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Autore: Vale11    08/10/2014    2 recensioni
Una chiazza di blu scuro su una panchina, un cappello calato sulla testa, capelli più lunghi che mai che ormai hanno passato le spalle. Non vede le gambe, ma immagina siano rannicchiate contro il petto per ripararsi dal freddo. Gli da le spalle. Steve vede che ha addosso la solita felpa blu, i soliti jeans e Dio, si congela e quell'uomo non ha nemmeno una giacca addosso.
p.s. anche Steve Rogers è uno dei personaggi principali, ma il mio computer ha deciso che non sono degna di selezionare due voci nemmeno con il ctrl. E sia.
Genere: Introspettivo, Malinconico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: James 'Bucky' Barnes
Note: Movieverse | Avvertimenti: Tematiche delicate
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Quando Steve vide Bucky si rese conto che forse una cioccolata calda non sarebbe bastata: anche lui aveva avuto, e continuava ad avere, la sua buona parte di incubi, ma non aveva mai visto niente del genere e, in realtà, ne avrebbe fatto volentieri a meno. La stanza era illuminata dalla lampada da tavolo che Bucky teneva accesa tutta la notte, le pareti dipinte di luce gialla che allungava le ombre verso il letto. Strano che avesse guardato prima le ombre, e poi Bucky.
Bucky urlava.
Non erano i lamenti a mezza voce di chi fa un brutto sogno, erano le urla di chi è in guerra e si ritrova con una scheggia di granata nello stomaco, di chi è obbligato a osservare mentre la gente gli muore intorno. Di chi si è reso conto che esistono cose che non dovrebbero esistere, che non hanno il diritto di succedere, ed è stato forzato a farle succedere. Quando la memoria gli era tornata tutta insieme, come un treno in corsa nel cervello, aveva urlato. Ma non così. Nemmeno lontanamente.
Steve si rese conto dell'effettiva velocità del peniero, stupendosi per mezzo secondo di quante cose gli fossero venute in mente nel tragitto di pochi passi dalla porta al letto, gettando le braccia intorno alla forma raggomitolata del suo migliore amico e guadagnandoci una gomitata di metallo in piena faccia. Aveva sopportato di peggio. Lasciò le braccia li dove stavano.
"Bucky, Buck, svegliati!"


Li avevano avvertiti che i panzer tedeschi fossero l'incarnazione in metallo, cingolati e cannone della definizione "macchina da guerra", ma una cosa è sentirselo dire, l'altra è vederlo coi propri occhi. Erano fermi da mesi nella boscaglia, con il freddo nelle ossa e le razioni C che faticavano sempre più a raggiungere la linea. Non erano male: cioccolato, pane, scatolette. Se solo fossero arrivate con un minimo di regolarità. Si combatte male a stomaco vuoto e con tre giorni senza chiudere occhio sulle spalle.


La luce della lampada non bastava a illuminare il viso di Bucky, nascosto com'era fra lenzuola fradice di sudore e un braccio meccanico che cercava alternativamente di nasconderlo e allontanare qualsiasi possibile minaccia. Steve si scansò, evitando un'altra gomitata, e riuscì a passare una mano dietro la nuca dell'uomo che tremava sul letto. Il calore della pelle di Bucky fu tale da strappargli una smorfia: la febbre stava salendo di nuovo, quello era evidentemente un sogno terrificante e lui non riusciva a svegliarlo.  Si portò la testa di Bucky al petto con una mano, cercando di stringerlo a se con l'altro braccio e ringraziando per l'ennesima volta il siero del dottor Erskine: se fosse stato ancora il vecchio, gracile Steve, Bucky avrebbe potuto lanciarlo contro il muro dall'altra parte della stanza senza nessuno sforzo. Gli tenne la testa con una presa decisa ma gentile, passandogli le dita sulla nuca, mentre cercava di tenerlo fermo: l'ultima cosa di cui c'era bisogno era che la spalla dislocata decidesse di nuovo che aveva voglia di farsi un giro.


Di notte i bengala illuminavano il cielo, lasciandoli completamente allo scoperto per pochi, pericolosissimi minuti. L'impressione era che un qualche dio malefico gli puntasse addosso un riflettore per dire ai tedeschi: "Oi, gente. Gli americani sono li".
A volte riuscivano a nascondersi in tempo, quando il bengala era appena partito e ancora la luce non era così forte, ma altre volte si trovavano a scappare come lepri in uno spazio aperto, senza riparo, e non erano mai riusciti a sopravvivere tutti a quelle gare di velocità coi proiettili. Quella era una di quelle volte.


Chiamarlo non dava risultati, urlare il suo nome nemmeno. Il fatto che avergli fatto cambiare completamente posizione non lo svegliasse spaventò Steve, seduto sul letto con le braccia strette attorno al suo migliore amico. E Bucky non smetteva di urlare. Il pensiero dei vicini lo attraversò per pochi secondi, cadendo subito dopo nella categoria chissenefrega della nottata.
Era Bucky. 
Era li.
Era vivo.
Ed era spaventato a morte, febbricitante e tremante fra le braccia dell'uomo che avrebbe potuto salvarlo da tutto ciò che gli era successo se solo gli fosse venuto in mente di andarlo a cercare dopo la caduta, se solo l'avesse preso. Se non l'avesse lasciato cadere.
Gli veniva da piangere.


Quando il bengala li sorprese, illuminandoli come un lampo al magnesio, erano in mezzo a una radura. L'unica maledetta radura che avevano incontrato, e i tedeschi avevano lanciato un bengala proprio allora. Iniziarono a correre come dannati verso gli alberi a poche centinaia di metri, trascinandosi dietro i fucili. Non si mollavano le armi, restare disarmati significava morire. Furono i trecento metri più lunghi della sua vita, come quelli che i suoi commilitoni dovevano aver attraversato a Omaha Beach. Il fuoco delle mitragliatrici tedesche corse loro incontro come un muro di ferro. Ci rimbalzarono contro in parecchi. Si rialzarono in pochissimi. Lui continuò a correre, obbligandosi a pensare ai morti solo quando avesse raggiunto gli alberi. Solo allora. Era puro istinto. Era follia pura. 


Steve se lo strinse addosso, iniziando a muoversi inconsciamente avanti e indietro: se pochi giorni prima gli avessero detto che si sarebbe ritrovato a cullare Bucky nella sua stanza degli ospiti avrebbe prima riso, e poi mandato a quel paese chiunque se ne fosse uscito fuori con un'idea del genere. Con delicatezza e gentilezza, ma l'avrebbe mandato a quel paese. Ed ora era li, con le mani piene di James Buchanan Barnes, il cervello in overdrive e la sensazione che gli stessero cavando via il cuore con un cucchiaino da dessert. 
"Shhh, Buck. Va tutto bene. Sei a casa. Sei con me. Ti prego, va tutto bene. Svegliati, Bucky".
Si lanciò in una nenia disperata.


A pochi metri dall'inizio del bosco furono costretti a lasciarsi scivolare a terra e strisciare, i proiettili che passavano sopra la testa rendevano l'aria densa come fango. Lanciò un'occhiata alla sua destra, tirando un respiro di sollievo quando si accorse che il suo compagno di branda era vivo, ed era a pochi passi da lui. L'aria gli si strozzò in gola quando lo vide volare letteralmente via, colpito da un proiettile che gli distrusse una spalla, e lo lanciò all'indietro, a mezzo metro di distanza. Atterrò in ginocchio e rimase li.
"Stai giù, Cristo! Stai giù"
Bucky gesticolava come un ossesso, cercando di attrarre l'attenzione di quel ragazzino di diciannove anni completamente rintronato dal colpo di mitraglia. Niente.
"Stai giù, accidenti a te!"
Iniziò a voltarsi per tornare indietro e costringere l'altro soldato a sdraiarsi per ripararsi dai proiettili. Era solo ferito a una spalla, poteva salvarsi tranquillamente.
Il rumore che venne dal bosco, però, gli fece capire che non c'era più nulla da fare. La mitragliata colpì il suo compagno in pieno ventre, tagliandolo letteralmente in due.


Le urla di Bucky si erano trasformate da ammassi di vocali senza senso a un avvertimento ripetuto, uno "stai giù" urlato fino allo sfinimento. 
"Buck, Bucky. Sei a casa. Ci sei."
Bucky allungò il braccio destro verso il nulla, cercando di convincere qualcuno che non c'era a distendersi. Poi smise praticamente di respirare.


Bucky si trovò il viso inondato di sangue. Rosse le mani, rossa l'uniforme, rossa l'erba del prato sotto di lui. L'odore del metallo nelle narici, e il sapore sulla lingua. Non si era accorto che il sangue gli fosse entrato in bocca. Non si era nemmeno accorto di essersi messo a urlare prima che un suo superiore lo portasse via strattonandolo.
Aveva visto un uomo cadere, spezzato in due, davanti ai suoi occhi.
Fece per passarsi la mano sul viso per togliersi il sangue dalla faccia, ma dove avrebbe dovuto esserci la pelle trovò una maschera nera, e si ritrovò a fissare il mondo attraverso le lenti scure del Soldato d'inverno.
Urlò.


"Buck, respira! Devi respirare!"
Con grande sollievo di Steve, Bucky risucchiò tutta insieme l'aria che aveva perso negli ultimi secondi con un rantolo rumoroso, aprì gli occhi e lo fissò.
"Steve"


Gli uscì di bocca in un modo talmente patetico che si vergognò quasi di aver parlato, sarebbe stato meglio tenere la bocca chiusa. Ma le parole avevano deciso di avere vita propria, e lui aveva bisogno di dirlo. Deglutì, spostando gli occhi sulla mano che lo teneva stretto al petto di Capitan America. Steve lo fissava senza dire una parola, senza allentare la stretta.
"Non credo di stare molto bene".
Subito dopo si ritrovò avvolto in un abbraccio talmente confortevole e rassicurante da convincerlo a rilassare i muscoli, mentre Steve gli ripeteva che nessuno si aspettava che dopo tutto quello che aveva passato reagisse subito e tornasse quello che era. Poteva essere cambiato, forse lo era, ma non importava. Lui era James Buchanan Barnes, era il suo migliore amico, e avrebbero dovuto passare sul suo cadavere anche solo per sfiorarlo con un dito. 
"Ho ucciso della gente, Steve"
"Non è colpa tua"
"In ogni caso"
Deglutì, gli sembrava che le corde vocali fossero diventate carta vetrata.
"Ho ucciso della gente, Steve. Brava gente, persone innocenti, famiglie intere, persino bambini."
Sentì le mani che gli passavano fra i capelli fermarsi per qualche millesimo di secondo prima di ricominciare a muoversi.
"Il controllo mentale non ti cancella del tutto. Ci sei, sei dentro la tua testa, e allo stesso tempo non ci sei. Vedi il tuo corpo muoversi e fare quello che fa, e nello stesso momento sei tu e non sei tu a dirgli cosa fare."
Gli veniva da vomitare. Sperò di riuscire ad evitarlo.
"Ho visto le mie mani ammazzare tutta quella gente, Steve. Non sono più il tuo migliore amico. Non sono degno di esserlo. Non mi sento nemmeno umano."
Se possibile, la stretta di Steve aumentò.
"Non è stata colpa tua, Buck. Ti hanno obbligato a fare cose terrificanti, e ne sei uscito vivo. Ne sei uscito te stesso, anche se con la testa incasinata e incubi da Guinness dei primati."
Sentì un bacio appoggiarsi sulla fronte. Chiuse gli occhi.
"Non ti ritengo responsabile di quello che ti hanno fatto fare. Non lo sei."
E Bucky ci credette. Credette che Steve lo ritenesse davvero non colpevole, anche se lui continuava a sentirsi tale. Credette a tutto, anche quando gli disse che non era più solo, che non lo sarebbe più stato. Anche quando gli disse che le cose sarebbero migliorate.
Riuscì a riaddormentarsi due ore dopo, con la schiena ancora premuta contro il petto del capitano. 

  
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