Our love is a mistakes
CAPITOLO
2
COLLABORAZIONE
CON Angelo_Nero
Duncan
parve estasiato.
Poté
sentire nella voce del ragazzo una
nota melodiosa, dolce quanto il miele dei biscotti che sua madre soleva
dargli
da bambino. Il suo nome era... bellissimo. Si spinse un
po’più in avanti, come
per incitarlo a dirlo di nuovo, ma bloccato goffamente dal suo contegno
nazista. Gli occhi che sfidavano l’azzurro del cielo
Berlinese stavano quasi
per abbassarsi, contro i campi verdi chiaro e calmi del ragazzo che
aveva
difronte, poi se ne rese conto: stava quasi per abbassare il suo muro
formato
da pregiudizi e irragionevoli certezze di falsa superiorità.
Solo che quello
sguardo così... buon Dio, stava perdendo la ragione
–Non ho capito- disse
solamente, parlando fermamente per abitudine, senza tremare o simili.
Perso
completamente nell’osservare il movimento delle sue labbra
nel ripetere la
risposta –Trent, mi chiamo Trent- lo ripeté per
ben due volte. Colpito e
affondato. L’angelico ragazzo, per pronunciare la
“n”, aveva schiacciato la
lingua tra i denti, inumidendosi appena appena le labbra sottili.
Lì Duncan sollevò
ancora di più il mento, stringendo i pugni lungo il busto e
puntando i piedi a
terra. Voleva prendersi a schiaffi e lo avrebbe fatto (giusto per
rinsavire),
prima o poi, ora voleva solamente andarsene. Si sentiva a disagio,
sotto quella
tranquillità disarmante del ragazzo che l’aveva
colto di sorpresa. Di solito
era lui a lasciare senza parole quei poveracci, non avveniva il
contrario. Li
picchiava, fino allo sfinimento, degno di essere chiamato nazista. In
quel
momento invidiò al ragazzo quegli occhi, così
diversi dai suoi. Chiari erano
chiari, ma apparivano dolci più del cioccolato fuso,
disarmanti, sibillini e…
fantastici. Reggevano il confronto con i suoi, erano molto
più belli e umani,
ma avevano visto tanto. Forse cose raccapriccianti, forse cose che un
nazista
come lui avrebbe voluto fargli vedere. Provò per un secondo
un senso di
vergogna infinito: quegli occhi sarebbero dovuti essere nascosti alle
bruttezze
di quel mondo così rude. Erano così belli che
Duncan li avrebbe chiusi al buio,
celandoli egoisticamente alla visione del resto del popolo. La strana
sensazione che fossero più puri dei suoi, meno marcati da
oscenità crudeli
continuava a persistere nella sua mente. Avrebbe ripetuto il suo nome
come uno
stupido, ma non lo fece.
Lo
fissò per bene, mettendo su la sua
personale espressione da tedesco superiore. Quel pezzente non aveva
nulla in
comune con lui. La sua semplice camicia bianca e quel pantalone
strappato,
sporco come la sua pelle, coperta da polvere e fuliggine, non poteva
affatto
competere con la sua giacca di lusso e i suoi mocassini lucidi, che la
sua
ebrea personale doveva rendere splendenti se voleva risparmiare
frustate e
umiliazioni quotidiane. Sentirsi in quel modo a causa di quella
presenza che
doveva inchinarsi alla sua, era solo una stupidaggine. Un errore
madornale.
Avanzò due passi verso di lui, che intanto si era rialzato
da terra ed era
indietreggiato, improvvisamente spaventato dalla sua espressione. Il
tedesco
aveva contratto i muscoli del viso, facendo rimontare in lui la rabbia
e il
profondo razzismo che nutriva nei confronti degli estranei che
sporcavano le
strade della sua amata città. La mano di Duncan si
alzò e in un gesto intriso
di odio e insopportazione segnò la guancia del giovane,
facendolo sbattere con
violenza a terra. La schiena del chitarrista atterrò sul
cemento di quel
marciapiede, mentre il piede del germanico puntò dritto ai
suoi fianchi, che
calciò con ripetizione, facendolo tossire, quasi pregare con
quello sguardo che
cercava di flettere e umiliare. Non sopportava essere disarmato
così facilmente
e occhi verdi gli aveva privato la soddisfazione di poter ridurre al
nulla sia
psicologicamente che fisicamente una persona, un essere vivente come
lui, senza
rimorsi. Sul suo viso, comparve comunque un ghigno soddisfatto e
più Trent
sputava sangue contro la strada, più si rannicchiava su se
stesso e più gemeva
dal dolore, più Duncan si sentiva felice, come se stesse
compiendo il suo
lavoro, e tanto, quello stava facendo. L’ultima pedata
arrivò contro il suo
bacino. Il nazista si allontanò, annuendo fiero alla gente
del posto, che quasi
applaudiva per quello spettacolo. Persone che, Trent giurò
di riconoscerle,
avevano lasciato qualche moneta per lui. Non si sentì mai
così umiliato in vita
sua. Sottoposto a una violenza che non meritava, perché non
aveva fatto davvero
nulla! Giurò di sentirsi morire quando Duncan
sputò su di lui, insultandolo e
ricavando l’apprezzamento della gente.
Poi
se ne andò, sussurrando disprezzo
in tedesco e minacciandolo, così anche la folla di curiosi
sciamò come delle
mosche. La vittima del pestaggio si alzò, mantenendosi i
fianchi per il dolore
e chiedendosi interiormente il perché.
“Perché
quella bellezza dei suoi occhi deve essere
paragonata alla crudeltà presente in essi?
Perché
ha alzato le mani su di me, dopo avermi dato una
moneta?
Perché
passa di qua tutti i giorni, facendomi contare le
ore?
Perché
cerca di non fissarmi, di far finta che non esisto?
Perché
mi sento così giù, adesso?”
Ma
Trent non poteva sapere che quella
notte, il giovane nazista non chiuse occhio. Tormentato per le sue
azioni più
giuste che mai, secondo il suo parere. E si rigirava nel letto, quasi
con
frenesia. Comprimeva la testa sul cuscino, si metteva prono,
sprofondando nel
materasso. Aveva pure sbattuto con la fronte contro il legno. Che cosa
poteva
farci? Occhi verdi. Speranza. Smeraldi. Prati infiniti.
In
quelle ore insonni il nazista poté
pensare solo a due parole brevi e coincise, che quasi ripetette ad alta
voce,
come una nenia asfissiante –Lo odio- sì, lo
odiava, perché: -Nessuno
può essere così dolce, bello e
perfetto- E anche perché: -Chiamerei
quello stupido nome fino allo sfinimento- Scoprirne la
motivazione era
impossibile, sapeva solo che si sentiva male. Quelle sue mani
l’avevano
toccato, e non era certo per gentilezza, ma per violenza.
Così, tutto d’un
tratto, si soffermò a pensare a quanto una perfezione del
genere dovesse essere
tenuta al sicuro, e non gettata in mezzo la polvere. Doveva ricordarsi
però,
che Trent era quella polvere. Allora perché sentiva un
impulso intrattenibile
di correre e andargli a supplicare perdono? Cosa stava accadendo nel
suo
stomaco? C’era qualcosa di amaro, aveva tentato a mandarlo
giù diverse volte,
ingoiando a vuoto la saliva, bevendo diversi sorsi d’acqua
dal bicchiere non
più colmo posto sul comò al fianco del suo
lussuoso letto. Ma non si
dissolveva.
Più
in là, avrebbe capito che quel
macigno che gli impediva il sonno era il senso di colpa.
E
il disprezzo, per la prima volta
contro se stesso.
E
forse anche un pizzico d’attrazione
verso ciò che doveva essere –soprattutto,
rimanere- polvere insignificante.
***
Non
poteva reggerlo.
Passare
difronte a lui, come ogni
giorno, come se non fosse successo nulla. Come se il suo sguardo non
gli
gravasse sulle spalle.
Quel
giorno, uno come tanti altri –se
si voleva essere fiscali, il giorno dopo in cui Duncan aveva alzato le
mani su
Mister Angelo-, il giovane nazista si era alzato più stanco
che mai, con due
borse violacee a gravargli sotto gli occhi. La testa era altrove e gli
occhi
fissavano languidi un punto qualsiasi del corridoio, che ora percorreva
svogliatamente. Si chiedeva se la sua insulsa servetta le avrebbe
preparato la
sua colazione, quella che le aveva comandato il giorno prima.
Perché se no,
l’avrebbe punita, e a essere schietti, quel giorno doveva
svagarsi un po’.
Morale? Avrebbe cercato in chiunque una possibile valvola di sfogo, si
sarebbe
aggrappato a ogni pretesto pur di scaricare quel nervosismo accumulato
tutto nelle
ore notturne
-Buongiorno,
signore- così fu accolto,
una volta che scese le scale della sua villa lussuosa, trovandosi al
piano
terra, difronte il suo grande tavolo rettangolare, imbandito
perfettamente.
Courtney, l’ebrea, la sua personale ebrea. Era disgustosa,
così differente dalla
sua perfezione ariana. Gli occhi scuri, i capelli lunghi e bruni
raccolti in
una treccia scomposta, vestita sempre di quella divisa e quando se ne
andava,
le rare volte che la vedeva, portava semplici abiti lunghi, da vera
poveraccia.
Era ebrea, ma bellissima, su questo non si poteva discutere. Ma Duncan
non
aveva mai neppure provato una minima attrazione nei suoi confronti, che
certamente sarebbe stata fisica, nient’altro di
più. Si era sempre spiegato la
situazione con un -È una sporca ebrea-, adesso
però non ci credeva tanto e si
paralizzò quasi, a guardarla. Il viso dai lineamenti dolci,
le labbra piene e
un dolce nasino all’in su, tempestato da tante piccole
lentiggini color della
cenere. Due gambe niente male, lunghe e formose, così come i
fianchi. Duncan
cercò in se… qualcosa. Un brivido, una scossa, un
semplice apprezzamento.
Invece? Niente.
Il
ragazzo, se ci pensava bene, nei
venti anni della sua vita non era mai stato davvero innamorato di una
ragazza,
né attratta da essa in modo sproporzionato, come un vero
uomo dovrebbe essere.
Persino la sua migliore amica, Gwendoline, non riusciva a scuoterlo.
Quando, da
sedicenne segretamente cotta di lui, sperimentava scollature, vestiti
lussuosi
e tacchi alti, che per nulla le si addicevano.
Era
stato con molte donne, ma di
nessuna ricordava il nome.
Aveva
parlato per una sola volta con un
Angelo e la sua voce melodiosa, dolce e soave, non faceva altro che
riempirgli
la mente, come il suo nome: “Trent”
-Emh…
signore, c’è qualcosa di cui ha
bisogno?- mormorò Courtney, facendo due passi indietro e
pregando che
quell’uomo per il quale nutriva un profondo disprezzo, la
congedasse. La
giovane donna non si era mai azzardata a parlare davvero al nazista, ma
ora il
suo sguardo aveva qualcosa di diverso. Forse era meno ghiacciato,
magari si
stava davvero concedendo alla bellezza di un cielo privo di nuvole. Per
un
attimo, nella sua mente balenò il pensiero che fosse fragile
come ogni essere
vivente, e alzò una mano per posargliela sulla spalla,
mettendo in mostra la ragazza
acida –ma allo stesso tempo gentile- che era. Però
non lo fece, deviando il suo
movimento per porre una ciocca di capelli dietro l’orecchio.
Duncan non le
rispose proprio, sorpassandola con noncuranza e andando a sedersi alla
tavola. Infondo
non era come lui, era impura, e sapeva benissimo che fine avrebbe
fatto. Silenziosamente,
la bella ebrea sbottò, andando ai piani superiori per
sistemare le camere e i
letti
-Buongiorno,
padre- esordì facendo un
cenno con la testa all’uomo più ansiano,
accomodato come capo tavola –Madre-
nominò anche la donna, seduta accanto al marito, per poi
mettersi difronte a
lei –Duncan, tutto bene? Ti vedo leggermente sciupato!-
notò la donna
preoccupata, facendo sorridere l’altro –Margaret,
tuo figlio sta benissimo. Ha
proprio l’atteggiamento da puro ariano, e noi siamo sempre
più soddisfatti di
lui- Margaret annuì, spezzando un pezzo di pane e
ricoprendolo con una buona
marmellata fatta dalla stessa serva –Sì, John, so
benissimo quanto nostro
figlio sia perfetto, ma qualcosa mi priva di preoccuparmi per lui?-
sbatté le
lunghe ciglia truccate, facendo scuotere il capo all’altro
–Figliolo, sappiamo
bene che sei molto preso con il lavoro, ma per questa sera non devi
dimenticarti della grande festa che si terrà a casa Voeller.
Scott compie
ufficialmente ventun anni, e che compleanno è se non lo si
passa con il proprio
migliore amico? E poi, sarà una ragione in più
per rendere omaggio al Fuhrer,
sai quanto questa famiglia sia rinomata. Per questo ci tengo molto a
fare bella
figura- finì il suo discorso l’uomo di casa,
alzandosi dal tavolo e pulendosi i
lunghi pantaloni neri dalle briciole prodotte dalle fette di pane
tostato
–Certo, padre- rispose fermamente Duncan, annuendo deciso e
mantenendo il suo
sguardo, che, non c’era storia, era meno azzurro del suo.
Aspettò
che i due genitori si
dileguassero, lasciando la casa libera, per perdersi nuovamente in se
stesso.
Scott
era davvero il suo migliore
amico. Se avesse dovuto scegliere un nazista di dovuto rispetto, dopo
di lui,
sarebbe stato di certo quel ragazzino con il quale giocava alla lotta
quando
aveva appena nove anni. Condividevano lo stesso pensiero, le stesse
certezze e
lo stesso ideale di superiorità. Scott, differentemente da
Duncan, non aveva
due mari limpidi al posto delle iridi, bensì due cieli cupi
e plumbei. E i
capelli, rosso fuoco scoppiettante, come la fede per la propria patria.
Però la
fierezza non era il suo forte, perché Scott, tutto era
tranne che composto come
l’amico, dal quale avrebbe dovuto imparare molto, se sarebbe
voluto essere
degno di portare la divisa che Duncan, già indossava.
Ticchettò
con le unghie sulla tavola
ancora imbandita, infine sospirò, alzando il mento dal palmo
della mano –che
intanto si era addormentata- e trovandosi difronte Courtney, con le
mani
incrociate dietro la schiena e gli occhi bassi, a fissare
l’eleganza della
giacca del suo padrone. Lo sorprese per un attimo con le iridi vacue,
che
ritornarono subito alla loro fierezza naturale. Duncan
scattò dalla sedia,
senza staccarle gli occhi da dosso, per poi pronunciarsi, con quel suo
solito
tono duro e pretensioso –Pulisci tutto, immediatamente-
ordinò, leggermente
tremante sulle ultime tre lettere.
La
domanda adesso era: voglio davvero
essere paragonato a un fiero nazista.
La
risposta da darsi era: certo.
La
risposta che sentiva più giusta era:
no.
***
Quella
sera, raramente, pioveva.
Sì,
pioveva talmente forte da
graffiargli il viso dai lineamenti spigolosi. Pioveva così
tanto da riempirgli
le scarpe di cuoio d’acqua. Faceva caldo, però.
C’era un’afa insopportabile, e
il sudore era spazzato via dallo scroscio continuo delle gocce di
pioggia, che
stavano riempiendo le strade della città. Neppure i numerosi
tombini riuscivano
a raccoglierle tutte.
Ma
Duncan tremava. Di nervosismo, di
preoccupazione, di agitazione, ma tremava. Forse non c’era un
motivo specifico
per cui il suo corpo veniva attraversato da quelle scosse di freddo,
sapeva
solo che non poteva bloccarsi per l’ennesima volta sotto la
tettoia di qualche
negozio, quindi sarebbe corso a casa sua, per ora vuota
perché i suoi genitori
si erano precipitati già all’abitazione Voelmer.
Si sarebbe cambiato,
indossando l’abito delle “grandi
occasioni” e poi, sicuramente avrebbe spiovuto
e si sarebbe potuto dirigere da Scott in più fretta
possibile, con la sua amata
macchina, lasciata –stupidamente- sotto la villa.
L’unica
cosa che non voleva fare era
incontrare quel ragazzo, Angelo, per lui, ma più comunemente
chiamato Trent.
Sì, perché Duncan non aveva fatto altro che
pensare a lui, tutta la giornata,
dietro alla sua antica scrivania di mogano rifinito. Aveva pensato a
lui
all’ora di pranzo, nella quale non aveva toccato nessuna
cibaria. Aveva pensato
a lui una volta uscito dal suo ufficio, che affacciava direttamente
sulla
caserma militare. Aveva pensato a lui ogni singola ora, minuto, secondo
di
quella stupidissima giornata.
Oh,
e stava pensando a lui anche adesso
sotto la pioggia. Domandandosi “Dove sarà con
questo tempaccio?”, mordendosi
l’interno della guancia per ingoiare qualche smorfia
preoccupata, e anche per
punirsi, perché: -Deutschland, uber alles!- e non poteva
permettere che la sua
mente fosse ingombrata dall’immagine paradisiaca di quel
debole ragazzetto. Al
quale non aveva fatto altro che infliggere la punizione che si meritava.
Quando
lo vide, però, seduto a terra,
contro il muro di una casa, con la testa poggiata sulle ginocchia,
mandò il suo
orgoglio tedesco nelle viscere più nascoste del suo corpo,
facendo subentrare
un’umanità che non aveva mai creduto di avere.
Lentamente
gli si avvicinò, ma lui,
parve non sentirlo. Sembrava dormire, con quegli occhi che facevano a
gara di
bellezza con i suoi e soprattutto quel viso, dalle linee dolci e
morbide, così
diverso dal suo. Poi si abbassò, piano, tenendo una mano
sull’asfalto per paura
che in un gesto goffo o troppo azzardato fosse potuto crollare in una
pozzanghera. Inclinò il viso, guardando meglio quello del
suo angelo e
trovandoci una macchia violacea sullo zigomo destro. Lì
poté giurare di
sentirsi morire dentro. Non disse nulla se un –Dio,
gli ho fatto così male?- avvicinò
istintivamente la mano che
non usava per sorreggersi, scostandogli i capelli neri e guardandolo,
poi
meglio, notando che oltre quel livido aveva anche un labbro spaccato.
Colpito
e affondato: si sentiva uno
schifo.
Gli
occhi azzurri indugiavano su ogni
centimetro della pelle del giovane ragazzo che quella stessa mattina
aveva
colpito senza rimorso alcuno. E la visione di quel volto immerso in un
sonno
profondo, contratto leggermente, non fece altro che mettergli disagio e
fretta.
Sì, fretta, voleva andarsene. Ma non poteva lasciarlo
così
-Trent…-
lo chiamò per nome, mordendosi
il labbro inferiore –Ehi!- lo scosse per una spalla, alzando
il tono della voce
e sospirando di soddisfazione quando vide il moro sollevare il capo e
passarsi
il palmo della mano sulla fronte bagnata dalla pioggia –Stai
bene?- quello
mugolò e Duncan non poté far altro che sentirsi
strano. Lui non era così! Non
lo era mai stato. Si disinteressava delle persone povere, non dava
aiuto ai bisognosi
e Trent, corrispondeva alla sua idea di “pezzente”.
E per un fiero nazista,
aiutare uno come lui, non era contemplato. Allora perché gli
stava passando una
mano sotto le ascelle, incoraggiandolo ad alzarsi in quella posizione
che aveva
assunto per ripararsi il più possibile dalla pioggia?
Perché il Ragazzo-Angelo
l’aveva scansato, con tanto di smorfia a piegargli le labbra?
–Mi fai male-
mormorò solamente occhi verdi, facendo assalire il petto di
Duncan da numerose
fitte –Scusami, non volevo- a quel punto, Trent
alzò un sopracciglio,
sorridendo mestamente e abbassando lo sguardo, senza dimenticarsi con
chi stava
parlando –Certamente. Sono sicuro che oggi sei solo
inciampato su di me, può
capitare- era ironico? Ah beh, quel sorrisetto appena accennato la
diceva tutta
e l’orgoglio del nazista risalì prorompente nel
suo animo. Lo spinse contro il
muro della casa, anche se con pochissima forza –Non
rivolgerti così a me, in
questo modo, poi! Ricordati che ti sono superiore, e sempre lo
sarò- l’angelo annuì,
sibilando cercando d’alzarsi. Quando fu in piedi, difronte al
corpo muscoloso
dell’altro, si sentì terribilmente in soggezione.
La pioggia, intanto, pareva
sentirsi ignorata e aveva cominciato a battere ancora più
forte sull’asfalto.
Li stava bagnando tutti e Duncan, preoccupato per la salute
visibilmente
cagionevole di Trent, sfilò la sua giacca dalla valigetta
nella quale l’aveva
ficcata per non farla bagnare, ponendogliela sulle spalle. Quel gesto
fu
apprezzato dal cantautore, che si sentì avvolto
dall’odore di qualche profumo
pregiato che di sicuro usava il nazista –Rischi di prenderti
un malanno-
sussurrò solamente, dopo avergli messo il capo firmato sulle
spalle,
soffermandosi a fissare i capelli bagnati sulla sua nuca
–Danke…- lo prese
quasi in giro, voltandosi verso di lui e abbozzandogli un sorriso
timido –Vieni
con me, non posso lasciarti qui-
-E
perché no? Non è questo il mio
posto? Tra la polvere e la pioggia?- in quel momento, il Ragazzo-Angelo
disarmò
di parole il nazista, sempre sicuro di se, che sentì quel
muro di falsità
sgretolarsi ai suoi piedi. Non controbatté, girandosi
solamente e camminando
verso la sua villa –Fa come vuoi- gli concesse, quasi deluso,
con una totale
inespressività a segnargli la frase. E quando
sentì dei passi rimbombare dietro
di lui, sorrise.
La
casa di Duncan era grandissima,
bellissima e lussuosissima.
Tuttavia,
a occhi verdi appariva
squallida, perché si sentiva la freddezza delle persone che
ci vivevano.
L’ordine era quasi maniacale e l’oro tappezzava
qualunque cosa. Quella casa, in
passato –e ne era certo- apparteneva a qualche ebreo. Come
potessero viverci
senza essere assaliti dagli incubi ogni singola notte, proprio non lo
capiva. I
candelabri d’oro, i lampadari di cristallo, i mobili di legno
pregiato… era un
lusso che Trent aveva solo potuto immaginare, ma non sognare. A lui
tutti quei
soldi non importavano. Stava bene così, convinto che la
ricchezza portasse solo
scompiglio nell’animo umano. Com’era
l’animo di quel nazista? Oscuro, certo. Ma
anche così a… soqquadro. Si vedeva che non gli
interessava affatto dei
pavimenti che se solo si guardavano rischiavano di graffiarsi, in quel
momento
Duncan era concentrato su… di lui… eh
sì, non gli levava gli occhi da dosso. Ma
la cosa pareva non dispiacergli, perché i suoi occhi davvero
eguagliavano
l’azzurro del cielo berlinese.
Il
nazista gli si avvicinò, levandogli
la giacca ormai zuppa e spingendolo in malo modo su una delle sue
poltrone di
pelle –Resta qua. Arrivo subito-
-Dove
dovrei andare?- fu ignorato e
pochi minuti dopo Duncan era seduto sul bracciolo del divano, con
dell’ovatta
in mano a medicargli il labbro spaccato. Era un controsenso vivente e
in quei
pochi frangenti Trent avrebbe solo voluto riempirlo di domande,
tuttavia scelse
il silenzio, la sua arma migliore.
Il
tocco del nazista era delicato,
molto. Gli sfiorava appena la pelle, tamponando più forte
lì dove ce ne fosse
stato bisogno e si vedeva che si stava sforzando tanto per non
procurargli
altro male fisico, non era naturale tutta quella delicatezza e
l’Angelo dagli
occhi smeraldo, apprezzava. Si sentì più
sollevato quando il tedesco gli porse
una borsa con del ghiaccio –Va meglio, ora?-
-Sì,
ti ringrazio-
Ricevette
un sorriso.
La
festa di Scott? L’aveva
completamente dimenticata.
Adesso,
Duncan non si muoveva dal
bracciolo del divano, scostando di tanto in tanto i capelli di Trent e
asciugandogli dal viso l’acqua fredda prodotta dal ghiaccio.
Avvicinò il
pollice a una gocciolina che stava scivolando contro la sua guancia, la
scacciò
via, accarezzandogli appena lo zigomo.
I
loro visi, così vicini, pericolosi,
quasi.
La
calma del silenzio che vigeva in
casa.
Le
ore dimenticate di quella giornata.
Avevano
bisogno solo di respirare
adesso, il nazista più di tutti. Aveva paura che liberando i
suoi polmoni
d’aria avrebbe potuto rompere il ragazzo fragile che gli si
poneva difronte.
Trent
pensava solo che i suoi occhi
fossero così blu e che in quel silenzio avrebbe tanto voluto
sentirlo parlare.
E
il nazista, non sapeva ciò che stava
accadendo.
Avvertiva
una forte attrazione nei
confronti del giovane cantautore, un’attrazione che non aveva
sentito mai per
nessuna donna.
Si
sporse più avanti, come per cercare
il senso di quel sorriso accennato sul viso livido del più
piccolo,
ritrovandosi a sfiorare con le fronti.
Voleva
allontanarsi, ma non gli era
concesso.
Voleva
correre lontano da quel
magnetismo lo stava attraendo come una calamita.
Ma
perse, contro di lui.
La sua voce non gli era mai sembrata così dolce e fastidiosa allo stesso tempo.
Writen By Stella_2000
NDA
Un grazie infinito alla mia BFF di EFP per aver accettato di collaborare con me, non ti ringrazio mai abbastanza, dear ;) {Ricordate di venerare Angelo Nero}
🔝💕💛💙💞💝💘
p.s Sì, Dunky e Trent sono le nostre vittime preferite. E sono gay. Molto gay. Sia chiaro per tutti.
Bye