita qualsiasi interruzione.

«Hai avuto paura, Edo. Però non riesco a capire.»

«Figurati io.» sospiro io, rassegnato.

«Non capisco perché ti fa quest’effetto. Insomma, sono passati due anni.» Matteo conficca il suo sguardo interrogativo dritto nel mio, come a voler cercare un barlume di speranza, una base da cui poter partire per ricominciare.

«Eppure quei due anni sembrano aver perso importanza. O almeno, questo è quello che ho provato oggi.»

 «Stiamo parlando degli stessi due anni in cui avevi promesso di aspettarla e di capirla, mentre lei stava chissà dove a spassarsela?» mi chiede con una punta di sarcasmo Matteo, avvicinandosi il bicchiere alla bocca, bevendo una bella sorsata di un drink che non riconosco.

 Cerco di ripensare a quei due anni, tentando di trovarci qualcosa di positivo da poter schierare a favore di Sofia. Mi accorgo di non avere niente da cercare subito dopo.

«In effetti, non sono stati due anni facili, quelli.» ammetto.

 «Mi prendi in giro? Avevi la voglia di vivere di mio nonno! Ti ho scarrozzato da una festa all’altra per settimane e tu avevi anche il coraggio di tornare a casa dopo un’ora.»   Rido con lui, ricordando il pessimismo di quei giorni, di quelle notti in cui tutte le ragazze me la facevano ricordare. Quando il sorriso di una sconosciuta me la riportava alla mente, come se la sua allegria fosse la soluzione a tutti i nostri problemi. Alla sua fuga improvvisa che, tuttora, non so spiegarmi.

«E con questo che vorresti dire?»

«Che Sofia ti destabilizza. Non è la persona che ti offre la mano per rialzarti, ma è quella che ti butta giù.» sentenzia Matteo, con la sua leggerezza caratteristica che toglie amarezza un po’ a tutto. E in fondo so quanto ha ragione.

«Matt, posso chiederti una cosa?»

«Al suo servizio, signore!» risponde, compiendo una piccola riverenza scherzosa. «Cosa dovrei fare? Buttare via il fatto che sia tornata?»

Un sapore amaro mi secca la gola. Sa di sconfitta.

«Non ho detto questo. Per una volta, non arrovellarti su Sofia, e pensa ad altro.» mi esorta Matteo, catapultandomi in una vita diversa, presa per quello che è. Una vita fatta di momenti e non di preoccupazioni. Come quella di qualsiasi diciottenne che si rispetti.

 «A partire da ora!» esulta lui, lasciando perdere le parole e passando ai fatti. I suoi occhi marroni brillano di vita, le luci del locale quasi risplendono in lui, con maggiore intensità di quella usuale. Tutto, in lui, brilla un po’ di più.

«Che vuoi fare? Devo ricordarti che sei fidanzato?»

«Scappiamo per un po’.» dice Matteo, strattonandomi con forza verso l’uscita, dimenticandosi di pagare il conto.

«Tanto chi vuoi che se ne accorga?» urla, chissà se a me o al mondo intero. Non ha mezze misure, Matteo: o tutto o niente, senza sfumature. Senza colori che si mischiano per crearne di nuovi.

«Dove hai intenzione di andare? Domani hai anche scuola.»

«Vorrà dire che domani sarò molto malato!» risponde con aria divertita Matteo, diventando man mano paonazzo per fingere un colpo di tosse convincente. E con la media che si ritrova a scuola, da vero ragazzo modello come i suoi hanno sempre sperato, un giorno in meno tra quelle quattro mura non potrà certo nuocergli.

Decido di guidare al posto di Matteo, fin troppo preso dall’idea di una fuga verso chissà dove, verso un posto troppo lontano perché le ombre possano raggiungerci. Per evitare impicci, avverto mia madre che stasera dormo da Matteo, e lui fa lo stesso con la sua. Sento il suo profumo, fresco e frizzante come il suo modo d’essere, inebriarmi la mente e invadere di prepotenza tutta la macchina, rendendo le cose più difficili del solito. Ma, si sa, ormai sono un maestro della finzione. Le stelle sembrano guidarci e, senza metterci d’accordo, capiamo all’unisono la giusta strada da seguire. Una strada che odora di salsedine e sabbia fresca che rimane incastrata dappertutto, la strada verso il mare che tutti hanno dimenticato ormai da settimane. Tutti, tranne noi due. Le stelle più luminose del cielo. Due ore volano sotto le ruote della macchina che, come se scorresse sul velluto, prende ogni curva con velocità e leggerezza, quasi fosse un’appendice improvvisata di ogni mossa tipica di Matteo. Anche se al volante, tecnicamente, ci sono io. Matteo, dal canto suo, si limita a cambiare ossessivamente stazione radio, canticchiando sprazzi di canzoni che conosce e inventandosi nuove parole per quelle che sente per la prima volta con me, coinvolgendomi nella sua risata chiara quando se ne esce con una delle sue. Con la sua allegria contagiosa che mi fa dimenticare per un po’ quanto possa essere ingiusto dover fingere persino con lui.

Solo quando arriviamo nella prima spiaggia che troviamo sul lungomare capiamo quanto sia normale pianificare le cose: il cancello chiuso si staglia tra noi e la spiaggia argentea sotto la luce della luna come fosse un muro di mattoni.

«E adesso che si fa?» chiedo io, già pronto a dover tornare indietro per nulla.

 «E me lo chiedi? Hai due gambe: usale.» risponde Matteo, senza scomporsi. Come a voler dare il buon esempio sul da farsi, Matteo si dà la spinta e inizia ad arrampicarsi con maestria sul cancello che, sotto i suoi piedi agili, sembra scorrere fin troppo facilmente. I piedi non sbagliano un colpo, le mani sembrano delle ventose per quanto sono capaci di attaccarsi alla vecchia inferriata senza scivolare mai. Lo sforzo fa gonfiare i muscoli delle gambe e delle braccia, che pulsano armonici, come in una danza. La fatica di non guardare come vorrei diventa quasi impossibile da sostenere. Dopo un attimo di difficoltà, nel momento in cui con una gamba deve darsi lo slancio per passare dall’altra parte del cancello, Matteo finalmente si lascia andare con naturalezza, atterrando con una delicatezza quasi innaturale sulla sabbia umida. «Cosa aspetti? Dai, scavalca, forza!» mi incita lui, scuotendo il cancello con forza. Dopo un momento di incertezza, la paura viene vinta dalla voglia di raggiungerlo. Il suo sorriso sembra scintillare a contrasto con il buio che ci circonda.

Cerco di imitare le sue mosse, col risultato di un bambino goffo che tenta di seguire i gesti che il padre vorrebbe insegnargli. Al momento, assomiglio ad una caricatura di Matteo, coi piedi che non fanno che scivolare e le mani sudaticce che non aiutano nell’impresa. Matteo non trattiene una risata spontanea, incitandomi con i suoi «Dai, forza, ci sei quasi, ancora un passo e sei dall’altra parte» anche se, puntualmente, i passi da fare sono più di uno. Mi concentro sul suono della sua voce, invitante, e mi lascio cadere sulla sabbia, trovandomi sdraiato per terra senza sapere come ci sono arrivato. Non faccio in tempo a rialzarmi che Matteo subito mi riempie di sabbia, senza ascoltare le mie lamentele che, mucchietto dopo mucchietto, si fanno sempre più deboli, fino ad arrendermi alla sua voglia di giocare come bambini. Quando sento la sabbia finirmi sotto la maglietta, mi alzo con uno scatto, spingendo Matteo per terra e afferrandolo per i piedi.

 «Ora ti faccio vedere cosa succede a riempirmi di sabbia!» urlo io, privo di qualsiasi inibizione, come se al mondo ci fossimo solo noi due. Faccio finta di non sentire le suppliche di Matteo che, pur di non essere buttato di peso in mare, cerca di far forza sulla sabbia sottostante, aggrappandosi ai granelli con tutta la forza che gli rimane e creando così dei piccoli solchi in corrispondenza delle sue mani. Quando si arrende, la sua risata chiara si mescola con la mia, mi riporta a quando nessun problema sarebbe mai stato in grado di allontanarci. Quando non c’erano ragazze, quando per descrivere la nostra amicizia bastava una parola: semplice. E mentre il vento pigro di inizio settembre ci scompiglia i capelli, sento che l’amore che mi lega a lui non renderà mai più possibile descriverci come semplici. Perché l’amore tutto può essere tranne che semplice. Io lo so bene.

La sabbia sotto i nostri piedi si fa sempre più umidiccia, i piedi, a stento dentro le scarpe, affondano senza troppe difficoltà mentre le onde si increspano dietro di noi. Matteo, ormai disteso in tutta comodità, si lascia buttare in acqua senza opporre più resistenza, alzandosi improvvisamente quando entra in contatto con l’acqua gelida e trascinandomi dietro di lui. Finiamo dentro l’acqua con facilità, le onde ci fanno mancare la terra sotto ai piedi. L’acqua gelida ci fa rabbrividire, sento i vestiti diventare sempre più aderenti. Troppo infreddolito, seguo Matteo che, prima di me, è già uscito dall’acqua. Rimpiango i vestiti asciutti di pochi minuti fa, quando sento un rivolo di vento notturno alzarmi appena la maglia, ormai attaccata alla pelle per la troppa acqua. Mi volto appena e, nel buio, incontro lo sguardo sofferente di Matteo, le braccia di entrambi si ricoprono ben presto di brividi di freddo, evidenziandone la fisionomia: forti e muscolose quanto basta le sue, magre e del tutto inconsistenti le mie. E lo so io cosa ci vorrebbe per dare un po’ di calore alle mie braccia mingherline. Mi avvicino a Matteo, disteso sulla sabbia, i granelli attaccati ai vestiti fradici. Gli occhi rivolti verso le stelle, i pensieri che volano verso il cielo fino a dissolversi, rinascendo un attimo prima di scomparire per poi tornare alla mente. Strofino le mani una contro l’altra per scaldarmi appena, ottenendo scarsi risultati.

 Mi sdraio accanto a Matteo, appoggiando la testa sulla sabbia fresca, morbida come il cuscino che mi aspetta a casa.

 «Ci voleva una serata così.» butto lì, per spezzare il silenzio. Perché se c’è una cosa che amo fare è riempire le pause silenziose di parole, qualunque esse siano. «Decisamente. Fa bene scappare via, ogni tanto. Dovremmo farlo più spesso» risponde lui, spostando il suo sguardo dalle stelle a me, la stanchezza di queste ore passate insieme che non lo sfiora neanche. Mi costringo a tenere gli occhi aperti, e godo di questo momento così nostro.

«Ma a volte non basta scappare via. Dio, è tutto così complicato una volta tornati a casa. Vorrei solo che le cose fossero semplici.»

«Ti riferisci a Sofia? È più facile di quanto tu non creda.» La voce secca di Matteo scuote ogni mio proposito.

«Come fai a dirlo?» domando io, incuriosito.

«Se ami qualcuno, niente è davvero difficile. Lo sai e basta, anche se fai di tutto per non ammetterlo. E poi, i tuoi occhi parlano.» aggiunge Matteo, con un sospiro rumoroso che gli dona un’aria pensierosa, riflessiva, diametralmente opposta al suo modo d’essere.

«I miei occhi?»

«Per chi ti conosce, si vede se a qualcuno ci tieni. Basta guardarti negli occhi. Quelli non mentono mai, sono una specie di garanzia. Tu la ami, si vede anche al buio. E se me ne sono accorto io, dovresti farlo anche tu.»

Matteo sbadiglia, improvvisamente pieno di sonno. Si alza, facendo forza sui gomiti, e mi avverte che, se voglio, lo trovo in macchina a dormire. Annuisco, inventandomi qualcosa pur di rimanere solo per un po’. È questo che succede a chi vive di bugie come me: prima o poi, una di esse ti intrappola, fino a convincere anche chi ti circonda. Spazza via tutto, fin quando non rimane nulla. Arriva il momento in cui l’amore per una persona è ingabbiato in quell’immensa finzione.

«Si vede anche al buio. Tu la ami.»

 Le lacrime scendono sulle guancie e fanno quasi male, perché sanno di verità. E con Matteo a pochi metri, basterebbe così poco.

«Per una volta ti sei sbagliato, Matt. Non è Sofia che amo.» dico ad alta voce tra me e me, quasi provando un discorso imparato a memoria, privo di sentimenti.

«E chi, allora?»

 Matteo non è più in macchina. È dietro di me e aspetta una risposta.

 

 

 

   
 
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