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Autore: Angelo_Stella    27/09/2014    1 recensioni
1941, Berlino.
Duncan, un ventiduenne tedesco particolarmente fedele al Fuhrer, è un nazista perfetto. "Deutschland, uber alles!" è la frase che ripete al mattino, quando si alza per mirarsi allo specchio e crede fermamente nel suo significato. Ma le convinzioni che gli sono state trasmesse con tanta foga andranno a infrangersi.
È Trent che, tra un soffio di voce e una nota di una chitarra malandata, gli insegna la bellezza dell’amore.
Tratto dal testo
“Cosa ci sarebbe di sbagliato? Che ne sappiamo noi di che cosa sia o cosa debba essere l'amore? Solo perché il matrimonio è tra uomo e donna diamo per scontato sia così sempre? O è perché ci hanno abituato? Perché siamo ancora giovani per capire o perché semplicemente il pensiero … ci fa schifo?"
“Io … Insomma … E' così che va avanti il mondo, o no? Con l'amore di un uomo e una donna."
-
Siamo nel 1941 e Hitler trova in Ernst Röhm una minaccia.
Siamo nel 1941 e: “ [...] Tutto ciò richiede l'adozione di più incisive misure contro queste malattie nazionali. “
Siamo nel 1941 e: "Dobbiamo sterminare la radice e i rami di questa gente... gli omosessuali devono essere eliminati!".
....................................
Baci, Angelo e Stella
Genere: Sentimentale, Storico, Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: Shonen-ai, Yaoi | Personaggi: Duncan, Sorpresa, Trent
Note: Lime | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Contesto generale
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Our love is a mistakes

CAPITOLO 2

COLLABORAZIONE CON Angelo_Nero

 

Duncan parve estasiato.

Poté sentire nella voce del ragazzo una nota melodiosa, dolce quanto il miele dei biscotti che sua madre soleva dargli da bambino. Il suo nome era... bellissimo. Si spinse un po’più in avanti, come per incitarlo a dirlo di nuovo, ma bloccato goffamente dal suo contegno nazista. Gli occhi che sfidavano l’azzurro del cielo Berlinese stavano quasi per abbassarsi, contro i campi verdi chiaro e calmi del ragazzo che aveva difronte, poi se ne rese conto: stava quasi per abbassare il suo muro formato da pregiudizi e irragionevoli certezze di falsa superiorità. Solo che quello sguardo così... buon Dio, stava perdendo la ragione –Non ho capito- disse solamente, parlando fermamente per abitudine, senza tremare o simili. Perso completamente nell’osservare il movimento delle sue labbra nel ripetere la risposta –Trent, mi chiamo Trent- lo ripeté per ben due volte. Colpito e affondato. L’angelico ragazzo, per pronunciare la “n”, aveva schiacciato la lingua tra i denti, inumidendosi appena appena le labbra sottili. Lì Duncan sollevò ancora di più il mento, stringendo i pugni lungo il busto e puntando i piedi a terra. Voleva prendersi a schiaffi e lo avrebbe fatto (giusto per rinsavire), prima o poi, ora voleva solamente andarsene. Si sentiva a disagio, sotto quella tranquillità disarmante del ragazzo che l’aveva colto di sorpresa. Di solito era lui a lasciare senza parole quei poveracci, non avveniva il contrario. Li picchiava, fino allo sfinimento, degno di essere chiamato nazista. In quel momento invidiò al ragazzo quegli occhi, così diversi dai suoi. Chiari erano chiari, ma apparivano dolci più del cioccolato fuso, disarmanti, sibillini e… fantastici. Reggevano il confronto con i suoi, erano molto più belli e umani, ma avevano visto tanto. Forse cose raccapriccianti, forse cose che un nazista come lui avrebbe voluto fargli vedere. Provò per un secondo un senso di vergogna infinito: quegli occhi sarebbero dovuti essere nascosti alle bruttezze di quel mondo così rude. Erano così belli che Duncan li avrebbe chiusi al buio, celandoli egoisticamente alla visione del resto del popolo. La strana sensazione che fossero più puri dei suoi, meno marcati da oscenità crudeli continuava a persistere nella sua mente. Avrebbe ripetuto il suo nome come uno stupido, ma non lo fece.

Lo fissò per bene, mettendo su la sua personale espressione da tedesco superiore. Quel pezzente non aveva nulla in comune con lui. La sua semplice camicia bianca e quel pantalone strappato, sporco come la sua pelle, coperta da polvere e fuliggine, non poteva affatto competere con la sua giacca di lusso e i suoi mocassini lucidi, che la sua ebrea personale doveva rendere splendenti se voleva risparmiare frustate e umiliazioni quotidiane. Sentirsi in quel modo a causa di quella presenza che doveva inchinarsi alla sua, era solo una stupidaggine. Un errore madornale. Avanzò due passi verso di lui, che intanto si era rialzato da terra ed era indietreggiato, improvvisamente spaventato dalla sua espressione. Il tedesco aveva contratto i muscoli del viso, facendo rimontare in lui la rabbia e il profondo razzismo che nutriva nei confronti degli estranei che sporcavano le strade della sua amata città. La mano di Duncan si alzò e in un gesto intriso di odio e insopportazione segnò la guancia del giovane, facendolo sbattere con violenza a terra. La schiena del chitarrista atterrò sul cemento di quel marciapiede, mentre il piede del germanico puntò dritto ai suoi fianchi, che calciò con ripetizione, facendolo tossire, quasi pregare con quello sguardo che cercava di flettere e umiliare. Non sopportava essere disarmato così facilmente e occhi verdi gli aveva privato la soddisfazione di poter ridurre al nulla sia psicologicamente che fisicamente una persona, un essere vivente come lui, senza rimorsi. Sul suo viso, comparve comunque un ghigno soddisfatto e più Trent sputava sangue contro la strada, più si rannicchiava su se stesso e più gemeva dal dolore, più Duncan si sentiva felice, come se stesse compiendo il suo lavoro, e tanto, quello stava facendo. L’ultima pedata arrivò contro il suo bacino. Il nazista si allontanò, annuendo fiero alla gente del posto, che quasi applaudiva per quello spettacolo. Persone che, Trent giurò di riconoscerle, avevano lasciato qualche moneta per lui. Non si sentì mai così umiliato in vita sua. Sottoposto a una violenza che non meritava, perché non aveva fatto davvero nulla! Giurò di sentirsi morire quando Duncan sputò su di lui, insultandolo e ricavando l’apprezzamento della gente.

Poi se ne andò, sussurrando disprezzo in tedesco e minacciandolo, così anche la folla di curiosi sciamò come delle mosche. La vittima del pestaggio si alzò, mantenendosi i fianchi per il dolore e chiedendosi interiormente il perché.

“Perché quella bellezza dei suoi occhi deve essere paragonata alla crudeltà presente in essi?

Perché ha alzato le mani su di me, dopo avermi dato una moneta?

Perché passa di qua tutti i giorni, facendomi contare le ore?

Perché cerca di non fissarmi, di far finta che non esisto?

Perché mi sento così giù, adesso?”

Ma Trent non poteva sapere che quella notte, il giovane nazista non chiuse occhio. Tormentato per le sue azioni più giuste che mai, secondo il suo parere. E si rigirava nel letto, quasi con frenesia. Comprimeva la testa sul cuscino, si metteva prono, sprofondando nel materasso. Aveva pure sbattuto con la fronte contro il legno. Che cosa poteva farci? Occhi verdi. Speranza. Smeraldi. Prati infiniti.

In quelle ore insonni il nazista poté pensare solo a due parole brevi e coincise, che quasi ripetette ad alta voce, come una nenia asfissiante –Lo odio- sì, lo odiava, perché: -Nessuno può essere così dolce, bello e perfetto- E anche perché: -Chiamerei quello stupido nome fino allo sfinimento- Scoprirne la motivazione era impossibile, sapeva solo che si sentiva male. Quelle sue mani l’avevano toccato, e non era certo per gentilezza, ma per violenza. Così, tutto d’un tratto, si soffermò a pensare a quanto una perfezione del genere dovesse essere tenuta al sicuro, e non gettata in mezzo la polvere. Doveva ricordarsi però, che Trent era quella polvere. Allora perché sentiva un impulso intrattenibile di correre e andargli a supplicare perdono? Cosa stava accadendo nel suo stomaco? C’era qualcosa di amaro, aveva tentato a mandarlo giù diverse volte, ingoiando a vuoto la saliva, bevendo diversi sorsi d’acqua dal bicchiere non più colmo posto sul comò al fianco del suo lussuoso letto. Ma non si dissolveva.

Più in là, avrebbe capito che quel macigno che gli impediva il sonno era il senso di colpa.

E il disprezzo, per la prima volta contro se stesso.

E forse anche un pizzico d’attrazione verso ciò che doveva essere –soprattutto, rimanere- polvere insignificante.

 

***

 

Non poteva reggerlo.

Passare difronte a lui, come ogni giorno, come se non fosse successo nulla. Come se il suo sguardo non gli gravasse sulle spalle.

Quel giorno, uno come tanti altri –se si voleva essere fiscali, il giorno dopo in cui Duncan aveva alzato le mani su Mister Angelo-, il giovane nazista si era alzato più stanco che mai, con due borse violacee a gravargli sotto gli occhi. La testa era altrove e gli occhi fissavano languidi un punto qualsiasi del corridoio, che ora percorreva svogliatamente. Si chiedeva se la sua insulsa servetta le avrebbe preparato la sua colazione, quella che le aveva comandato il giorno prima. Perché se no, l’avrebbe punita, e a essere schietti, quel giorno doveva svagarsi un po’. Morale? Avrebbe cercato in chiunque una possibile valvola di sfogo, si sarebbe aggrappato a ogni pretesto pur di scaricare quel nervosismo accumulato tutto nelle ore notturne

-Buongiorno, signore- così fu accolto, una volta che scese le scale della sua villa lussuosa, trovandosi al piano terra, difronte il suo grande tavolo rettangolare, imbandito perfettamente. Courtney, l’ebrea, la sua personale ebrea. Era disgustosa, così differente dalla sua perfezione ariana. Gli occhi scuri, i capelli lunghi e bruni raccolti in una treccia scomposta, vestita sempre di quella divisa e quando se ne andava, le rare volte che la vedeva, portava semplici abiti lunghi, da vera poveraccia. Era ebrea, ma bellissima, su questo non si poteva discutere. Ma Duncan non aveva mai neppure provato una minima attrazione nei suoi confronti, che certamente sarebbe stata fisica, nient’altro di più. Si era sempre spiegato la situazione con un -È una sporca ebrea-, adesso però non ci credeva tanto e si paralizzò quasi, a guardarla. Il viso dai lineamenti dolci, le labbra piene e un dolce nasino all’in su, tempestato da tante piccole lentiggini color della cenere. Due gambe niente male, lunghe e formose, così come i fianchi. Duncan cercò in se… qualcosa. Un brivido, una scossa, un semplice apprezzamento. Invece? Niente.

Il ragazzo, se ci pensava bene, nei venti anni della sua vita non era mai stato davvero innamorato di una ragazza, né attratta da essa in modo sproporzionato, come un vero uomo dovrebbe essere. Persino la sua migliore amica, Gwendoline, non riusciva a scuoterlo. Quando, da sedicenne segretamente cotta di lui, sperimentava scollature, vestiti lussuosi e tacchi alti, che per nulla le si addicevano.

Era stato con molte donne, ma di nessuna ricordava il nome.

Aveva parlato per una sola volta con un Angelo e la sua voce melodiosa, dolce e soave, non faceva altro che riempirgli la mente, come il suo nome: “Trent”

-Emh… signore, c’è qualcosa di cui ha bisogno?- mormorò Courtney, facendo due passi indietro e pregando che quell’uomo per il quale nutriva un profondo disprezzo, la congedasse. La giovane donna non si era mai azzardata a parlare davvero al nazista, ma ora il suo sguardo aveva qualcosa di diverso. Forse era meno ghiacciato, magari si stava davvero concedendo alla bellezza di un cielo privo di nuvole. Per un attimo, nella sua mente balenò il pensiero che fosse fragile come ogni essere vivente, e alzò una mano per posargliela sulla spalla, mettendo in mostra la ragazza acida –ma allo stesso tempo gentile- che era. Però non lo fece, deviando il suo movimento per porre una ciocca di capelli dietro l’orecchio. Duncan non le rispose proprio, sorpassandola con noncuranza e andando a sedersi alla tavola. Infondo non era come lui, era impura, e sapeva benissimo che fine avrebbe fatto. Silenziosamente, la bella ebrea sbottò, andando ai piani superiori per sistemare le camere e i letti

-Buongiorno, padre- esordì facendo un cenno con la testa all’uomo più ansiano, accomodato come capo tavola –Madre- nominò anche la donna, seduta accanto al marito, per poi mettersi difronte a lei –Duncan, tutto bene? Ti vedo leggermente sciupato!- notò la donna preoccupata, facendo sorridere l’altro –Margaret, tuo figlio sta benissimo. Ha proprio l’atteggiamento da puro ariano, e noi siamo sempre più soddisfatti di lui- Margaret annuì, spezzando un pezzo di pane e ricoprendolo con una buona marmellata fatta dalla stessa serva –Sì, John, so benissimo quanto nostro figlio sia perfetto, ma qualcosa mi priva di preoccuparmi per lui?- sbatté le lunghe ciglia truccate, facendo scuotere il capo all’altro –Figliolo, sappiamo bene che sei molto preso con il lavoro, ma per questa sera non devi dimenticarti della grande festa che si terrà a casa Voeller. Scott compie ufficialmente ventun anni, e che compleanno è se non lo si passa con il proprio migliore amico? E poi, sarà una ragione in più per rendere omaggio al Fuhrer, sai quanto questa famiglia sia rinomata. Per questo ci tengo molto a fare bella figura- finì il suo discorso l’uomo di casa, alzandosi dal tavolo e pulendosi i lunghi pantaloni neri dalle briciole prodotte dalle fette di pane tostato –Certo, padre- rispose fermamente Duncan, annuendo deciso e mantenendo il suo sguardo, che, non c’era storia, era meno azzurro del suo.

Aspettò che i due genitori si dileguassero, lasciando la casa libera, per perdersi nuovamente in se stesso.

Scott era davvero il suo migliore amico. Se avesse dovuto scegliere un nazista di dovuto rispetto, dopo di lui, sarebbe stato di certo quel ragazzino con il quale giocava alla lotta quando aveva appena nove anni. Condividevano lo stesso pensiero, le stesse certezze e lo stesso ideale di superiorità. Scott, differentemente da Duncan, non aveva due mari limpidi al posto delle iridi, bensì due cieli cupi e plumbei. E i capelli, rosso fuoco scoppiettante, come la fede per la propria patria. Però la fierezza non era il suo forte, perché Scott, tutto era tranne che composto come l’amico, dal quale avrebbe dovuto imparare molto, se sarebbe voluto essere degno di portare la divisa che Duncan, già indossava.

Ticchettò con le unghie sulla tavola ancora imbandita, infine sospirò, alzando il mento dal palmo della mano –che intanto si era addormentata- e trovandosi difronte Courtney, con le mani incrociate dietro la schiena e gli occhi bassi, a fissare l’eleganza della giacca del suo padrone. Lo sorprese per un attimo con le iridi vacue, che ritornarono subito alla loro fierezza naturale. Duncan scattò dalla sedia, senza staccarle gli occhi da dosso, per poi pronunciarsi, con quel suo solito tono duro e pretensioso –Pulisci tutto, immediatamente- ordinò, leggermente tremante sulle ultime tre lettere.

La domanda adesso era: voglio davvero essere paragonato a un fiero nazista.

La risposta da darsi era: certo.

La risposta che sentiva più giusta era: no.

***

 

Quella sera, raramente, pioveva.

Sì, pioveva talmente forte da graffiargli il viso dai lineamenti spigolosi. Pioveva così tanto da riempirgli le scarpe di cuoio d’acqua. Faceva caldo, però. C’era un’afa insopportabile, e il sudore era spazzato via dallo scroscio continuo delle gocce di pioggia, che stavano riempiendo le strade della città. Neppure i numerosi tombini riuscivano a raccoglierle tutte.

Ma Duncan tremava. Di nervosismo, di preoccupazione, di agitazione, ma tremava. Forse non c’era un motivo specifico per cui il suo corpo veniva attraversato da quelle scosse di freddo, sapeva solo che non poteva bloccarsi per l’ennesima volta sotto la tettoia di qualche negozio, quindi sarebbe corso a casa sua, per ora vuota perché i suoi genitori si erano precipitati già all’abitazione Voelmer. Si sarebbe cambiato, indossando l’abito delle “grandi occasioni” e poi, sicuramente avrebbe spiovuto e si sarebbe potuto dirigere da Scott in più fretta possibile, con la sua amata macchina, lasciata –stupidamente- sotto la villa.

L’unica cosa che non voleva fare era incontrare quel ragazzo, Angelo, per lui, ma più comunemente chiamato Trent. Sì, perché Duncan non aveva fatto altro che pensare a lui, tutta la giornata, dietro alla sua antica scrivania di mogano rifinito. Aveva pensato a lui all’ora di pranzo, nella quale non aveva toccato nessuna cibaria. Aveva pensato a lui una volta uscito dal suo ufficio, che affacciava direttamente sulla caserma militare. Aveva pensato a lui ogni singola ora, minuto, secondo di quella stupidissima giornata.

Oh, e stava pensando a lui anche adesso sotto la pioggia. Domandandosi “Dove sarà con questo tempaccio?”, mordendosi l’interno della guancia per ingoiare qualche smorfia preoccupata, e anche per punirsi, perché: -Deutschland, uber alles!- e non poteva permettere che la sua mente fosse ingombrata dall’immagine paradisiaca di quel debole ragazzetto. Al quale non aveva fatto altro che infliggere la punizione che si meritava.

Quando lo vide, però, seduto a terra, contro il muro di una casa, con la testa poggiata sulle ginocchia, mandò il suo orgoglio tedesco nelle viscere più nascoste del suo corpo, facendo subentrare un’umanità che non aveva mai creduto di avere.

Lentamente gli si avvicinò, ma lui, parve non sentirlo. Sembrava dormire, con quegli occhi che facevano a gara di bellezza con i suoi e soprattutto quel viso, dalle linee dolci e morbide, così diverso dal suo. Poi si abbassò, piano, tenendo una mano sull’asfalto per paura che in un gesto goffo o troppo azzardato fosse potuto crollare in una pozzanghera. Inclinò il viso, guardando meglio quello del suo angelo e trovandoci una macchia violacea sullo zigomo destro. Lì poté giurare di sentirsi morire dentro. Non disse nulla se un –Dio, gli ho fatto così male?- avvicinò istintivamente la mano che non usava per sorreggersi, scostandogli i capelli neri e guardandolo, poi meglio, notando che oltre quel livido aveva anche un labbro spaccato.

Colpito e affondato: si sentiva uno schifo.

Gli occhi azzurri indugiavano su ogni centimetro della pelle del giovane ragazzo che quella stessa mattina aveva colpito senza rimorso alcuno. E la visione di quel volto immerso in un sonno profondo, contratto leggermente, non fece altro che mettergli disagio e fretta. Sì, fretta, voleva andarsene. Ma non poteva lasciarlo così

-Trent…- lo chiamò per nome, mordendosi il labbro inferiore –Ehi!- lo scosse per una spalla, alzando il tono della voce e sospirando di soddisfazione quando vide il moro sollevare il capo e passarsi il palmo della mano sulla fronte bagnata dalla pioggia –Stai bene?- quello mugolò e Duncan non poté far altro che sentirsi strano. Lui non era così! Non lo era mai stato. Si disinteressava delle persone povere, non dava aiuto ai bisognosi e Trent, corrispondeva alla sua idea di “pezzente”. E per un fiero nazista, aiutare uno come lui, non era contemplato. Allora perché gli stava passando una mano sotto le ascelle, incoraggiandolo ad alzarsi in quella posizione che aveva assunto per ripararsi il più possibile dalla pioggia? Perché il Ragazzo-Angelo l’aveva scansato, con tanto di smorfia a piegargli le labbra? –Mi fai male- mormorò solamente occhi verdi, facendo assalire il petto di Duncan da numerose fitte –Scusami, non volevo- a quel punto, Trent alzò un sopracciglio, sorridendo mestamente e abbassando lo sguardo, senza dimenticarsi con chi stava parlando –Certamente. Sono sicuro che oggi sei solo inciampato su di me, può capitare- era ironico? Ah beh, quel sorrisetto appena accennato la diceva tutta e l’orgoglio del nazista risalì prorompente nel suo animo. Lo spinse contro il muro della casa, anche se con pochissima forza –Non rivolgerti così a me, in questo modo, poi! Ricordati che ti sono superiore, e sempre lo sarò- l’angelo annuì, sibilando cercando d’alzarsi. Quando fu in piedi, difronte al corpo muscoloso dell’altro, si sentì terribilmente in soggezione. La pioggia, intanto, pareva sentirsi ignorata e aveva cominciato a battere ancora più forte sull’asfalto. Li stava bagnando tutti e Duncan, preoccupato per la salute visibilmente cagionevole di Trent, sfilò la sua giacca dalla valigetta nella quale l’aveva ficcata per non farla bagnare, ponendogliela sulle spalle. Quel gesto fu apprezzato dal cantautore, che si sentì avvolto dall’odore di qualche profumo pregiato che di sicuro usava il nazista –Rischi di prenderti un malanno- sussurrò solamente, dopo avergli messo il capo firmato sulle spalle, soffermandosi a fissare i capelli bagnati sulla sua nuca –Danke…- lo prese quasi in giro, voltandosi verso di lui e abbozzandogli un sorriso timido –Vieni con me, non posso lasciarti qui-

-E perché no? Non è questo il mio posto? Tra la polvere e la pioggia?- in quel momento, il Ragazzo-Angelo disarmò di parole il nazista, sempre sicuro di se, che sentì quel muro di falsità sgretolarsi ai suoi piedi. Non controbatté, girandosi solamente e camminando verso la sua villa –Fa come vuoi- gli concesse, quasi deluso, con una totale inespressività a segnargli la frase. E quando sentì dei passi rimbombare dietro di lui, sorrise.

 

 

La casa di Duncan era grandissima, bellissima e lussuosissima.

Tuttavia, a occhi verdi appariva squallida, perché si sentiva la freddezza delle persone che ci vivevano. L’ordine era quasi maniacale e l’oro tappezzava qualunque cosa. Quella casa, in passato –e ne era certo- apparteneva a qualche ebreo. Come potessero viverci senza essere assaliti dagli incubi ogni singola notte, proprio non lo capiva. I candelabri d’oro, i lampadari di cristallo, i mobili di legno pregiato… era un lusso che Trent aveva solo potuto immaginare, ma non sognare. A lui tutti quei soldi non importavano. Stava bene così, convinto che la ricchezza portasse solo scompiglio nell’animo umano. Com’era l’animo di quel nazista? Oscuro, certo. Ma anche così a… soqquadro. Si vedeva che non gli interessava affatto dei pavimenti che se solo si guardavano rischiavano di graffiarsi, in quel momento Duncan era concentrato su… di lui… eh sì, non gli levava gli occhi da dosso. Ma la cosa pareva non dispiacergli, perché i suoi occhi davvero eguagliavano l’azzurro del cielo berlinese.

Il nazista gli si avvicinò, levandogli la giacca ormai zuppa e spingendolo in malo modo su una delle sue poltrone di pelle –Resta qua. Arrivo subito-

-Dove dovrei andare?- fu ignorato e pochi minuti dopo Duncan era seduto sul bracciolo del divano, con dell’ovatta in mano a medicargli il labbro spaccato. Era un controsenso vivente e in quei pochi frangenti Trent avrebbe solo voluto riempirlo di domande, tuttavia scelse il silenzio, la sua arma migliore.

Il tocco del nazista era delicato, molto. Gli sfiorava appena la pelle, tamponando più forte lì dove ce ne fosse stato bisogno e si vedeva che si stava sforzando tanto per non procurargli altro male fisico, non era naturale tutta quella delicatezza e l’Angelo dagli occhi smeraldo, apprezzava. Si sentì più sollevato quando il tedesco gli porse una borsa con del ghiaccio –Va meglio, ora?-

-Sì, ti ringrazio-

Ricevette un sorriso.

La festa di Scott? L’aveva completamente dimenticata.

Adesso, Duncan non si muoveva dal bracciolo del divano, scostando di tanto in tanto i capelli di Trent e asciugandogli dal viso l’acqua fredda prodotta dal ghiaccio. Avvicinò il pollice a una gocciolina che stava scivolando contro la sua guancia, la scacciò via, accarezzandogli appena lo zigomo.

I loro visi, così vicini, pericolosi, quasi.

La calma del silenzio che vigeva in casa.

Le ore dimenticate di quella giornata.

Avevano bisogno solo di respirare adesso, il nazista più di tutti. Aveva paura che liberando i suoi polmoni d’aria avrebbe potuto rompere il ragazzo fragile che gli si poneva difronte.

Trent pensava solo che i suoi occhi fossero così blu e che in quel silenzio avrebbe tanto voluto sentirlo parlare.

E il nazista, non sapeva ciò che stava accadendo.

Avvertiva una forte attrazione nei confronti del giovane cantautore, un’attrazione che non aveva sentito mai per nessuna donna.

Si sporse più avanti, come per cercare il senso di quel sorriso accennato sul viso livido del più piccolo, ritrovandosi a sfiorare con le fronti.

Voleva allontanarsi, ma non gli era concesso.

Voleva correre lontano da quel magnetismo lo stava attraendo come una calamita.

Ma perse, contro di lui.

La sua voce non gli era mai sembrata così dolce e fastidiosa allo stesso tempo. 

Writen By Stella_2000    

NDA

Un grazie infinito alla mia BFF di EFP per aver accettato di collaborare con me, non ti ringrazio mai abbastanza, dear ;) {Ricordate di venerare Angelo Nero}

🔝💕💛💙💞💝💘

p.s Sì, Dunky e Trent sono le nostre vittime preferite. E sono gay. Molto gay. Sia chiaro per tutti.

Bye

 


   
 
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