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Autore: Alaire94    12/09/2014    6 recensioni
Molto bella, quanto crudele diceva la gente di Marfisa D'este, nobildonna ferrarese del XVI secolo.
La leggenda narra che il suo spirito si aggiri ancora tra le vie di Ferrara, alla guida di un cocchio trainato da cavalli bianchi e seguito dalla lunga schiera degli uomini a cui strappò il cuore dal petto. Qualcuno dice anche di averla vista girovagare tra le mura della palazzina a lei dedicata, la stessa dove Sabrina, una giovane donna appena laureata e con la repulsione verso gli uomini, ha appena trovato lavoro.
Terribili visioni, inspiegabili istinti omicidi perseguitano la ragazza, almeno finché non arriva un bizzarro e misterioso uomo che sostiene di poterla aiutare.
Genere: Mistero, Romantico, Storico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Capitolo 1 



Era la classica mattina invernale. La nebbia aleggiava per le strade del centro storico, tutto era grigio e avvolto come in una nuvola di fumo. Le torri del castello Estense erano sagome scure e squadrate appena visibili nella foschia.

L'autobus numero 9 era gremito di ragazzini con lo zaino in spalla pronti per andare a scuola, che ascoltavano musica e ridacchiavano fra loro producendo un gran baccano. Mi sono sempre chiesta come facessero ad essere così vivaci di prima mattina, quando io a malapena riuscivo a tenere gli occhi aperti.

Tuttavia, per quanto potesse sembrarlo, in realtà quella mattina non era come tutte le altre: era il mio primo giorno di lavoro, il mio primo incarico dopo la laurea in Beni Culturali. Sebbene io non sia mai stata una persona emotiva, quel giorno ero stranamente agitata; tanti dubbi mi perseguitavano, vagavano nella mia mente senza trovare risposta né scomparire, rimanevano lì, ad aleggiare come la nebbia mattutina. Che aspetto avrebbe potuto avere il mio capo? Quali sarebbero state le mie mansioni?

Ma più di tutto, ciò che mi preoccupava era se sarei stata all'altezza dei miei compiti. Mi ripetevo di possedere sufficiente competenza, di avere una buona formazione alle spalle, ma tutto ciò non serviva a tranquillizzarmi.

Scesi dall'autobus con il viso in fiamme, tanto che non avvertii nemmeno il freddo pungente del mattino. Mi limitai a camminare a passo spedito verso Palazzina Marfisa D'Este tenendo stretta la borsa al fianco. Non fu difficile individuarla - d'altronde mi ero ben informata prima di presentare domanda di lavoro- .

Era un edificio in mattoni a vista piuttosto basso e dalla facciata pulita in stile rinascimentale. Il portone non era particolarmente imponente, incorniciato da due colonne ioniche e da un architrave in stile classico il cui bianco candido contrastava sul rosso dei mattoni.

Entrai e venni subito accolta dalla biglietteria e, più a destra, dal banco informazioni. Quest'ultimo non sembrava in utilizzo a giudicare dalla sedia vuota e dalla scrivania ricoperta di gadget e volantini di ogni tipo; che fossi io a dover ricoprire quel ruolo?

La donna alla biglietteria, invece, perfettamente truccata, pettinata e ben vestita, se ne stava seduta alla scrivania di fronte al computer con aria piuttosto annoiata.

«Buongiorno», salutai, capendo che non si era accorta di me.

Si girò e non appena mi vide, il suo viso parve illuminarsi: probabilmente trovava più interessante stampare qualche biglietto ai visitatori che dedicarsi alle sue mansioni più tecnologiche.

«Buongiorno, vuole visitare il museo?», domandò, con aria gentile.

Mi avvicinai di qualche passo.«No, ecco... ho un appuntamento per firmare il contratto di lavoro», spiegai, con la bocca impastata dall'agitazione, mentre con mani tremanti estraevo dalla borsa la cartellina con i miei documenti.

La signora si illuminò ancor di più.«Ah, certo! La stavamo aspettando! Ora la accompagno subito in ufficio», affermò, facendomi segno di seguirla dietro la scrivania, dove si trovava una porta bianca.

«E' arrivata la signorina per il nuovo posto di lavoro», comunicò, aprendo la porta quel tanto che bastava perché chi c'era dall'altra parte la vedesse.

Udii solo dei leggeri borbottii, dopo i quali, la signora spalancò la porta e mi lasciò entrare.

Era una stanza né troppo stretta, né troppo spaziosa. Era grande abbastanza per contenere quattro lunghe scrivanie sommerse di carte, tre fotocopiatrici negli angoli, già in funzione nonostante fosse mattina presto, qualche libreria piena di cartelle colorate e due o tre piante ornamentali che soffrivano per l'incuria.

Sulla destra si trovava un'altra porta, oltre la quale poteva intravedere alti scaffali pieni delle carte ingiallite di un archivio.

«Buongiorno», mi salutò l'unica persona presente nella stanza, alzandosi in piedi. Era una donna sulla trentina, alta, magra e ben vestita, con lunghi capelli biondi tinti che le incorniciavano il viso e un sorriso fin troppo raggiante. Mi porse la mano, che afferrai cercando di infondere sicurezza nonostante l'agitazione.«Io sono Veronica, la vicedirettrice del museo... accomodati pure», disse, indicandomi la sedia dall'altra parte della scrivania.

Prese tra le mani un plico di fogli, che mi porse insieme a una penna.«Questo è il contratto: vi sono scritte tutte le condizioni che erano già state accordate, ma se vuoi leggerlo ti lascio qualche minuto».

Si voltò verso la fotocopiatrice alle sue spalle per prendere un altro plico di fogli freschi di stampa. Mi porse anche quello. «E questo è il regolamento».

Annuii e, nonostante l'ansia mi intorpidisse il pensiero, cercai di leggere velocemente i fogli e di comprenderne il contenuto. Cominciai dal contratto, che mi sembrò la cosa più importante e, dopo aver apposto la mia firma in fondo ai fogli, lessi anche il regolamento dove erano indicate le norme di comportamento e le mie mansioni.«Quindi il mio compito sarà stare al banco delle informazioni?», chiesi porgendo anche l'ultimo plico, già corredato della mia firma.

La vicedirettrice staccò gli occhi dallo schermo del computer che aveva davanti e la guardò.«Certo, ma siccome l'afflusso di visitatori non sarà sempre regolare, ti spetteranno come a tutti noi compiti di archiviazione e burocratici», spiegò, sistemando i fogli che avevo firmato in una cartellina gialla.«Ad ogni modo, sarà Roberta, che hai incontrato prima alla biglietteria, ad affiancarti nel tuo periodo di prova e a rispondere alle tue domande», concluse, alzandosi di nuovo in piedi e accompagnandomi alla porta.

«Grazie mille di tutto», ringraziai porgendo la mano.

Veronica la afferrò.«Di niente, ti do ufficialmente il benvenuto fra noi e buon lavoro!».

«Anche a lei!», risposi, prima che ritornasse ai suoi lavori.

Non appena Roberta mi vide, mi rivolse un altro dei suoi luminosi sorrisi. Si alzò dalla scrivania e mi si avvicinò, porgendomi la mano.«Prima non ci siamo presentate: sono Roberta».

Afferrai la mano che mi porgeva.«Sabrina, piacere».

«Non so se Veronica te ne ha già parlato, ma ti aiuterò in questi giorni, spiegandoti un po' quello che devi fare».

Annuii.«Sì, me l'ha detto».

Roberta si guardò un attimo attorno, come se stesse pensando a dove cominciare. Nel frattempo io potei osservarla meglio, cercando di immaginare che tipo di persona potesse essere. Dimostrava più o meno quarant'anni, ma chi poteva dirlo? Forse ne aveva qualcuno di più, nascosto sotto il trucco. Aveva i capelli neri raccolti in una crocchia sulla nuca, con qualche ciocca che le ricadeva ai lati del viso, le labbra sottili messe in risalto da un rossetto rosa, il naso piccolo e grazioso. Soltanto qualche ruga attorno agli occhi e i rotolini suoi fianchi che si intravedevano sotto la camicia mi facevano capire che, nonostante portasse bene l'età, non poteva essere giovane. Tuttavia, fino a quel momento mi aveva dato l'impressione di essere disponibile e piuttosto gentile, cosa che non sempre accadeva nei luoghi di lavoro.

«Beh, innanzitutto, questa sarà la tua postazione», cominciò, indicando la sedia vuota di fianco alla sua scrivania.«Dopo provvederemo a spostare tutte queste carte, ma prima...», frugò tra alcuni fogli di fianco al computer,«questi sono i tuoi orari, si differenziano dai miei solo per il martedì, il giovedì e il venerdì in cui dovrai soffermarti una mezzora in più per il controllo delle sale e per chiudere gli uffici. Gli altri giorni sarò io a farlo», mi spiegò, porgendomi un foglietto.

Gli diedi un'occhiata veloce, promettendo a me stessa che l'avrei esaminato più attentamente quella sera una volta arrivata a casa.

«Ora vieni, ti faccio fare un giro delle sale», disse Roberta, già incamminandosi con un ticchettio verso l'inizio del percorso espositivo.

Notai che aveva il passo svelto e non era facile per me che, data la mia bassa statura, non riuscivo a fare passi tanto lunghi.

«Questa è la Sala delle Imprese», annunciò Roberta, indicando attorno a sé.

Mi guardai attorno piuttosto incuriosita, provando la consueta sensazione di ammirazione nell'entrare in contatto con un ambiente che aveva alla spalle cinquecento anni di storia.

Il soffitto era riccamente decorato, con un intrico di immagini di fiori, divinità e, come sapevo da ciò che avevo studiato, delle imprese di Francesco d'Este, padre di Marfisa d'Este, a cui era stata dedicata la Palazzina.

Alle pareti erano appoggiati mobili scuri e antichi, scheggiati qua e là o bucati dai tarli laddove il restauro non era stato sufficiente, e strette sedie di legno dall'imbottitura annerita e rovinata dal tempo.

Ciò, però, che mi colpì fu il dipinto appena a sinistra dell'entrata. Raffigurava chiaramente Marfisa d'Este, in un abito scuro del tempo, a maniche lunghe e dal colletto bianco che svettava sullo sfondo nero, così come il suo viso, bianco come il latte e grazioso, gentile, con le labbra rosee a cuoricino e la fossetta sul mento. Sembrava guardarmi intensamente e con un che di affascinante che non riuscivo a spiegarmi.

«Era bella, non è vero?».

La voce di Roberta mi fece sobbalzare, ma mi ripresi quasi subito. «Sì, a quel tempo doveva esserlo... sembra gentile».

«Sembra, infatti», commentò con una leggera risata acuta.

Mi voltai a guardarla; dovevo avere un'espressione interrogativa dipinta sul viso. «Che vuol dire?».

«Non conosci la leggenda?», domandò, sollevando le sopracciglia in segno di sorpresa.

Scossi la testa. «No, ho studiato la storia della Palazzina, di Marfisa e della famiglia, ma non mi è capitato di incontrare una leggenda», mi giustificai.

«Si dice che avesse molti amanti e che li uccidesse uno ad uno. Secondo la leggenda ancora oggi il fantasma dovrebbe aggirarsi in questo palazzo e per le strade del centro su un carro d'oro seguito dagli spiriti degli uomini che ha ucciso».

A quelle parole, riportai lo sguardo al quadro, cercando qualcosa nel suo sguardo, nel suo volto che potesse riportare a quella leggenda, ma non lo trovai: quell'aria innocente mi suggeriva tutt'altro.

«Ovviamente non c'è nulla di vero: è da anni che lavoro qui e non ho mai visto niente, a parte qualche gatto della polvere di tanto in tanto», scherzò, per poi farmi segno di raggiungerla nell'altra sala.

Salendo un piccolo gradino mi ritrovai nella stanza successiva. Un loggiato a tre archi, che anticamente si apriva sul giardino, era stato chiuso da pesanti porte di legno, mentre il soffitto era decorato anch'esso con affreschi di divinità propiziatorie. Ciò, però, che attirò di più la mia attenzione fu il ritratto sopra la porta d'uscita; era di dimensioni ridotte e non riuscivo a scorgere ogni particolare, in parte per la lontananza e in parte perché sbiadito dal tempo, ma mi suggeriva una sensazione di mistero e di vaghezza.

«E' Marfisa?», domandai, sicura, mentre staccavo gli occhi dal ritratto per spostarli su Roberta. La mia non era altro che una richiesta di conferma, più per cercare di fare una buona impressione per le mie conoscenze artistiche che per altro. D'altronde, quello era il mio primo giorno di lavoro e, ora che l'agitazione era scomparsa, volevo dimostrare di essere all'altezza del mio compito e iniziare in positivo la mia giornata lavorativa.

«In realtà quella è la sorella, se guardi bene, sotto il ritratto è scritto il suo nome, Bradamante»

La risposta che Roberta mi diede fece cadere il muro di sicurezza che avevo costruito. Era un presagio? Quella giornata sarebbe stata un inferno anziché entusiasmante come l'avevo immaginata?

Volevo dimostrare la mia competenza e invece non avevo fatto altro che dare la prova di essere una pessima osservatrice, qualità indispensabile per chi doveva avere tutti i giorni a che fare con l'arte. Rimasi in silenzio qualche istante, giusto per maledirmi per la mia sbadataggine.

Poco dopo mi ripresi, accorgendomi che Roberta stava sorridendo. «Tranquilla», disse vedendo la mia espressione preoccupata, «è mattina per tutti». Fece una pausa, fermandosi a guardare anche lei il ritratto , stupendomi che ne fosse così incantata nonostante lo vedesse tutti i giorni. «Comunque, questa è la Loggetta dei Ritratti, e quella è Marfisa», si voltò per indicarmi la mezzaluna di parete al di sopra della porta da cui eravamo entrate, «le due sorelle sono state ritratte una opposta all'altra». Si portò una mano alla guancia, «sai... l'ho sempre trovata curiosa questa cosa, non ti pare? Perché devono essere opposte? Gli opposti di solito sono in lotta fra loro, come il bene e il male».

Inclinai la testa da un lato mentre osservavo il ritratto di Marfisa, anch'esso sbiadito dal tempo. Il viso ormai si era confuso con il muro dietro di esso, solo gli occhi parevano risaltare. Rispetto al dipinto della sala precedente mi parevano taglienti e il suo vestito, rosso cangiante, quasi mi feriva gli occhi. Mi provocava una strana inquietudine.

«Forse stanno semplicemente una di fronte all'altra, si guardano negli occhi in segno di affetto».

Appena finii di parlare, una musica cominciò a risuonare da lontano. Era lenta, grave, inquietante come un esercito in arrivo per razziare e saccheggiare.

«Tranquilla, è il video nello Studiolo, la guardasala deve averlo appena acceso», spiegò vedendo che mi guardavo attorno senza riuscire a capire da dove provenisse il suono. «Ad ogni modo, la tua interpretazione delle due sorelle opposte mi sembra interessante».

Roberta mi appoggiò una mano sulla schiena e mi invitò ad andare avanti. «Non per metterti fretta, ma abbiamo ancora altre stanze da vedere e se la direttrice scopre che stiamo perdendo tempo, rischiamo un rimprovero!».

Alle sue parole mi affrettai a seguirla. Ancora non avevo iniziato a lavorare e già rischiavo il primo rimprovero; dopo la gaffe di poco prima non si può dire che ne fossi entusiasta.

«Hai ragione, scusami, ero rimasta affascinata dai ritratti», mi giustificai cercando di mantenere un comportamento amichevole con Roberta.

«Non ti preoccupare, è il tuo primo giorno e io sono qui per darti le giuste informazioni per iniziare bene», il viso di Roberta si allargò con un sorriso, che mi aiutò a rilassarmi e a scacciare i pensieri negativi che si stavano formando in quei primi istanti.

Mi mostrò velocemente anche le altre sale del percorso e dovetti confessare che fu davvero interessante vedere dal vero ciò che avevo studiato per ottenere il posto. La Sala di Fetonte, con quell'affresco sul soffitto che mostrava dal basso il Carro del Sole guidato dal mitico Fetonte, la Sala dei Banchetti, lo Studiolo, la Sala Grande... non mi era difficile immaginare gli abitanti del tempo, le donne coi loro abiti pomposi e le acconciature raffinate e gli uomini impettiti nei loro abiti scuri, ballare nella Sala Grande o mangiare attorno a lunghe tavolate nella Sala dei Banchetti mentre musiche allegre sovrastavano le grida festose.

Quando ritornammo alla biglietteria, dopo aver fatto il giro completo, spostò qualche altra carta dalla scrivania e ci posizionò una cartellina con dei fogli.«Sono moduli da compilare, utilizzando questi dati», mi spiegò allungandomi un altro foglio dove erano indicati i dati che riguardavano il museo.«Sai, non sempre ci sono visitatori che chiedono informazioni, perciò nel tempo libero ti puoi occupare delle faccende burocratiche e quando c'è fila qui da me puoi fare qualche biglietto anche tu».

Annuii, sebbene rimasi molto perplessa dalle sue parole: mi aspettavo che avrei avuto mansioni ben precise, invece mi stupiva che non ci fosse un'organizzazione così ferrea e sembrava che io, in un certo senso, riempissi i buchi lasciati dagli altri. Non era esattamente ciò che mi aspettavo.

«Non fare quella faccia... Sabrina, giusto?», domandò, fermandosi dalla lettura di un opuscolo del museo e io annuii.

«Poteva andarti peggio: gli ultimi arrivati di solito li mettono a fare i guardasala... tutto il giorno in silenzio a guardare il vai e vieni di visitatori», osservò, forse nel tentativo di consolarmi, ma io in realtà cominciavo a sentirmi addosso una sorta di frustrazione. D'altronde cosa dovevo aspettarmi? Come diceva Roberta, ero l'ultima arrivata.

A quel punto, con un sospiro mi immersi nel lavoro.

Verso le dieci di mattina cominciarono ad arrivare i visitatori, a cui Roberta vendeva i biglietti e a cui io davo i piccoli opuscoli sul museo, dicendo giusto due parole su cosa avrebbero visto, perché al resto ci avrebbe pensato la guida. Poi una volta finito il giro, mostravo loro qualche souvenir o libro specializzato che, come mi accorsi via via che il tempo passava, non sarebbero andati venduti.

Per il resto non era altro che compilare moduli su moduli e riordinare fogli in ordine alfabetico o di data, fare fotocopie e altri noiosissimi compiti.

«Questo non è il nostro numero di telefono!», mi fece notare Roberta verso le quattro del pomeriggio, quando ormai non pensavo ad altro che ad andare a casa e stendermi sul divano.

«Come?»

«Hai sbagliato a copiare il numero», insistette, indicandomi uno dei moduli che avevo appena compilato e che lei stava ricontrollando.

Presi in mano il foglio dei dati campione e lo confrontai. Con orrore notai che avevo confuso due cifre.«Accidenti, scusami tanto».

«Devi stare attenta, certi errori possono causare problemi», disse con una nota di rimprovero.

«Va bene, la prossima volta farò più attenzione».

Dentro di me vi era un misto di frustrazione e insofferenza che mi faceva sentire a disagio ogni secondo di più. Prima la gaffe che avevo fatto alla Loggetta dei Ritratti e ora questo: cominciavo ad aver paura che non sarei riuscita a superare il periodo di prova. E poi? Che avrei fatto? Sarei finita sotto un ponte, senza un lavoro: se non ce la facevo lì, non ce l'avrei fatta da nessun'altra parte.

Dopo circa mezzora potei finalmente andare a casa, non prima che Roberta mi mostrasse come dovevo effettuare la chiusura del museo, visto che il giorno dopo avrei dovuto farla da sola come stabilito nell'orario di lavoro.

***

Angolo autrice: 
ecco qui il primo capitolo con presentazione della nostra protagonista e della Palazzina. Forse per il momento ancora nulla di eccezionale ... ma dal prossimo capitolo inizia a farsi interessante quindi abbiate pazienza! Vi aspetto alla prossima! 

   
 
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