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Autore: Angelo_Stella    05/10/2014    1 recensioni
1941, Berlino.
Duncan, un ventiduenne tedesco particolarmente fedele al Fuhrer, è un nazista perfetto. "Deutschland, uber alles!" è la frase che ripete al mattino, quando si alza per mirarsi allo specchio e crede fermamente nel suo significato. Ma le convinzioni che gli sono state trasmesse con tanta foga andranno a infrangersi.
È Trent che, tra un soffio di voce e una nota di una chitarra malandata, gli insegna la bellezza dell’amore.
Tratto dal testo
“Cosa ci sarebbe di sbagliato? Che ne sappiamo noi di che cosa sia o cosa debba essere l'amore? Solo perché il matrimonio è tra uomo e donna diamo per scontato sia così sempre? O è perché ci hanno abituato? Perché siamo ancora giovani per capire o perché semplicemente il pensiero … ci fa schifo?"
“Io … Insomma … E' così che va avanti il mondo, o no? Con l'amore di un uomo e una donna."
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Siamo nel 1941 e Hitler trova in Ernst Röhm una minaccia.
Siamo nel 1941 e: “ [...] Tutto ciò richiede l'adozione di più incisive misure contro queste malattie nazionali. “
Siamo nel 1941 e: "Dobbiamo sterminare la radice e i rami di questa gente... gli omosessuali devono essere eliminati!".
....................................
Baci, Angelo e Stella
Genere: Sentimentale, Storico, Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: Shonen-ai, Yaoi | Personaggi: Duncan, Sorpresa, Trent
Note: Lime | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Contesto generale
Capitoli:
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§ L'Angelo racconta §
 
Buon giorno, bellissima gente
Capitolo numero tre ;)
E visto che l'ho promesso, lo scrivo, approssimativamente! u.u
* Si schiarisce la voce *
"Questo capitolo,
è dedicato a Stella_2000, perché lei è la più graaaaaaaaaaande amante dello Yaoi di tutto il pianeta, anzi no: è la più graaaaaaaaaaaande amante dello Yaoi di tutto l'Universo, tanto che nemmeno un marziano può eguagliarla! U.U"
Ecco fatto, più o meno era così xD
Non ho molto altro da aggiungere: per chi voleva il concreto, eccolo qui ;)
Grazie a chi ci segue ;)
 
Buona lettura, Angelo

 




Capitolo 3


COLLABORAZIONE CON Stella_2000
 
"Da quanto non ti lavi?" gli chiese infine, allontanandosi repentinamente da lui e guardandolo dall'alto in basso, trattenendo l'impulso di un chissà cosa allo stomaco.
Trent ancora seduto, lui in piedi. Eppure, non si sentiva superiore. Non voleva esserlo. Non voleva che lui si sentisse sottomesso, ma l'aveva portato a casa sua. Gli aveva fatto vedere quell'oro, quei pavimenti e quegli oggetti. Senza curarsene, viveva tra seta e pietre preziose, senza interessarsene, senza guardare addosso alle sue serve, provando disgusto. Per loro e per lui. Prima.
"Quanto pensi che possa lavarsi, la polvere?" ebbe in risposta, in quel suo angelico tedesco: si sentiva l'accento straniero melodioso anche in quelle barbare sillabe che erano tipiche della lingua ariana. "Vola e basta. Quando c'è la pioggia, mi lavo." Parlava come un poeta, con frasi caratteristiche di chi vive di musica e armonia.
Venne spontaneo parlare così, anche dopo tutte le gentilezze ricevute. Era un tedesco e lui non era nulla. Lui gliel'aveva detto, lui gliel'aveva dimostrato, davanti a tutti, conscio fosse giusto. Lui seguiva cecamente il Fuhrer. Lui aveva in casa più oro di quanto tutti i tedeschi messi insieme ne portassero nei capelli.
"Vai a lavarti!"
Eppure, in quella sua frase fredda ci sentiva una dispiaciuta amarezza. Quasi fosse offeso o si stesse vergognando. Di quello che aveva fatto. Della corona che portava.
Ed effettivamente, s'era girato e guardava ovunque, in quel momento. Il soffitto, il pavimento, i candelabri e i lampadari. Domandandosi, chiedendosi perché ed odiandosi chissà per quale motivo, come mai prima di allora, solo perché in casa sua c'era tutto quello e non risplendeva comunque, affatto. Perché vedeva splendore negli occhi di quella che avrebbe dovuto essere polvere di strada? Perché chi non aveva niente, con uno sguardo di smeraldo splendeva come il Sole? Il Sole di Berlino, del suo cielo, nei suoi occhi!
"Grazie, ma … non mi serve."
In realtà, voleva solo non vederlo, Duncan. Perché lo aveva accolto. Perché lo aveva curato. Per averlo portato a casa sua. Perché la sua voce gli piaceva, come i suoi occhi, il suo accento e la sua musica. E perché non riusciva a capire: sbatterlo fuori, un gesto. Veloce, facile. Gli aveva fatto di peggio! Eppure, no! No allora, né il giorno dopo o quello più tardi ancora. Mai!
"E tu … hai sicuramente da fare! Hai perso tempo con uno come me! Es tut mir leid!"
Mi dispiace? Gli dispiaceva! Ancora una volta gli fece comprendere quanto fosse orribile il sentirsi odiato, totalmente. Disprezzato. Preso a calci per una lingua diversa, bella, tra l'altro.
"Come si dice, nella tua lingua?" chiese allora, curioso, stupendo l'ospite.
Glielo disse. Era davvero molto più bello che nella loro! Aveva un'armonia particolare, molto strana per un madrelingua di un linguaggio basato interamente sulla logica.
Domandò altro ed altro ancora, estasiato dall'intonazione, dai suoni e anche dai gesti con cui li accompagnava, presenziavano quasi ad ogni parola. Ripeteva, ad occhi aperti, a volte facendolo ridere, per la pronuncia sbagliata o goffa. Chiedeva le prime parole che gli venissero in mente, senza pensare troppo a quali fossero, anche molto discordanti tra di loro.
"E come dici 'acqua'? E 'musica'? E 'occhi'? E 'smeraldo'? E …?" continuava, senza troppa estasi.
Non se ne accorgeva: lui era il tema. Il suo Angelo, nei meandri della sua mente, avrebbe voluto descriverlo nella sua lingua, ecco perché domandava quelle parole! Il tedesco, non gli rendeva giustizia, non era bello per niente!
A Trent, invece, tutto pareva semplicemente assurdo. La lingua ariana, non era forse la più pura, la più importante, la più matematica e perfettamente logica? Cosa poteva interessargli di un linguaggio come il suo?
Ciononostante, rispondeva. Non gli costava niente.
"E 'Kuss'?"
Batté le palpebre. "Kuss?" ripeté meravigliosamente: sapeva il corrispondente nella sua lingua, ma tra tutte quelle richieste, quell'ultima gli pareva la più strana. Perché improvvisamente si rese conto di quanto vicini fossero nel parlarsi, di quanto non smettesse di fissarlo. Da quanto lo fissasse anche lui.
"Oh!" esclamò dopo un po' Duncan, alzando una mano pericolosamente. "Il tuo labbro, sanguina di nuovo!"
Lo sfiorò e non poté far a meno d'abbassare gli occhi subito dopo, così come fece anche il ragazzo, immaginandosi come sarebbe stata una sua carezza, anziché uno schiaffo, anziché un pugno o un calcio. Se quelli l'avevano fatto bruciare …
I suoi occhi su di lui lo inquietavano. Le sue dita non si erano ancora mosse. Aveva della mani grandi, diverse dalle sue, forse per semplice genetica. Premevano sulla ferita, un calore piacevole. Si spostavano sul volto livido, lasciando come una scia di sale di mare. Il suo mare, quello che solo lui poteva vantare. Quello di quei luminosi quanto inguardabili occhi. L'alba della sua pelle bianca e la notte dei suoi capelli scuri.
Lui e basta. Da lui voleva essere toccato e basta. Che lo picchiasse, se voleva! Meglio che lasciarlo sulla strada di Berlino, senza guardarlo neanche, fingendo che non esistesse. Che provasse pure disgusto, se desiderava! Ma che lo guardasse! Che lo considerasse, che sapesse che fosse in vita, là e per lui, per lui e basta!
Per questo gli si avvicinò, stringendolo per un braccio e non dandogli il tempo di replicare. Guardandogli gli occhi solo un momento, per poi chiuderli, non sopportando di vedere il probabile stupore e il cupo colore che avrebbero assunto. Lo schifo di avere le labbra di uno come lui contro le sue. Le sue mani addosso. Il suo corpo più vicino ancora.
Sapendo cosa sarebbe successo, Trent gli diede un bacio, senza pensarci troppo e senza guardare. Senza rimanere troppo attaccato a lui, ma prolungando psicologicamente quel contatto, imprimendolo bene nella sua testa e sulle sue labbra: Duncan Ruschtmann era stato lì. Anche se solo per poco, al prezzo di pagarla, l'aveva avuto. Quei pugni gli sarebbero serviti, per averlo anche solo un po'. Sentì stringersi lo stomaco, quando si allontanò. Si allontanò un attimo, un secondo e basta, nemmeno il tempo d'aprire gli occhi ancora e poi di nuovo, un bacio, un bacio suo.
Voleva ucciderlo, ne era certo, Trent. Ucciderlo nella maniera più crudele possibile: quanto veleno può stare in un bacio? Non riusciva a respirare. In un abbraccio? Lo teneva troppo stretto. In una carezza? Scottavano, le sue mani. Ucciderlo, con l'illusione d'essere stato amato.
Non era importante. Gli aveva risposto, gli rispose, sentendosi interiormente già morto, per quando quell'amabile tortura che non meritava sarebbe finita. Allora, si sarebbe ucciso da solo.
E si preparò, quindi, ai lividi, ai pugni, ai calci, allo sbattimento e al sangue, al dolore, al freddo della pioggia che sempre batteva sui vetri delle finestre, incurante di loro. Serrò gli occhi, sentendosi inferiore, in quel momento. Sapendo che avrebbe avuto un pretesto per farlo ammazzare, nel caso non l'avesse finito prima lui.
Non poteva sapere, certamente. Lo stupore iniziale, per Duncan c'era stato. La tentazione di ammazzarlo anche. Di picchiarlo, umiliarlo nuovamente. I suoi occhi erano rimasti aperti per quel secondo in cui si erano toccati. Ma poi, l'aveva preso lui, ancora  l'aveva stretto. Gli aveva dato un bacio, più lungo, l'aveva abbracciato, passandogli le mani sul volto e tra i capelli. I desideri riguardo la sua morte erano scemati.
"Mio!" sentiva di voler urlare. "Mio e basta! La gente non lo deve fissare. Resta qui, chiuditi in una stanza e basta! Non voglio che ti guardino e che ascoltino la tua voce. Mio! Mio! MIO!" Come una voce nel cervello, che lo disturbava e mentre Trent strizzava gli occhi, lui si prese la testa tra le mani: che non ci pensasse più. Fuori da casa sua doveva andare, subito! E invece no. Non lo cacciava, non lo picchiava.
Non lo picchiava! Trent si era messo a guardarlo, che stringeva sempre di più le tempie tra le mani, certo che si stesse facendo male, gli occhi chiusi, strizzati. La paura si rivelava in quei gesti privi di pudore, quasi non fosse là. Tremando, gli prese le mani tra le proprie e facendo una leggera pressione, le allontanò dalla testa, divenuta rossa per lo sforzo.
Duncan lo guardò negli occhi, dimenandosi dalla sua presa con falsa cattiveria, le pupille dilatate e in seguito i pugni stretti troppo, di nuovo, le unghie curate ad incidere la pelle. D'improvviso, poi, si rilassò, tornò serio, lo guardò negli occhi. Non era neanche rosso in viso. "Kuss. Come lo dici tu?"
L'angelico ragazzo non sorrise, ma glielo disse. "Bacio."
"Und Liebe?"
"Amore."
"A- mo- re." ripeté Duncan. "Questo non è amore!" imprecò poi, in tedesco.
L'altro abbassò lo sguardo per l'ennesima volta. "Perché no?" domandò poi in un sussurro timido, facendogli emettere un verso di stupore. "Intendo, perché non potrebbe esserlo? Cosa ci sarebbe di sbagliato?"
Non che ne sapesse granché: la sua vita non gli permetteva di pensarci. Le donne che aveva attorno erano in gran parte tedesche, mentre quelle ebree o erano sposate, o erano giovani. E comunque, spesso non lo guardavano di striscio. Inoltre, si era sempre domandato il perché di quella fissazione tipicamente ariana dell'amore obbligatorio tra uomo e donna. E se non fosse stato così? Cosa, esattamente, impediva al cuore di un uomo d'innamorarsi di un altro uomo? Niente, almeno per lui. Ed era un problema? Non per lui.
"Perché … Perché noi siamo due uomini!" rispose il tedesco, quasi imbarazzato. Come se fosse ovvio.
"E allora, cosa ci sarebbe di sbagliato?" chiese un'altra volta lo straniero, sempre a voce bassa, quasi la paura di ricevere un schiaffo alzandola un poco.
Si guardarono.
"Che ne sappiamo noi di che cosa sia o cosa debba essere l'amore? Solo perché il matrimonio è tra uomo e donna diamo per scontato sia così sempre?" osò ancora Trent, continuando a guardarlo: non sapeva che dire. "O è perché ci hanno abituato? Perché siamo ancora giovani per capire o perché semplicemente il pensiero … ci fa schifo?" Tremò, nel dire quelle ultime parole: nonostante non ci fosse per lui nulla di peggio dell'indifferenza, non voleva che Duncan provasse solo schifo per lui. "Terribilmente giudici." gli venne da dire infine, nella sua lingua natale e quando guardò il volto stranito del ragazzo, ripeté in ariano.
"Io … Insomma … E' così che va avanti il mondo, o no? Con l'amore di un uomo e una donna." cercò di ribattere il tedesco, senza esserne affatto convinto.
Seppe ribattere facilmente e senza vergogna: disse che quello che mandava avanti il mondo, lui lo chiamava "sesso" e che il mondo di cui lui parlava tanto, era andato avanti così per secoli. Lo sapevano tutti e due. "E poi," s'azzardò nuovamente, dopo. "mi hai … b- baciato anche tu!"
Il ragazzo spalancò gli occhi, guardandolo appena, mentre le voci si facevano nuovamente nella sua testa e facendogli dolere il cervello, sbattendoci contro, la ragione contro il sentimento che lottavano a morte in lui.
L'aveva baciato, era vero. Non l'aveva costretto Trent! Trent, era bellissimo. Aveva degli occhi fantastici, sapeva due lingue e possedeva degli ideali che, anche se a lui erano quasi del tutto sconosciuti, non poteva che considerar magnifici.
"Ti prego, vai a fare una doccia!" disse di nuovo Duncan. "Prenditi dei vestiti nuovi!"
Doveva stare solo.
Doveva lasciarlo, questo capì Trent. Non lo voleva intorno, che l'avesse baciato non importava, che l'amasse nemmeno. Semplicemente, era un tedesco. E lui era nulla, ma se l'avesse fatto felice, lasciandolo andare, l'avrebbe fatto. Lui l'amava e lo sapeva, non gli serviva altro.
Ringraziò, allora e s'avviò dove prima era andato lui, per poi spogliarsi ed infilarsi sotto la doccia: come la pioggia, ma più calda. Trent piangeva quando pioveva, così nessuno lo avrebbe potuto vedere. Durante i giorni di pioggia non c'era mai nessuno, una passeggiata senza ombrello e la tristezza se ne andava con quell'acqua. Qualche lacrima gli rigò il volto, ma non l'avrebbe saputo comunque nessuno.
Nel frattempo, Duncan si metteva le mani tra i capelli, tirava i pugni ai cuscini e al divano, a volte al muro. Si faceva male, voleva farsi male! Che lo svegliassero. Piangeva alcune lacrime disperate, in un primo momento: i mori hanno sempre qualcosa che non va!
Ma i biondi non hanno gli occhi di smeraldo, non sanno due lingue, non cantano come angeli del paradiso. Non sono angeli del paradiso! Non possiedono una giusta ed istintiva mentalità. Non hanno labbra morbide, né pelle luminosa com'era la sua, che splendeva, simile a quella polvere d'oro sulle strade della città.
Guardarlo era straziante, troppo celestiale per occhi umani. Troppo puro, eppure così sbagliato.
Perché? Sbagliato perché lo amava. Sbagliato, perché non tedesco e nonostante ciò, quelle labbra se le sentiva ancora addosso, irrimediabilmente impresse nella memoria. Un bacio senza ritorno e uno senza perdono, un abbraccio impuro, fatto di carezze sporche. Uno sguardo che aveva visto tanto, ma mai tanto quanto allora.
E lui? Aveva accettato. Ci sarà stato un motivo, o no?! Quant'era grande il subconscio, quante cose ci può far fare e con chi; quante pensare, odiare e amare?! Di che genere, poi?!
Forse e semplicemente, i nostri desideri più oscuri sono là, quelli che ci rincorrono la notte nei nostri incubi più inconfessabili, sotto le palpebre, ad aspettarci. Quelli di cui nemmeno ci rendiamo conto. O se ce ne rendiamo conto, li odiamo profondamente, perché immorali. Sbagliati.
Batteva sul muro, quindi. E continuava, continuava, più forte che poteva, ogni volta con più energia, fino ad accasciarcisi contro, passandosi una mano sulla fronte, per poi abbandonare la testa all'indietro. Semplicemente sfinito.
Si guardò le mani: anche lui le aveva livide, in quel momento, le nocche arrossate e le dita piene di tagli, dolenti anche se fatti rapidamente. Pensava di star capendo cosa significasse "dolore", in quel momento.
Lo schiocco della porta lo riportò alla realtà e quando alzò lo sguardo si ritrovò davanti ad un ragazzo che avrebbe potuto esser suo fratello: così pulito e vestito meglio, Trent poteva benissimo esser scambiato per uno della sua famiglia, con i capelli del padre e gli occhi di sua madre, tedesco dalla nascita, anche perché l'accento acquisito in tale lingua era impeccabile. Inutile dirlo, inoltre era ancora più bello e in quella che era diventata una stanza buia ed inquietante, lui era l'Angelo mandato a salvarlo.
"Duncan!"
La sua voce gli dava nuovamente alla testa, lo stordiva, lo infastidiva. La amava con odio.
"Ma stai male?"
"Zitto! Stai zitto!"
Un passo rimbombò nel salone. Poi un altro e un altro ancora, tutte pugnalate al cervello del tedesco.
"Stai lontano da me!"
"Duncan!" Il tono sempre più dolce, dispiaciuto, preoccupato.
Ormai era vicino. Quasi i suoi movimenti fossero fisici, sentiva lo spostarsi dell'aria con la sua mano. E poi il suo tocco, sul braccio, come prima.
Le iridi azzurre del ragazzo si dilatarono, per poi alzarsi su di lui. Si mise in piedi e si divincolò, incerto. "Non è successo niente!" Cercò di non fargli vedere le mani.
"Sei sicuro, perché io …"
"Niente, ti dico!"
Quella sua gentilezza non era possibile né tollerabile. Neanche lontanamente immaginabile, a dire il vero. In quella sala, ogni parola dell'ospite sembrava donare colore e portare compagnia e un po' d'affetto. Duncan non l'aveva avuto mai.
"Come vuoi." sentenziò allora lo straniero, per poi dirigersi verso il camino dove scoppiettava sempre uno scherzoso fuoco: pareva prenderli in giro. "Posso bruciare i miei abiti?"
"Certo."
Il padrone di casa si sedette sul divano, non smettendo però di guardarlo, mentre le fiamme gli donavano quelle tonalità tipiche di un ragazzo del suo Paese, di tanto in tanto, per poi rivelare nuovamente i suoi capelli neri.
Fu allora che si rese conto: fosse stato tedesco, non l'avrebbe mai guardato, non gli sarebbe mai interessato. I capelli biondi erano troppo frequenti, ne vedeva così tanti, a Berlino! I tedeschi erano terribilmente monotoni, così uguali da far paura, tutte le donne e tutti gli uomini non erano altro che copie e copie di chi era venuto prima di loro. Le loro parole? Sempre le stesse, ogni mattina, pomeriggio e sera, tutto il giorno!
Grazie a Dio, c'è sempre un'eccezione, per confermare la regola. Trent era l'eccezione, in quella Berlino spaventosa, fatta di fantasmi dorati messi là solo per "conservare la purezza del sangue ariano".
Trovò che nessuno fosse più puro di Trent, in quel momento. Puro perché buono e giusto, diverso, con le sue idee, che sapeva pensare da solo, senza che con una manciata di parole gli venisse iniettato quell'odio di cui erano intrise le vene delle persone tedesche.
Detschland, uber alles! Ma per favore! La Germania era solo ricca di persone tutte uguali. In altre parole, povera più di tutti.
Lasciò che il ragazzo finisse di bruciare i suoi vestiti, gli diede appena il tempo di rialzarsi, per mettersi anche lui in piedi ed infine gli fu nuovamente vicino, in un bacio imperdonabile, fortemente voluto. In un abbraccio desiderato troppo a lungo, ricambiato pienamente.
Gli aveva già perdonato tutto, Trent, anche quell'incertezza che c'era stata inizialmente. La trovava totalmente comprensibile, assolutamente normale, per uno della sua mentalità.
Non si fece problemi a stringerlo, certo ormai che non l'avrebbe fatto ammazzare, né che volesse ucciderlo: le mani gentili gli carezzavano la schiena, all'inizio ancora un po' tremanti, le sue labbra non lo lasciavano più e gli occhi lo guardavano, ogni tanto, quando si fermavano per riprendere fiato. E poi ancora, la sua lingua cercava sempre più libertà all'interno della sua bocca, s'intrecciava con la sua e la lasciava andare controvoglia.
Si erano seduti, stanchi, i corpi ancora si toccavano ed entrambi sentivano di starsi trattenendo davvero, mentre si guardavano negli occhi, sorridendo; mentre Duncan gli chiedeva ancora di tradurre qualcosa nella sua lingua.
"Cosa?" chiedeva Trent.
"Qualsiasi cosa." gli rispondeva. "E' una lingua splendida."
Dopo un po', mentre lo stringeva, godendosi semplicemente il suo abbraccio, gli chiese, con un leggero imbarazzo: "Non andartene!"
"Scusa?" rispose lui, stranito e guardandolo mordersi il labbro e tenere gli occhi bassi.
"Resta qui. Non voglio che gli altri ti vedano, che guardino i tuoi occhi o ascoltino la tua musica! Scegli una stanza e chiuditi dentro, ma resta!" gli intimò a voce appena udibile.
"Non mi guarderanno e non mi sentiranno!" lo rassicurò Trent. Gli strizzò l'occhio, prendendolo in giro. "Voi tedeschi avete una vita frenetica. Non guardate e non ascoltate mai!"
Lo lasciò andare, allora, senza voglia, mentre ancora pioveva e Trent, proprio come sempre faceva con la pioggia, si lasciò andare in qualche lacrima allegra, felice, quasi divertita, che spariva con il resto dell'acqua, cadente dal cupo cielo nero. Urlò, quando un fulmine squarciò il paesaggio, in direzione della volta celeste, certo che Duncan lo sentisse. Strillò nella sua lingua. Non capì nessuno.
Intanto, il tedesco, a casa sua, non faceva che guardare quel fuoco luminoso, quasi avesse saputo qualcosa o come se gli ricordasse una cosa del tutto dimenticata ed infine, si mise a salire le scale, per ritirarsi in camera sua. Nel corridoio al piano superiore, gli venne incontro una lucetta e successivamente Courtney che, svegliata dai rumori e allarmata, era accorsa a vedere, ancora in camicia da notte.
"Tutto bene, Signore?" chiese, tenendo quella misera candela affianco al volto.
"Tutto benissimo, Courtney, grazie!" la rassicurò, per la prima volta con un sorriso sereno. "Buona notte!"
La congedò con un cenno e la superò, per ritirarsi, finalmente, sotto gli occhi increduli della ragazza: mai visto così gentile e tranquillo!
Il giovane si gettò sul letto, subito dopo essersi spogliato e appena chiusi gli occhi, s'addormentò profondamente, così come Trent, steso sotto un balcone.
Nessun incubo, quella notte. Solo bei sogni.
 
"Buongiorno, Courtney, dormito bene?" domandò alla serva, mentre questa l'accompagnava in sala da pranzo, per la colazione.
Lei arrossì lievemente e rispose, timida: "Benissimo, Signore, la ringrazio! E lei?"
"Divinamente, grazie!" Le sorrise di nuovo, velocizzando il passo, fino alla sala.
La ragazza azzardò un mezzo inchino, per poi andarsene.
Duncan spalancò le porte. "Buongiorno padre! Madre!" Fece un cenno in direzione di entrambi e una volta spostata la testa dall'altro lato, si bloccò: rosso il fuoco e rossi i suoi capelli. "S- Scott!"
"Grazie per aver presenziato alla festa del mio compleanno, caro amico!" si beffò di lui il tedesco, con l'ira in viso.
"Sono davvero dispiaciuto, credimi!" rispose Duncan, avvicinandosi e cercando di scusarsi, ma l'ospite era irremovibile ed anche i genitori del ragazzo mostrarono sdegno, uscendo dalla sala.
Solo allora, la volpe, com'era soprannominato il giovane, gli strizzò l'occhio e sorrise maligno. "Non preoccuparti, non ti biasimo! E' stata una noia! Buon per te se hai trovato passatempi più … interessanti." Ghignò.
Il moro gli rispose: "Ero solo stanco."
Uscirono insieme, dopo una sceneggiata davanti ai Ruschtmann, più contenti di vedere il figlio scusarsi e offrire una birra all'amico e appunto, si diressero ad una locanda dove poter bere.
Passando per la strada, nell'aria già si sentiva una musica dolce e una voce ancor più melodiosa serpeggiare per le strade, prendendo le orecchie dei berlinesi ma senza farli fermare.
Duncan lo vide, seduto sulla sinistra, a strimpellare, con quegl'occhi verdi rivolti a lui e gli sorrise.
Scott, invece, non se ne accorse nemmeno.


WRITTEN BY Angelo Nero
   
 
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