Capitolo
4
La
nottata al mare passata con Matteo è volata via da più di una settimana. Sette
giorni in cui mi sono prefissato un solo obiettivo: evitare Matteo più che
posso, evitando di conseguenza anche le sue domande continue. Quella notte, non
è stato semplice sviare la sua curiosità. Ho provato a cambiare discorso e,
vedendo che non avrebbe mai potuto funzionare, ho finto che quella frase detta
tra me e me fosse solo frutto dell’alcool ingerito da Matteo ore prima. Lui,
sfinito, ha lasciato cadere l’argomento, giusto per darmi qualche giorno in più
per macchinare l’ennesima bugia. Niente è mai stato in grado di spegnere la
curiosità innata di Matteo da quando lo
conosco, soprattutto quando si tratta di me.
Il
telefono squilla insistentemente e, quando riattacco ancor prima che Matteo
possa rispondere, spingendomi con la sua bella voce a cambiare idea, capisco
quanto quel che provi per lui sia in grado di allontanarlo da me. Proprio
l’amore, l’eterno collante di cuori infranti e storie sbagliate, adesso me lo
sta portando via. E quello che fa più male è sentirlo scivolare via essendo
perfettamente consapevole del fatto che non posso fare niente di concreto per
trattenerlo qui con me.
E, come se non bastasse, c’è Sofia. La
ciliegina sulla torta.
Sento
la testa pesante, il silenzio della casa vuota non riesce a farmi stare meglio.
Per la prima volta dopo anni, sento addosso un senso di solitudine. Troppo
piccolo in una casa troppo grande. Mi alzo dal letto, nel quale ormai non
facevo altro che rigirarmi, incapace di prendere di nuovo sonno. Mia madre è
con Alice dal dottore, mio padre, sbronzo in qualche locale sporco e piccolo
come lui. Senza nemmeno togliermi il pigiama, costituito da una vecchia tuta
usata per le ore di ginnastica fino all’anno scorso, infilo le scarpe, quasi
corro fuori da quella casa poco mia. Faccio le scale a due a due, spinto da una
fretta che non mi appartiene, da un vento che spinge i piedi in avanti e fa
battere il cuore ad un ritmo serrato. Seguendo una direzione scelta
istintivamente, vedo davanti a me una fermata dell’autobus e decido di prendere
il primo che passa, ignorandone volutamente la destinazione.
Per
una volta, dopo anni, mi concedo una fuga in solitaria, pronto a tutto pur di
lasciarmi alle spalle il fantasma di Sofia che, da troppo tempo, non fa che
perseguitarmi, senza darmi tregua.
Cerco
un posto libero sull’autobus, già stracolmo di gente a quest’ora. Attraverso il
piccolo corridoio, voltandomi spesso. Noto un posto tra i sedili in fondo,
quelli che sembrano essere stati fatti
col solo scopo di fungere da nascondiglio a chi ci si siede. Mi accorgo che
accanto al posto vacante se ne sta seduta una ragazza incappucciata, di spalle
rispetto al mio sguardo, ma la mia pigrizia vince il non gradire persone
attorno. Prendo posto, le cuffie già nelle orecchie per allontanarmi da quello
che mi circonda, ma un tocco leggero sulla spalla mi scuote. Una mano candida,
piccola, è appoggiata sulla mia spalla e in quell’istante capisco dove avevo
già visto quella mano. Quella mano minuscola era, fino a due anni fa, sempre
stretta alla mia. Pur essendo già a conoscenza di chi mi ritroverò davanti,
risalgo con lo sguardo lungo le braccia della ragazza, coperte da una felpa
ingrigita, i polsi delicati che spuntano quasi per sbaglio. Continuando il mio
percorso, scorgo un ciuffo di capelli ramati che, disordinatamente, scappano
fuori da ogni dove. Mentre una canzone risuona nelle orecchie, alzo
ulteriormente lo sguardo fino a imbattermi nel viso. Ed è quando incontro
quegli occhi azzurro cielo che capisco di essere felice di averla incontrata di
nuovo. Sofia mi scruta con la stessa precisione che io stesso le ho dedicato,
aprendosi in un sorriso quando capisce che l’ho riconosciuta. Le guance
paffute, ricoperte di lentiggini, prendono istantaneamente colore, diventate
ora di un rosso molto simile a quello delle labbra, tutte da baciare.
Un
sorriso imbarazzato, di chi davvero non sa cosa dire, la illumina.
«Edo.
Sei davvero tu? » mi chiede, conoscendo già la risposta. Ancor prima che io
abbia il tempo di risponderle con un cenno divertito, data la risposta ovvia,
lei si precipita ad abbracciarmi, perdendo l’equilibrio quando l’autobus prende
male un dosso e finendo così, conseguentemente, tra le mie braccia.
Sofia
arrossisce di conseguenza, avvampando quando cerca di districarsi dalle mie braccia, incastrati l’uno
nell’altra come fossimo un puzzle. I nostri abbracci sono sempre stati così: un
gioco ad incastro, un riempirsi a vicenda con dolcezza.
La
guardo ancora e in lei rivedo la ragazza che mi aveva fatto soffrire.
Fuggita
via, senza voltarsi indietro per dirmi addio.
«Ciao
Sofia. L’ultima volta che ti ho visto stavamo ancora insieme.»
Reprimo
un “mi sei mancata” che se ne stava sulla punta della lingua da quando l’avevo
vista giocare con Alice al parco. La sua espressione perennemente allegra si
rabbuia, preda del senso di colpa che è impossibile non notare nei suoi occhi.
Sofia,
nervosa, arrotola e srotola la ciocca di capelli al di fuori del cappuccio
ingrigito, ancora calato sulla fronte. Sembra essere rimpicciolita tutta
insieme.
Nel suo
viso noto la paura di dire la cosa sbagliata, gli occhi che guizzano da una
parte all’altra come se, attorno a noi due, stessero fluttuando tutte le parole
che lei non è in grado di dirmi, che sembra voler catturare con la forza dello
sguardo.
«Non
aver paura, non mordo mica, eh.» le dico scherzosamente, cercando di smorzare
una tensione che, dopo due anni di distacco, si è venuta a creare con fin
troppa naturalezza. Sofia prende un respiro profondo, come se dovesse
immergersi nelle acque più profonde, e finalmente mi rivolge lo sguardo senza
poi avere fretta nel guardare qualcos’altro o qualcun altro sull’autobus.
Ci siamo
solo io e lei, soli, in un autobus affollato verso chissà dove.
«Comincia
tu. Se inizio io a parlare mi incasino e basta.»
La voce
di Sofia è finalmente decisa, nonostante le incertezze che cerca di
nascondermi. Imitandola volutamente, respiro con calma, cercando di arraffare
quanto più fiato e coraggio possibile e, allo stesso tempo, di reprimere la
rabbia.
«Prima
di dirti quel che ho da dirti, promettiamoci una cosa. Niente bugie e niente
omissioni, per oggi. Io ti dirò tutto, e tu farai lo stesso con me. Ci stai?»
le propongo io, risoluto.
«Mi
sembra il minimo che tu possa chiedere. Inizia.» mi incita lei. Si mette comoda
come può sul sedile dell’autobus e appoggia la testa sulla mia spalla, con quel
gesto abitudinario di chi conosce il corpo di chi le sta accanto.
La sua
vicinanza improvvisa mi colpisce.
Sento
chiaramente il profumo fresco che emanano i suoi capelli: un misto di fiori
dolce, quasi impercettibile a causa del cappuccio che copre in parte i suoi
capelli.
Reprimo
un gesto istintivo, che ero solito fare quando ancora stavamo insieme: i suoi
capelli sempre intrecciati nelle mie mani, pronto ad attorcigliarli infinite
volte e a disfare il tutto pochi minuti dopo, senza mai annoiarmi.
Mi
costringo a mettere da parte i ricordi felici che mi legano a lei, per lasciar
spazio a quel pizzico di rancore che, dopo anni, non se n’è mai andato.
«Sono
stati due anni orribili. Tuttora mi chiedo perché te ne sei andata via senza
dire una parola. Qualunque motivo tu avessi, sappi che non ti avrei mai
trattenuta qui.»
Mentre
formulo quel pensiero, Sofia si scosta dalla mia spalla, su cui si era posata
poco prima, come se la durezza delle mie parole l’avesse spinta a ritrarsi.
Sembra
sul punto di ribattere ma, con sguardo colpevole, mi fa cenno di continuare.
«Avrei rispettato la tua decisione e ti avrei
lasciata andare. Ma andarsene così? Quale razza di motivo spinge una persona a
scappare senza dire nulla al suo ragazzo?»
Sento la
rabbia premere in testa, il battito accelerare all’improvviso, al solo ricordo
di tutto il dolore di quei mesi. Fingo di distrarmi guardando fuori dal
finestrino, oltrepasso il corpo di Sofia come fosse trasparente e ci potessi
passare attraverso.
«Da
quando sei andata via non sono più riuscito ad avere un’altra storia. Nei primi
mesi Matteo mi portava da una festa all’altra solo per strapparmi un sorriso
ma, se mi conosci un po’, sai che non sono queste le cose che mi fanno
dimenticare quel che avevamo insieme.»
A questo
punto sono quasi obbligato a fare una pausa, anche solo per riprendere fiato.
Mi concedo un altro viaggio tra i bei momenti condivisi in quei mesi insieme,
quel noi che avevamo costruito piano, con l’attenzione ai dettagli di uno
scrittore.
Scorrendo
nella mia mente ciò che era stata la nostra storia, mi accorgo di quanto, in
quei sei mesi, Sofia era riuscita a rendermi felice.
Dopo
anni e anni in cui tutti sbavavano dietro a Matteo, chi per un motivo e chi per
un altro, per la prima volta in sedici anni una ragazza aveva notato me per
primo.
I primi
giorni in cui, impacciati e con un po’ di imbarazzo, camminavamo avanti e
indietro nei corridoi guardandoci negli occhi e stringendoci a vicenda, come se
volessimo dimostrare a tutti che anche due persone pazze e un po’ fuoriposto
come noi potevano trovare qualcuno che li rendesse felici e quasi normali.
E poi il
primo mese, e quel pomeriggio in centro a Firenze, il primo come una coppia a
tutti gli effetti che si tiene per mano mentre cammina e che sembra non avere
occhi per nessun altro, che esclude tutto il resto del mondo con il suo
sguardo.
E quelle
labbra perennemente inamidate da un velo leggero di lucidalabbra alla fragola,
che finiva sempre per appiccicarsi a me, facendomi ridere o semplicemente
sorridere mentre tentava di baciarmi.
Il
brivido che pervadeva entrambi dopo ogni bacio, la voglia di averne ancora, di
avere di più. Il sorriso di Sofia il giorno in cui l’avevo presentata come “la
mia ragazza”. E, appena una settimana prima che lei partisse, la prima notte
passata insieme, la paura di rovinare tutto, il voler rivivere tutto daccapo.
Riprendo
a parlare con la stessa sicurezza di prima, senza lasciarmi trasportare dal
peso di quei bei momenti. Non ho bisogno di volgere lo sguardo verso Sofia per
sapere che sta piangendo. Decido che nemmeno i suoi singhiozzi mi scuoteranno
dal mio intento, e continuo, imperterrito.
«Per un periodo sono passato da una ragazza
all’altra senza nemmeno farci caso, vedendo in tutte loro qualcosa che mi
riportava a te, in quel modo. Ragazze tutte uguali, illuse e usate per
rimpiazzarti.»
Mentre
ammetto il vuoto che Sofia aveva lasciato, capisco quanto quei due anni fossero
stati difficili. I tentativi di Matteo che andavano in fumo ancor prima di
realizzarsi, la mia voglia di studiare che era stata portata via da Sofia, nel
momento esatto in cui se n’era andata chissà dove. Ricordo le passeggiate al
parco con mia sorella, troppo piccola per capire il mio dolore, ma sempre
pronta a farmi ridere.
Tutto
torna alla mente, e col ricordo, torna anche la consapevolezza di aver sofferto
troppo per una persona che non se lo era mai meritato. Che alle spiegazioni
aveva preferito la fuga, una via più facile, senza pensare alle conseguenze
delle sue azioni.
«Lasciami
spiegare, Edo. C’è un motivo se ho fatto quel che ho fatto.»
«Ne sono
sicuro. Ma non sono disposto ad ascoltarti. Ti ho aspettata per due anni, sono
stato fermo, ad aspettare una spiegazione che non è mai arrivata. Sono stufo.
Non puoi pensare che il mio mondo giri solo intorno a te. Io l’ho pensato, e
guarda come sono ridotto. Finisce qui.»
Il
pianto di Sofia ormai sembra un fiume in piena, pronto a far crollare argini troppo
fragili. Mi volto per un attimo, cercando di capire se guardarla basterà a
farmi cambiare idea. Davanti a me c’è una ragazza di diciotto anni con la
consapevolezza di una bambina, la fragilità delle ali di una farfalla appena
acchiappata con le mani e la tristezza di chi non riesce ad apprezzarsi.
In
un’altra vita, sarei stato in grado di perdonarla dopo una visione simile.
Ma il
dolore mi ha cambiato più di ogni altra cosa al mondo. Sofia compresa.
Gli
occhi azzurri, gonfi di lacrime, sembrano pregarmi di restare.
Le
altre persone presenti nell’autobus, ormai quasi completamente vuoto, sono
ormai concentrate solo su di noi, lo sguardo puntato su me e Sofia come se
fossimo due attori di una storia melodrammatica, che non sa giungere al
termine.
Noto
in particolar modo una signora attempata, che osserva minuziosamente Sofia con
uno sguardo carico di compassione. Scuote la testa con disappunto, delusa.
Una
donna poco dietro di me sembra sostenermi, mi rivolge un sorriso ricco di
empatia, come se fosse al mio posto e capisse perfettamente cosa sto pensando.
Infastidito
dalla curiosità degli astanti, mi lascio scappare un «E voi che avete da
guardare? Lo spettacolo è finito.» che lascia tutti in sospeso. Cogliendo al
volo la prima occasione per lasciarmi alle spalle questo incontro disastroso,
scendo alla prima fermata che mi capita a tiro, privo di senso
dell’orientamento, ma con addosso la voglia di scappare che mi aveva portato su
quell’autobus.
Incapace
di capire da che parte di Firenze sono capitato, mi limito a sedermi sul bordo
del primo marciapiede che trovo, senza preoccuparmi della sporcizia o del
quartiere in cui sono capitato, apparentemente tetro e non troppo invitante.
Alle
mie spalle, due donne discutono all’interno di un negozio, per decidere chi
delle due dovrebbe accaparrarsi l’ultimo paio di scarpe a metà prezzo.
Origliando quella discussione futile sento il fastidio crescere, paragonandolo
col litigio con Sofia di poco prima. Un velo di tristezza si fa spazio dentro
me, oscurando la rabbia.
Perché
per la seconda volta sono stato capace di perderla.
Perché,
probabilmente, non saprà mai quel che davvero avrei voluto dirle.
«Edo!»
La
voce di Sofia risuona in tutto il vicinato, coprendo il litigio tra le due
donne nel negozio, che si zittiscono per un attimo. Quando alzo lo sguardo, una
Sofia piuttosto trafelata mi si presenta davanti, ancora col fiatone. La felpa
che prima la proteggeva come un bozzolo è legata in vita, così larga e sformata
da far strusciare il cappuccio a terra. Sofia stringe un fazzoletto tra le
mani, bagnato dalle troppe lacrime, e mi guarda, sfinita dalla corsa che l’ha
portata fino a qui.
«Non
puoi semplicemente lasciarmi in pace?»
La
mia voce rasenta l’esasperazione, solo per coprire la sorpresa di vederla ancora.
«Avevamo
promesso di non omettere nulla. Di dirci tutto. E se tu non vuoi farlo, allora
lo farò io per entrambi. Non devi dire nulla, ascoltami e me ne andrò via.»
ribatte lei, priva della sua solita parlantina, le lacrime trattenute sulla
punta delle ciglia, a stento.
Senza
proferire parola, senza nemmeno farle un cenno d’assenso, spingo Sofia a
cominciare, troppo curioso per proseguire la rotta del mio orgoglio, massacrato
dal troppo amore verso la ragazza che mi aveva spezzato il cuore. Vedo Sofia
sedersi sul bordo del marciapiede, vicina a me, ma con un certo distacco.
«Non
sono scappata a causa tua. E credo che non potrò mai scusarmi abbastanza per
avertelo fatto credere. Gli ultimi due mesi che ho passato qui sono stati un
inferno. Non l’ho mai dato a vedere, perché ti saresti preoccupato per me, e
non credo di meritarmelo. In seguito a questo brutto periodo, io e mia madre ci
siamo trasferite a Roma, per farmi seguire da uno specialista, che mi ha
aiutato ad affrontare il tutto.»
«Scusa
se ti interrompo, ma questo “tutto” cosa comprendeva?» chiedo io, incredulo di
fronte alla rivelazione di Sofia. Sento la testa farsi pesante, il senso di
colpa che mi attanaglia lo stomaco perché, per due anni, avevo accusato una
persona che stava cadendo a pezzi proprio davanti a me, senza che io me ne
fossi mai reso conto.
Troppo
preso a crogiolarmi nel mio dolore per accorgermi di quanto lei soffrisse.
«Ti
ricordi che un mese prima che me ne andassi spesso rimanevo a casa e saltavo
scuola? Ti avevo detto che dovevo aiutare mia madre, perché si era fatta male
cadendo, e da sola in casa non ce la faceva. Ti ho mentito.» ammette, con tono
grave, riuscendo a malapena a sostenere il mio sguardo, di volta in volta più
deluso.
Sofia
si tampona le lacrime col fazzoletto umido, i singulti che le scuotono il petto
per un attimo non le permettono di parlare. La sua voce è ridotta ad un
sussurro quando dice «La verità è che nell’ultimo mese mi ero accorta di
essermi innamorata di un altro. Non per una tua particolare mancanza, probabilmente
era solo la confusione di quel brutto periodo. Non sapevo come dirtelo, il
senso di colpa mi stava distruggendo. E così, è iniziato tutto. E con tutto,
intendo questo.»
Sofia
inizia ad alzarsi con lentezza le maniche del cardigan, con una delicatezza
quasi da copione, come se avesse paura di rompere qualcosa. Nonostante il suo
essere così trasandata, arrotola con precisione maniacale ogni centimetro di
tessuto, cercando di ottenere piccoli strati della stessa misura. Solo dopo
qualche minuto da questo processo così minuzioso, riesco ad intravedere la
pelle candida delle sue braccia.
Entrambe
le braccia, pallide anche più delle mie, sono interamente ricoperte di
cicatrici: alcune sono più profonde, altre più superficiali, altre ancora sono
sul punto di rimarginarsi, probabilmente le più vecchie.
Eccola,
la cosa da nascondere. Il motivo della felpa troppo grande, del maglioncino
tirato fin sotto le mani, troppo a contrasto con la mia maglietta di cotone, a
maniche corte. La mia curiosità persistente mi fa allungare una mano sulla
superficie della sua pelle, azzardando un «Posso toccarle?» incerto.
«Certo
che puoi. Pensavo ti avrebbero fatto impressione.» replica lei, con un
espressione a metà tra il divertito e lo stupito. Un sorriso sghembo le illumina
il viso, un sorriso triste, di una guerriera che ha fatto di tutto per non
affondare e che, allo stremo delle forze, si è lasciata trascinare sul fondo.
Lascio
scorrere la punta delle dita sul suo braccio destro, gracile, facile da
spezzare. Mentre avverto la durezza delle cicatrici che contrastano con la
morbidezza della sua pelle, capisco che quelle braccia sono come una strada
piena di buche, che impediscono di godersi il percorso.
«Posso
farti una domanda?»
«Smettila
di chiedere il permesso, per favore.»
«Di chi
ti eri innamorata per sentirti così in colpa?» domando, tutto d’un fiato.
Sofia si
prende un momento per sé, come se dovesse riflettere prima di potermi
rispondere adeguatamente. Imitando il gesto già compiuto quando eravamo
sull’autobus, prende un bel respiro, prima di riprendere in mano il discorso.
«Matteo.»
Il suono
di quel nome inizia e finisce nel giro di un istante che, per la sua gravità,
rimane per un attimo sospeso in aria, passando dalla bocca semiaperta di Sofia,
in tensione, fino a sbattere sulla mia bocca, inerte.
Una
bocca che si piega in un sorriso ogni qualvolta si imbatte in quel nome.
«Credo
che nemmeno tutte le scuse del mondo potranno mai bastare per rimediare a
questo. Insomma, Matteo è il tuo migliore amico, so che non c’è niente di
peggio.» cerca di giustificarsi Sofia, con quel filo di voce che le rimane.
Mi dico
che finché non incrocerò lo sguardo di Sofia, supplichevole e pronto a tutto
pur di essere perdonata, riuscirò a mantenere la poca calma che ancora ho in
corpo.
Rivolgo
il mio sguardo verso la punta dei miei piedi, e sento crescere la delusione di
una scoperta fatta troppo tardi, quando, ormai, non dovrebbe avere più
importanza. Immagino, per un secondo, la Sofia di due anni fa, presa da quegli
occhi marroni, da quel sorriso aperto e pieno di vita. Visualizzo nella mia
mente le nostre mani intrecciati, i baci che ci regalavamo fin troppo
spesso. Esamino nella mia mente gli
ultimi due mesi insieme, alla ricerca di un errore che non riuscirò a scovare,
perché offuscato dalla troppa felicità di quel periodo.
«Edo, ti
prego, dì qualcosa. Qualsiasi cosa.» implora Sofia, afferrandomi la mano e
stringendola con forza tra le sue, con l’intento di non lasciarla andare.
«Che
vuoi ti dica? Che sono felice di aver scoperto che negli ultimi momenti insieme
che abbiamo avuto tu pensavi a Matteo? Che hai preferito sentirti in colpa e
farti di male piuttosto che dirmelo in faccia? Forse sarebbe stato meglio non
sapere niente.»
«Almeno
io ho rispettato la promessa.» risponde Sofia, brusca.
«Che
cosa intendi?» replico io, sulla difensiva.
«Mi hai
fatto promettere di dirci tutto, senza omissioni. Tu sei innamorato, eppure non
mi hai detto nulla. Tu, quello sguardo che hai adesso, non lo hai mai avuto
finché stavi con me, Edo. Come dovrei sentirmi, secondo te?» ribatte lei,
scostando la sua mano dalla mia come se avere un contatto fisico con me,
adesso, fosse troppo.
Reprimo
un «Come fai a dire che sono innamorato?» quando mi tornano alla mente le
parole di Matteo, di appena una settimana fa. I miei occhi, quei dannati occhi,
capaci di giocarmi l’ennesimo brutto tiro con la persona sbagliata.
«Sì,
sono innamorato. E sì, probabilmente quando stavo con te si è limitato tutto ad
una cotta. Ma questo non toglie che hai sbagliato, Sof. Avresti dovuto dirmelo.
Avresti dovuto fidarti di me, e lasciarti andare. Amare qualcuno non è mai
sbagliato.» concludo io, indirizzando quell’ultima frase più a me, che a lei.
«Scusa.
Ho preferito farmi del male, piuttosto che farne a te.»
Senza
pensare al significato del mio gesto, mi alzo dal bordo del marciapiede ed
invito Sofia a fare lo stesso. Prima di poterci ripensare, la attiro a me e la
stringo con forza, ma senza esagerare, per paura di rompere ulteriormente quel
che già lei è stata capace di scalfire. Maledico la mia bontà, la mia forza di
volontà che manca quando mi imbatto in persone più deboli e bisognose di me.
Sofia finalmente si lascia andare, abbandona il suo corpo leggero al mio,
appoggia la testa sulla mia spalla, alzandosi appena sulle punte per
incastrarsi al meglio nell’incavo.
Ripetendo
un gesto che uso spesso quando Alice piange, le accarezzo la testa con garbo,
ritmicamente, creando un movimento oscillatorio che assomiglia alla culla di
una bambino che non riesce a prendere sonno. Sofia ricambia la stretta, il suo
respiro si calma, abituandosi ad una vicinanza che non abbiamo avuto per troppo
tempo.
Quando,
un minuto dopo, ci sciogliamo dall’abbraccio, le lacrime sul suo volto sono
sparite, sostituite da un’espressione curiosa, che, a suo tempo, adoravo.
«Allora,
chi è la ragazza fortunata che ti ha rubato il cuore?»