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Autore: Emera96    12/10/2014    5 recensioni
Come si spiega un bacio su cui ti sei soffermato a fantasticare così tante volte da non riuscire più a tenere il conto? Come descrivi il rumore dei tuoi pensieri che, come in tilt, non smettono di rimbalzare da un angolo all’altro della tua testa, piccole molle alticce perse in un respiro lieve?
Le labbra di Matteo, seppur addormentate e socchiuse in un piccolo cerchio perfetto, sembrano ricambiare l’errore che non sa fermarsi, un errore di cui potrò darmi la colpa e il merito finché la memoria me lo consentirà. Il fuoco che stava per spegnersi sembra bruciarci fino alla morte, quando il mio corpo si appoggia con leggerezza al suo, in un accostamento che va oltre al dormire col proprio amico, che assomiglia più a quello che, di solito, Matteo fa con Elena. Le mie labbra, avide di un piacere succoso, divorano con dolcezza la stanchezza alcolica di Matteo, la sua calma che non riesce a placare la mia insistenza. Il suo sonno che arriva solo a risvegliarmi.
Il nostro, il mio bacio dolce sancisce una promessa fatta a me stesso, una promessa che non sono mai stato capace di mantenere: niente più dolore.
Genere: Drammatico, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Slash
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale/vago, Scolastico
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Capitolo 4

 

La nottata al mare passata con Matteo è volata via da più di una settimana. Sette giorni in cui mi sono prefissato un solo obiettivo: evitare Matteo più che posso, evitando di conseguenza anche le sue domande continue. Quella notte, non è stato semplice sviare la sua curiosità. Ho provato a cambiare discorso e, vedendo che non avrebbe mai potuto funzionare, ho finto che quella frase detta tra me e me fosse solo frutto dell’alcool ingerito da Matteo ore prima. Lui, sfinito, ha lasciato cadere l’argomento, giusto per darmi qualche giorno in più per macchinare l’ennesima bugia. Niente è mai stato in grado di spegnere la curiosità innata di Matteo  da quando lo conosco, soprattutto quando si tratta di me.

Il telefono squilla insistentemente e, quando riattacco ancor prima che Matteo possa rispondere, spingendomi con la sua bella voce a cambiare idea, capisco quanto quel che provi per lui sia in grado di allontanarlo da me. Proprio l’amore, l’eterno collante di cuori infranti e storie sbagliate, adesso me lo sta portando via. E quello che fa più male è sentirlo scivolare via essendo perfettamente consapevole del fatto che non posso fare niente di concreto per trattenerlo qui con me.

 E, come se non bastasse, c’è Sofia. La ciliegina sulla torta.

Sento la testa pesante, il silenzio della casa vuota non riesce a farmi stare meglio. Per la prima volta dopo anni, sento addosso un senso di solitudine. Troppo piccolo in una casa troppo grande. Mi alzo dal letto, nel quale ormai non facevo altro che rigirarmi, incapace di prendere di nuovo sonno. Mia madre è con Alice dal dottore, mio padre, sbronzo in qualche locale sporco e piccolo come lui. Senza nemmeno togliermi il pigiama, costituito da una vecchia tuta usata per le ore di ginnastica fino all’anno scorso, infilo le scarpe, quasi corro fuori da quella casa poco mia. Faccio le scale a due a due, spinto da una fretta che non mi appartiene, da un vento che spinge i piedi in avanti e fa battere il cuore ad un ritmo serrato. Seguendo una direzione scelta istintivamente, vedo davanti a me una fermata dell’autobus e decido di prendere il primo che passa, ignorandone volutamente la destinazione.

Per una volta, dopo anni, mi concedo una fuga in solitaria, pronto a tutto pur di lasciarmi alle spalle il fantasma di Sofia che, da troppo tempo, non fa che perseguitarmi, senza darmi tregua.

Cerco un posto libero sull’autobus, già stracolmo di gente a quest’ora. Attraverso il piccolo corridoio, voltandomi spesso. Noto un posto tra i sedili in fondo, quelli che sembrano essere stati  fatti col solo scopo di fungere da nascondiglio a chi ci si siede. Mi accorgo che accanto al posto vacante se ne sta seduta una ragazza incappucciata, di spalle rispetto al mio sguardo, ma la mia pigrizia vince il non gradire persone attorno. Prendo posto, le cuffie già nelle orecchie per allontanarmi da quello che mi circonda, ma un tocco leggero sulla spalla mi scuote. Una mano candida, piccola, è appoggiata sulla mia spalla e in quell’istante capisco dove avevo già visto quella mano. Quella mano minuscola era, fino a due anni fa, sempre stretta alla mia. Pur essendo già a conoscenza di chi mi ritroverò davanti, risalgo con lo sguardo lungo le braccia della ragazza, coperte da una felpa ingrigita, i polsi delicati che spuntano quasi per sbaglio. Continuando il mio percorso, scorgo un ciuffo di capelli ramati che, disordinatamente, scappano fuori da ogni dove. Mentre una canzone risuona nelle orecchie, alzo ulteriormente lo sguardo fino a imbattermi nel viso. Ed è quando incontro quegli occhi azzurro cielo che capisco di essere felice di averla incontrata di nuovo. Sofia mi scruta con la stessa precisione che io stesso le ho dedicato, aprendosi in un sorriso quando capisce che l’ho riconosciuta. Le guance paffute, ricoperte di lentiggini, prendono istantaneamente colore, diventate ora di un rosso molto simile a quello delle labbra, tutte da baciare.

Un sorriso imbarazzato, di chi davvero non sa cosa dire, la illumina.

«Edo. Sei davvero tu? » mi chiede, conoscendo già la risposta. Ancor prima che io abbia il tempo di risponderle con un cenno divertito, data la risposta ovvia, lei si precipita ad abbracciarmi, perdendo l’equilibrio quando l’autobus prende male un dosso e finendo così, conseguentemente, tra le mie braccia.

Sofia arrossisce di conseguenza, avvampando quando cerca di districarsi  dalle mie braccia, incastrati l’uno nell’altra come fossimo un puzzle. I nostri abbracci sono sempre stati così: un gioco ad incastro, un riempirsi a vicenda con dolcezza.

La guardo ancora e in lei rivedo la ragazza che mi aveva fatto soffrire.

Fuggita via, senza voltarsi indietro per dirmi addio.

«Ciao Sofia. L’ultima volta che ti ho visto stavamo ancora insieme.»

Reprimo un “mi sei mancata” che se ne stava sulla punta della lingua da quando l’avevo vista giocare con Alice al parco. La sua espressione perennemente allegra si rabbuia, preda del senso di colpa che è impossibile non notare nei suoi occhi.

Sofia, nervosa, arrotola e srotola la ciocca di capelli al di fuori del cappuccio ingrigito, ancora calato sulla fronte. Sembra essere rimpicciolita tutta insieme.

Nel suo viso noto la paura di dire la cosa sbagliata, gli occhi che guizzano da una parte all’altra come se, attorno a noi due, stessero fluttuando tutte le parole che lei non è in grado di dirmi, che sembra voler catturare con la forza dello sguardo.

«Non aver paura, non mordo mica, eh.» le dico scherzosamente, cercando di smorzare una tensione che, dopo due anni di distacco, si è venuta a creare con fin troppa naturalezza. Sofia prende un respiro profondo, come se dovesse immergersi nelle acque più profonde, e finalmente mi rivolge lo sguardo senza poi avere fretta nel guardare qualcos’altro o qualcun altro sull’autobus.

Ci siamo solo io e lei, soli, in un autobus affollato verso chissà dove.

«Comincia tu. Se inizio io a parlare mi incasino e basta.»

La voce di Sofia è finalmente decisa, nonostante le incertezze che cerca di nascondermi. Imitandola volutamente, respiro con calma, cercando di arraffare quanto più fiato e coraggio possibile e, allo stesso tempo, di reprimere la rabbia.

«Prima di dirti quel che ho da dirti, promettiamoci una cosa. Niente bugie e niente omissioni, per oggi. Io ti dirò tutto, e tu farai lo stesso con me. Ci stai?» le propongo io, risoluto.

«Mi sembra il minimo che tu possa chiedere. Inizia.» mi incita lei. Si mette comoda come può sul sedile dell’autobus e appoggia la testa sulla mia spalla, con quel gesto abitudinario di chi conosce il corpo di chi le sta accanto.

La sua vicinanza improvvisa mi colpisce.

Sento chiaramente il profumo fresco che emanano i suoi capelli: un misto di fiori dolce, quasi impercettibile a causa del cappuccio che copre in parte i suoi capelli.

Reprimo un gesto istintivo, che ero solito fare quando ancora stavamo insieme: i suoi capelli sempre intrecciati nelle mie mani, pronto ad attorcigliarli infinite volte e a disfare il tutto pochi minuti dopo, senza mai annoiarmi.

Mi costringo a mettere da parte i ricordi felici che mi legano a lei, per lasciar spazio a quel pizzico di rancore che, dopo anni, non se n’è mai andato.

«Sono stati due anni orribili. Tuttora mi chiedo perché te ne sei andata via senza dire una parola. Qualunque motivo tu avessi, sappi che non ti avrei mai trattenuta qui.»

Mentre formulo quel pensiero, Sofia si scosta dalla mia spalla, su cui si era posata poco prima, come se la durezza delle mie parole l’avesse spinta a ritrarsi.

Sembra sul punto di ribattere ma, con sguardo colpevole, mi fa cenno di continuare.

 «Avrei rispettato la tua decisione e ti avrei lasciata andare. Ma andarsene così? Quale razza di motivo spinge una persona a scappare senza dire nulla al suo ragazzo?»

Sento la rabbia premere in testa, il battito accelerare all’improvviso, al solo ricordo di tutto il dolore di quei mesi. Fingo di distrarmi guardando fuori dal finestrino, oltrepasso il corpo di Sofia come fosse trasparente e ci potessi passare attraverso.

«Da quando sei andata via non sono più riuscito ad avere un’altra storia. Nei primi mesi Matteo mi portava da una festa all’altra solo per strapparmi un sorriso ma, se mi conosci un po’, sai che non sono queste le cose che mi fanno dimenticare quel che avevamo insieme.»

A questo punto sono quasi obbligato a fare una pausa, anche solo per riprendere fiato. Mi concedo un altro viaggio tra i bei momenti condivisi in quei mesi insieme, quel noi che avevamo costruito piano, con l’attenzione ai dettagli di uno scrittore.

Scorrendo nella mia mente ciò che era stata la nostra storia, mi accorgo di quanto, in quei sei mesi, Sofia era riuscita a rendermi felice.

Dopo anni e anni in cui tutti sbavavano dietro a Matteo, chi per un motivo e chi per un altro, per la prima volta in sedici anni una ragazza aveva notato me per primo.

I primi giorni in cui, impacciati e con un po’ di imbarazzo, camminavamo avanti e indietro nei corridoi guardandoci negli occhi e stringendoci a vicenda, come se volessimo dimostrare a tutti che anche due persone pazze e un po’ fuoriposto come noi potevano trovare qualcuno che li rendesse felici e quasi normali.

E poi il primo mese, e quel pomeriggio in centro a Firenze, il primo come una coppia a tutti gli effetti che si tiene per mano mentre cammina e che sembra non avere occhi per nessun altro, che esclude tutto il resto del mondo con il suo sguardo.

E quelle labbra perennemente inamidate da un velo leggero di lucidalabbra alla fragola, che finiva sempre per appiccicarsi a me, facendomi ridere o semplicemente sorridere mentre tentava di baciarmi.

Il brivido che pervadeva entrambi dopo ogni bacio, la voglia di averne ancora, di avere di più. Il sorriso di Sofia il giorno in cui l’avevo presentata come “la mia ragazza”. E, appena una settimana prima che lei partisse, la prima notte passata insieme, la paura di rovinare tutto, il voler rivivere tutto daccapo.

Riprendo a parlare con la stessa sicurezza di prima, senza lasciarmi trasportare dal peso di quei bei momenti. Non ho bisogno di volgere lo sguardo verso Sofia per sapere che sta piangendo. Decido che nemmeno i suoi singhiozzi mi scuoteranno dal mio intento, e continuo, imperterrito.

 «Per un periodo sono passato da una ragazza all’altra senza nemmeno farci caso, vedendo in tutte loro qualcosa che mi riportava a te, in quel modo. Ragazze tutte uguali, illuse e usate per rimpiazzarti.»

Mentre ammetto il vuoto che Sofia aveva lasciato, capisco quanto quei due anni fossero stati difficili. I tentativi di Matteo che andavano in fumo ancor prima di realizzarsi, la mia voglia di studiare che era stata portata via da Sofia, nel momento esatto in cui se n’era andata chissà dove. Ricordo le passeggiate al parco con mia sorella, troppo piccola per capire il mio dolore, ma sempre pronta a farmi ridere.

Tutto torna alla mente, e col ricordo, torna anche la consapevolezza di aver sofferto troppo per una persona che non se lo era mai meritato. Che alle spiegazioni aveva preferito la fuga, una via più facile, senza pensare alle conseguenze delle sue azioni.

«Lasciami spiegare, Edo. C’è un motivo se ho fatto quel che ho fatto.»

«Ne sono sicuro. Ma non sono disposto ad ascoltarti. Ti ho aspettata per due anni, sono stato fermo, ad aspettare una spiegazione che non è mai arrivata. Sono stufo. Non puoi pensare che il mio mondo giri solo intorno a te. Io l’ho pensato, e guarda come sono ridotto. Finisce qui.»

Il pianto di Sofia ormai sembra un fiume in piena, pronto a far crollare argini troppo fragili. Mi volto per un attimo, cercando di capire se guardarla basterà a farmi cambiare idea. Davanti a me c’è una ragazza di diciotto anni con la consapevolezza di una bambina, la fragilità delle ali di una farfalla appena acchiappata con le mani e la tristezza di chi non riesce ad apprezzarsi.

In un’altra vita, sarei stato in grado di perdonarla dopo una visione simile.

Ma il dolore mi ha cambiato più di ogni altra cosa al mondo. Sofia compresa.

Gli occhi azzurri, gonfi di lacrime, sembrano pregarmi di restare.

Le altre persone presenti nell’autobus, ormai quasi completamente vuoto, sono ormai concentrate solo su di noi, lo sguardo puntato su me e Sofia come se fossimo due attori di una storia melodrammatica, che non sa giungere al termine.

Noto in particolar modo una signora attempata, che osserva minuziosamente Sofia con uno sguardo carico di compassione. Scuote la testa con disappunto, delusa.

Una donna poco dietro di me sembra sostenermi, mi rivolge un sorriso ricco di empatia, come se fosse al mio posto e capisse perfettamente cosa sto pensando.

Infastidito dalla curiosità degli astanti, mi lascio scappare un «E voi che avete da guardare? Lo spettacolo è finito.» che lascia tutti in sospeso. Cogliendo al volo la prima occasione per lasciarmi alle spalle questo incontro disastroso, scendo alla prima fermata che mi capita a tiro, privo di senso dell’orientamento, ma con addosso la voglia di scappare che mi aveva portato su quell’autobus.

Incapace di capire da che parte di Firenze sono capitato, mi limito a sedermi sul bordo del primo marciapiede che trovo, senza preoccuparmi della sporcizia o del quartiere in cui sono capitato, apparentemente tetro e non troppo invitante.

Alle mie spalle, due donne discutono all’interno di un negozio, per decidere chi delle due dovrebbe accaparrarsi l’ultimo paio di scarpe a metà prezzo. Origliando quella discussione futile sento il fastidio crescere, paragonandolo col litigio con Sofia di poco prima. Un velo di tristezza si fa spazio dentro me, oscurando la rabbia.

Perché per la seconda volta sono stato capace di perderla.

Perché, probabilmente, non saprà mai quel che davvero avrei voluto dirle.

«Edo!»

La voce di Sofia risuona in tutto il vicinato, coprendo il litigio tra le due donne nel negozio, che si zittiscono per un attimo. Quando alzo lo sguardo, una Sofia piuttosto trafelata mi si presenta davanti, ancora col fiatone. La felpa che prima la proteggeva come un bozzolo è legata in vita, così larga e sformata da far strusciare il cappuccio a terra. Sofia stringe un fazzoletto tra le mani, bagnato dalle troppe lacrime, e mi guarda, sfinita dalla corsa che l’ha portata fino a qui.

«Non puoi semplicemente lasciarmi in pace?»

La mia voce rasenta l’esasperazione, solo per coprire la sorpresa di vederla ancora.

«Avevamo promesso di non omettere nulla. Di dirci tutto. E se tu non vuoi farlo, allora lo farò io per entrambi. Non devi dire nulla, ascoltami e me ne andrò via.» ribatte lei, priva della sua solita parlantina, le lacrime trattenute sulla punta delle ciglia, a stento.

Senza proferire parola, senza nemmeno farle un cenno d’assenso, spingo Sofia a cominciare, troppo curioso per proseguire la rotta del mio orgoglio, massacrato dal troppo amore verso la ragazza che mi aveva spezzato il cuore. Vedo Sofia sedersi sul bordo del marciapiede, vicina a me, ma con un certo distacco.

«Non sono scappata a causa tua. E credo che non potrò mai scusarmi abbastanza per avertelo fatto credere. Gli ultimi due mesi che ho passato qui sono stati un inferno. Non l’ho mai dato a vedere, perché ti saresti preoccupato per me, e non credo di meritarmelo. In seguito a questo brutto periodo, io e mia madre ci siamo trasferite a Roma, per farmi seguire da uno specialista, che mi ha aiutato ad affrontare il tutto.»

«Scusa se ti interrompo, ma questo “tutto” cosa comprendeva?» chiedo io, incredulo di fronte alla rivelazione di Sofia. Sento la testa farsi pesante, il senso di colpa che mi attanaglia lo stomaco perché, per due anni, avevo accusato una persona che stava cadendo a pezzi proprio davanti a me, senza che io me ne fossi mai reso conto.

Troppo preso a crogiolarmi nel mio dolore per accorgermi di quanto lei soffrisse.

«Ti ricordi che un mese prima che me ne andassi spesso rimanevo a casa e saltavo scuola? Ti avevo detto che dovevo aiutare mia madre, perché si era fatta male cadendo, e da sola in casa non ce la faceva. Ti ho mentito.» ammette, con tono grave, riuscendo a malapena a sostenere il mio sguardo, di volta in volta più deluso.

Sofia si tampona le lacrime col fazzoletto umido, i singulti che le scuotono il petto per un attimo non le permettono di parlare. La sua voce è ridotta ad un sussurro quando dice «La verità è che nell’ultimo mese mi ero accorta di essermi innamorata di un altro. Non per una tua particolare mancanza, probabilmente era solo la confusione di quel brutto periodo. Non sapevo come dirtelo, il senso di colpa mi stava distruggendo. E così, è iniziato tutto. E con tutto, intendo questo.»

Sofia inizia ad alzarsi con lentezza le maniche del cardigan, con una delicatezza quasi da copione, come se avesse paura di rompere qualcosa. Nonostante il suo essere così trasandata, arrotola con precisione maniacale ogni centimetro di tessuto, cercando di ottenere piccoli strati della stessa misura. Solo dopo qualche minuto da questo processo così minuzioso, riesco ad intravedere la pelle candida delle sue braccia.

Entrambe le braccia, pallide anche più delle mie, sono interamente ricoperte di cicatrici: alcune sono più profonde, altre più superficiali, altre ancora sono sul punto di rimarginarsi, probabilmente le più vecchie.

Eccola, la cosa da nascondere. Il motivo della felpa troppo grande, del maglioncino tirato fin sotto le mani, troppo a contrasto con la mia maglietta di cotone, a maniche corte. La mia curiosità persistente mi fa allungare una mano sulla superficie della sua pelle, azzardando un «Posso toccarle?» incerto.

«Certo che puoi. Pensavo ti avrebbero fatto impressione.» replica lei, con un espressione a metà tra il divertito e lo stupito. Un sorriso sghembo le illumina il viso, un sorriso triste, di una guerriera che ha fatto di tutto per non affondare e che, allo stremo delle forze, si è lasciata trascinare sul fondo.

Lascio scorrere la punta delle dita sul suo braccio destro, gracile, facile da spezzare. Mentre avverto la durezza delle cicatrici che contrastano con la morbidezza della sua pelle, capisco che quelle braccia sono come una strada piena di buche, che impediscono di godersi il percorso.

«Posso farti una domanda?»

«Smettila di chiedere il permesso, per favore.»

«Di chi ti eri innamorata per sentirti così in colpa?» domando, tutto d’un fiato.

Sofia si prende un momento per sé, come se dovesse riflettere prima di potermi rispondere adeguatamente. Imitando il gesto già compiuto quando eravamo sull’autobus, prende un bel respiro, prima di riprendere in mano il discorso.

«Matteo.»

Il suono di quel nome inizia e finisce nel giro di un istante che, per la sua gravità, rimane per un attimo sospeso in aria, passando dalla bocca semiaperta di Sofia, in tensione, fino a sbattere sulla mia bocca, inerte.

Una bocca che si piega in un sorriso ogni qualvolta si imbatte in quel nome.

«Credo che nemmeno tutte le scuse del mondo potranno mai bastare per rimediare a questo. Insomma, Matteo è il tuo migliore amico, so che non c’è niente di peggio.» cerca di giustificarsi Sofia, con quel filo di voce che le rimane.

Mi dico che finché non incrocerò lo sguardo di Sofia, supplichevole e pronto a tutto pur di essere perdonata, riuscirò a mantenere la poca calma che ancora ho in corpo.

Rivolgo il mio sguardo verso la punta dei miei piedi, e sento crescere la delusione di una scoperta fatta troppo tardi, quando, ormai, non dovrebbe avere più importanza. Immagino, per un secondo, la Sofia di due anni fa, presa da quegli occhi marroni, da quel sorriso aperto e pieno di vita. Visualizzo nella mia mente le nostre mani intrecciati, i baci che ci regalavamo fin troppo spesso.  Esamino nella mia mente gli ultimi due mesi insieme, alla ricerca di un errore che non riuscirò a scovare, perché offuscato dalla troppa felicità di quel periodo.

«Edo, ti prego, dì qualcosa. Qualsiasi cosa.» implora Sofia, afferrandomi la mano e stringendola con forza tra le sue, con l’intento di non lasciarla andare.

«Che vuoi ti dica? Che sono felice di aver scoperto che negli ultimi momenti insieme che abbiamo avuto tu pensavi a Matteo? Che hai preferito sentirti in colpa e farti di male piuttosto che dirmelo in faccia? Forse sarebbe stato meglio non sapere niente.»

«Almeno io ho rispettato la promessa.» risponde Sofia, brusca.

«Che cosa intendi?» replico io, sulla difensiva.

«Mi hai fatto promettere di dirci tutto, senza omissioni. Tu sei innamorato, eppure non mi hai detto nulla. Tu, quello sguardo che hai adesso, non lo hai mai avuto finché stavi con me, Edo. Come dovrei sentirmi, secondo te?» ribatte lei, scostando la sua mano dalla mia come se avere un contatto fisico con me, adesso, fosse troppo.

Reprimo un «Come fai a dire che sono innamorato?» quando mi tornano alla mente le parole di Matteo, di appena una settimana fa. I miei occhi, quei dannati occhi, capaci di giocarmi l’ennesimo brutto tiro con la persona sbagliata.

«Sì, sono innamorato. E sì, probabilmente quando stavo con te si è limitato tutto ad una cotta. Ma questo non toglie che hai sbagliato, Sof. Avresti dovuto dirmelo. Avresti dovuto fidarti di me, e lasciarti andare. Amare qualcuno non è mai sbagliato.» concludo io, indirizzando quell’ultima frase più a me, che a lei.

«Scusa. Ho preferito farmi del male, piuttosto che farne a te.»

Senza pensare al significato del mio gesto, mi alzo dal bordo del marciapiede ed invito Sofia a fare lo stesso. Prima di poterci ripensare, la attiro a me e la stringo con forza, ma senza esagerare, per paura di rompere ulteriormente quel che già lei è stata capace di scalfire. Maledico la mia bontà, la mia forza di volontà che manca quando mi imbatto in persone più deboli e bisognose di me. Sofia finalmente si lascia andare, abbandona il suo corpo leggero al mio, appoggia la testa sulla mia spalla, alzandosi appena sulle punte per incastrarsi al meglio nell’incavo.

Ripetendo un gesto che uso spesso quando Alice piange, le accarezzo la testa con garbo, ritmicamente, creando un movimento oscillatorio che assomiglia alla culla di una bambino che non riesce a prendere sonno. Sofia ricambia la stretta, il suo respiro si calma, abituandosi ad una vicinanza che non abbiamo avuto per troppo tempo.

Quando, un minuto dopo, ci sciogliamo dall’abbraccio, le lacrime sul suo volto sono sparite, sostituite da un’espressione curiosa, che, a suo tempo, adoravo.

«Allora, chi è la ragazza fortunata che ti ha rubato il cuore?»

 

   
 
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