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Autore: Rosebud_secret    11/09/2014    3 recensioni
Sapeva che le orecchie appuntite erano occultate dal velo della sua magia, ma, con un po’ di volontà, riuscì a sorpassare quell’inganno e a vederle: lunghe e affusolate. Le aveva amate, tanto amate, in passato.
E dire che all’epoca non era stato in grado di riconoscere cosa fosse. Un errore che avrebbe scontato per sempre.
Non sapeva a quali demoni l’elfo avesse rimandato la sua anima, o se fosse diventato un demone egli stesso, per riuscire ad architettare quella terribile vendetta, ma di una cosa era certo: non c’era via d’uscita. Ogni volta il dolore era acuto, inaspettato e pungente. Sempre di più.
Come il suo silenzio.

Questa è la prima originale che pubblico su EFP, spero che vi piaccia ^^!
Genere: Angst, Drammatico, Guerra | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Questa storia partecipa al contest: Reverse, indetto dalla pagina Facebook “Io scrivo su EFP”. Lo scopo era quello di scrivere una storia originale su una tematica a noi non congeniale, pertanto ho deciso di cimentarmi con il fantasy. Non so quanto io ci sia riuscita, o se abbia fallito miseramente, ma questo è quanto di più fantasy io riesca a concepire.
Auguro a tutti una buona lettura!



“And neither the angels in Heaven above

Nor the demons down under the sea

Can ever dissever my soul from the soul

Of the beautiful Annabel Lee.”

-Edgar Allan Poe-



Guarda il tempo





Jano si mosse a carponi sul ricco pavimento di marmo bianco, le mani e le ginocchia che scivolavano sul sangue fresco. Si aggrappò al cornicione e sollevò, tremante, il suo povero, vecchio corpo. Deglutì nel distogliere lo sguardo dalla mattanza alle sue spalle… i suoi figli, sua moglie… persino la servitù.

Non era rimasto nessuno in vita.

Sollevò gli occhi azzurri al cielo rossastro di New York, fissando quell’immenso idolo d’acciaio: l’Empire State Building, il grattacielo più alto del mondo.

Era una città immensa la New York del 1939, popolosa e caotica. Ne aveva viste molte nel corso della sua interminabile vita: talmente tante che della maggior parte il mondo aveva perso persino il ricordo. Molte razze si erano estinte, altre si erano fuse assieme nel corso dei millenni, divenendo una sola. Ma ciò che era davvero andato perduto era la memoria. Persino lui la riconquistava di rado, ed era sempre doloroso.

Udì i passi, ma non si voltò.


“Avrà mai fine tutto questo, Dareel?”, domandò.


Il giovane gli si avvicinò, elegante in quel suo completo fumo di Londra e i biondi capelli impomatati.

“Che epoca terribile.”, commentò, “C’è odore di morte nell’aria, e le foreste stanno avvizzendo.”


“Non m’importa dei boschi. Non sei ancora stanco?”


Dareel si sfilò di tasca l’orologio, sorridendo con fare distratto.

“Quando ho parlato di eternità, non intendevo neanche un istante di meno.”


Fu per una frazione di secondo, ma riuscì a vederlo di nuovo come l’aveva conosciuto: un ragazzino sudicio, ricoperto da stracci sfilacciati e dalle frustate. Il profilo aguzzo era mutato di poco rispetto alla fanciullezza: era appena rassimilabile all’apparenza di un uomo al principio della maturità. Poco credibile, come umano.

Sapeva che le orecchie appuntite erano occultate dal velo della sua magia, ma, con un po’ di volontà, riuscì a sorpassare quell’inganno e a vederle: lunghe e affusolate. Le aveva amate, tanto amate, in passato.

E dire che all’epoca non era stato in grado di riconoscere cosa fosse. Un errore che avrebbe scontato per sempre.


Non sapeva a quali demoni l’elfo avesse rimandato la sua anima, o se fosse diventato un demone egli stesso, per riuscire ad architettare quella terribile vendetta, ma di una cosa era certo: non c’era via d’uscita. Ogni volta il dolore era acuto, inaspettato e pungente. Sempre di più.

Come il suo silenzio.


“Quindi ricominceremo da capo ancora una volta?”


“Sì.”





“Jano, Jano, ti prego! Dobbiamo andarcene!”

Sua moglie Altena lo svegliò di soprassalto.


Da principio, ancora intontito dal sonno, non comprese il motivo di tanta urgenza. Poi la scomodità del suo angusto giaciglio e il sordo dolore alla base della spina dorsale gli rammentarono che non era più nella sua villa sulla Kurfürstendamm, ma in un pidocchioso nascondiglio sovraffollato.

Avevano dovuto fuggire, nascondersi come topi per non essere rinchiusi in un ghetto, prima, e deportati “altrove”, poi. Ormai da tre anni erano stipati in quell’angusto solaio, lui, la moglie, i loro due figli e i quattro nipotini, insieme ad una giovane coppia con un bambino piccolo, e a due vecchi coniugi. La rabbia nei confronti dei nazisti cresceva giorno dopo giorno nel suo fiero petto. Prima o dopo la guerra sarebbe finita, e avrebbero avuto ciò che meritavano.

L’assordante raffica di mitraglia proveniente dal piano sottostante gli gelò il sangue nelle vene. Guardò la moglie con occhi pieni di panico e strinse forte a sé il nipote più piccolo che della vita non conosceva altro che quell’angusto sottoscala.


“N-non aver paura…”, gli sussurrò, esitante, tappandogli la bocca per zittire i suoi singhiozzi.


Il loro angosciato silenzio si rivelò inutile, i nazisti sapevano. La botola del solaio venne d’improvviso spalancata e il primo soldato aveva già fatto capolino dall’apertura. Il signor Azria, il giovane sposino, si scagliò contro di lui, stringendo in mano un coltello a serramanico che aveva tenuto nascosto chissà dove e per chissà quanto.


“No!”, gli gridò Jano.


Il soldato, un giovane altrettanto spaventato, sparò; e, poi, issatosi del tutto, aprì il fuoco anche su tutti gli altri. Il vecchio si voltò, proteggendo il bambino con il proprio corpo. Il dolore del piombo nelle sue carni gli strappò un grido spezzato dalle labbra, ma non lo uccise. Per la prima volta percepì che non poteva davvero farlo: per quanto fossero gravi le sue ferite, non sarebbe morto mai.

La stessa sorte, però, non la ebbero i suoi cari, e gli altri disperati rifugiati a cui ormai voleva bene come a figli, o come ad amici.

Il nipotino tremava tra le sue braccia, ammutolito dallo shock. Gli tappò gli occhi, prima di voltarsi a guardare.


“A-Altena…”, gemette, allungando una mano verso il volto della moglie. I colpi di mitraglia l’avevano del tutto sfigurata. Di lei restava solo il sangue e la materia cerebrale spappolata sul pavimento ligneo.


Il rapporto con lei era andato a rotoli da molti anni, ormai, da ben prima l’avvento di Hitler. Ciò nonostante il legame d’affetto che provava nei suoi confronti non si era mai del tutto sopito.


Con le lacrime che gli scorrevano sul volto pieno di rughe, strinse ancora più forte il nipote. I colpi di mitraglia erano cessati, e un altro uomo era salito nel sottotetto. Alto e slanciato, era elegante in quella divisa delle SS. Jano lo fissò ed ebbe la sensazione di conoscerlo, o, per meglio dire, di averlo conosciuto: aveva amato quell’uomo, ma era successo oltre trent’anni prima. Diede la colpa alla sua mente allo sbando e strisciò indietro di fronte a quegli occhi chiari, taglienti come lame.


“N-no! Ti prego! Lui NO! Almeno per questa volta!..”, ansimò, inconsapevole, nel tentativo disperato di salvare il bambino che, privo di sensi, giaceva tra le sue braccia.


L’ufficiale lo guardò confuso.

Non questa volta…”, ripeté, “Non dovresti ricordare che ce ne sono state altre.”

Si sfilò la Luger dalla cinta, e sparò in faccia al soldato, per poi puntarla verso il ragazzino.

“Non finché Timel ancora respira.”

Premette il grilletto. Il suono metallico che seguì gli comunicò un inopportuno inceppamento.


Jano gli si buttò ai piedi, cingendogli le ginocchia con le braccia.

“T-ti prego!”, ribadì, “Farò tutto ciò che vuoi! Non avrei dovuto permettere che ci dividessero, anni fa… ti supplico, Timel è solo un bambino! Abbi pietà, Dareel, se non di me, di lui! Sarò il tuo schiavo, sarò qualsiasi cosa!”


“Credo che tu sia un po’ confuso.”, commentò l’altro, scalciandolo via.


Sollevò il piccolo e gli premette una mano sulla fronte, sprigionando, dal palmo, uno zampillo di energia, brillante e gelido come il ghiaccio, per poi lasciarlo andare.

Jano seguì la caduta del corpicino con drammatica attenzione. Con estenuante lentezza lo vide percipitare nell’aria e schiantarsi al suolo di schiena: la piccola testa ancora fumante e gli occhi del tutto bruciati nelle orbite carbonizzate.

Smise di piangere, il vecchio, memore dell’identità dell’elfo. Lasciò che il dolore gli passasse attraverso e si rialzò.


“Questa volta hai davvero superato te stesso.”, commentò, “Tutta questa devastazione…”


Dareel si levò l’elmetto e lo lanciò via, disgustato.

“Non darmi colpe che non mi appartengono. Ho potere solo su di te, non sul tutto. Gli animi degli uomini stanno marcendo, ma di che ti stupisci? Non è forse la stessa cosa che è accaduta all’impero da cui provieni?”


Jano lo guardò.

“Pensavo che i sopravvissuti potessero imparare dai nostri errori.”


L’elfo sorrise appena.

“Sei sempre stato un ottimista, ma sei all’oscuro di cosa stia avvenendo là fuori. Ti sei rintanato qui per tre anni e te l’ho concesso. Sono stato misericordioso.”


“Tu non sai neanche cosa sia la misericodia! Con i poteri che hai potresti fare la differenza, potresti…”


La risata di Dareel lo interruppe.

“E quindi tu affideresti il mondo ad un elfo? Proprio tu?”


“Non ho mai disprezzato quelli della tua razza, e lo sai.”


“Oh, in certi frangenti sicuramente no.”, concesse con malizia. Osservò il corpo del vecchio iniziare rapidamente a ringiovanire, poi distolse lo sguardo.

“Sono l’ultimo della mia specie; potente, ma non a tal punto. Senza contare che non m’importa cos’accadrà a tale discendenza. Spero che appassisca il prima possibile.”


“Il giovane elfo che ho conosciuto non avrebbe mai parlato in questo modo!”


Dareel gli andò di fronte, parlandogli a un palmo dal viso.

“Allora non avresti dovuto annientarlo.”

Sollevò una mano a lisciare con le dita la sua ispida barba di nuovo rossiccia, accarezzando con lo sguardo la rigenerata bellezza dell’altro. Poteva rivedere i mari di Atlantide in quegli occhi cerulei.

Con amarezza riconobbe una volta ancora che il suo arcaico rancore si fosse man mano affievolito in quelle ere innumerabili. Ormai quel che faceva era divenuto un rituale, qualcosa a cui anche Jano si era abituato, e di fronte al quale non soffriva più come avrebbe dovuto. Tutti quei mutamenti stavano cambiando le loro percezioni, ed essere i soli a poterli percepire rendeva il loro rapporto profondo, per quanto bizzarro.


“Uccidimi…”.

La richiesta di Jano gli giunse in un sussurro, “S-sono così stanco, Dareel.”


L’elfo gli puntellò la mano sotto il mento, costringendolo a sollevare il volto. Gli sfiorò il collo con il naso, assaporando il suo odore, antico quanto il proprio.

“Non umiliare te stesso. Neanche l’arconte che ho conosciuto avrebbe mai supplicato.”


Un singhiozzo roco proruppe dalla gola dell’uomo e altre lacrime scivolarono sulle sue guance, di nuovo lisce di gioventù.

“Ogni volta ti ho amato, da ben prima dell’inizio di questi tempi. Nonostante tu mi costringa ogni volta a vedere la morte di tutti i miei cari. E’ da molto che non provo più nulla, se non la sofferenza di questa orribile solitudine. Non so a cosa sia dovuto, forse ad un altro schiocco della tua frusta, Dareel, ma a volte sogno dei ricordi, anche quando non dovrei aver percezione di chi io sia stato realmente. Credi davvero che l’onore abbia ancora senso di fronte a tutto questo?”, chiese, indicando i morti alle proprie spalle, “Uccidimi; libera entrambi.”


“E’ prossima, non temere.”


“C-che cosa?”


“La fine dell’eternità…”





Era una mattina serena e Jano sedeva alla sua scrivania. Al di là delle tende semi aperte poteva scorgere il World Trade Center. Sorrise, contento. Altena aveva portato i bambini da suo figlio, e da lì a poche ore sarebbero andati tutti a pranzo fuori. Non capitava spesso che la famiglia fosse tutta riunita, quindi quando succedeva si godeva quei momenti.

Aveva appena attaccato il telefono e risolto un paio di pratiche quando intuì con la coda dell’occhio l’aereo un attimo prima che si schiantasse contro la torre sud. Balzò in piedi e corse verso l’ampia vetrata, ansimando d’agitazione. L’esplosione del velivolo fece tremare il suolo e i suoi pensieri corsero immediatamente alla sua famiglia, fortunatamente all’interno della torre nord.

Raggiunse il telefono e cercò di sincerarsi delle loro condizioni, ma le linee telefoniche erano intasate. Tornò alla finestra, cercando di darsi una spiegazione razionale per quel tragico incidente. Com’era possibile che un aereo avesse perso così tanto il controllo da schiantarsi al centro di Manhattan?

Non era distratto, quindi quando anche il secondo aereo comparve nel cielo lo notò subito. L’onda d’urto dell’esplosione fece saltare la vetrata. Venne sbalzato a terra e lì rimase per qualche istante, sconvolto e tramortito.

Il suo segretario, l’uomo che per poco non aveva portato il suo matrimonio al tracollo, accorse con calma.


“Dareel, ti prego, aiutami ad alzarmi! Devo… d-devo…”


“Siedi e goditi la vista.”, ribatté l’altro, accomodandosi a terra al suo fianco.


“La mia famiglia è nella torre nord!”, strillò Jano, con il cuore stretto nella morsa di una tagliola.


“Lo so.”


“Devo andare a prenderli!”

Fece per mettersi in piedi da solo, ma Dareel lo afferrò saldamente per una manica, trattenendolo.


Jano esitò, colto da un improvviso ricordo.

“Sta succedendo ancora, vero?”, gli chiese.


L’elfo annuì, poi ci fu un enorme boato e la torre sud cominciò a collassare su se stessa.


“Oh mio Dio!”, urlò Jano, gattonando sino al bordo della vetrata infranta.


“Non appellarti a favolette.”, fu il tetro commento dell’altro, “Non c’è alcun dio. Ci siamo solo noi e lo scorrere del tempo.”


“No, non c’è alcun dio…”, commentò Jano, straziato dalla visione di decine di persone che, disperate, si lanciavano dai piani più alti della torre nord.

“Cosa sta succedendo? Tu lo sai, non è vero?”


“La prima tessera del domino sta cadendo.”, rispose, alzandosi per raggiungerlo.


Il vecchio gli strinse la mano, alla disperata ricerca di un conforto e l’elfo non gliela negò. Anche lui era, infatti, turbato.

Rimasero in un attonito silenzio fino al crollo della seconda torre, e tacquero anche oltre. Jano aveva ricordato, ma ciò nonostante tenne ancora quella mano fintanto che il suo giovane aspetto non venne ristabilito. Solo a quel punto si allontanò dall’altro.


“Un soldo per i tuoi pensieri.”, disse, osservandolo continuare a guardare tutta quella devastazione.


“Sono disgustato.”


“Chi è il responsabile?”


Dareel serrò le labbra sottili.

“Difficile da definire, sarebbe più semplice dire che è colpa dell’umanità, ma non sarebbe accurato. Ciò che vedi non è diverso dalla distruzione dell’impero di Atlantide, o da quello di Mu, le nostre case, è solo più subdolo. Daranno spiegazioni per quanto avvenuto oggi, lasciando la responsabilità pendere sul capo di un solo uomo, ma la verità è ben più complessa. Questo è un fallimentare tentativo di unire le forze occidentali contro il fantoccio di un nemico comune. In realtà ogni avvenimento è programmato, concordato. Ero -siamo- in errore: un dio c’è in questo mondo, ma è tutt’altro che benevolo.”


“Dimmi il suo nome, lasciamene il ricordo e, nella prossima vita…”


“Non c’è alcun nome. Un tempo era un oggetto, il denaro, ora è qualcosa di più intangibile della mia magia. Il futuro è confuso, e tu non hai né il diritto, né le capacità per opporti al lento decadimento degli eventi. Sei un uomo debole, Jano. Il conforto dell’agiatezza è sempre stato la tua priorità. Senza contare che non si può combattere il potere senza divenirlo noi stessi.”


L’uomo chinò il capo.

“Non sono più l’uomo che conoscevi, e tu non sei più l’elfo che si sta vendicando. Siamo cambiati: siamo troppo vecchi e troppo stanchi. Per ere non mi hai rivolto più di qualche parola; adesso ti soffermi a fare conversazione. Sai che sono tutto ciò che ti rimane.”


Non ricevette una risposta, ma gli bastò l’espressione seccata sul volto dell’altro per capire di aver colto nel segno.

E per una volta, nonostante la sofferenza per la propria condanna, assaporò di nuovo il piacere del trionfo.





Sapeva di star sognando, eppure aveva l’impressione che quel che percepiva gli appartenesse. L’aria profumava della purezza dell’alba, ed una luce purpurea illuminava, attraverso le rade nubi, le immense distese delle sue piantagioni. Gli uccelli del primo mattino riempivano l’aria di un vivace cinguettio e Jano ne era sicuro: non avrebbe potuto desiderare nulla di più. Persino la convocazione del re, fissata per il giorno seguente, non lo preoccupava più di tanto. Nulla avrebbe potuto guastare la serenità di quel momento.

Stava per abbandonare la terrazza e rientrare in camera da letto, quando scorse i pèriti precipitarsi in picchiata in mezzo al meleto. Un urlo straziante di donna ruppe il sublime incantesimo di quella mattinata. Jano, armato di spada, si precipitò giù dalla lunga scala della terrazza.


“Fermi!”, gridò agli alati animali da guardia, che subito si fecero indietro.


Il corpo di un’elfa pendeva dai rami di un melo, con il ventre squarciato e le interiora che penzolavano sin quasi al suolo. A terra, nella polvere, stava un ragazzo seminudo e a sua volta grondante sangue. Stringeva tra le braccia un piccolo fagotto.


“V-vi prego…”, lo udì mormorare tra le lacrime, “Prendetela! Lei è innocente!”

Il giovane elfo gli porse quel fascio maleodorante di coperte e la sua stretta sull’elsa si fece tanto molle che l’arma gli sfuggì dalle mani all’udire il vagito della bambina.

Si accovacciò di fronte al giovane e lo costrinse a sollevare quel volto sudicio di terra e di sangue raggrumato.


“Qual è il tuo nome?”, gli chiese.


Da lontano si potevano già udire le grida degli uomini che li stavano inseguendo. Il ragazzo quasi gli buttò tra le braccia la sorellina, prima di balzare in piedi e correre via nella speranza di essere inseguito.

Jano, come riscosso, affidò la piccola ad uno dei bracciati accorsi, ordinando a tutti loro di chiudersi nel capanno del bestiame e di nasconderla. Sapeva che proteggere degli schiavi in fuga era un reato tra i più gravi, ma la sua coscienza non gli permetteva di rimanere inerte di fronte a quella barbarie. Era un arconte, per quanto giovane e di nomina fresca: avrebbe fatto valere la propria autorità.

Seguì le impronte del ragazzo, ma quando giunse al limitare del meleto venne sbalzato indietro da una violenta onda d’urto. Rimase a terra per qualche istante, tramortito, poi, con le vesti da notte e i capelli bruciacchiati, osò alzare lo sguardo: un vortice di fuoco si era sollevato a poche centinaia di metri da lui, al di là degli ultimi alberi, e vorticava ben al di sopra dell’altezza delle cime. Durò solo pochi istanti, ma gli parvero eterni, poi le fiamme si spensero d’improvviso, lasciando solo un ambiente carbonizzato e il tanfo di carne bruciata. Due ettari di colture erano andate distrutte. Erano rimasti solo pochi arbusti che, anneriti, ancora brillavano avviluppati da danzanti fiammelle.

Jano era convinto che nulla fosse potuto sopravvivere, ma sussultò, sconvolto, quando scorse il giovane elfo al centro del campo. Circondato dai resti fumanti dei suoi aguzzini; tremava, in ginocchio, e piangeva sommessamente.

Corse da lui, incurante della nudità dei suoi piedi.


“C-cosa… cosa sei tu?”, gli chiese, sconvolto.


“Io non volevo! NON VOLEVO!”, strillò il giovane elfo.

Una lacrima cadde, e allo sfiorar del suolo il secondo prodigio avvenne: il vento si levò dolcemente e la terra si risanò, divenendo ancor più rigogliosa di come era stata.

Poi il ragazzo si afflosciò al suolo.

Jano lo prese tra le braccia. Quel fanciullo era così magro che il sollevarlo non gli causò alcuno sforzo. Lo trasportò sin dentro la grande casa, adagiandolo sul letto.


“D-devo fuggire!.. Adryl…”, gemette l’elfo, risvegliandosi.


“Non temere, vi proteggerò. Nessuno vi farà più alcun male. Hai la mia parola.”



Jano si svegliò di soprassalto, madido di sudore. Altena non era al suo fianco: era con la loro ultima figlia a preparare il pranzo per la famiglia. L’uomo non aveva ben capito il senso di quella partenza improvvisa: che bisogno c’era di una vacanza a marzo e dall’altra parte del mondo?

Bevve un sorso d’acqua per cercare di placare i nervi. Non era il primo sogno bizzarro che gli capitava di avere: lo tormentavano da mesi. Quando chiudeva gli occhi si immaginava ancora giovane, ma in un mondo del tutto diverso dal proprio. Da principio non se n’era curato, poi però la concretezza delle sensazioni che provava al loro interno, quella veridicità, lo avevano portato, giorno dopo giorno, notte dopo notte, a non saper più discernere quale tra le due fosse la sua vera vita, quale delle due veglie quella reale. Oppure potevano aver ragione i dottori che Altena aveva chiamato a consulto: forse quelli erano davvero i primi sintomi di una demenza senile.


Fu l’incertezza di un momento a portarlo a piegare la gamba e a guardare, con tutta la fatica che la sua età avanzata gli comportava, la pianta del suo piede sinistro.


“Oh mio Dio!..”, gemette, coprendosi la bocca: poteva vederle, le cicatrici di quelle ustioni, la pelle chiara, accartocciata su se stessa ma avvizzita dagli anni.

Come aveva potuto non notarle sino a quel momento? Una fitta di dolore gli trafisse le tempie, quando un altro ricordo tentò di sostituirsi a quello onirico. Da bambino! Si era fatto quelle scottature da bambino, quando la casa dei suoi genitori era andata distrutta in quell’incendio.


“No!”, gridò, mettendosi le mani tra i capelli.


Suo figlio fu il primo ad accorrere.

“Papà, che succede?”


Jano non gli rispose, ma si scagliò brutalmente contro Altena, quando la vide comparire sulla soglia.

“Tu! Cosa ho fatto?! COSA MI HAI FATTO FARE?!”


La donna si fece indietro, gli occhi pieni di preoccupazione. Il figlio, invece, gli andò incontro con un sorriso rassicurante.

“Calmati, papà. Su, coraggio. Hai solo avuto un altro attacco. Va tutto bene, il dottore l’aveva detto che lo stress del viaggio…”


“E’ per questo che mi avete portato qui!? Per un altro stramaledetto consulto? Io non sono pazzo! Atlantide è reale, è da lì che veniamo!”


Altena provò ad avvicinarsi.

“Non agitarti, tesoro. Vieni giù, facciamo colazione…”


“Non mi toccare, puttana! E’ colpa tua! Oh mio Dio!”


Diede loro le spalle, finendo con il trovarsi di fronte al proprio riflesso. Sapeva che quel vecchio raggrinzito nello specchio era lui, ma non si riconobbe. Furioso e sconvolto vi si scagliò contro, mandando in frantumi quell’immagine che sentiva non appartenergli. Suo figlio lo tirò indietro, spaventato, e Jano si afflosciò tra le sue braccia, privo di forze.

Udì di sfuggita Altena chiamare a gran voce la figlia ed ordinarle di contattare al più presto il dottor Nakagawa.

L’altro, invece, lo riaccompagnò a letto, e il vecchio, mansueto, lo lasciò fare. Chiuse gli occhi, volutamente sordo alle premurose rassicurazioni del figlio. Sperò di riaddormentarsi per poter di nuovo sentirsi a casa, o forse solo con lui.

Quante altre vite fittizie aveva attraversato? E perché si era scagliato con tanto odio contro la moglie? Le voleva bene, non aveva mai fatto del male a nessuno, quindi: perché?


Quando si ridestò erano trascorse ore. La sveglia sul comodino, l’unica cosa che avesse elementi comprensibili in quel paese, segnava le 13.11. Si alzò e non si curò neppure di vestirsi. Scese dabbasso in vestaglia e ciabatte. Da dietro lo stipite del salotto vide i figli, i cognati e la moglie seduti attorno a un tavolo, intenti a discutere delle sua salute a bassa voce. Una cosa positiva c’era, in fin dei conti: quel dannato televisore era finalmente spento. Proseguì, silenzioso, sin fuori nel piccolo giardinetto; e guardò i suoi nipotini litigarsi le altalene con un paio di bambini giapponesi. Non parlavano la stessa lingua, ma incredibilmente sembravano capirsi meglio di qualsiasi adulto.

La più grande, invece, sedeva sul gradino del cancelletto aperto. Le passò accanto, scompigliandole i capelli con una carezza; e non la rimproverò di non star cercando di sedare la multiculturale disputa a pochi metri da lei.


“Dove vai, nonno?”, gli chiese la ragazzina, sollevando appena lo sguardo dall’ennesima diavoleria elettronica compratale dai suoi genitori.


“Solo a fare due passi.”, rispose con un pallido sorriso.


“Ma… sei in pigiama!”


“Già… tutti quanti, prima o dopo, dovrebbero fare una passeggiata in pigiama. Non si può sapere cosa ci si troverà di fronte.”


Lei scrollò le spalle, e tornò a concentrarsi sul suo gioco. Jano proseguì in strada senza meta alcuna. Osservò, quasi avido di conoscenza, quel popolo così diverso, così distante. Era sempre stato affascinato dalle altre culture.


“Atlantide…”, mormorò con nostalgia.


Per poco non rischiò di venire investito, e sbuffò nel realizzare che anche in quel buffo paese la guida era dal lato sbagliato.


Stava camminando lungo un ampio marciapiede, ormai senza più cognizione di come tornare verso casa, quando, d’improvviso, la terra cominciò a tremare. Si dovette aggrappare ad un palo della luce per non cadere, ma, soprattutto, per non venir travolto dal panico degli altri passanti.

Proseguì non appena gli fu possibile, ma sussultò, quando le macchine alle sue spalle cominciarono a schizzargli accanto a folle velocità, per poi non passare più. Il tempo sembrava essersi fermato e lui sentiva, sapeva, avvertiva che qualcosa di terribile stava per avvenire.

Con lentezza si spostò al centro dell’enorme carreggiata.

L’ultimo automobilista lo mancò per un soffio, e gli sbraitò un avvertimento, o forse un insulto, in quella lingua a lui sconosciuta.

Non si scompose neanche quando udì quello sciabordante fragore. Sapeva che da qualche parte c’era la casa della figlia, e lì, tutta la sua famiglia.

Ma non era la sua famiglia. Loro erano morti molto tempo prima. La scomparsa di quelle ombre non lo angustiava.

Dopo il suono arrivò il vento, che con dolorosa potenza lo schiaffeggiò, facendo svolazzare la sua pesante vestaglia.

Il terrore lo colse insieme a un ricordo: anche Atlantide era perita in quel modo. Lui c’era, l’aveva visto, e senza morire era affogato nelle profondità dell’oceano. Riuscì quasi a rievocare quell’atroce agonia e tremò al pensiero che la sua ora fosse giunta, e lo fosse proprio in quel modo.

Serrò le palpebre quando scorse l’onda nera sbucare tra i palazzi e spalancò le braccia, pronto ad accogliere il suo destino. Il suono dell’acqua lo assordò, ma neanche una goccia giunse a bagnarlo.

L’elfo era tornato, e di fronte ad un suo cenno persino l’incontrastabile potenza della natura aveva tremato e si era fatta da parte. Nulla li avrebbe toccati.


“Credevo che questa sarebbe stata l’ultima volta, Dareel. Io ricordo.”, gli disse, sfiorandosi il viso per sincerarsi che le sue sensazioni fossero corrette: era di nuovo giovane.


L’altro non si voltò, la mente offuscata da ben altri tetri pensieri. Uno strillo improvviso sovrastò il frastuono dell’onda e Jano scorse una bambina, sola, aggrappata disperatamente al tettuccio dell’auto dei suoi genitori. Pochi istanti e sarebbe stata risucchiata insieme a tutto il resto.


“Salvala, ti prego!”


“Avrà conseguenze.”, fu la laconica risposta dell’elfo.


“Non m’importa! Guardati intorno, salva lei! Almeno, lei…”


Dareel balzò verso l’auto, annullando lo scudo mentale che li stava proteggendo. Jano fece in tempo a vederlo afferrare la bambina, prima di essere travolto. La potenza dell’impatto gli frantumò molte ossa. Strillò, muto, sotto quella sterminata distesa d’acqua. Trascinato come un pupazzo pregò che la sua agonia finisse presto: erano ere che Dareel lo trasportava nella successiva vita risparmiandolo dall’onere di morire ogni volta, ma evidentemente, le sue capacità avevano un limite.

Si sorprese quando, riaperti gli occhi, si ritrovò su un tetto. Per lunghi istanti non riuscì a percepire altro che il dolore delle sue ossa che si rimettevano a posto. Quando si riprese era esausto ed affannato.


“G-grazie!..”, balbettò tra i colpi di tosse, avvicinandosi alla bambina che, terrorizzata, li fissava.

“Susanoo¹!”, continuava a ripetere, “SUSANOO!!!”


“Falla star zitta, o potrei ripensarci.”, sibilò Dareel infastidito, camminando sino al bordo del tetto.


Jano strinse la piccola, cercando di farla calmare. Impresa complessa, dal momento che non parlavano la stessa lingua.

Ci volle molto tempo, ma alla fine la bambina smise di urlare, anche se non di piangere.


“Basterebbe una tua lacrima…”, disse l’uomo.


“E perché mai dovrei piangere? Hanno bramato questa devastazione, se la sono voluta! Non molto lontano da qui, presto tre reattori nucleari esploderanno, avvelenando ancor di più questo loro lurido mondo. La stupidità mi riempie di furia, Jano, ma di certo non mi rammarica.”


“Questo lurido mondo è anche il tuo, il nostro!”


“Una volta, forse: quando il nostro tempo scorreva ancora come il loro. Non sono un dio, come quella sciocca creatura asserisce, ma anche lo fossi non riesco a vedere alcun motivo per cui dovrei scomodarmi a portare salvezza. Vedo più lontano di te, arconte. Quanto vorrei che fosse sempre stato così…”


“Smettila di prendertela con un intero mondo solo per vendicarti di me!”


“Ti ho già detto che non ne sono responsabile.”


“Ma potresti intervenire: scegliendo di non farlo, sei tu il più grande carnefice!”


“Sono stanco di questa conversazione.”


“NO! Sai che ho ragione! E’ tutto sulle tue spalle! Dareel!”





“DAREEL!”, urlò, svegliandosi di soprassalto.


Altena, accanto a lui sul letto, si destò a sua volta.

“Chi è Dareel?”, chiese, confusa.


Jano si alzò, ordinando alle vetrate di aprire l’antone oscurante.

“Non ne ho idea.”, ammise.


E non era l’unica cosa che non sapeva. Altena era sua moglie, e questo gli era chiaro. Probabilmente in casa c’era anche il resto della sua famiglia, ma quale fosse stata la loro esistenza, dove si trovassero, e in quale tempo, rimanevano dati foschi e confusi.

Toccò la superficie della vetrata rinforzata della capsula per sfiorare il proprio riflesso.


“Quanti anni ho?”, domandò, vedendosi giovane.


Altena rise.

“Te l’avevo detto di non esagerare con l’H09, ieri sera!”


“Rispondimi!”


“Settantacinque, tesoro. Come ieri.”


Jano trasalì: non se ne sarebbe dati più di quaranta. L’H09… sì, ora cominciava a ricordare. Era il farmaco sintetico messo sul mercato dalla Trimer. Inc., la più grande casa farmaceutica del mondo, l’unico in grado di proteggere l’organismo umano dall’alta concentrazione di ioni radioattivi sulla superficie terrestre. Certo, ora era chiaro: ne aveva preso una dose troppo massiccia e questo gli aveva causato il manifestarsi del principale effetto collaterale del farmaco, ovvero dei temporanei vuoti di memoria.

Si stropicciò gli occhi, osservando la distesa sterminata di cupole al di là dell’ampia finestra. Erano case, lo sapeva, ma sentiva comunque di non appartenere a quel luogo.


“Hai mai la sensazione che qualcuno stia giocando con la tua memoria?”


La donna rise di nuovo.

“Ti prego, non ricominciare con le tue paranoie! Mi domando chi te le abbia messe in testa!”, esclamò.


“C’è una guerra, là fuori. La Terza Guerra Mondiale, Altena! E le uniche informazioni che abbiamo vengono dal Centro. Non abbiamo più notizie di nostro figlio da quando è stato prelevato per la leva. Non possiamo vederlo, non possiamo contattarlo, non possiamo sapere se è vivo o morto! Scusa, se sono preoccupato. Scusa, se nulla di tutto questo mi sembra normale! Torna pure a rimbambirti di fronte all’Intrattenimento, e non occuparti delle mie paranoie.”


Altena sbuffò.

“Vado a preparare la colazione.”


“Come se delle barrette sintetiche si possano definire cibo!”, si ritrovò a pensare Jano, mentre indossava la sua tuta in grafene. Aveva settantacinque anni e ricordava bene quando il mondo era un luogo vivo, benché fosse l’unico.

Chiuse gli occhi, sconsolato: quella non era vita. Si sentiva un prodotto alla mercé di qualcuno più in alto di lui, e, attimo dopo attimo, gli risultava sempre più difficile tollerarlo. Premette un pulsante al centro della parete e un piccolo cassettino si aprì. Non ci rifletté più di tanto e strinse in mano la pistola.

La sua famiglia al completo era nell’ampia e sterile sala da pranzo della cupola: i bambini sedevano sul divano, rincoglioniti dai loro impianti di realtà virtuale, mentre Altena si stava lamentando con i loro figli più giovani del suo insofferente risveglio.

Sarebbe stata una mattina come tutte le altre, se non fosse stato per l’arma che stringeva in mano. Provò quasi sollievo nel sfiorare con il dito il cursore per la massima potenza.

Fece fuoco e le due donne crollarono a terra ancor prima di accorgersene. Il figlio gridò, spaventato, ma anche lui venne messo presto a tacere. Poi fu il turno dei suoi nipoti: li uccise uno dopo l’altro, senza rimpianti e senza causar loro dolore, per poi sedersi al centro della sala, in attesa che un Inquisitore giungesse ad annientarlo per i suoi crimini.

Buttò a terra la pistola, quando la porta si aprì. Si preparò a dire qualcosa di sprezzante, ma non riuscì a pronunciare neanche una parola quando vide l’uomo che gli stava di fronte. Pallido e sottile appariva quasi spettrale in quella candida tuta bianca, i lunghi capelli biondi lasciati sciolti. Lo aveva conosciuto, se non in quella vita, sicuramente in un’altra.


“Questa è una mossa che non mi aspettavo, Jano. Stai forse cercando di affrettare le cose?”, gli domandò l’elfo.


“Le tue orecchie! Sono cambiate! Sono…”, esclamò l’altro.


Dareel inclinò il capo, turbato.

“Non lo hai fatto per me... Perché li hai uccisi?”


“Perché questa non è vita.”


“Non posso darti torto.”, ammise l’elfo, “Torno subito.”


Jano si sorprese quando l’altro gli svanì d’innanzi gli occhi, ma un istante dopo tutto era chiaro: l’ultimo suo figlio era morto, e lui ricordava di nuovo.


“La tua scelta mi ha sorpreso.”, riprese l’elfo, riapparendo alle sue spalle.


“E’ tutta colpa tua.”


Mia!? Come osi anche solo insinuarlo?”


Jano si voltò e lo allontanò da sé con uno spintone.

“Tua! Sei talmente vuoto che non riesci a comprendere come le cose sarebbero potute andare diversamente se solo tu l’avessi voluto! Non provo più dolore per queste ombre che dovrebbero rappresentare la mia famiglia, Dareel, ammesso che l’abbia mai fatto. Hai voluto andare tanto lontano che ogni cosa ha perduto il suo senso. Mi sono sempre sbagliato, e adesso… adesso non sono più capace di ricordare che cosa ci avessi visto in te. Ti veneravo, avrei baciato il terreno dove camminavi, ora non fai altro che disgustarmi.”


“Ci avete schiavizzati, torturati, avete fatto esperimenti su di noi, e infine ci avete sterminati perché avevate paura! Ora state galoppando verso la vostra stessa autodistruzione. Che cosa dovrei fare? Avete avuto innumerabili ere per imparare, e tu hai l’arroganza di incolpare me della vostra stupidità? Tu! Che hai ancora le mani macchiate di sangue!”


“Direi che hai superato qualsiasi tempo massimo per rinfacciarmelo.”, sentenziò Jano, infuriato. “Non mi ha neppure mai domandato perché l’abbia fatto, Dareel.  Ti ho lasciato infliggermi questo tormento perché non potevo impedirlo; e, in buona parte, perché mi sentivo responsabile, anche se non di ciò di cui mi incolpi tu, ma il tempo di subire è finito. Non ho il potere di costringerti a fare la cosa giusta, né di mostrarti per cosa lottare. Sto solo cercando di appellarmi all’uomo che amavo. La mia razza ha sbagliato, lo ha fatto sempre di più, ma non merita di sparire. Ci sono tante persone là fuori che sono innocenti e…”

“Noi lo eravamo tutti.”, lo interruppe l’altro, “E non facemmo mai nulla per nuocere a noi stessi, tranne avvicinarci a voi! Le vostre guerre, la vostra avidità, la vostra inconsistenza! Avete rubato le nostre conoscenze, sfruttato la nostra magia, per poi cancellare ogni cosa senza trarre alcun insegnamento dalle tragedie che avete scatenato! La storia dovrebbe servire da monito, invece rieccovi qui all’alba della fine! Abbiamo cercato allora di indicarvi la via, ma non avete voluto ascoltare. Perché io, l’ultimo della mia razza, dovrei sprecare la mia vita per la vostra miserabile causa?”


“Perché io lo farei per la tua. Sono passate ere, ma non puoi aver dimenticato quanto mi battei nell’Alto Consiglio per osteggiare lo sterminio degli elfi. E non l’ho fatto perché eri il mio amante, ma perché era giusto! E’ stato vano, lo so, e se potessi tornare indietro per cambiare il corso degli eventi, lo farei! Darei la mia anima per farlo! Non posso, Dareel! Non posso!”, urlò Jano, per poi scoppiare in rochi singhiozzi di furia.


“BUGIARDO! Non hai mai fatto niente per la mia razza! Non hai mai fatto niente per me!”, urlò, scaraventandolo contro la vetrata con un’onda psichica.

Chinò il capo e serrò gli occhi, travolto da dolorosi ricordi.

“Se eri stanco avresti solo dovuto dirlo... uccidermi! Io mi fidavo di te, come la mia razza si è fidata di voi...”


“Generalizzare è tutto ciò che sei in grado di fare, giunti a questo punto? Ho fatto solo ciò che ritenevo più giusto! Anche per Adryl!”


“Non nominarla! Era solo una bambina! Tu…”

Dareel si interruppe, voltandosi bruscamente.

“Dobbiamo andare!”, esclamò, e, per la prima volta da un tempo inenarrabile, Jano vide di nuovo la paura nelle iridi dell’elfo: era braccato, ma chi potesse essere una minaccia per lui, non avrebbe saputo dirlo.





Aveva trascorso quella vita nella solitudine e nei ricordi. Non c’era stata Altena, né alcuno dei suoi figli o dei suoi nipoti. Jano aveva vissuto, come ogni volta, nell’agiatezza. Ed ora guardava la Terra da migliaia di chilometri di distanza dal finestrone della Nola, la sola stazione spaziale rimasta. Forte della propria consapevolezza, aveva lottato per riuscire a riportare i rimasugli della razza umana ad una pace che forse, solo forse, avrebbe potuto salvarli tutti. Ma la guerra continuava ad impazzare, e ormai la soglia umana era quasi al di sotto dei dieci milioni di esemplari che avrebbero potuto, con fatica, garantirne la sopravvivenza.


“Ambasciatore, la flotta dell’Unione è appena entrata nel Sistema Solare!”, lo informò via radio il suo secondo.


“Richiami le nostre navi. Che si tengano pronte all’attacco al mio comando.”, scosse il capo e interruppe il collegamento.

“Non avrei voluto che si arrivasse a questo…”, mormorò, “Dove sei?”


Aveva provato a rintracciare Dareel, ma dell’elfo sembrava non essere rimasta traccia. C’erano state vite in cui era tornato ad essere il suo compagno, solo per fargli assaporare il dolore di un’altra pietosa fine, ma non questa volta. Era solo e tale aveva voluto rimanere, nessun amico, nessun compagno, o compagna. Nessuno per duecentoventisette anni, la più lunga delle sue temporanee esistenze, e la più assurda. La biotecnologia molecolare aveva fatto passi da gigante, e lui appariva tanto giovane quanto la prima volta che aveva incontrato Dareel.

Sussultò quando la porta alle sue spalle venne sfondata da un’esplosione, ma si voltò sereno, colto dalla speranza che l’altro l’avrebbe finalmente aiutato. Ma non era l’elfo ad aver fatto irruzione: al comando della squadra c’era un giovane ufficiale, Kobayashi, uno dei suoi.

Non pronunciò una parola, mentre veniva legato sulla poltroncina del suo ufficio. L’Unione era riuscita ad infiltrare delle spie tra le sue fila. Non c’era più speranza.


“Dicci dov’è!”, esclamò l’ufficiale, puntandogli contro il fucile al plasma.


“Chi?”


“Il dio.”


“Non so di cosa tu stia parlando.”, rispose, calmo, dissimulando il suo stupore.


“Non prendermi per il culo!”, urlò Kobayashi, schiaffeggiandolo, “Sappiamo tutto, Jano Day-Nell. La mia famiglia ha trovato tracce del tuo passaggio in tutto il corso della storia. Prima che il pianeta diventasse inabitabile, cinquecento anni fa, siamo persino riusciti a trovare Atlantide e ad impadronirci della tecnologia che può piegare il dio al nostro volere. Abbiamo bisogno di lui per sconfiggere l’Unione!”


“Stai delirando.”


“Ah, davvero? Non conosci neanche lei? La sola ed unica che abbia incontrato il dio? Era una mia antenata!”, esclamò attivando il proiettore olografico.


Jano guardò la bambina giapponese che Dareel aveva salvato quasi ottocento anni prima. Scosse il capo, l’aveva avvertito sulle conseguenze di quel gesto…

Non lo confortava neanche il fatto che Kobayashi non avesse tradito il suo schieramento, perché quella, senz’altro, non era la corretta via da percorrere.


“Non ho idea di dove sia. L’ho cercato per più di duecento anni e non si è mai presentato. Dubito che questo fatto sia destinato a cambiare. Tuttavia ti sconsiglio di provocarlo.”


“Ho intenzione di fare ben di più: ho modificato questa nave perché fosse la trappola perfetta.”


“E credi che lui non lo sappia? E’ molto più antico di te.”


“Ma voi siete collegati.”


Jano rise, divertito.

“Procedi, allora. Sono pronto persino a morire, ammesso che possa farlo.”


L’ufficiale sorrise.

“Qui, dove i suoi poteri sono asserviti a me, posso ucciderti.”, ribatté, sfilandosi dalla cinta un coltello e puntandoglielo alla gola.

“Mi stai ascoltando, dio!?”


“Dareel, no! Ovunque tu sia...”


“Non sono un dio.”

L’elfo avanzò oltre la porta distrutta.

“E sono qui da ben prima che ultimassi la tua trappola, umano. Se sono rimasto, è solo perché l’ho voluto. Liberatelo.”


Kobayashi tagliò le funi e si avvicinò a quello che, sino a quel momento, aveva creduto un dio.

“Che cosa sei?”


“Non ha più importanza. E, ad ogni modo, non puoi neanche controllarmi. La tua traduzione dell’atlantideo è incompleta. Ho vissuto troppo a lungo. Il mio retaggio è superiore ai vincoli della macchina che hai ricostruito. Puoi tenermi qui, puoi persino uccidermi, ma non riuscirai a farmi lanciare nessun incantesimo. La fine giungerà comunque.”


“Noi non ci estingueremo! Abbiamo lottato per sopravvivere, vogliamo farlo e, credimi, sono pronto a fare qualsiasi cosa!”


“Sei libero di desiderare quel che preferisci, ciò non renderà te, né nessun altro su questa nave, meritevole.”, ribatté l’elfo, guardando le due flotte cominciare a scontrarsi al di là della vetrata.

“Questa è la mia ultima parola.”


Kobayashi gli si scagliò contro con il coltello stretto in pugno, intenzionato a ferirlo per obbligarlo a collaborare. Jano si frappose, inaspettato e improvviso, e un gemito strozzato gli sfuggi dalle labbra quando la lama lo trafisse al petto. Cadde, consapevole che, quella volta, non ci sarebbe stato alcun ritorno. Provò sollievo, quando finalmente il suo corpo si schiantò sul pavimento con un tonfo leggero.


Il calore delle fiamme della furia dell’elfo non lo scalfì, ma si sorprese quando, nella luce rossastra di quell’inferno, Dareel si inginocchiò al suo fianco e lo sollevò tra le braccia.

Si aggrappò alla tuta che indossava, guardando il suo bel viso. La certezza che quelli sarebbero stati gli ultimi istanti in cui avrebbe potuto vederlo era più dolorosa della sua mortale ferita.


“Q-quando ti ho accolto… volevo davvero dare un rifugio a te e ad Adryl. Non potevo…”, tossì, e un rivolo di sangue gli colò giù dalle labbra, “N-non potevo sapere che ti avrei amato più della mia stessa salvezza; che da lì a pochi anni l’Alto Consiglio avrebbe ordinato il vostro sterminio… Mi dispiace, Dareel! Non avevo capito che Altena fosse così… così ferita dal nostro amore da usare il mio sigillo di nascosto per denunciare la vostra presenza nella mia casa.”


“Tu non hai… non hai mai..? Io pensavo che ci avessi denunciati tu per mantenere il tuo retaggio...”


“No. Non ti ho mai tradito. Come avrei potuto? Gli anni con te sono stati i più felici della mia intera esistenza. Ho ucciso tua sorella… l’ho fatto velocemente perché non dovesse fuggire. Era troppo pura, troppo innocente. Sarebbe morta comunque, Dareel. V-volevo… che fosse in pace, e che tu fossi forte… forte abbastanza per sopravvivere, anche al prezzo del tuo odio.”


“Io…”, l’elfo esitò, mentre il suo abbraccio si faceva tremante e i suoi occhi si inumidivano di nuovo dopo ere di sterilità.


Jano gli carezzò il viso.

“C’è del buono in noi, anche se non riesci a vederlo… p-piangi, Dareel! T-ti prego...”, sospirò, prima che il suo sguardo si spegnesse per sempre.


Dareel lo strinse e gridò il suo dolore sulle sue labbra, e tra i suoi singhiozzi e le sue lacrime, la base esplose.

L’onda d’urto si propagò per migliaia di chilometri, mandando in tilt le armi delle due flotte, forzando la fine delle ostilità.


Guardate la Terra!”, esclamò il generale dell’Unione in un comunicato a tutte le navi.

Sta risorgendo!



Fine




1): Il dio giapponese delle tempeste.


N.d.A.: Eccoci qui alla fine. Dunque, questa è la prima storia originale che pubblico in questi lidi. Per quanto bizzarro, non era stata scritta per essere postata proprio l’11 Settembre, dal momento che tratta anche di questo, ma il destino ha voluto così.
Se vorrete lasciarmi una recensione, un parere, una critica, sarò felice di leggere i vostri pareri. Grazie per essere arrivati sin qui.
Un bacione,
Ros.


   
 
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