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Autore: Francine    10/09/2014    7 recensioni
Da quando c’è lei sei ansioso. Sul chi vive. Coi nervi tesi e le orecchie ben aperte. Se gli occhi ti si spostassero anche dietro la testa ti farebbero un gran favore. Perché con lei nei paraggi, non si sa mai. Potrebbe succedere di tutto. Che un’accetta – quella che usate per tagliare i ceppi, ad esempio – si infili dritta dritta nella tua schiena, ad esempio. O che la pentola dell’acqua – piena fino all’orlo di acqua bollente, chiariamo – ti si rovesci in testa. Per errore, certo. Una disgrazia, una fatalità possono sempre accadere, quando servi Athena. O quando c’è Lei, nei paraggi.
Genere: Commedia, Slice of life | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Scorpion Milo
Note: What if? | Avvertimenti: nessuno
- Questa storia fa parte della serie 'Quando piovono le stelle'
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1.
 
Da quando c’è lei sei ansioso. Sul chi vive. Coi nervi tesi e le orecchie ben aperte. Se gli occhi ti si spostassero anche dietro la testa ti farebbero un gran favore. Perché con lei nei paraggi, non si sa mai. Potrebbe succedere di tutto. Che un’accetta – quella che usate per tagliare i ceppi, ad esempio – si infili dritta dritta nella tua schiena. O che la pentola dell’acqua – piena fino all’orlo di acqua bollente, chiariamo – ti si rovesci in testa. Per errore, certo. Una disgrazia, una fatalità possono sempre accadere, quando servi Athena. O quando c’è Lei, nei paraggi.

Cosa sia venuta a fare laggiù resta un mistero. Un mistero che intendi scoprire, anche se sai che certe pentole è meglio non scoperchiarle, se non si è sicuri di volerne conoscere il contenuto. O di non essere pronti a raccogliere la schiuma che cadrà sul pavimento. Tutta. Fino all’ultima goccia. Anche se quella schiuma può essere radioattiva.
La studi con la coda dell’occhio mentre corregge la postura di una ragazza.  Anche l’ultima volta che l’hai vista è arrivata all’improvviso, sì; ma lì eravate al Santuario. Eravate su un terreno a te congeniale. A casa tua. È apparsa al Tempio dello Scorpione mentre stavi ancora preparando i bagagli e Vassilissa andava avanti e indietro con della biancheria pulita.
Non ti ha cavato gli occhi, non ti ha accusato di averle infilato un ragno sotto le lenzuola, non si è messa ad urlare e strepitare come avevi supposto avrebbe fatto. Come ti aspettavi. E non ti ha nemmeno tolto il saluto – che era l’altra papabile opzione. È entrata con atteggiamento amichevole – niente baci e abbracci; allora sì che ti saresti preoccupato – avete snocciolato i convenevoli del caso – «Come va? Tutto bene?» con quel suo accento impossibile – e poi è andata via, lungo la strada che porta ad Athena. E la tua voce l’ha fermata appena tre passi oltre la porta.

«Dormo all’Undicesima Casa», ha detto quando le hai chiesto dove avrebbe alloggiato. Perché oramai stava scendendo la notte. E non voleva disturbare nessuno tornando indietro. «È solo per una notte», ha aggiunto. Scusandosi, quasi. «Domani torno a casa», ed è su quel a casa che si è fermato il tuo cervello. Perché avresti voluto chiederle se quella dove l’hai trovata fosse davvero la sua casa, o un qualche posto di passaggio. La casa di un’amica in vacanza, magari. Ma lei non te ne ha dato il tempo. «Sei in partenza, vedo», ha detto, osservando le borse accanto alla porta.
Hai annuito. «Sì. Sull’Isola di Andromeda c’è bisogno di una mano. E così…»
«Sull’Isola di Andromeda», ha detto lei. Come assaporando quelle parole. Nemmeno fossero composte da miele e yogurt. «Ok, allora ti lascio ai tuoi preparativi. Buon viaggio», e se n’è andata, stavolta per davvero, su per le scale che conducono alla Nona Casa. Non le hai chiesto a che ora sarebbe partita. O se le sarebbe piaciuto fare un tratto di strada assieme. Fino ad Atene, almeno. Hai solo visto la sua schiena allontanarsi e hai sentito lì, alla base della nuca, farsi strada un piccolo, fastidioso formicolio. Un sesto senso, diciamo. Una sensazione poco rassicurante. E hai velocizzato la partenza. A quella sera stessa. Perché lei ti sembrava tranquilla. Calma. In pace col mondo e con se stessa. Ma se avesse cambiato idea, sapevi che la tua testa sarebbe stata la prima a cadere. E stavolta, ti sei detto, me lo sarei davvero meritato...
 
 
2.
L’Isola di Andromeda è poco più che uno scoglio che si affaccia nel cuore dell’Oceano Indiano. Ti hanno detto di non farti ingannare dal nome esotico e rassicurante, perché l’isolotto è una terra inospitale e selvaggia, con un’escursione termica pazzesca. E pare proprio che quest’ammasso di sassi voglia tenere fede al suo nome a tutti i costi. In fondo, anche questo è addestramento, no? Cosa pensano, le nuove reclute? Di andare in villeggiatura?, ti sei detto posando i bagagli sul letto – sulla brandina – che hanno messo a disposizione per te. Ti hanno dato la stanza che era di Cefeo, all’interno di una casupola bianchissima, al centro del campo d’addestramento. Perché tu avresti preso il suo posto come loro nuovo maestro, anche se solo per un trimestre abbondante o poco più. È una questione di gentilezza, certo; ma non hai potuto fare a meno di vederci una nota di crudele sadismo nella scelta di June. Come se non volesse farti sconti e ricordarti che è solo grazie a te che il loro amato maestro riposa in pace su un promontorio a picco sul mare. Nonostante tutto.
Sarebbe stato un trimestre lungo. Lungo e intenso. Reclute da addestrare, principianti da raddrizzare e Santi di Bronzo a cui dare una bella strigliata. E farli reagire. Non sei venuto qui in vacanza, ti sei detto. Ti sei legato i capelli, hai indossato dei vestiti pratici e un po’ logori, e sei uscito. Per fare le presentazioni come si deve. E per vedere subito di che pasta fossero fatti i tuoi allievi.

E dopo una manciata di giorni, è apparsa Lei. Con il postale che raggiunge l’isola ogni due settimane. È sbarcata sul piccolo porticciolo come se fosse una turista qualsiasi, uno zaino in spalla, gli shorts sfrangiati e un chewing-gum tra i denti. E un paio di occhiali da sole a specchio. June è andata al molo con uno strano sorriso. Come se se l’aspettasse, quella visita. E quando le hai viste arrivare, sfilando a due passi dall’arena, intente a chiacchierare come se si trovassero davanti alle vetrine in centro, quel pizzicore alla base della nuca è rispuntato dal nulla. Improvviso. Regalandoti un lungo, intenso brivido lungo la spina dorsale – friggendotela come fosse un peperone sul fuoco – mentre lei ti salutava con la mano – ed un lampo di rossetto rosa acceso – e tornava a parlare con June. Del più e del meno.
I tuoi piedi si sono mossi da soli. Hai affidato l’allenamento a Leda senza spiegazioni, e ti sei accodato.
«Che sorpresa!», le hai detto raggiungendole. Che ci fai qui?, hai pensato, sfoggiando il sorriso più amichevole del tuo repertorio. «Sei venuta a darmi una mano con le ragazze?»
Lei ti ha rivolto uno sguardo strano. Come a chiederti se non fossi impazzito del tutto. «No», ha detto. «Passavo di qui per caso e ho fatto un salto a portare una cosa a June.»
Un sorrisetto sornione ti si è dipinto sul viso. «Passavi di qui. Per caso», e hai incrociato le braccia. Chi pensi di prendere per i fondelli?, diceva il tuo tono, ma lei non ha raccolto.
«Vado alle Mauritius», ha aggiunto. «Mi incontro con degli amici per le vacanze. Sono arrivata un paio di giorni prima, così ho fatto un salto.»
Avresti voluto chiederle chi fossero questi amici, ma hai glissato.
«Capisco», hai detto, le braccia sempre incrociate.
«Parto domani, col primo traghetto», e prima che tu potessi chiederle se fosse un suo vezzo quello delle apparizioni toccata e fuga, hai corrugato la fronte.
«Credo ci sia un equivoco», e lei ti ha guardato come se ti fosse spuntata una seconda testa.
«Sarebbe?»
«Il postale», le hai detto. Indicando con la testa la direzione da cui sono arrivate. «Non tornerà prima di due settimane…»
«Tu stai scherzando…», e sei certo di averglielo sentito quasi sussurrare, mentre osservavi il suo viso perdere colore. «June, lui sta scherzando, vero?», ha chiesto fissando l’altra negli occhi. Quelli freddi e inespressivi della maschera.
«Purtroppo, no», ha detto la voce di June, con un filtro metallico. «Se ne parla tra quindici giorni, se non di più…»
Ed un «Merde!!», come quelli che regalava Camus le rare volte in cui perdeva la pazienza – e sempre per colpa tua – ha riempito l’aria al campo base. E tu hai avuto la certezza che sì, sarebbero state due settimane molto, molto lunghe, quelle che ti si paravano davanti.

 
 
3.
Stranamente - diversamente da quanto temevi - è andato tutto bene. Senza particolari problemi, o senza incidenti sospetti. Sì, un paio di volte un coltello è passato fin troppo vicino alla tua mano, per i tuoi gusti. E la testa dell’accetta si è sfilata da sola dal manico e ti ha colpito alla schiena. Di piatto e non di taglio, altrimenti adesso staremmo celebrando il tuo funerale, e tu non passeggeresti sotto la luna piena per smaltire una cena un po’ troppo abbondante. Ma tutto sommato questi quindici giorni sono filati via come sabbia tra le dita. O come l’olio sull’insalata.

Domani Lei parte, e le ragazze hanno insistito per organizzarle una cena d’addio. Perché c’è da dire che Lei è stata una brava insegnante. Ha raddrizzato schiene. Ha spiegato posizioni. Ha corretto pronunce. Ha messo a stecchetto le ragazze e ha tirato le orecchie ai ragazzi che ha pescato fuori dal dormitorio femminile. Joan è rimasto per tutta la notte appeso per una caviglia. E Bastian non s’è potuto sedere per due giorni, ma poi non c’è stata più nessuna passeggiata al chiar di luna.

E ti sei detto che sì, lei ti ha dato una mano. Una grossa mano. E che quindi, per una sera, si poteva accantonare la frugalità dell’addestramento e staccare la spina. Solo per una serata. Il tempo della cena e poi via, tutti a nanna. Che sull’Isola di Andromeda, la notte, fa un freddo boia. E domani avete la sveglia all’alba. Ricominciano gli allenamenti, e tu ti chiedi come ci arriverai a domattina. Se ci arriverai. Hai mangiato tanto. Troppo. E mettersi a letto dopo una cena abbondante è stata una pessima idea. Così sei uscito. A farti una passeggiata. C’è una luna gigantesca, stasera, che guarda curiosa l’isola e rischiara il cammino, mentre Lei sbuca da dietro delle rocce e attraversa il sentiero a qualche metro da te.

Ok. Fermi tutti, pensi. Che diamine sta facendo? Una passeggiata digestiva? Ma se non ha quasi toccato cibo perché era troppo stanca, ti ricordi allungando il passo. La vedi poco più avanti, che si guarda a destra e a sinistra. Fai per chiamarla – e bucare il silenzio della notte – quando lei si volta. Ti vede. E corre verso di te.
«Hai visto Tyron?»
«Tyron?», ripeti. Come un bravo pappagallo. Forse un po’ perplesso, ma comunque l’imitazione t’è riuscita bene. «Non è un po’ troppo giovane per te?»
Lei sgrana gli occhi. E ti punta la torcia tascabile dritto in faccia. «Scusa?», e te lo chiede con un’inflessione così glaciale che senti ancora più freddo.
«Non stavi cercando Tyron?», chiedi. Abbassando il fascio di luce sul terreno.
«Sì», e tu sospetti che abbia trattenuto a stento un idiota velenosissimo, «perché non riesco più a trovare Lene».
«Lene?»
Sospira. Seccata. «Lene. Piccolina, capelli neri, tedesca. Saprà dire sì e no buongiorno e buonasera in greco. Hai presente?» Le fai cenno di no con la testa. «E quando mai? Lene e Tyron hanno un filarino…»
«Un… che
«Un filarino. Un amorazzo. Una storia. Insomma. Si piacciono. E stanno assieme. Credo. Non lo so. Fatto sta che lei è sparita. Non l’hanno più vista da dopo cena. Ed è sparito anche Tyron.»
«Come sarebbe a dire?»
«Scusa, ma tu non stavi cercando Tyron?»
«No. Sto facendo una passeggiata.»
«Giusto. A te piace passeggiare», commenta Lei socchiudendo gli occhi. «Comunque, il tuo allievo è interessato a fare un certo discorso con la… tua allieva». Stava per dire mia. Ne sei sicuro. «Io alle ragazze ho fatto il discorsetto, ma non vorrei che gli occhi scuri di Tyron siano più convincenti delle mie parole.»
«Ok. Ferma tutto e riavvia il nastro. Che cosa hai detto alle ragazze?»
Lei si mordicchia il labbro inferiore. «Educazione. Sessuale. Quella cosa delle api e dei fiori, hai presente?»
«Tu stai scherzando…»
«No, che non scherzo. Il più giovane ha tredici anni, la più vecchia diciassette. Sai cosa stai maneggiando? Una polveriera. Una polveriera pronta ad esplodere.»
«A tredici anni? Stai esagerando...»
«Davvero?» Lei si mette le mani sui fianchi e la luce della torcia sfarfalla. «Vuoi farmi credere che tu, alla loro età, pensavi a camminare mano nella mano con la ragazza che ti piaceva e basta
Certo che no, ammetti. Ma con te stesso. Non vuoi dirle che sì, ha avuto ragione lei ad affrontare quell’argomento con le ragazze, perché sai che poi ti toccherà affrontarlo coi ragazzi. «Che c’entra? Non dirmi che tu avevi certi pensieri, da ragazzina…»
«Mi stai davvero chiedendo questa cosa?», e tu ti dici che no, non vuoi sentirle dire che sì, quando aveva l’età di Lene lei sognava un bel bacio dal suo principe azzurro. E forse qualcos’altro.
«No, hai ragione. Cerchiamo quei due disgraziati, prima che sia troppo tardi», le dici. Lasciando che sia lei a fare strada, mentre la luna, da lassù, vi osserva curiosa dalla sua finestra di nuvole.

4.
 
Quando li trovate, Lene e Tyron sono addormentati l’uno accanto all’altra in una nicchia al riparo dal vento. Una nicchia che si affaccia sul mare aperto, su uno strapiombo bello alto. Un nido da aquile, insomma. Dormono come angioletti, la maschera di lei che brilla sotto le foglie smosse. Da come hanno sistemato l’anfratto, sembra che sia il loro posticino segreto. Un giaciglio di foglie. Una coperta. Una brocca con dell’acqua. Del pane e degli avanzi avvolti nella carta stagnola, che saranno la colazione di domattina.

«Athena ti ringrazio.»
Lei sospira, sollevata. Spenge la torcia. Non vuole svegliarli, mentre tu stai ancora cercando un modo per scendere lì sotto senza romperti l’osso del collo. Perché non hai setacciato mezza isola per poi lasciarli a dormire cheti cheti. Nossignore.
«Fammi luce», le dici – le ordini. E Lei ti guarda come se fossi pazzo.
«No. Stanno dormendo», ribatte. Come se non lo vedessi da te che stanno dormendo.
«Non l’avevo notato», le rispondi acido. «Fammi luce. Scendo a prendere quei disgraziati e…»
«Tu non farai nulla di simile», e quando ti volti a guardarla capisci che non sta scherzando. «Lene non ha la maschera. E non vogliamo che lei provi ad ucciderti o che Tyron provi a cambiarti i connotati perché tu hai visto la sua ragazza senza maschera, vero?»
E Lei si allontana dallo strapiombo e torna verso il campo base. Ti stacchi dal ciglio del burrone e la raggiungi.
«Non eri tu quella che temeva che…»
«Stanno dormendo. Assieme. Oramai la frittata è fatta, no? Spero solo che abbiano avuto un briciolo di buonsenso…»
«Alla loro età? Ne dubito.» Perché quando vivi il primo amore senti l’energia che Eros regala scorrerti a fiori di pelle. È tutto un susseguirsi di scoperte, una dopo l’altra. Di esperienze da fare in due. E quando Eros chiama, difficilmente rispondi con la testa ben salda sulle spalle. La tua volontà è annichilita. E ragioni solo con il basso ventre. E, a volte, nemmeno con quello.
«Che dovrei fare, allora? Sentiamo?»
«Lene ha giudizio. Sono sicura che torneranno in tempo per gli allenamenti di domani mattina. E se dovessero tardare, li metterai in punizione.»
La guardi, scettico.
«Per favore», ti chiede. E tu ti ritrovi a dirle: «E va bene», alzando le braccia.
Ma che succederà se non avranno avuto giudizio?, ti domandi, anche se oramai sai che è troppo tardi, e che potete solo sperare che non abbiano fatto dei casini, quei due.
«Grazie», ti dice, gli occhi che le scintillano alla luce della luna piena. «Vorrà dire che vi manderò dei preservativi col prossimo postale…»
«Tu, cosa?»
«June è d’accordo con me. E sotto sotto, credo che le avrebbero fatto comodo, quando c’era lei, al posto di Lene.»
«Assolutamente, no.»
«Dici? Secondo te lei e Shun non…»
«Non sto parlando di quello!», dici. A voce un po’ troppo alta, ma non ci badi. «Tu non invierai nessun pacco di preservativi. Intesi? Anzi, a dirla tutta nemmeno avresti dovuto parlare di certe cose con le ragazze senza prima chiedermi un parere.»
«Chiederti il permesso, vorrai dire», ribatte acida lei.
«Sono i miei allievi», le ricordi.
«Che tu mi hai prontamente rifilato appena se ne è presentata l’occasione.»
Touché. «Sono sotto la mia responsabilità», insisti. «Che farei se dovesse succedere loro qualcosa…»
«Qualcosa come una gravidanza indesiderata?»
«Lo fai apposta a renderti antipatica?»
«È un dono naturale.»
«Immagino…»
Lei allunga il passo borbottando qualcosa. Le dai un vantaggio di un paio di falcate, poi le afferri un polso.
«Aspetta. Ferma. Riavviamo il nastro, ok? Non credi che sarebbe peggio se… ?»
«No. Daremmo loro degli strumenti.»
«Vuoi dirmi che Mask ti dava…»
Ti ferma con una mano. «No. Ma io non avevo altre persone assieme a me. Io ero sola. Non avevo ragazzi che mi ronzavano attorno. Non si poneva il problema. Capisci?»
La fissi, inquadrando la questione dal suo punto di vista. «Prevenire è meglio che curare?»
«Esatto. Se uno non si lava i denti perché non possiede spazzolino e dentifricio, è un conto. Se non lo fa perché non vuole, il problema è suo.»
«Non ne sono convinto, ma ci penserò.»
«Cocciuto di un greco cocciuto!», esclama, scalciando un ciottolo.
«Non lo metto in dubbio. Ma a certe cose devono pensare gli uomini, non le donne.»
«E questo dove l’avresti letto? Sul Manuale del Perfetto Macho
Non rispondi, limitandoti a camminarle avanti di qualche passo. Come quella sera a Tokyo, pensi. «Torniamo. S’è fatto tardi», dici, e lei ti segue. Docile come un cagnolino, fino a quando non arrivate in prossimità del campo base.
«Vai avanti tu», ti dice.
E tu ti volti chiedendole perché con lo sguardo.
«Oramai si saranno accorti che manchiamo entrambi. E se ci vedono tornare assieme...»
«Ti ricordo che noi siamo andati a cercare quei due disgraziati», le dici, «non a fare una passeggiata al chiar di luna.»
«Questo lo sappiamo noi», risponde, serafica. «Meglio non dare spunti agli allievi. La loro fantasia galoppa a briglia sciolta già di suo. E poi…»
«E poi?»
«E poi non vorrei rovinarti la piazza. Davvero non ti sei accorto che la piccola Chung ha un debole per te?»

E avanza da sola, la torcia spenta, verso la casupola che funge da gineceo, lasciandoti come un merluzzo. Tu le donne non le capisci, ma in questo stesso momento sai già cosa frulla nella sua testolina. Sta architettando di prenderti in contropiede inviandoti un pacchetto di profilattici tra quindici giorni. Ma lei non sa che sarai tu ad andare a ritirare la posta. In persona. E a quel pensiero, le labbra ti si arricciano all’insù, sotto lo sguardo curioso della luna.

5.
 
Lei è stata di parola. Ha aspettato che tu decidessi se fare il discorsetto ai maschietti oppure no, e che risolvessi con te stesso la questione sul richiedere i preservativi, assieme alle patate, alla farina, alla carne e al sapone. Cosa che tu hai deciso di fare, il giorno stesso in cui è partita. Ma non hai avuto il fegato – o le palle, per dirla con Aiolia – di dirle che sì, aveva avuto una buona idea. Testardo fino all’ultimo. Coerente con te stesso. Pazienza.
Ha fin troppo carattere, per i miei gusti, ti dici abbandonando la borsa e lo scrigno sul pavimento del tuo alloggio all’Ottava Casa. Sei sfinito. Stanco morto. Sei abbronzato come se avessi passato sei mesi in spiaggia – anche se hai una tintarella da muratore – puzzi come una capra e hai bisogno di un bel bagno con tutti i crismi, ma quello che hai sognato, in questo trimestre abbondante di permanenza sull’Isola di Andromeda è un letto. Un letto vero. Le due piazze morbidissime dell’Ottava Casa. Con delle lenzuola di cotone e non di carta vetrata. Otto ore filate, non chiedi altro.
Domani è un altro giorno, e ti laverai, ti toglierai di dosso lo sporco ed il sudore e la fatica, e ti presenterai a fare rapporto ad Athena. Ma adesso, l’unica cosa che sogni è di lasciarti cadere sul letto a peso morto. E avanzi, come il naufrago stremato che ha avvistato la terra ferma. E che si dice che ancora due bracciate, due soltanto, e poi potrà riposare. Così avanzi. A passi lenti. Pregustandoti l’abbraccio del tuo materasso come se fosse un’amante che non vedi da tanto, troppo tempo. E ti volti, lasciandoti cadere di schiena sulla sovraccoperta bianchissima, in un flop rassicurante, protettivo, sospirato.
Ed è un sospiro quello che liberi, mentre te ne stai con le gambe ciondoloni e le braccia spalancate. Com’è morbido, il tuo letto. Com’è comodo. Com’è… Cos’è quest’affare?, ti chiedi, notando solo in quel momento un filo che buca l’accecante purezza della sovraccoperta. Un filo nero. Di canapa intrecciata. Come quello delle reti dei pescatori. Un filo nero che si trova sul tuo cuscino. Con un bigliettino. Con su scritto Tirami.
Che diamine è?, pensi. Tirandolo via. Perché cosa fai con un filo se non tirarlo? Appunto. Ed è tirando quel filo misterioso che succede tutto. Che la trappola scatta. Perché l’hai appena attivata tu. Con le tue stesse mani. E ti ritrovi, senza nemmeno sapere come, issato sul soffitto, all’interno di una gigantesca rete da pesca che ti avvolge – che ti abbozzola – nell’abbraccio della sovraccoperta candida.
«Aiuto!», gridi, dopo aver realizzato che non hai modo di divincolarti da quel nido improvvisato.
«Avanti, lo scherzo è bello quando dura poco!», protesti, le gambe che non riescono a trovare un varco tra le maglie strette della rete da pesca.
«Ehi!», chiami. Nella speranza che il genio del male che ti ha teso questo scherzo esca fuori e si strozzi dalle risate. Anzi, che prima ti tiri giù e che poi vada a schiantarsi altrove, magari con il tuo aiuto.
Ma non esce nessuno dalle ombre gridando «Scherzo, scherzo!!», e battendo le mani tra risate fragorose. Nemmeno Vassilissa c’è. Così te ne resti appeso al soffitto – appeso al lampadario del soffitto – nemmeno fossi una caciotta messa a stagionare. O un salame. O un ragno che…

BINGO!

L’identità del colpevole ti esplode nella mente con la potenza di una fucilata in piena notte. Ma certo, ti dici, gli occhi sgranati e le dita che stringono forte i nodi della rete da pesca. È stata Lei. Per vendicarsi della malmignatta nel letto. Perché lei sapeva quanto tu sognassi una dormita su di un letto vero. E la cosa buffa è che sei stato proprio tu a dirglielo. Ricordi? Eravate sullo spiazzo del campo, ad osservare il moto delle stelle e a preparare la lezione di astronomia, quando ti sei lasciato sfuggire quella piccola, innocua confidenza. Perché lei per prima ti aveva detto che sì, si stava bene su quell’isola, ma che le mancava un letto come si deve.
«Non me ne parlare», le hai detto. «Sogno il mio letto all’Ottava Casa giorno e notte…»

Coincidenza un corno!, ti dici. Altro che la storia delle vacanze alle Mauritius con degli amici. Amici? Lei?, ti dici, dandoti del fesso per essere caduto nel suo tranello.
«Maledizione!», esclami. Arrabbiato, seccato, incazzato. Espandendo il cosmo ed allargando braccia e gambe. Col risultato che il gancio del lampadario a cui sei appeso cede. E la stanza piomba nel buio mentre tu precipiti sul letto – e le molle si piegano con un preoccupante creng – ed il lampadario ti segue, andando a schiantarsi a pochi centimetri dalla tua testa, rimbalzando sul materasso e frantumandosi a terra.
Per poco non ci resto secco, pensi, osservando i detriti sparsi a pioggia. Provi a metterti carponi, col risultato di assomigliare ad un grosso e grasso verme – o ad una lumaca – nel tentativo di uscire da quel bozzolo. Non possono vederti così. Ne va del tuo onore. Della tua reputazione. Del…
«Che sta succedendo qui?»
Kanon. Apparso dal nulla. Tra tutti, proprio tu dovevi arrivare?, ti chiedi restando immobilizzato. Kanon avanza, la luce della luna che filtra dalle finestre spalancate. Non capisce che cosa diamine stia accadendo. Piega la testa da una parte, poi dall’altra.
«Milo?», chiede. Come a sincerarsi che sia proprio tu il ripieno di quella rete da pesca.

Un sospiro – seccatissimo – e gli rispondi con uno scazzatissimo: «Sì.».
«Che ci fai lì dentro?», ti domanda, stando attento a non pestare i cocci del lampadario. E dell’intonaco del soffitto che, ci scommetti la testa, è venuto giù assieme a te.
«È una lunga storia», dici. Ansimando. Perché la rete stringe. E inizi ad essere davvero stanco. «Tu da dove vieni?»
«Dalla Tredicesima Casa. Torno ora a colloquio con Athena.» E ti fissa.
«Mi dai una mano, oppure…»
«Oppure», replica Kanon. Sghignazzando. Tenendosi la pancia, quasi. «Chi hai fatto incazzare, stavolta… ?», dice. Asciugandosi gli occhi.
Bastardo. Adesso te lo do io, un motivo per piangere… «Falla finita e dammi una mano, piuttosto!», ringhi.
«Fossi matto. È troppo divertente», ribatte Kanon. Mentre entra Aiolia nella stanza. Ti guarda – ti illumina pure con una torcia! – e si accoda a Kanon in una risata fragorosa.
«Che succede qui?», domanda la voce di Aldebaran avvicinandosi. «Tutto il Santuario è al buio più completo, che…»
E anche il Toro si unisce ai suoi compagni. Che ti indicano. Ridendo come pazzi. Senza degnarsi di liberarti.
Io le tiro il collo, pensi. Le tiro il collo e le torco quel naso antipatico che si ritrova, ti riprometti. Com’è che si dice, in questi casi?
Chi la fa, l’aspetti? No, perché la questione tra di voi è tutto fuorché conclusa. Non dopo questo scherzo, almeno.
Uno pari, pensi. E palla al centro, mentre la luna, da lassù, si stropiccia i suoi occhioni. E sembra quasi unirsi alle risate dei tuoi compagni. Risate di cuore. Di pancia. Di anima. Cui, sotto sotto, un pochino ti accodi anche tu.





Note:


Due note due. Tanto per raccapezzarsi.
Questa storia è il contraltare di Otto, che potete trovare qui. Perché tutti i nodi arrivano al pettine, prima o poi.

Au Clair de la Lune è una famosa comptine, usata come ninna nanna dalle mamme e dalle nonne francesi.

Nella serie classica, Milo di Scorpio è quello inviato da Saga a fare a pezzi Cefeo e i ribelli dell'Isola di Andromeda. In realtà, quello che scafazza male, male, male Cefeo è Aphrodite (con una sola, singola rosa...), ma il merito va tutto a Milo. Per come si è evoluta la faccenda in Deep Blue Eyes (che potete trovare qui), Milo ha del rimorso per ciò che ha fatto. Da qui, la mia decisione di fargli muovere le chiappe in maniera concreta. Per espiazione, pura e semplice. So che anche altri hanno avuto questa stessa idea (Jean Genie aveva ideato una cosa simile, al tempo), ma si tratta di una naturale maturazione del personaggio per come si è mosso in Deep Blue Eyes. Abbiate fede. E non vogliatemene, ok?

L'ora di educazione sessuale è tutta colpa di Stellareika e della sua ragazza della Terra del Fuoco. Lei sa il perché.

La scena finale, quella della trappola, rifà il verso ad una scena di una storia che lessi secoli fa, in cui una fanciulla ficcava nei casini Milo con uno stratagemma simile. Lì si parlava di specchi e rapporti consensuali (più o meno) ed il raiting virava verso il rosso acceso, ma mentirei se dicessi che no, non ho scritto questa scena pensando a quell'esempio. Vorrei dare a Cesare quel che è di Cesare... solo che non rammento di chi si trattasse, e neppure il titolo della storia. Pazienza. Se a qualcuno si accende qualche lampadina, mi faccia un fischio.
Alla prossima!

 
   
 
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