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Autore: thedgeofbreakingdown    24/09/2014    6 recensioni
Non è colpa mia ma sembra quasi che i guai mi seguano e ho anche la mezza impressione (la maggior parte delle volte) che il migliore modo per porne una fine, sia una bella rissa. Non che la prospettiva di mettere le mani addosso a qualcuno mi entusiasmi, solo è l'unico modo che ho per sfogarmi, per sfogare le mie frustrazioni e la vita di merda che mi ritrovo ad avere.
Mi aiuta anche andare al mare, stare da sola, sentire il suono delle onde sulla sabbia, ma il mare non c'è sempre.
Qualche coglione è sempre dietro l'angolo e parlo per esperienza.
Io sono Ariel Miller e ho sedici anni e -lo dico per voi- se pensate di avere una vita difficile, non avete mai conosciuto la mia.
Vivo alla Yancy Accademy nove mesi l'anno, almeno fino a che non arriva l'estate e vado a vivere a Montauk. In molti si chiedono come faccia a pagarmi la retta scolastica visto e considerato che quel cazzone di mio padre è stato solo in grado di scomparire e partire assieme ai Marins dopo essersi divertito con mia madre.
Genere: Avventura, Azione, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Altro personaggio, Nuovo personaggio, Percy Jackson
Note: Lemon | Avvertimenti: Contenuti forti
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"Le principesse al giorno d'oggi sono quelle ragazze con un libro fra le mani, con le cuffie nelle orecchie e la musica a palla, le principesse al giorno d'oggi hanno dei jeans e delle magliette un po' stropicciate. Le principesse d'oggi soffrono, cadono ma si rialzano. Le principesse di oggi toccano il fondo ma risalgono a galla"




Due pazzi vengono a prendermi

Non so effettivamente da dove cominciare. Be', se devo essere sincera non so neanche perché sto cominciando ma forse, sfogarmi con qualcuno (qualcosa, per la precisione) mi aiuterà a “contenere la mia rabbia” come ha detto la psicologa scolastica.

Non è colpa mia ma sembra quasi che i guai mi seguano e ho anche la mezza impressione (la maggior parte delle volte) che il migliore modo per porne una fine, sia una bella rissa. Non che la prospettiva di mettere le mani addosso a qualcuno mi entusiasmi, solo è l'unico modo che ho per sfogarmi, per sfogare le mie frustrazioni e la vita di merda che mi ritrovo ad avere.

Mi aiuta anche andare al mare, stare da sola, sentire il suono delle onde sulla sabbia ma il mare non c'è sempre. Qualche coglione è sempre dietro l'angolo e parlo per esperienza.

Io sono Ariel Miller e ho sedici anni e -lo dico per voi- se pensate di avere una vita difficile, non avete mai conosciuto la mia.

Vivo alla Yancy Accademy nove mesi l'anno, almeno fino a che non arriva l'estate e vado a vivere a Montauk. In molti si chiedono come faccia a pagarmi la retta scolastica visto e considerato che quel cazzone di mio padre è stato solo in grado di scomparire e partire assieme ai Marins dopo essersi divertito con mia madre.

A si, tanto per la cronaca, lei è morta di leucemia quando avevo quattordici anni quindi si, per chi non conosce l'esistenza del mio conto in banca lasciato dal cazzone e dalla mamma potrebbe essere difficile immaginare da dove mi tolga fuori i soldi. Sono anche girate le voci di una mia possibile prostituzione ma sono talmente tanto stanca di queste stronzate che ho smesso anche di smentirle.

Ma a me va bene così, voglio dire, dopo un po' una ci si abitua ad essere forte. Ci si abitua a stringere i denti, a lottare ogni secondo perché ti rendi conto che è la cosa giusta da fare e alla fine, a nessuno sbatte davvero di come puoi stare.

Non sono la classica che sorride per nascondere i problemi, a volte lo faccio, ma sono più che altro la classica che preferisce una bella scarica di pugni e ammettiamolo, le nocche spaccate e il naso grondante di chi hai appena fatto a pezzi sono una soddisfazione per chiunque. Almeno, per la sottoscritta.

 

Salto giù dal letto piombando davanti a quell'idiota di Ashley Tompson e rido quando lei grida per lo spavento. Mi maledice un paio di volte e le mando un bacio volante prima di afferrare i primi jeans e la prima felpa pesante e chiudermi in bagno.

Mi guardo allo specchio, mi guardo per quelli che sembrano dei minuti e gioco con la collanina a forma di goccia che porto al collo. Ce l'ho da quando ero piccola e mamma mi diceva sempre che era l'unico regalo di mio padre. Quell'idiota era un soldato e mi sono sempre chiesta più volte per quale motivo abbia anteposto la patria a me e alla mamma. Finisco per chiedermi spesso come sarebbe la mia vita. Come sarebbe stata se mamma non si fosse mai ammalata di leucemia e se papà non fosse mai partito per la guerra.

Forse sarei un po' più normale e si, magati anche felice.

Scuoto la testa per quei pensieri e mi passo le dita tra i capelli nerissimi e lunghi fino al bacino. Ho smesso di tentare di tagliarmi dopo che l'anno scorso sono diventata un cespuglio impazzito e ho deciso di farli crescere senza preoccuparmi di qaunto disornati potrebbero essere.

In ogni caso, e per quanto possa sembrare strano, sono una delle poche cose che mi piacciono di me, dopo gli occhi. Ecco, i miei occhi mi piacciono davvero tanto perché sono azzurri e a seconda della luce, diventano grigi.

Credo di aver preso gli occhi dalla mamma e i capelli da papà, lui li aveva più scuri dei miei.

Stringo i pugni e mi sciacquo velocemente il viso prima di spogliarmi e indossare jeans e felpa il più velocemente possibile per il freddo.

Credo che questa sarà davvero una grandissima giornata di merda, ne ho come il presentimento.

 

Sbuffo e cerco di capirci qualcosa di più del test di italiano che ci ha piazzato quella stronza della mia insegnante. È a sorpresa ma anche se fossi stata avvisata non ci sarei riuscita comunque.

Batto la penna sul banco e rivolgo un sorriso di strofottenza alla prima secchiona che si volta verso di me e mi guarda infastidita.

- Ariel – mi richiama la mia insegnante irritata e sorrido anche a lei senza smettere di battere con la matita sulla superficie di legno del banco.

- Si, professoressa?

- Potresti smetterla?

- No. Ha la vaga idea di quanto mi diverte farvi arrabbiare? – inizio a battere il piede sotto al tavolo in sincrono con la matita e sorrido ancora, – sono emozioni che non hanno prezzo, giuro.

 

Affondo le mani nelle tasche della felpa e cammino per i corridoi, l'Ipod che spara musica a tutto volume e che mi fa sbattere più volte alle persone che mi passano affianco.

Ho voglia di fare a pugni, ho voglia di gridare, correre, nuotare fino a non avere più fiato. Ho voglia di uscire da questo schifo di collegio ma non ce lo permettono mai, neanche il fine settimana.

Urto l'ennesimo studente ma non mi preoccupo neanche di chiedere scusa. La rabbia è troppa e probabilmenete il tutto finirebbe per generare una rissa e personalmente, è l'ultima cosa di cui ho bisogno. Sono stata esplusa da davvero troppe scuole e ho deluso mamma davvero troppe volte, anche adesso che non c'è più per intrecciarmi i capelli e dirmi, con il sorriso che ho uguale al suo:” andrà tutto bene”.

Mi scontro con qualcun altro e l'urto è abbastanza forte che barcollo di un paio di passi all'indietro e gli auricolari mi volano via dalle orecchie.

- Gesù.. – mormoro massaggiandomi la spalla. Do' un'occhiata alla ragazza che ho difronte e poi torno a dedicare l'attenzione al mio braccio ferito, – scusa – dico solo per cortesia e vorrei continuare a camminare e andare in cortile ma quella ragazza mi spinge per le spalle e barcollo ancora.

- Razza di idiota, vuoi guardare dove cammini? – mi domanda con rabbia e a voce abbastanza alta perché l'attenzone della maggior parte degli studenti in corridoio si focalizzi su noi due.

Alzo le sopracciglia con un mezzo sorriso e fletto i polsi.

Bene.

- Forse tu avresti dovuto evitarmi, non pensi? – è più alta di me di almeno una decina di centimetri ma ho già incontrato ragazze come lei. Ha i capelli castani che le cadono sulle spalle, gli occhi sono dello stesso colore ed evidentemente, non sa cosa vuol dire crisi a giudicare dai vestiti Dolce e Gabbana che porta.

Lei ride di scherno e mi guarda come se fossi un insetto incrociando le braccia sul petto con una strafottenza che non ho mai sopportato, – non mi sfidare – sibila e rido mentre la supero.

- Non ne vali la pena, credimi – sto per rimettermi gli auricolari quando quell'idiota parla a sproposito e seriamente, non so se esserne triste o felice.

- Tua madre non ha abbastanza soldi per comprarti vestiti nuovi, Miller? – mi grida dietro facendomi fermare di colpo, – forse il lavoro da puttana non le fa guadagnare abbastanza.

E per un po' in corridoio c'è silenzio, un silenzio tomba e sono del parere che gli unici rumori percebili siano il mio cuore e il mio respiro che stanno entrambi accelerando paurosamente, e questo non è affatto un buon segno.. per lei.

Non ci penso ancora e afferro i libri del ragazzo affianco a me. Piroetto su me stessa e il libro di storia medievale finisce sul naso di quella deficiente. Il crack che ne segue dopo è solo il rumore che precede il caos, che precede urla e che precede la mia rabbia mentre mi scaglio su di lei. La spingo indietro e la afferro per la maglia firmata prima di colpirla con un pugno alla mascella che mi trasmette una scarica di andrenalina in tutto il corpo.

Ghigno e se solo potessi vedermi, con ogni probabilità mi farei anche paura.

 

Espulsa.

Sono furiosa ma alla fine la colpa è sempre stata mia. Dovevo controllarmi, dovevo almeno provarci ma non ci riesco quando si tratta di mamma, non ci sono mai riuscita.

Lei è così importante per me e io adesso sono così sola che il mio è un continuo sopravvivere, un continuare a testa alta, un lottare per ciò che voglio.

Tiro un calcio al cumulo di neve che ho difronte e affondo le mani nella tasca centrale della felpa che è decisamente troppo leggera per il freddo newyorkese e al quale io non sono affatto pronta.

Non so dove andrò. Magari da quella zia altezzosa e che ha un odore che è un mix terrificante dei gatti con cui abita e di un qualcosa che c'entra con Guess.

Devo cercare una nuova scuola anche se preferirei un lavoro e sono talmente arrabbiata che neanche la musica a palla nelle orecchie riesce a calmarmi.

I pugni mi formicolano all'interno della tasche della felpa e il petto ribolle per il fastidio, per l'ingiustizia e per altre serie di emozioni che ho sempre odiato, continuamente odiato.

Io lo avevo detto ai professori che sono iperattiva, dislessica e che ho un deficit dell'attenzione per cui, teoricamente (e perché mi piace molto vedere le cose da questo punto di vista) la colpa è loro, non mia. Se sanno che non riesco a controllarmi per quale motivo mi mettono questi stronzi senza cervello a scuola? È una sorta di invito a perdere la pazienza e io ne ho già poca di mio, a prescindere da tutti i cavolo di difetti che mi rendono ancora di più uno schifo.

Alzo lo sguardo e sorrido impecettibilmente sotto i cartelloni di Times Square. Brillano a intermittenza di ogni colore e fanno quasi da sfondo alla vita frenetica di New York, alla città più bella del mondo, alla città che non dorme mai.

Mi fermo per un attimo e mi guardo attorno. Guardo la meraviglia che mi circonda, guardo le persone indaffarate, i ragazzi che si prendono un caffé e i bambini che non vedono l'ora di giocare a palle di neve a Central Park.

E sorrido ancora perché, mentre riprendo a camminare, non mi sento fuori posto. A New York c'è posto per tutti, anche per quelle come me che devono ancora trovare un campo d'atterraggio.

Sono talmente assorta nei miei pensieri e talmente distratta che non mi accorgo di un yellow cab che sta venendo a tutta velocità verso di me. Mi volto per puro istinto verso la strada, in tempo per vedere la macchina che scoda leggermente sulla neve e mi sposto qualche secondo prima che quell'idiota dell'autista mi possa venir addosso. Gli auricolari mi sono volati via dalle orecchie e il cappuccio che portavo calato sul volto è caduto. Credo che i miei capelli siano pessimi in questo momento ma sono l'ultimo dei miei pensieri.

Stavo per venir investita e adesso non ho nessuno che mi controlli o fermi per la voglia impellente che ho di prendere a calci in culo questo cazzone.

- Ma vuoi guardare quando guidi? – grido camminando davanti all'autista e attirando l'attenzione delle persone lì vicino per qualche secondo prima che possano catalogare quel litigio come:”abitudine a New York”.

L'uomo scende dalla macchina e mi guarda con scherno e rabbia. Mi chiedo per quale motivo non si prenda una giacca scura che nasconda la pancia da birra o per quale motivo non si rasi un po' i capelli dato che ha una sorta di pista d'atteraggio terrificante.

- E tu vuoi stare un po' più attenta, ragazzina? – mi risponde con odio e i pugni fremono per la rabbia che sto trovando sempre più difficile gestire.

- Non sono io quella che sta guidando una macchina! Ha preso la patente assieme al “diploma del coraggio” del dentista?

Voglio litigare, lo voglio moltissimo se devo essere sincera perché ne ho davvero bisogno e perché non ne posso più di tenermi tutto dentro. Non ha mai funzionato, figurarsi oggi che è una giornata davvero pessima.

  • Tua mamma non ti ha insegnato l'educazione, ragazzina? O ti ha insegnato soltanto come farti un uomo sulla venticinquesima? – e ghigna per quella battuta che mi fa male anche se lo nascondo. Ghigna come se avesse detto la frase del secolo e come se mettere a tacere una sedicenne sia la sua massima aspirazione nella vita.

    Ed è troppo per me, troppo anche per quel giorno. Troppo perché è due anni che mamma non c'è più e io sono sola.

    Troppo perché tutti le danno la puttana senza neanche sapere che era la persona più speciale del mondo e che con solo un sorriso riusciva a rallegrare la giornata a chiunque e senza la benchè minima difficoltà.

    - Stronzo – sibilo e poi sorrido prima di saltare sul cofano con un po' di difficoltà per la suola consumata e bagnata delle All Star scure, – me la vuoi insegnare tu, l'educazione? – domando con scherno e rido forte davanti all'espressione scioccata dell'uomo prima di dare un calcio al vetro. – Dai, hai tanto da insegnare! – intimo nonostante le sue urla e colpisco il vetro con l'intera pianta del piede una volta ma con abbastanza forza perché delle schegge si possano ramificare veloci dal punto che ho calciato.

    Rido ancora, rido ancora perché questo è il mio modo perverso di sfogarmi e l'uomo mi insulta ancora e mi stanno guardando tutti ma non mi importa abbastanza per smettere.

    - Ti ammazzo, ragazzina! – mi urla il tipo e cerca di acchiapparmi ma io sono più veloce e mi attacco alla reginetta della macchina slittando sul vetro umido prima di riuscire a salire sul tettuccio.

    - Allora, non mi prendi? – e rido ancora saltando un paio di volte sul tettuccio e rischiando di scivolare a terra anche, se per quella cazzata, la fortuna sembra essere dalla mia parte.

    Il tassista ringhia altri insulti e allunga una mano sul tettuccio dell'auto per afferrarmi la caviglia ma salto schiacciandogli le dita e rido ancora quando mi insulta e mi guarda con odio.

    - Ti faccio vedere io – sibila e poi sale in macchina mettendo in moto e partendo velocemente.

    Impreco mentre corriamo veloci per le strade di New York e infilo la punta del piede sotto la reginetta per tenermi in equilibrio anche se non è diverso dal fare surf , e poi è divertente.

    - Mi porti alla Upper West Side? – grido barcollando per una curva che ha preso troppo stretta. Saluto un'anziana che mi ha guardato come se fossi pazza e urlo quando rischio di cadere in avanti contro l'asfalto. Una prospettiva che non mi piace per nulla.

    L'uomo frena e accelera bruscamente e mi inchino aggrappandomi con le mani alla reginetta della macchina perché, seriamente, ho ancora tantissime cose da fare nella vita per morire in questo modo.

    Mi reggo per l'ennesima curva presa senza neanche premere un minimo il freno e quando vedo Central Park sorrido.

    - Grazie per il passaggio! – grido all'uomo che impreca ancora appena scatta il rosso del semaforo. Salto con una capriola e cado accovacciata, l'adrenalina che mi scorre potente nelle vene e che mi spinge a correre, a correre veloce e ridere perché non c'è niente di più bello dell'essere finalmente e inesorabilmente liberi.

 

Sono seduta a Central Park e guardo il laghetto ghiacciato e il paesaggio bianco davanti a me.

È tutto sempre calmo a Central Park, tutto sempre silenzioso e sembra un po' un paradosso considerando il casino che normalmente contraddistingue la mia New York.

Mi passo una mano tra i capelli e respiro forte.

Dovrò andare da zia Mary e dalla sua puzza di lettiera per gatti fino a che non troverò una nuova scuola. Devo se voglio sopravvivere, devo per forza.

Mi alzo e sbuffo di nuovo. L'appartamente della zia non è molto lontano e sarà solo una zona di transito, quindi va bene. Devo sopravvivere per qualche giorno prima di trovare un'altra scuola e considerando che lo faccio da tutta la vita non deve essere tanto male farlo all'interno di una casa con un riscaldamento.

Costeggio la Upper West Side e poi tolgo le chiavi di casa dalla tasca centrale della felpa. Entro in casa con le mani che tremano leggermente per il freddo e sorrido appena il calore di casa mi arriva addosso facendomi sentire un po' meglio.

Lasciate che vi presenti zia Mary prima che la conosciate. È la sorella di mamma e ha più o meno cinquant'anni anche se ne dimostra decisamente di più. Tiene sempre i capelli castani in una crocchia tirata e ha anche una fissazione per il rosa. Tutto a casa sua è rosa, le pareti, il divano, le tovaglie. Anche i vestiti per i sette gatti che si preoccupa di cucire a mano e che sono identici alla gonna e alla giacca che porta lei alla Dolores Umbridge di Harry Potter. Si assomiglia moltissimo a lei se devo essere sincera ma la zia è molto più secca e a volte si fa chiamare Marie, in francese e io non ci vedo molto senso considerando che è newyorkese pura. Ma si sa, le donne altolocate devono sempre cercare qualcosa che le distingua dalla massa.

Storgo il naso per la pizza di lettiera per gatti che aleggia in casa e percorro il corridoio stretto andando verso la luce accesa della porta del salotto. Sento delle voci che non conosco e la voce acuta della zia liberarsi in una risata talmente tanto falsa che probabilmente, chiunque sia in salotto l'ha beccata in pieno.

Appena metto un piede sulla soglia del salotto mi blocco di colpo e la mia iperattività parla prima che il mio cervello possa dire:”Gesù, stai zitta!”.

- Chi sono loro? – domando facendo un paio di passi avanti ed entrando nella visuale di tutti, anche in quella della zia che mi mostra un sorriso disumano per abbracciarmi.

Non voglio neanche toccarla.

La puzza che aleggia in casa, addosso a lei è sempre triplicata e non ci tengo a morire a sedici anni per colpa sua, devo essere sincera.

I due ragazzi si voltano e corrugo la fronte inclinando un po' il viso e li osservo curiosa.

- Siete modificati con photoshop? – chiedo ancora e qualcun altro si vergognerebbe ma sfacciataggine e iperattività a quanto pare, vanno d'amore e d'accordo per non vergognarsi quando faccio figure di merda.

Sono un ragazzo e una ragazza che non ho mai visto in vita mia, sono bellissimi e sono in piedi, nel centro del mio salotto. Hanno il fisico più atletico del mio, probabilmente fanno talmente tanta palestra da esserne dipendenti. Sono sicuramente più grandi di me di qualche anno e indossano entrambi jeans, cappotti scuri e un berretto calato sui capelli.

- Sono Percy – mi parla il ragazzo e sorride e i suoi occhi verdi che ricordano il mare d'estate luccicano mentre mi porge una mano che non stringo, – siamo qui per potarti con noi.

La ragazza bionda accanto a lui gli tira un pugno sulla spalla e Percy geme di dolore ma le sorride prima di riportare lo sguardo su di me che, evidentemente negli ultimi tempi mi sono persa qualche passaggio.

- Ma ti droghi? – domando stizzita strappando una risata a Percy e un sorriso alla ragazza bionda che ha accanto. A quel punto, lei fa un passo verso di me e mi guarda e devo quasi lottare per non abbassare lo sguardo davanti a quegli occhi grigi che sembrano mi vogliano mandar a tappeto proprio in quell'istante.

Il fisico è imbottigliato dentro una felpa grigia e una maglietta bianca e aderente, i capelli sono ricci e lunghi quanto i miei, sciolti lungo la schiena.

E a questo punto decido che questi qui non mi piacciono per nulla.

- Dovete portarvi via la mia piccola? – dice zia e poi i suoi occhi castani indugiano su di me, – ho ricevuto la lettera della tua esplusione.. – se non la conoscessi penserei che sia anche realmente dispiaciuta, – hai deluso ancora tua madre. Hai fallito ancora.

E Percy si volta verso di lei fulminandola con lo sguardo e stringendo i pugni. Annabeth la guarda seria e la zia ammutolisce indietreggiando addirittura di un paio di passi.

Ok, scherzavo. Questi ragazzi mi piacciono!

- Davvero una donna simpatica, dico sul serio – dice Percy con un sorriso e poi guarda Annabeth che annuisce un paio di volte e mi afferra per il gomito prima che possa protestare o spostarmi.

- Adesso dobbiamo andare sul serio – mi tira lungo il corridoio seguita da Percy e ignorando le mie proteste, – è stato un piacere signora Miller! – grida Annabeth ma non sento la risposta di mia zia perché siamo già fuori dall'appartamento e sono talmente confusa che non riesco neanche a parlare. E credetemi, decisamente questo non è da me.

- Perché diavolo non l'abbiamo trovata prima? – esclama Percy appena siamo all'esterno e rabbrividisco per il freddo lasciandomi trascinare da Annabeth lungo l'Upper West Side come se fossi una bambola di pezza.

- Dei! Non lo so! Secondo quello che avevi detto due anni fa dovevano riconoscerli a dodici anni ma lei ne ha sedici – rallenta il passo per un attimo, – tutto questo non ha senso.. ne parleremo con Chirone appena saremmo arrivati al Campo.

E per un attimo mi sembra che il mondo stia girando senza di me. Percy dice qualcos'altro che centra con “attacco” e “mostri” ma il mio cervello si sofferma sulle parole:”dei” e “Chirone”.

- Fermi un attimo! – esclamo puntando i piedi al centro del marciapiede e liberandomi dalla presa di Annabeth con uno strattone, – ma vi siete fatti di acidi per caso? Chi diavolo siete voi due per portarmi via in questo modo e perché andate a farneticare di dei? – mi passo una mano tra i capelli per l'esasperazione e poi rido, – prima cosa: che razza di nome è Percy – allungo una mano verso di lui, – senza offesa.

- Nessun problema.

- Seconda cosa: Chirone non era un tizio della mitologia? – loro due mi guardano e Annabeth annuisce. Sta per parlare e alzo un po' la voce per sovrastarla, – seriamente, voi avete problemi gravi e incurabili – scuoto la testa perché ne ho davvero abbastanza per oggi e ci mancavano soltanto questi due pazzi sclerati che farneticano di morte, dei e Chirone.

- Come fai a sapere della mitologia? – mi domanda Annabeth di punto in bianco e la guardo come se fosse in mutande e reggiseno in pieno inverno perché, davvero, non ha senso chiedermi di una cosa così banale quando gli ho appena urlato addosso che si fanno di acidi.

- A lezione di latino ma ho difficoltà a leggere – dico senza pensarci e cancello ciò che ho appena confessato con un gesto della mano come se fosse un insetto fastidioso. Odio che le persone sappiano della mia dislessia. Mi fa sentire vulnerabile e odio sentirmi così.

Annabeth e Percy si guardano, – se prima avevo qualche dubbio adesso sono certa che sia una di noi.

- Che cosa?

Annabeth mi guarda e poi allunga un braccio verso di me per afferrarmi di nuovo, – non abbiamo molto tempo, devi venire con noi, Ariel – dice più seria che mai ma io indietreggio come se mi fossi scottata e mi passo una mano gelida tra i capelli come se fosse un anti-stress.

- Io non vengo da nessuna parte con voi! – li guardo stralunata e poi rido perché poche volte mi sono trovata in una situazione così assurda, – andate a farvi fottere. Dico sul serio – e poi mi volto di scatto e inizio a correre lontano da quei due perché se prima ero arrabbiata adesso sto iniziando ad avere davvero paura.

L'ultima cosa che sento è Percy che borbotta qualcosa a proposito di Atena e questo mi spinge a correre ancora più veloce.

 

Sono tornata a Central Park. Devo essere sincera, questo è un po' il mio rifugio. Preferisco il caos alla calma che c'è qui ma va bene lo stesso perché non mi piace essere limitata e se c'è una cosa che fa Central Park è farti sentire libera.

Sbuffo mentre osservo il laghetto che ho davanti perché quella giornata è stata assurda e voglio solo andare via. Sfogarmi con qualcuno e poi andare a Montauk. Senza mamma non è più lo stesso ma nella vita bisogna sapersi accontentare.

Sento un fruscio tra le foglie e mi volto di scatto osservando gli alberi che si sono probabilmente mossi solo per il vento.

- Gesù – sospiro passandomi nuovamente una mano tra i capelli, – sono davvero paranoica... – ma non faccio neanche in tempo ad alzarmi e andare via che sento un urlo. Un urlo acuto degno dei gatti di zia e di quell'oca di Ashley che sbava lo smalto.

Mi getto a terra nella neve per puro istinto appena l'aria si muove dietro di me, appena in tempo perché una cosa che sembra molto il cane di Paris Hilton senza peli mi passi sopra velocemente.

Nota bene: il cane di Paris Hilton non ha le ali, non è alto almeno il doppio di me e non strilla in quel modo.

Mi inginocchio velocemente e cerco di indietreggiare incespicando sui miei stessi piedi per la neve fredda che mi ha bagnato sia felpa che jeans.

- Andiamo, piccola dea – e non so se essere più scioccata perché quella cosa parla o perché ha delle ali da pipistrello che la tengono sospesa da terra di un paio di piedi.

- Io che cosa? – domando senza il minimo di logica con il cuore che batte a mille mentre sono talmente terrorizzata che non riesco neanche a trovare una soluzione per uscire da quella situazione.

- Il mio signore ti vuole al suo cospetto – gracchia ancora e riesco a mettermi in piedi a fatica nonostante la testa che mi gira e le ginocchia che tremano paurosamente.

E poi, il mio cervello decide di lavorare. Il corpo di una megera avvizzita, i denti acuti.. è una Furia che decisamente, non dovrebbe essere a Central Park.

E non riesco a pensare a nient'altro perché sono troppo spaventata, davvero davvero tanto e mi piace attribuire l'uscita più stupida del secolo alla paura, – sai di essere davvero brutta?

E gli occhi di quella megera bruciano e lei grida, grida forte prima di lanciarsi verso di me a una velocità pazzesca. Mi butto carponi sulla neve ma non abbastanza in tempo perché gli artigli di quell'affare mi graffino la spalla. Impreco e gemo mettendomi in ginocchio e voltandomi verso la Furia che gira velocemente in aria per mettersi nella mia direzione.

- Al mio signore non dispiacerà se ti porto morta – e poi sembra quasi mi sorrida ma un sorriso talmente pauroso che faccio un paio di passi indietro incespicando sui miei piedi e cercando di sopravvivere.

- Credimi, a me dispiacerebbe un sacco.

E quella grida ancora e sono certa si stia per lanciare su di me quando sento una voce familiare abbastanza provenire da dietro la megera.

- Signora Dodds! – esclama Percy affabile venendo verso di noi tranquillo. Estrae una penna a sfera dalla tasca mentre Annabeth si gira un cappellino blu degli Yankee sull'indice, – vorrei poter dire che è un piacere rivederla – e ride bloccando la penna nel pugno, – ma non lo è per nulla.

- Voi – gracchia quella cosa e Annabeth la guarda con un sorriso di scherno prima di portare lo sguardo su di me e sulla mia ferita. Non so come ma riesco a capire che vuole sapere come sto e annuisco un paio di volte lentamente fissando la schiena magra della Furia e sbattendo le palpebre un paio di volte. Non devo svenire.

- Ade manda te a fare il lavoro sporco, quindi? Non dovresti prenderti.. che so, una piccola pausa o qualcosa di simile? Ti vedo trascurata – dice Percy con scherno e trattengo una risata.

La Furia guarda prima me e loro due, quasi cercando di capire qual è la minaccia peggiore e dopo qualche attimo si volta verso Percy e Annabeth e fa di nuovo quell'urlo stridulo prima di lanciarsi verso loro due.

- Ora! – grida Percy e Annabeth si cala il berrettino sul viso scomparendo.

Devo ancora realizzare quello che è successo ma Percy stappa la penna che si allunga e appesantisce nella sua mano diventando una.. – Spada? – sbarro gli occhi e me li stroppiccio un paio di volte perché sicuramente mi sono sbagliata. Quella prima era una cavolo di penna a sfera e le penne a sfera non posso in alcun modo diventare spade.

Percy si abbassa velocemente e corre sotto la furia venendo verso di me. Si gira quella spada stupenda nella mano destra e mi mette una mano sulla spalla osservando quella ferita, – va tutto bene? – domanda preoccupato e annuisco un paio di volte prima di gridare, appena la megera viene verso di noi.

- Giù! – e mi butto su di lui rotolando via subito dopo e bagnandomi ulteriormente i pantaloni.

Percy ride e si spazzola via la neve guardandomi per qualche attimo prima di assottigliare le palpebre e puntarle verso la megera che adesso è quasi sopra il lago e grida ancora, – ti ringrazio dopo per avermi salvato la vita, d'accordo? – e poi ride, – davvero poco originale colpire alle spalle, dico sul serio!

E la Furia grida ancora, grida ancora mentre vola verso Percy talmente velocemente che faccio quasi fatica a vedere quella palla rosa. Mi aspetto che Percy scappi, si sposti o schivi ma lui rimane fermo con un sorriso di scherno sul volto, roteando la spada tra le mani e poi, succede tutto talmente velocemente che faccio anche fatica a realizzarlo subito.

La Furia grida di dolore e si ferma a mezz'aria paralizzandosi. Un cappellino blu degli Yankees vola via lasciando vedere Annabeth sul dorso della megera che stringe un coltello di bronzo dalla lama ricurva che è infilato nella schiena del mostro.

L'essere si riduce in polvere e Annabeth rotea su sé stessa prima di cadere con un equilibrio perfetto sulla neve.

Si spazzola i jeans e nasconde il coltello nella manica del giubbotto in pelle prima che Percy le possa andare incontro mettendole una mano sul fianco, – ottimo lavoro – le sussurra e probabilmente la bacerebbe anche se fossi stata zitta ma il dolore alla spalla è lancianante e a sopportare in silenzio non ce la faccio.

Sistema il cappuccio sulla punta della spada che si rimpicciolisce, tornando ad essere una penna a sfera.

Sbarro gli occhi.

- Dei, Ariel! – esclama come se si fosse ricordato di me solo in quel momento e mi corre incontro sostenendomi con un braccio su un fianco appena barcollo.

- Ma quella.. – indico prima la penna e poi lui, – quella era una penna e poi.. è diventata una spada e... voi siete matti! Voi siete matti – realizzo con voce stridula, – devo andare a fami curare. Oooh si, devo andare senza dubbio a farmi curare.

- Dobbiamo andare al Campo, adesso – e Annabeth viene alla mia sinistra prendendomi esattamente come Percy, ignorando il mio isterismo di pochi istanti ptima. Cerco di prendere facoltà delle mie azioni quando loro iniziano a camminare velocemente fuori dal parco e non so neanche come, ma arriviamo a un pick-up rosso e mi fanno sedere sui sedili posteriori prima che salgano anche loro.

- Corri Percy, dai! – grida Annabeth quasi in preda al panico e Percy le urla qualcosa in risposta ma sento ovattato e il fatto che stia venendo sballonzolata ogni tre secondi contro il finestrino perché quell'idiota ha preso la patente alle scuole elementari, non aiuta affatto.

La fitta alla spalla aumenta e impreco alzando il palmo da sopra alla ferita per vederlo ricoperto di sangue, – merda.. – ed è l'unica cosa che riesco a mormorare. Un po' perché mi fa davvero male e un po' perché sono davvero troppo preoccupata e frastornata e odio sentirmi così.

Annabeth si volta verso di me di scatto sbattendo la testa al sedile appena Percy imbocca il ponte di Brooklyn senza schiacciare il freno neanche una volta.

Rido e lei si sforza di trattenere un sorriso prima di mollare un pugno sulla spalla a Percy che protesta ma la guarda comunque in un modo talmente tanto dolce che non fossi così acida mi farebbe anche sciogliere.

- Percy! – esclama, – Ariel è ferita!

E vorrei rispondere un qualcosa del tipo:”ma non mi dire!” dato che sembra averlo realizzato solo ora ma, seriamente, ho idea che questa ragazza potrebbe farmi il culo da un momento all'altro e voglio almeno compiere diciotto anni prima di morire.

Percy mi lancia uno sguardo dallo specchietto retrovisore prima di tornare a guardare la strada un po' traffica, – nella mia tasca c'è dell'ambrosia.

E Annabeth cerca quasi con frenesia prima di togliere una bustina di plastica con all'interno un quadratino giallo che ispira veramente poco.

- Mangia – mi ordina e il tono è talmente autoritario che faccio come dice sentendo un sapore talmente buono di cioccolato e caramelle che ne vorrei mangiare un altro po'.

- Bene – sorride Percy lanciandomi un altro sguardo e riuscendo a traparnarmi con quegli occhi verdi anche attraveso lo specchietto retrovisore, – adesso sappiamo per certo che sei una di noi.

Corrugo la fronte, – e l'hai capito facendomi mangiare?

Annabeth rotea gli occhi, – si, facendoti mangiare l'ambrosia. Se non fossi stata una di noi saresti morta bruciata.

- Che cosa?!

- Annabeth!

Poggio pesantemente la schiena al sedile, – io devo andare a farmi curare – sussurro.

 

Percy e Annabeth hanno parlato molto durante il viaggio e per un po', lei ha anche giocato con le sue dita mentre guidava. Solo un cieco non capirebbe che stanno assieme e un po' mi trovo ad invidiarli considerando che non ho mai avuto una storia degna di batticuore e notti insonni fissando il soffitto e pensando a lui.

Ho capito che siamo diretti a Long Island ma non mi va di parlare o chiedere altro per cui mi limito a poggiare la testa al finestrino e guardare la strada.

La ferita alla spalla è guarita qualche chilometro fa e dopo aver gridato degna della Furia di Central Park e aver insultato e minacciato di morte Percy e Annabeth ho deciso di stare zitta e fare un favore alle mie corde vocali.

Le macchine con il passare delle ore sono diminuite e adesso che ci stiamo avviciando a una collina che non ho mai notato per davvero, non c'è praticamente nessuno sulla statale se non il pick-up rosso di Percy.

In pochi minuti arriviamo ai piedi di quella stessa collina che vedevo da lontano e che porta la scritta “raccolta fragole di Delfi” in pianura. Corrugo la fronte e sto ancora cercando di realizzare quel bizzarro busness quando Percy spegne il motore e scende dalla macchina seguito da Annabeth.

Respiro forte e mi abbandono a un sorriso appena lui le si avvicina e intreccia le dita alle sue, baciandole una tempia e chiudendo gli occhi per quei secondi che le sue labbra indugiano sulla pelle di Annabeth.

Lo stomaco mi si chiude in una morsa e mi affretto a scendere dalla macchina cercando un modo per distrarmi e non pensare a quanto, in questi anni, non abbia mai ricevuto tutto quel riguardo da parte di nessuno.

- Andiamo, Ariel – mi sorride Percy camminando verso la cima della collina e faccio una breve corsetta per raggiungerli dato che sono a un po' di metri dietro a loro.

Mi volto a guardare il paesaggio quando siamo quasi in cima e mi schermo gli occhi con una mano mentre punto lo sguardo verso il sole che sta tramontando e il cielo arancione.

- È bellissimo – mormoro e vorrei stare così tutto il giorno guardando il paesaggio in lontananza se Annabeth non mi stesse chiamando di nuovo.

Sono costretta nuovamente a correre e li raggiungo sulla cima della collina arrestandomi di colpo davanti al pino più grande che abbia mai visto in tutta la mia vita con un vello dorato incastrato tra i rami. A si, c'è anche un drago acciambellato accanto, ovvio.

No aspetta. Un drago?!

- Ma quello è un fottuto drago! – grido e quell'affare rosso e dorato apre stancamente gli occhi e sbuffa fumo dal naso degno di un vaporetto nei film di Sherlock Holmes di serie B, – ooooh merda – mi passo due mani sul viso osservando quell'affare e ignorando le risate di Percy e Annabeth.

Stronzi.

- Devo andare a farmi curare – cammino in tondo e credo che quel drago mi stia guardando ma poi, che cavolo ci fa un drago in quello che dovrebbe essere un campo estivo?

- Ariel – mi sorride Percy facendomi distogliere l'attenzione dal drago per portarla su di lui e sull'arco in pietra che si apre sulla valle di una collina. Apre le braccia e Annabeth si libera in un sorriso talmente bello a guardare quella che deve essere la sua casa, che quasi mi mozza il fiato, – benvenuta al Campo Mezzosangue.

Cammino verso di lui timidamente tenendo comunque d'occhio quel drago che Annabeth sta accarezzando sul collo come se fosse un tenero cavallino e non un essere con i denti lunghi quanto le mie gambe.

Supero l'arco e mi affaccio sulla valle della collina e spalanco bocca e occhi perché, seriamente, quello che vedo è davvero mozzafiato.

Il paesaggio si apre su una serie di case messe a rettangolo, un laghetto delle canoe sullo sfondo che ha sbocco sul mare che occupa tutta la visuale ed è dipinto di un bellissimo arancione. A valle c'è un padiglione, un altro a cielo aperto dove sono certa ci siano persone e una casa enorme dipinta di rosso.

Mi sembra di vedere delle canoe e un'arena ma sono troppo lontana per esserne certa. Sulla sinistra c'è un bosco enorme e ho la mezza impressione che di notte dev'essere una delle cose più inquietanti del mondo.

- Ooh wow.. – mi limito a dire e Annabeh ride passandomi affianco e superandomi mentre scende lentamente lungo la collina.

- Questa è la nostra casa – dice Percy venendomi accanto e tenendo lo sguardo puntato difronte a sé, – è impossibile non innamorarsi di questo posto, credimi.

Sto zitta continuando a guardare fissa davanti a me e Annabeth ci chiama dopo essere quasi arrivata a valle. Fa un cenno col braccio e Percy mi posa una mano sulla schiena per spronarmi a camminare.

 

- Percy, Annabeth! – e mi arresto di colpo quando un tizio alto il doppio di me travolge i due ragazzi e li solleva anche da terra di due centimetri, – Percy e Annabeth non hanno fattobum! – esclama felice e loro due ridono come se una cosa del genere accadesse tutti i giorni.

Effettivamente non è molto difficile da credere.

- Già! Soprendente, vero? – ride Percy e un paio di ragazzi seduti ai tavoli della mensa sorridono o ridono.

Noto che l'attenzione è su di me ma dopo che ho cambiato non so quante scuole in non so quanti anni, venir osservata da occhi diversi ogni secondo non è poi una novità.

Faccio scorrere lo sguardo tra i numerosissimi tavoli e mi sorprende notare quanto i componenti di ciascuna panca si somiglino tra loro.

Ci sono ragazzi con i capelli prevalentemente scuri, i bicipiti grossi quanto le mie braccia e cicatrici perfino sul viso. Io sono nuova eppure loro continuano a fare casino, a ruttare e lanciare pezzi di pane ai ragazzi vicino a loro, quasi a voler provocare zizzania per litigare.

Decido che quei ragazzi mi piacciono e poi osservo uno dei tavoli più numerosi, dove i ragazzi hanno lo sguardo di chi vuole rubarti qualcosa e sa perfettamente come farlo. Dove hanno quello sguardo malandrino e l'espressione talmente furba che vengono bollati dagli insegnanti come piantagrane.

Quella cosa enorme mette finalmente a terra Percy e Annabeth e lei si sistema la maglietta prima di fare un cenno del capo a un tavolo dove i ragazzi le somigliano talmente tanto da fare anche impressione.

- Lei è nuova amica! – esclama il tizio e solo osservandolo meglio alla luce del falò mi accorgo che ha un unico occhio enorme al centro della fronte. Spalanco gli occhi quando lui apre le braccia.

- Ma porca.. – ma una voce interviene e sono quasi disposta a baciare i piedi a quel santo.

- Tyson – dice divertito, – dovresti cercare di far abituare la nuova ospite, non trovi? – e sono curiosa di vedere chi è quel tipo dato che Tyson, con la sua mole lo copre per intero.

- Si, Chirone – dice lui abbassando il capo quasi imbarazzo e alla fine si sposta e se pensavo che le sorprese per oggi fossero finite, mi sbagliavo di certo.

- Oh mio dio.. Ma lei è per metà cavallo!– esclamo senza pensarci e l'uomo cavalloride venendo verso di me con il manto bianco ben pettinato e una maglietta stropicciata a coprirgli il dorso, come se non lo avessi affatto offeso. – Sto impazzendo – dico con voce stridula passandomi una mano fra i capelli, – devo andare a farmi curare.

Credo che stia per parlare ma una voce annoiata lo precede e attira la mia attenzione, – oltre che una scocciatura, questi semidei sono anche maleducati – e la mia attenzione viene attirata verso un tavolo che in primo momento non avevo affatto notato. Ci sono un uomo e un ragazzo che si somigliano molto, con gli stessi ricci talmente tanto scuri che alla luce del falò sembrano quasi blu, e un'espressione che non riesco a decifrare bene.

L'uomo porta una tuta tigrata che gli sta veramente male e credo che sia abbastanza furbo da riuscire a fregare tutti quei piantagrane con i capelli color sabbia e le orecchie un po' a punta.

- Davvero simpatico. Quella tuta la mette perchè crede vada di moda o perché gli abiti vagamente decenti erano a lavare? – domando con un sorriso strafottente sul volto.

Ignoro il pizzico di Annabeth al fianco, Tyson che scuote la testa talmente forte che ho paura gli cada da un momento all'altro e la mensa che si è zittita come se avessi detto chissà che cosa.

- La posso incenerire? – domanda l'uomo riccio al tizio cavallo che ho appena realizzato si chiami Chirone. Lui si gira e scuote la testa con un sorriso prima di guardarmi e inchiodarmi alla colonna in pietra che ho alle spalle.

- Prima dovremmo spiegare a questa signorina un po' di cose – e poi guarda con bonario rimprovero Percy e Annabeth alle mie spalle, – e mi scuso per essermi fatto trovare nella mia forma equina già dal primo incontro. Se fossi stato avvisato prima non avremmo avuto questo inconveniente.

Annabeth abozza un sorriso, – ci dispiace molto, Chirone. Non abbiamo avuto il tempo di avvisare – mi poggia una mano sulla spalla, – lei è Ariel, comunque. 


Angolo Autrice: 
Ehiiila<3
Sono tornata! 
Dopo un bel po' di tempo ma sono tornata ahhaha mi scuso se ci ho messo così tanto ma questa storia non aveva voglia di essere scritta. Sul mio computer mancano pochi capitoli prima che sia finita quindi ho deciso di pubblicarla perché ero troppo emozionata e mi mancavate ahahah 
Come vi avevo anticipato più volte, la storia non si concentra su Percy e Annabeth ma su una protagonista totalmente nuova, Ariel, sfacciata, acida e stronza e poi, piano piano, capirete anche perché è cambiata così tanto. 
Forse qualcuno si lamenterà della furia che è uguale al primo libro di Percy ma, e voglio sfatare un mito, la furia c'è perché mi sembrava quasi doveroso richiamare anche in questa storia la prima avventura dell'eroe che mi ha ispirato questa fanfic. Percy si ritrova infatti a combattere la sua prima nemica in assoluto per salvare Ariel e mi sembrava una cosa carina da ricordare ahahha 
Avevo già pubblicato questa storia un po' di tempo fa ma poi l'ho cancellata e riscritta da capo cambiando mooooooolte cose^.^ 
Ovviamente, tutto è appena iniziato e le reazioni migliori di Ariel si vedranno a partire dal prossimo capitolo. Adesso era troppo agitata e sconvolta per realizzare il tutto ma poi, si farà vedere al Campo per la ragazza che veramente è! 
Spero che continuerete a leggere e mi lascerete un vostro parere:** 
Alla prossima, lo prometto! 
Vi adoro<3
Love yaa<3


  
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