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Autore: SignoraKing    21/09/2014    1 recensioni
Un’intera nottata
buttato vicino
a un compagno
massacrato
con la sua bocca
digrignata
volta al plenilunio
con la congestione
delle sue mani
penetrata
nel mio silenzio
ho scritto
lettere piene d’amore
Non sono mai stato
tanto
attaccato alla vita.
(Veglia - Giuseppe Ungaretti)
[Questa storia partecipa al contest "This is war" di ManuFury]
Genere: Guerra, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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La pioggia ticchettava lieve alla finestra, le gocce sembravano tante piccole mani che bussavano e chiedevano di entrare.
Iancu si girò nel letto stanco di sentire quel rumore. Non aveva dormito per tutta la notte; dormiva poco da quella notte ormai lontana nel tempo, ma viva nella sua mente. Era stato dimesso da qualche settimana eppure aveva rimandato l’incontro che lo aspettava ogni volta che arrivava il giorno che si era prefissato; una volta per un dolorino alla spalla, una volta per andare a fare una passeggiata, tutte scuse inventate per non rendere reale la sua situazione. Ma quel giorno era deciso: sarebbe andato da Ariana e le avrebbe parlato, gli avrebbe dato il suo sostegno se lei lo avesse voluto, gli avrebbe dato tutto, solo per restare fedele ai pensieri che aveva avuto nella solitudine di quella lontana notte di plenilunio che lo aveva cambiato - e in parte distrutto.
Mise giù dal letto la gamba sana e prese la protesi (“La vecchia sa preoccuparsi quando gli fa comodo” pensò amaramente.) da vicino al misero letto che aveva raccattato da un vecchio mercatino per due soldi. Si vestì con calma, nervoso al pensiero di ciò che avrebbe detto alla moglie di Sava, a tratti impaurito di fare una cosa così reale che avrebbe reso tutto concreto. Ripensò agli occhi morti dell’amico, alle stelle che si riflettevano nel verde delle iridi e sentì una nuova forza che lo animò e lo rese coraggioso.
Lo avrebbe fatto, a costo di soffrire per tutta la vita pensando alla realtà di quella perdita.
Inconsciamente scelse i vestiti migliori che possedeva, una bella camicia azzurra e dei pantaloni nuovi che non aveva mai indossato. Mise in tasca la moneta d’argento che teneva sempre sul comodino e diede uno sguardo veloce allo specchio.
Vestito così  sembrava un uomo come un altro, serio, quasi un benestante. Il viso era segnato da profonde rughe e occhiaie che disfacevano tutti i pensieri che potevano crearsi con la vista degli abiti. I capelli erano cresciuti, non voleva più vedere il taglio da militare che portava quando era nell’esercito.
Si passò una mano sulla testa e tirò indietro le ciocche che aveva davanti agli occhi. Due iridi nere spiccavano sul viso pallido come pozzi in un paesaggio innevato. Portava dolore in quelle voragini, eppure poteva passare per odio per come lo mascherava bene.
“Come sono cambiato.”

Scese dal pullman e si strinse nel cappotto sotto alla pioggia incessante. La stradina era deserta e i palazzi era illuminati da vecchi lampioni arrugginiti; le finestre erano quasi tutte sprangate e le poche che non avevano assi sopra erano chiuse e buie.
Arrivò all’angolo, davanti all’unico palazzo che sembrava abitato. Lo guardò un attimo, pensieroso, pensò era ancora in tempo per andarsene.
“No, devo farlo.”
Suonò una volta: non rispose nessuno. La seconda volta una voce di donna chiese scontrosa chi fosse.
«Sono Iancu.»
Il cancelletto si aprì senza altre parole dalla donna.
Le scale erano ricoperte di polvere, solo la parte centrale esulava dalla sporcizia. Il corrimano della prima rampa era caduto e giaceva come un cadavere per terra, ricoperto di polvere anch’esso.
La porta al secondo piano era socchiusa, due grandi occhi verdi lo guardavano dallo spiraglio curiosi. Si avvicinò e sorrise nonostante i pensieri tremendi che gli evocavano. Il bambino spalancò la porta e gli corse incontro.
«Zio Acu
«Ha chiesto molto anche di te, sai?» Una giovane donna era comparsa alle spalle del piccolo e lo guardava malinconica. «Pensavo che saresti venuto prima.» Una punta di risentimento spiccava dalle sue parole.
«Ho avuto dei problemi.» La voce del ragazzo era un sussurro pieno di senso di colpa. Prese in braccio Filip ed entrò.
Ariana gli servì del tè in una vecchia tazza e si sedette di fronte a lui, gli occhi castani carichi di aspettative.
«Non ho più zucchero. Di questi tempi di crisi…» Lasciò in sospeso la frase incapace di dargli un continuo che non sembrasse una scusa.
Iancu agitò la mano in un gesto indifferente. «Non importa. Lo bevo amaro.»
Il liquido caldo lo riempì di rinnovato coraggio. Era deciso.
«Sono venuto per dare una cosa a tuo figlio.» Fece per prendere la mano in tasca, ma lei lo fermò.
«No, se lo fai poi te ne andrai. Ho bisogno di qualcuno che mi stia vicino.»

Era arrivata la sera e finalmente la pioggia era cessata.
Avevano passato la giornata sul piccolo divano nella stanza adiacente insieme al piccolo Filip, un po’ dormendo e un po’ consolandosi in silenzio.
«Devo andare Ariana. Se vuoi torno domani.»
«No, domani parto per il campo per le famiglie dei soldati. Mi hanno chiamata dicendo che mi daranno un alloggio e del cibo e ora ho bisogno di questo. Sai, per lui.» Guardò il figlio con gli occhi tristi. «Voglio che viva meglio di quanto non abbiamo vissuto io e Sava.»
Iancu annuì e si avvicinò al bambino.
«Ehi capo, guarda qui.» Gli tese la moneta bucata al centro. «Era di tuo padre, mi ha chiesto di portartela.»
«Perché non me l’ha data lui?» Gli occhi innocenti lo sondarono e gli fecero tremare leggermente la mano.
«È dovuto partire urgentemente per una missione.»
«Per salvare il mondo?»
Il giovane uomo sorrise. «Sì capo, per salvare il mondo.»
Filip prese la moneta, la guardò, la girò e poi la tese di nuovo a Iancu. Aveva notato qualcosa nello sguardo dell’uomo che lo aveva portato a rinunciare a quel regalo.
«No, zio. Io di mio padre posso avere tutto, a partire dagli occhi. Tienila tu.»
Nonostante i suoi 4 anni capiva tante cose e sapeva che era una cosa giusta lasciare la moneta a lui.
Si sorrisero complici, mentre la moneta tornava nel suo posto nella tasca del cappotto.

   
 
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