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Autore: Angelo_Stella    21/09/2014    2 recensioni
1941, Berlino.
Duncan, un ventiduenne tedesco particolarmente fedele al Fuhrer, è un nazista perfetto. "Deutschland, uber alles!" è la frase che ripete al mattino, quando si alza per mirarsi allo specchio e crede fermamente nel suo significato. Ma le convinzioni che gli sono state trasmesse con tanta foga andranno a infrangersi.
È Trent che, tra un soffio di voce e una nota di una chitarra malandata, gli insegna la bellezza dell’amore.
Tratto dal testo
“Cosa ci sarebbe di sbagliato? Che ne sappiamo noi di che cosa sia o cosa debba essere l'amore? Solo perché il matrimonio è tra uomo e donna diamo per scontato sia così sempre? O è perché ci hanno abituato? Perché siamo ancora giovani per capire o perché semplicemente il pensiero … ci fa schifo?"
“Io … Insomma … E' così che va avanti il mondo, o no? Con l'amore di un uomo e una donna."
-
Siamo nel 1941 e Hitler trova in Ernst Röhm una minaccia.
Siamo nel 1941 e: “ [...] Tutto ciò richiede l'adozione di più incisive misure contro queste malattie nazionali. “
Siamo nel 1941 e: "Dobbiamo sterminare la radice e i rami di questa gente... gli omosessuali devono essere eliminati!".
....................................
Baci, Angelo e Stella
Genere: Sentimentale, Storico, Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: Shonen-ai, Yaoi | Personaggi: Duncan, Sorpresa, Trent
Note: Lime | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Contesto generale
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Salve a tutti e benvenuti/ bentornati a una storia scritta a quattro mani dalla sottoscritta (che sta volta ha i capitoli dispari) e dalla magnifica Stella_2000, che ringrazio, perchè l'idea è stata sua! xD
Ti adoro Stellina! <3 Grazie ancora!
Dunque, il contesto è un po' diverso, sta volta e visto che il primo chappy è toccato a me, non vi dico nulla, voglio vedere cosa deducete da quelle info che vi abbiamo dato nell'introduzione ... Tutto, c'è scritto tutto, ma fa niente, son dettagli! xP
Spero vi piaccia questo primo capitolo e che ci benedirete entrambe con una recensioncina piccina picciò ;)
Grazie a chiunque leggerà :)
Un inchino e un bacio, Angelo




Our love is a mistake,
now, forever.
For them.

 



Capitolo 1
 

COLLABORAZIONE CON Stella_2000

Splendeva il sole, su Berlino.
Le donne dalle trecce bionde iniziavano in quel momento a spalancare le finestre per assaporare l'aria pura del mattino. Scrollavano gli abiti dalle terrazze, dando anche una sistemata alle bandiere, mostranti fiere una svastica nera. Preparavano la colazione per i figli, i mariti e le figlie, tutti luminosi d'oro nei capelli e pieni di lapislazzuli negli occhi.
Benedicevano tutti insieme il Fuhrer per il suo governo, a volte si sentiva un padre di famiglia, dalla finestra aperta, con un vocione tonante, quasi ubriaco, strillare: "Deutschland, uber alles!".
C'erano certe faccette innocenti che guardavano fuori e davano il benvenuto al sole. Erano bimbetti, la maggior parte delle volte, così insensibili a certi "discorsi da adulti". Altre volte erano giovani signorine, che salutavano con una mano e sguardo sognante i soldati per le strade, che credevano al fatto che un cielo pulito da nuvole fosse il segno dalla loro fortuna.
Ogni mattina aveva il privilegio di godere dello spettacolo della capitale tedesca nel suo risveglio pieno di luce, parole dai suoni barbari, capelli biondi ed occhi turchesi, giovincelli che si rincorrevano per le strade, facendo la gara a chi arrivava primo a scuola, magari squadrando di tanto in tanto uno che non aveva la fortuna d'esser fatto d'oro e acquamarina, ma aveva i capelli e gli occhi di pece e una Stella d'Israele sul braccio.
Al suo posto, chiunque avrebbe esultato: aveva ai suoi piedi la città e non ne faceva parte. Non era tedesco, ma non c'era motivo d'emarginazione. Eppure, non gliene fregava nulla: era dalla parte di quei poveretti guardati male, quelli dai capelli color cenere.
Lui aveva i capelli color cenere. Aveva gli occhi verdi, la pelle pallida e ogni mattina, prima ancora che si spalancassero le finestre, era già accampato sotto un tettuccio, che lo riparava dalla polvere che di lì a poco sarebbe venuta giù, da lui. Quasi ne facesse parte: aveva la città, ma per la città non era che polvere, cenere, come i suoi capelli.
Solo una chitarra con cui suonare, una magra consolazione e piccola compagnia. Solo poche e minuscole monete di rame ai piedi, che si confondevano con la strada, solo un rifugio poco in periferia, in cui tornare, mentre "i dorati", come li chiamava lui, se ne stavano in casa a bere birra e mangiare delizie.
Lo sapeva: avrebbero potuto dargli qualcosa in più, non se ne sarebbero nemmeno accorti, con tutti i tesori che sapeva esser nascosti nelle loro ville.
I suoi unici amici, erano quelli un po' simili a lui, quelli con gli occhi scuri scuri, che ogni tanto gli portavano qualcosa. Strano: quelli che avevano meno, davano di più. Forse, lo capivano meglio.
Faceva nulla, comunque, si beffava di loro più e più volte, parevan dei pazzi: lo sentivano ogni volta suonare, anche solo poche note e cantare in quella lingua strana ed incomprensibile, così dolce. Non aveva nessun suono duro e non graffiava, era la melodia stessa, si fondeva con la musica. Ma nessuno capiva fosse lui a suonare e si guardavano intorno, come ammattiti. E quei pochi che capivano, ridevano, facendo i loro commenti sulla sua musica "strana", convinti non li capisse.
Trent, capiva eccome! Era intelligente, aveva imparato la lingua tedesca da solo, quasi e solamente, sentendo e risentendo quei suoni e le parole, guardando i gesti ed associandoli ai termini. Se avesse voluto, avrebbe certamente saputo parlare la loro lingua.
Invece, loro non avrebbero saputo parlare la sua, ne era certo: non facevano mai caso ai dettagli, non si fermavano mai a pensare e tutto nella vita di ognuno andava avanti con una routine perfetta e pressoché meccanica. Si chiedeva come facessero a distinguere un giorno dal successivo.
Si domandava se dessero mai un'occhiata ai figli, per vedere che crescevano o se un giorno, tutt'a un tratto e chissà come, li guardassero negli occhi e vedessero un uomo o una donna ormai grandi, pronti per passare la soglia di casa.
Si chiese quante volte in un anno si guardassero allo specchio, vedendo le rughe e i capelli d'oro perdere valore, diventare argento, il metallo per chi arriva secondo. Per chi non è arrivato mai primo, perché già si credeva incoronato.
Pensò che molto probabilmente, nessuno aveva mai visto la splendida alba che Berlino mostrava: quei colori del cielo così limpidi e incantati, sfocati. Rosso, rosa, giallo e violetto. Se avessero mai sentito il tepore del sole a quelle prime ore del mattino. Non l'avrebbero sentito mai. Il caldo del mezzogiorno e la sera bruna e limpida. La notte di stelle, non la vedevano mai.
E allora, anche quel mattino, pensandoci, Trent provò pena per loro, forse troppo abituati ad avere tutte quelle meraviglie semplicemente accanto, per guardarle davvero. Anche solo per un attimo.
Ancora una volta smise di invidiare le ragazze dalle trecce bionde e gli occhi turchini, i bambini lucenti che saltavano per le strade, correvano per andare a scuola, le donne che s'incontravano sulle soglie e facevano i lavori di casa, i soldati che passavano per le strade.
Che se lo ricordasse un po' meglio, l'indomani mattina: non aveva nulla da invidiare, a Berlino. Nessun gioiello, non tutto l'oro dei capelli e le pietruzze luccicanti negli occhi. Non la routine così estenuante, non i canti, le bandiere e le svastiche, che manco sapeva cosa fossero.
Che ci pensasse prima, il giorno dopo: muovevano la polvere che erano, i tedeschi. La polvere di un popolo tutto uguale, senza idee, senza iniziativa.
Ceco ubbidiente al Fuhrer, così lo chiamavano. Il Capo, l'inventore di quel simbolo, della svastica. Il governo, il potere, la legge. Adolf Hitler.
Amavano il suo nome. Amavano il loro Paese. Amavano la loro lingua.
E allora "Detschland, uber alles!", ogni giorno, ogni mattino fuori dalle finestre e ogni sera nei bar, uomini ubriachi, persino nell'ebbrezza, la loro indiscussa lealtà verso la Germania e verso il Fuhrer.
E Trent, allora, certo che non lo potessero capire, cantava ciò che vedeva nella sua lingua, quella lingua così dolce e che tanto pareva complessa, nella sua armonia. In una poesia che in realtà bloccava le strade, provocava sussurri ed ammirazione per una chissà quale meraviglia, soprattutto nelle donne, che cercavano un semplice cantastorie. Uno che non cantava di chissà che tragedia od autore, ma che solo per la lingua, anche se non lo sapeva, riceveva molteplici sguardi fugaci.
Ma erano storie semplici, le loro storie!
 
Duncan maledì il sole che entrava per l'ennesima volta dalla finestra della sua stanza e l'inondava di luce, come inondava quelle strade di Berlino piene di teste bionde. Odiava la luce, forse perché illuminava come corone i capi dei tedeschi.
Deutschland, uber alles. La Germania sopra tutti. Sempre.
Lui non aveva i capelli biondi, era moro e lo detestava: i mori erano gli ebrei. I mori erano gli inferiori. I mori non erano tedeschi! Nei mori, qualcosa non andava.
Eppure, la sua famiglia era una delle più ricche ed illustri delle città, lui era un amico strettissimo del Fuhrer, era ammirato da tutti i giovani tedeschi che avrebbero tutti voluto essere al suo posto: ricco, amico del Fuhrer! L'aveva conosciuto! Nazista perfetto!
"La Germania sopra tutti!" mormorò, davanti allo specchio, appena vestito, come sempre faceva al mattino, prima di uscire.
Sbatté la porta della camera e si mise a scendere le scale, a volte voltando la testa sugli specchi messi al muro: gli occhi. Era rinomato per quello sguardo ghiacciato, il più azzurro di tutta Berlino. Forse era per questo che nessuno faceva caso al suo colore di capelli.
"Buongiorno, Signore!"
La servetta s'inchinò, alla fine delle scale, vedendolo arrivare ed alzando solamente un poco gli occhietti imbarazzati da cerbiatta e il musino spruzzato di pepe.
"Buongiorno Courtney. E' già in tavola, la colazione?" rispose lui, quanto mai indifferente, fermandosi dinnanzi alle porte della sala da pranzo.
"Sì, Signore." rispose con rispetto la giovane, ricevendo una smorfia disgustata dal padrone, per la Stella che la ragazzetta portava al braccio.
"Ottimo!" fece, ignorando il suo ultimo inchino ed entrando in sala. "Buongiorno, madre!" esclamò a gran voce, appena varcata la soglia in maniera teatrale, com'era solito fare.
"Buongiorno!" gli fu risposto dalla donna, ancora molto giovane, seduta a sinistra.
"Duncan!"
Quell'altra voce di fanciulla lo fece leggermente sobbalzare e i suoi occhi si spostarono repentinamente sulla destra, dove una giovinetta anch'ella dai capelli neri (e anche d'occhi), se ne stava in piedi, ritta da quand'era entrato e sorrideva docilmente, nel rivederlo, finalmente. Con quei capelli scuri e gli occhi più azzurri di Berlino, famosi in tutta la capitale.
"Gwendolyn!" esclamò a sua volta il giovane Ruschtmann, facendosi più appresso alla ragazza, sorpreso di vederla ormai come una donna, bellissima e formata. Nessuna traccia della coda che teneva da bimba o di quell'aria da mocciosetta ribelle che aveva da piccola, l'ultima volta che l'aveva vista. "Sei … cambiata!"
"Anche tu!" fece lei, con un'alzata di spalle, per poi sedersi, al suo invito. "Lo sapevo che un giorno quegl'occhi avrebbero uguagliato il cielo di Berlino!" Sorrise.
"Sei così cresciuta! Che bello rivederti! Ma dimmi, ti prego: quando sei arrivata? Rimarrai per molto?" l'interpellò il ragazzo, mentre entrambi riprendevano a mangiare e bere, serviti ed invidiati dalla serva.
La madre del giovane se ne accorse e la portò via, uscendo anche lei di scena e lasciando soli quei due ragazzi che non si vedevano da tanti anni: si conoscevano fin da piccoli, ma lei, un giorno, se ne andò, per via del lavoro di suo padre, così aveva detto. Andarono a stare in Svizzera e da allora, non si erano più rivisti. Nonostante ciò, niente e nessuno aveva impedito a Duncan Ruschtmann e Gwendolyn Geschnieren di riconoscersi con uno sguardo.
"In realtà, sono solo di passaggio." spiegò la giovinetta. "Accompagno mio padre nei suoi viaggi e per raggiungere il Regno Unito, dovevamo far tappa qui. Me ne andrò domani stesso!"
"Mi spiace tanto, sei appena arrivata!" rispose con tristezza Duncan, mordendosi il labbro.
"Sì, lo so. Ma non pensarci adesso." replicò Gwen, con il suo solito tono scherzoso, flettendo la mano. "Piuttosto … Non mi porteresti a vedere Berlino?" Lo chiese con due occhi talmente dolci e profondi, che Duncan rimpianse d'averli azzurri.
 
"Ma è stupenda!" esclamò, vedendo la città dorata brulicante di persone, voci, bimbi che saltavano la corda o facevano a gara, donne che parlottavano tra loro sulle soglie, ufficiali che cordialmente la salutavano e che poi se ne andavano velocemente, alla vista del suo accompagnatore. "E' meravigliosa, Duncan! Ti spiace, se …" Indicò un negozietto, curiosa, ma il ragazzo assunse un'espressione più seria.
"Non … Non fa per noi, Gwen!" le sorrise invano, stupendola: era l'unico giorno che avrebbero potuto passare insieme! E dopo tanto tempo, non poteva entrare in un negozio?
"Ma perché, andiamo!" rispose lei, giocosa, correndo e fiondandosi dentro il piccolo edificio, senza aspettarlo. Anche perché non entrò.
Non gliene fece una colpa, Gwen non viveva più in Germania da tempo, ormai ed era certo non sapesse le leggi in vigore. Sicuramente non sapeva che quei parassiti inquinavano la purezza del sangue ariano, ogni giorno. Accoppiandosi con le loro bellissime donne, facendo bambini. Rendendo impura la loro lingua e le loro strade, con quei capelli e gli occhi color della pece.
A tal proposito, quel suono. Sempre quella chitarra a torturare le sue orecchie, sempre quella voce, la melodia troppo dolce, troppo diversa, così straniera. Quelle parole troppo armoniose, troppo lente.
Non si era mai domandato da dove venisse quel fastidioso ronzio d'api che i berlinesi erano costretti ogni giorno a sopportare. Non gli interessava: probabilmente era uno di loro, un brandello di polvere in mezzo ad altra polvere. Uno come la sua serva e come quel bimbetto che giocava con una donna altrettanto impura, al di là della strada.
Se l'avesse visto, probabilmente avrebbe fatto capire a Gwen cosa vigeva ormai a Berlino: persone come lui, che storpiavano la lingua ariana con altre dolci di miele, con parole sconosciute, quasi certamente offensive. Avrebbe sputato addosso a quella creatura, ordinando di riflettere, prima d'andare ad impolverare irrimediabilmente le strade della loro città e sarebbe stato acclamato da chiunque l'avesse sentito. Uomo, donna o bambino che avesse creduto nel Fuhrer; uomo, donna o bambino che avesse indossato quella corona d'oro che li distingueva da quelli come lui!
Forse per esaudirlo, perché anche quel dì la Fortuna sorrideva felice alla Germania, eccolo: seduto sotto il tettuccio di una delle loro case, gli occhi abbassati, certamente scuri e i capelli neri. Lo strumento imbracciato e suonato con docili dita, le labbra che si muovevano quasi impercettibilmente per seguire la musica e che spargevano nell'aria un canto gradevole in una lingua incomprensibile.
S'avvicinò a lui a grandi falcate, già digrignando i denti, pronto a calciargli in faccia terra e polvere bruciata, quale era lui, quando Gwen lo raggiunse e s'aggrappò al suo braccio, sorridente come mai, la voce squillante e gli occhi meravigliosi, luminosi.
Fu al suono della sua voce, che il giovane cantastorie alzò lo sguardo: non aveva mai sentito quella sfumatura che sapeva di lontano, quel tono d'incanto anche nella lingua di quei barbari tedeschi, pareva canto di sirena. E nonostante la suddetta mirabile creatura fosse davvero una bellissima ragazza, gli smeraldi del suo volto guardarono istintivamente il ragazzo accanto a lei, quello che tanto strattonava e a che s'era messo a prestar attenzione a lei.
Solo per un secondo, aveva visto quello sguardo, quello del ragazzo: occhi blu come nessun'altro ariano li aveva avuti mai, come non aveva mai visto nel cielo della più bella città della Germania. Gli occhi più azzurri di Berlino.
Era certo l'avesse guardato, prima di rivolgersi alla compagna. Era certo d'averlo sentito, quei passi fuori dal normale erano certamente suoi. Arrabbiati, erano venuti verso di lui quasi avesse avuto qualche colpa. Poi uno sguardo quanto mai veloce ed infine la ragazza.
Trent ammise che era davvero bella ed era era certo fosse una bambolina tedesca, ma non portava la corona né i bottoni azzurri agli occhi e nonostante la sua stranezza d'essere, i bottoni azzurri del suo accompagnatore l'avevano attratto in un secondo più di quanto avesse fatto il corpo tutto di lei in quei minuti ch'era ancora lì davanti.
Quasi se ne spaventò, chiuse i suoi e tentò di non pensarci, mentre i due s'allontanavano, a braccetto, lui continuando a voltarsi: doveva aver avuto un'allucinazione, s'era detto.
Come aveva fatto quel ragazzo a rubare due smeraldi come quelli che si ritrovava incastonati in viso? E da chi era andato a prenderli, dove?
La sua mente non realizzava seriamente queste domande, le rifiutava, terrorizzata, perché la bellezza con cui inizialmente aveva visto Gwen andava scemando e nella sua mente comparivano due occhi verdi. Allo specchio in casa sua, un giovane dai capelli neri. La sua musica e la lingua nel cervello. Lui seduto ovunque: in sala da pranzo, sulle scale. Nelle sue stanze!
E Trent, che aveva sentito di quegli zaffiri strani, in grado di prendere le donne con una sola occhiata, si morse il labbro, per poi muovere un accordo e cantare ancora, senza musica, da solo, una vecchia leggenda che gli avevano raccontato da bambino.
"Ciò di cui sappiam sognare, è il cielo.
Di volare, chi non l'ha fatto mai? O di vedere il mare?
Sognare il blu, quel blu che non si vede mai …"
Quella volta, dai passanti, vinti, arrivò addirittura qualche moneta d'argento.
 
"Arrivederci e grazie, Duncan!"
"Gwen, arrivederci! Torna a trovarmi, se puoi!" le sorrise Duncan, per poi lasciarla andare e salutarla ancora con una mano. Gli sarebbe mancata molto! Si mise a rincorrerla e fece giusto in tempo a vedere che lasciava cadere una moneta, prima di sparire, salutando qualcuno sul ciglio della via.
Forse, il ragazzo fece un cenno educato e si fermò un secondo, sta di fatto che dopo che la ragazza sparì, riprese a cantare e Duncan lo riconobbe: il suo incubo peggiore. Lo odiò più di prima, vedendolo strimpellare una melodia nuova, ma sempre così terribilmente malinconica.
Eppure, Duncan doveva ammettere che era bravo: le sue mani parevano talmente leggere da essere soffi d'aria lieve, le dita lunghissime e sporche, eppure così aggraziate, quasi femminee, che pizzicavano ogni corda con attenzione maniacale. Quasi certamente l'unica chitarra che aveva.
Gli passò davanti, infine, senza dargli un minimo d'attenzione: polvere e nient'altro, su una strada che poteva esserci, se no? Non era che polvere, un mucchietto di ossa e pelle che come tanti altri se ne stavano sulle loro strade a chiedere misere monete, anche loro color della terra. E soprattutto, lo ignorò, come se non l'avesse mai visto.
L'altro, invece, lo seguì con lo sguardo per tutta la sua camminata e allora, per il ragazzo fu come esser rallentato: tremante nelle gambe, aveva quanto mai voglia di sputargli in faccia, prenderlo a pugni. Non c'era nessuno! Magari avrebbe anche azzardato ad ucciderlo, non gli avrebbe dato più problemi.
E invece si subiva i suoi occhi addosso, chiedendosi perché mendicava, se aveva due smeraldi al posto delle comuni iridi? Perché domandava monete di rame, quando era più ricco d'ogni tedesco che portasse la sua corona dorata?
Trent, invece, si domandava il perché lo fissasse … e basta. Cos'avesse di così diverso dal resto del mondo, da quelli come lui, da meritarsi la vista di non uno, ma ben due cieli più belli di quelli di Berlino; cos'avesse mai fatto perché lo guardasse come lui lo guardava.
Lui era abituato a guardare, lo faceva normalmente. Ma i germani non rispondevano mai! Perché lui sì?
 
La terza volta non fu volontaria: nuovamente si ritrovò addosso due occhi verdi, appena svoltata la strada e una voce nelle orecchie dolcissima, un suono di chitarra ricco d'armonia e una lingua dai suoni gentili.
Si guardarono ancora, chiedendosi nuovamente come mai, ma Duncan passò oltre, come la volta precedente, quasi senza accorgersene, senza quel desiderio tempestoso di farlo a pezzi, mentre Trent cercava di convincersi che fossero solo coincidenze: lui passava, era la sua città, Berlino e pareva anche molto famoso! Un re senza corona!
La quarta, invece, Duncan lo stava quasi cercando, guardandosi intorno per tutte le vie, ascoltando bene ogni singolo suono avesse potuto udire, cercando quel suono, quella lingua, quella musica. E sembrava non esistere, solo perché lui la cercava.
In effetti, fu quando smise, che finalmente lo vide, seduto come al solito al bordo, sotto un tettuccio, al riparo dal caldo che produceva il sole a quell'ora: un po' suonava, un po' guardava la strada, sussurrando qualche parola, alcune tedesche e alcune no, come veniva. A volte giocando con la polvere.
In essa, il ragazzo lasciò cadere una moneta d'argento, ch'entrò nel campo visivo del chitarrista, così come i suoi piedi, facendogli alzare la testa. Lo guardò per un attimo negli occhi. Fece un cenno di ringraziamento. Riprese a suonare
"Parli tedesco?" fece con tono superiore il germanico.
"Sì, parlo tedesco!" rispose l'altro, appunto in quella lingua, smettendo di nuovo di suonare la chitarra e fissandolo ancora.
"E non sai come si ringrazia?" lo sfidò successivamente Duncan, seppur con voce tremante per il suo sguardo perfettamente calmo.
"Danke!" ringraziò allora Trent, abbassando un'altra volta il capo.
"Tu parli cantando?"
"Spesso."
"Conosci canzoni tedesche?"
"Poche. Più che altro, sento sempre e solo un cantato 'Deutschland, uber alles!'." rispose, con poco interesse, imitando la stridente voce di un ariano ubriaco.
Esibì un ringhio e lo prese per i capelli, facendo sì che lo guardasse in viso. Vicini. "Lo neghi?" sibilò a denti stretti, scandendo bene le parole.
"No."
Il giovane nazista lo lasciò andare, infuriato dalla sua tranquillità estenuante, sbattendogli la testa contro la casa che aveva dietro e facendolo crollare a terra, per poi ghignare. "Interessante! Io mi chiamo Duncan."
Lo guardò negli occhi, il sole riflesso in loro. La lingua tedesca non gli pareva più così barbara. "Io mi chiamo Trent."


WRITTEN BY Angelo Nero
 
   
 
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