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Autore: MuraroChiara    23/10/2014    1 recensioni
"Non si muore mai da soli"
Non si vive nemmeno da soli e, a 17 anni, la vita l'affronti coi denti. Una storia vissuta da quattro ragazzi come tanti che sono costretti a scontrarsi con temi non sempre facili, quali le dipendenze, l'amore, la violenza, la diversità e la stessa morte, che devono tenere il passo con scuola, amicizie, famiglia, che si trovano ad essere protagonisti, comparse, registi e spettatori del loro grande spettacolo, fino alla sua fine.
Recensite! Mi fate molto felice! Rispondo a qualsiasi domanda sulla storia!! Grazie :)
Genere: Slice of life | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Slash
Note: Lime | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate
Capitoli:
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Paghiamo e usciamo dal locale. Io indosso ancora il giubbotto di Gio. Appena fuori, ce lo scambiamo. Raggiungiamo i motorini e ci salutiamo.
"Ah- mi ricorda- da un'occhiata all'ultimo accesso di Anna, in questo pomeriggio. Vediamo se coincide con quello di May." Faccio un cenno con la testa.
 Torno a casa in poco tempo, dato che ho preso una scorciatoia. Salgo in casa e vedo mia mamma seduta sul divano che beve un caffè. Mio padre è fuori per lavoro fino a cena.
"Ciao Ma."
"Ciao Tesoro, come è andato greco?"
"7.5"
"Bravissimo! Era difficile?"
"Perché?"
"Dico, 7.5 è un bel voto ma.."
"Ma?"
"Volevo solo sapere se avevi avuto dei problemi con.."
“No.”
"Hai fame?"
"No, ho già mangiato. Grazie."
"Di nulla, buono studio."
"Ciao Ma."
La conversazione è piatta, completamente priva di emozioni. Entro in camera mia. Trovo una pila di miei vestiti sul letto da mettere nei cassetti. Li sistemo con cura e poi butto la cartella in terra. Mi siedo alla scrivania.
                Fisso io vuoto. Dire che non ho assolutamente voglia di studiare penso sia un tantino riduttivo. Apro ad una pagina a caso il mio libro di greco e lo sfoglio fino ad arrivare all’esercizio che devo svolgere. Una stupida versione di Apollodoro. “Date spazio all’immaginazione dopo la seconda riga di traduzione”, diceva. Cazzata. Se lo faccio la prof mi lincia. Mi conviene tradurla al meglio. Inizio cercando sul dizionario la prima parola. Volto una pagina alla volta, con lentezza, con non curanza. Scelgo distrattamente i termini e li metto insieme tra loro alla meno peggio. Non va. Non funziona niente. Giro e rigiro le parole ma non si incastrano. Comincio a muovere le gambe, facendo leva sul piede, picchietto con le dita sulla scrivania, mi sfrego la punta del naso col l’indice della mano sinistra. Il vuoto. Chiudo il dizionario e lo lancio in terra. Mia madre sente il frastuono causato dal volume e corre in camera.
“Tutto bene? Cosa è successo?” chiede affannata.
“Niente. È solo che…” sospiro. Alzo le braccia in alto e poi le lascio cadere, piego indietro la testa.
“Non riesci a tradurre?” mi chiede mia madre premurosamente.
“No, non riesco.”
Appoggio il viso tra le mani: qualche lacrima bagna le mie mani stanche. Sono in crisi. Mi capita, qualche volta, di andare completamente nel pallone, senza avere la minima idea di che fare, di che scrivere, di che cercare. Mi tornano alla mente mille mila dubbi, che pensavo di aver risolto, come una semplice preposizione. Mia madre mi poggia una mano sulla schiena e mi accarezza con delicatezza; poi scompare in cucina. Rimango li, solo, con i gomiti sulle ginocchia e la testa sul palmo della mano sinistra, con la penna nell’altra e ci giochicchio. Ora che ci penso, io ho sempre usato delle biro blu per scrivere, perché il nero mi rattristava. Poco più tardi, arriva con una tisana calda. La bevo a piccoli sorsi: scotta. Mi convinco a dormicchiare mezz'ora. Mi giro e mi rigiro nel letto. Vorrei solo che Anna fosse qui. Mi piacerebbe abbracciarla e coccolarla un po'. Sblocco il telefono e apro WhatsApp. Mi ricordo immediatamente della missione affidatami da Gio. Apro la chat con Anna: sono le 14.53 e il suo ultimo accesso è stato alle 14.30. Mi pare una cosa normale, insomma. Guardo per curiosità anche l'accesso di May. 14.30 anche lui. Un po' me l'aspettavo. Fisso il bianco opprimente del mio soffitto che mi sta dando alla testa. Inizio a fantasticare su cosa staranno facendo. Elimino il più velocemente possibile qualsiasi ipotesi nella quale Anna mi sta tradendo con May. Non voglio e non posso anche sono minimamente pensarci. Anna non farebbe mai una cosa del genere. Come se fosse un libro, scorro a ritroso le pagine dei miei ricordi, cercando altri indizi ma non mi viene in mente nulla. Cerco do far corrispondere la teoria di Gio con quello che ricordo, ma è come provare a far passare un quadrato in un cerchio. Da stupidi e impossibile. Guardo la pila di libri che dovrei leggere per la scuola, vorrei iniziarli, ma prima devo fare i compiti. Mia mamma ha detto che fino alle 15.30 non mi devo neanche avvicinare alla scrivania, o potrebbe venirmi un altro attacco.
                Decido allora di chiamare mia sorella, Costanza.
"Pronto?"
"Ciao Costanza, come stai?"
"Ciao fratellino!- " Ride. Sa che detesto essere chiamato "fratellino"- io sto bene, tu?"
"Ho appena avuto un attacco ma tutto sommato bene."
"Mi dispiace.. ma come mai?"
Sospiro. "Non lo so. Alcune volte capita."
"Ieri ho letto il tuo messaggio,- si affretta a cambiar discorso, che non è poi tanto meglio del precedente.
"Ah sì. Ha fatto di peggio, comunque." Dico mentre mi passo tra le mani il cavo del caricatore del telefono.
"Davvero?" Mi chiede incredula.
"Sì, sì. Ha rotto solo qualche tazza e la mamma se l'è cavata quasi con niente. Nulla a che fare con quando ha ribaltato il televisore." Quella volta era davvero uscito di sé.
"E la mamma? Si è decisa, stavolta?" Mi chiede con fare insistente.
"Non so, non penso." Dico con tono piatto.
"Bello schifo. Pensavo fosse la volta buona. Sai come la penso, e sai che qui c'è spazio per te e pe..."
"Costanza. Grazie, lo sappiamo. Ma la mamma vuole stare qui."
"Quando vuoi tu puoi venire, anche solo a fare un salto."
"Durante le vacanze di Natale pensavo di venire, da mercoledì fino al 28, che non so che giorno sia." La informo. Ne avevo già parlato con i miei e avevano detto che andava bene.
"Ah ok! Allora ci vediamo tra poco! Sono felicissima, mi manchi tantissimo fratellino."
"Simpatica. Mi manchi anche tu."
"Ti voglio bene."
"Ti voglio bene."
Butta giù. Mi alzo dal letto e riprendo i compiti. Finisco alle 18.00 circa di fare gli scritti. Mi manca ancora da studiare. Ieri non ho fatto un cazzo, con Anna in giro. Sento suonare il campanello. È Gio.
"Fratello. Sto indagando." Mi dice entrando in casa.
"Spara."
"Allora: entrambi non sono stati online dalle 14.30 fino alle 16.30. Ciò significa che, in questo lasso di tempo, sono stati impegnati. Cosa possono fare due ragazzi di diciassette anni con regolarità il giovedì pomeriggio dalle 14.30 fino alle 16.30?" Mi chiede. Io pensavo fosse una domanda retorica, quindi esito a rispondere. Il suo sguardo si fa insistente e li capisco.
"Sport?"
"No. Il circolo lettura. Si riunisce il giovedì a quest'orario. È anche comprensibile il perché siano partiti così presto, perché il più vicino è a 10 chilometri da qui. Quindi ci sta. Non capisco perché non ci abbiano invitato."
"Perché tu odi leggere."
"Ah già." Mi convinco sempre di più che è un coglione.
"Ok, questo spiega una parte della tua teoria. Ma il venerdì e il mercoledì? Che fanno? Saccheggiano Roma?" Gli ricordo. Non l'avessi mai fatto.
"No! Il venerdì dalle 15 alle 17 c'è il corso di ceramica al centro sociale e il mercoledì la sera c'è il corso di scrittura creativa, alla scuola media."
"Ma davvero?" Lo guardo, facendo intendere dal mio tono che trovo tutto questo un'immensa cavolata e una teoria assolutamente priva di alcuna logica.
"Sì, è per forza così."
Dio, se è stupido.
"Ma i tuoi? Per la sospensione?"
"Sono in punizione a vita. Fino a gennaio. Niente Capodanno."
Faccio una smorfia. È una cosa terribile.
"Allora che cazzo ci fai qui?"
"Avevo detto che andavo a buttare la spazzatura e sono corso qui."
"A piedi?"
"A piedi."
Chiudo gli occhi. Sospiro.
"Secondo me non ha senso quello che dici: insomma, il circolo lettura ci sta, lo ammetto. Ma il corso di ceramica è veramente troppo, è palese che è una cazzata. Ci mancava solo la lezione su come accudire gli unicorni e poi potevi prendere questa bella testolina- dico mettendogli una mano sulla testa e mentre parlo con una vocina ridicola- e buttarla nel cesso."
"Va bene. Allora torno a casa e mi metto sotto."
Si alza e schizza via.
                Io torno in camera e finisco di studiare. Mio papà rientra in orario. Sbatte la porta.
"Vestiti." Mi dice con tono severo.
"Cosa?"
"Cambiati, metti qualcosa di carino."
"Perché?"
"Esci. Con Giorgia, chiaramente."
"Ma davvero?"
"Tra venti minuti devi essere a casa sua; fai tu."
Impreco.
"Ti sento." Mi rimprovera mio papà.
"Non me ne frega un cazzo." Mi pento immediatamente di quello che ho detto.
"Come?" Dice, affacciandosi alla mia porta. Non aveva capito.
"Mi vesto come un razzo." Sillabo. La passo liscia.
Mi infilo qualcosa addosso, nulla di che. Metto le mani nella cartella per cercare le sigarette. Apro la tasca davanti: non le trovo. Tolgo i libri che avevo nello zaino e lo ribalto, ma il pacchetto non si trova. Le avrò finite, dandole a destra e a manca. Mi gratto la testa mentre mi assicuro di non essere visto. Non reggo tutta la sera senza fumare. Potrei impazzire. Vado nell'ufficio di mio padre. C'è un pacchetto aperto sulla scrivania. Mio papà è li, in piedi, con la finestra aperta e una sigaretta in mano. Guarda fuori, il panorama cittadino che si può vedere da una finestra, niente campi verdi, niente azzurro del cielo. Sembra non accorgersi della mia presenza, troppo immerso nella sua sigaretta e nel suo mondo, fatto di cemento e di denaro. Non ho intenzione di farmi annunciare. Entro con un passo deciso e mio padre si volta di scatto, come se avesse percepito una presenza umana indesiderata. È visibilmente teso. Con lo zaino su una sola spalla, le gambe larghe e lo sguardo deciso, fisso gli occhi di mio padre. Di sfuggita, vedo un pacchetto, probabilmente quello da dove aveva preso la sigaretta che stava fumando, sulla scrivania. Era praticamente nuovo, ne aveva fumate solo due. Cammino tranquillamente verso di lui. Sono deciso più che mai a prenderlo. Senza distogliere lo sguardo da mio papà, afferro lentamnete il pacchetto. Lui mi guarda sbigottito.
Indietreggio, senza mai voltarmi.
Mentre raggiungo la soglia della stanza e faccio per girarmi mio papà dice:
"Allora..." aveva capito che io a fottere le sigarette dal suo cassetto.
"Che ti aspettavi?" Allargo le braccia e faccio qualche passo all'indietro, tenendo il pacchetto con una presa salda nella mia mano. Esco. Non saluto nessuno. Appena fuori, mi metto una sigaretta in bocca. Sono ancora dentro il condominio in cui abito e davanti a me ci sono solo le scale. Mi ispeziono toccandomi tutte le tasche. Mi manca l'accendino. Rientro in casa, aprendo la porta con una certa violenza. Sbatte.
"Ho dimenticato l'accendino." Dico a mio padre, ancora in stato confusionale. Lo prendo sbattendo la mano sul legno duro della scrivania. Faccio rumore. Accendo la sigaretta, faccio un tiro e esco.
"Ciao Ma." Dico togliendo la sigaretta dalla bocca.
                Me la fumo in un battibaleno, nello scendere le scale. Accendo il motorino. Arrivo a casa della viziata in orario. Ho deciso che voglio farmi mollare. D'altronde, se mi molla lei, il padre non può vendicarsi e, nonostante la figlia coli il cazzo, non sarà mai talmente stupido da farla pagare a mio padre. La sua casa è una reggia. Parcheggio la moto e accendo una sigaretta. Due camerieri mi aprono la porta. Sputo loro il fumo in faccia, praticamente, ma non l'ho fatto apposta. Non sono un cafone, solo che odio quella ragazza con tutto me stesso. In altre circostanze, mi sarei scusato con loro, ma oggi devo fare lo stronzo. Entro continuando imperterrito a fumare, alzo gli occhi verso il soffitto e sento tossire quei due. Il fumo sale lento. Entro nella stanza principale e Giorgia è li, stravaccata sul divano, come se un maiale fosse stato buttato sul bancone della salumeria. Uno schifo.
"Ciao Amoree!" Mi saluta.
"Ciao" dico, continuando a fumare. Non la degno di uno sguardo. È vestita con dei pantaloni attillati di jeans, delle scarpe bianche, di quelle che vanno di moda e un maglione con sotto una camicia, anche questa di jeans. Un abbigliamento così banale e patetico come solo Giorgia sa essere. È sempre stata così: una ragazzina insulsa, viziata, abituata a avere tutto senza mai accettare compromessi. Una ragazza senza scrupoli, morale, ritegno o pudore, una di quelle che non mi stupirei a vedere in tangenziale. Ho perso il conto dei ragazzi che si limona in discoteca, da sballata, sotto quelle luci stroboscopiche che mi fanno venire solo il mal di testa, ubriaca marcia da far schifo. Opportunista, insensibile, falsa. Tutte le cose peggiori concentrate qui, in Giorgia. Vada al diavolo. Io intanto continuo a fumare.
"Sentimi- inizia, mentre io fisso il vuoto- stasera ti va di farci un po' di coccole?"
Mi irrigidisco. Cosa intende con coccole? Mi alzo di scatto nell’intento di cercare un posacenere ma Giorgia mi afferra per la manica. Ruoto lentamente la testa verso di lei: fa un sorriso malizioso.
“Io…” inizio, ma non mi lascia il tempo di finire.
“Rilassati.” Mi dice con una voce seducente.
Io rimango in piedi, paralizzato. In un attimo lei è lì, dritta davanti a me e mi guarda dritta negli occhi. Fuggo il suo sguardo.  Appoggia le mani sulle mie spalle e le fa scorrere prima sul mio petto, poi sul mio addome, fino a finire una sulla gamba destra e una sulla gamba sinistra. Lei ora è accucciata in terra. Mi guardo in torno nella speranza che qualcuno entri e fermi questa follia. Nessuno accorre in mio aiuto. I suoi genitori sono fuori per cena e non ritorneranno prima delle 23.00. Estrae dalla sua tasca una piccola confezione argentata e l’appoggia sul divano. Ci metto un po’ a capire che è un preservativo.
“Dove l’hai preso?” chiedo pietrificato. Sento i muscoli rigidi.
“In camera dei miei.” Mi dice lei con tranquillità.
In una frazione di secondo, Giorgia mi ha slacciato la cintura e tirato giù i pantaloni. Mi da una spinta e mi fa cadere all’indietro e io sprofondo nel morbido divano rosso. Mi sfila le scarpe e poi i pantaloni e li lancia in fondo al salotto. Rimango solo con le mutande, e sembra che nemmeno quelle mi dureranno molto addosso. Il mio respiro si fa affannoso, sto entrando in iperventilazione. Faccio uno scatto per cercare di recuperare almeno i pantaloni, ma Giorgia mi tiene incollato al divano. Si siede sulle mie ginocchia e si toglie prima il maglione e poi la camicia. È solo in reggiseno. Mi metto la sigaretta in bocca e cerco di alzarmi nuovamente. Sta iniziando a mettermi le mani addosso in un modo che non mi piace affatto. Mi tengo strette le mutande. Tra me e Giorgia inizia una lotta: lei cerca di togliermele, io cerco di tenerle. Penso rapidamente a come uscire, intanto lei comincia a mettere le mani in posti impensabili, che nemmeno Anna per sbaglio aveva mai toccato. Istintivamente la spingo all’indietro: lei cade e si becca una bella botta alla testa. Io corro e afferro i pantaloni.
“Ehi Ettore- sento che mi chiama. Mi giro di colpo. È ancora li vicino al divano.- sei così sexy quando fai lo stronzo.”
Corro.
Mi precipito fuori, ancora in mutante e lascio li le mie scarpe. Magari muore asfissiata. Butto in terra la sigaretta proprio sui gradini all’entrata. Salgo sul motorino e lo accendo. Metto i pantaloni come fossero una sciarpa e torno a casa infrangendo qualsiasi limite di velocità. Parcheggio sotto casa e salgo come fossi inseguito da un pervertito, e più o meno questa è la mia situazione. Mentre corro disperatamente di gradino in gradino, non ho tempo nemmeno per accendere le luci e per pensare che non ho le scarpe. Mi sento un animale braccato da un cacciatore. Arrivo finalmente sul pianerottolo di casa mia. Entro dalla porta e in salotto ci sono mia mamma e mio papà.
“Ciao Ma, ciao Pa.” Dico senza quasi farmi vedere.
“Come mai a casa così presto?” mi chiede mio papà.
Non posso farmi vedere, cazzo. Sono in mutande.
“Giorgia non stava bene.” Invento sul momento.
“Strano.” Replica mio papà.
Sembra che l’abbia scampata. Vado piano, con passo leggero in camera.
“Tesoro, come mai hai il fiatone?” mi chiama mia madre.
Esco allo scoperto. Mi mostro ai miei, praticamente più nudo che vestito, con i pantaloni al collo e senza scarpe.
“Come mai sei senza scarpe e, soprattutto, in mutande.” Mi chiede lei scandalizzata.
Io allargo le braccia.
“Giorgia voleva fare certe cose ma io no. E per questa divergenza di opinioni, io sono scappato via  da casa sua. E nel fuggire, non ho avuto tempo di mettere i pantaloni e di recuperare le scarpe, che sono a casa sua.” Rispondo.
I miei fissano il nulla.
“Io vado a letto, allora.” Annuncio.
“Potevi starci, però.” Dice mio padre.
È li, con in mano la sua birra, grasso, sul divano. Io tengo in una salda stretta il pomello della porta. Mi giro verso di lui. Stavolta, non mi risparmierò.
“Che problemi hai, scusa? Già sono costretto a una relazione forzata e ora devo anche…  non riesco nemmeno a pensarlo: no, ma ora me la spieghi. Ti sei un pazzo…” Rispondo a tono.
“Devi sacrificarti per la famiglia.” Dice.
“Per sacrificarmi già lo faccio, ma non ho intenzione di prostituirmi per il tuo cazzo di lavoro. Tu se li, a ingrassare, sembri un maiale: ti sei visto? Hai la donna più bella del mondo con te e nemmeno la rispetti. Mi fai pena.”  Potevo essere più convincente.
                Me ne vado in camera. Odio mio padre. Lo odio alla follia.
Adesso papà se la prenderà con mamma, come fa sempre. Stranamente non sento alcun rumore, né di piatti rotti, né di urla. Solo il silenzio. Mi metto in pigiama e apro il libro per scuola. Ne leggiucchio una, due pagine. La mia attenzione cala rapidamente e decido di andare su Facebook. Ricevo una notifica nella quale sono stato taggato in un post da Giorgia.
“Sei sexy anche quando fai lo stronzo amore mio.” Trovo scritto.
Gio ha messo mi piace. Nel pensare a lui, ricevo anche una sua chiamata.
“Sei sexy anche quando fai lo stronzo. Spiegami.” Mi dice in tono serissimo.
“Non mi sento di commentare.” Rispondo.
“Aveva le sue voglie, delle quali mi parli ogni tanto?”
“Si.”
“E tu sei scappato, giusto?”
“Giusto.” Mi mordo le labbra. Aveva capito già tutto, perché non era la prima volta che Giorgia ci provava. Io provo a farmi lasciare, e lei è sempre più attratta da me. Provo a vestirmi male, a comportarmi come uno zotico, ma nulla sembra avere effetto. Mi impegno il più possibile nel rendermi odioso, tuttavia Giorgia non desiste dal volermi come suo fidanzato. La sua ossessione per me deve avere radici in qualcosa che va oltre l’aspetto fisico e il comportamento, quasi a simboleggiare una ripicca nei confronti di qualcuno, solo per rendermi “occupato” e quindi irraggiungibile e desiderabile per qualche ragazza.
                Mi addormendo con [R1] questi interrogativi che gironzolano per la mia testa. Mi giro e mi rigiro nel letto, continuando a pensare che tra poco partirò per Pisa e chi s’è visto s’è visto. Domani è solo giovedì, ho ancora qualche giorno di inferno.
 
                Giovedì. Io odio il Giovedì.
Troppo presto. È troppo presto. Non ho voglia. Due ore di filosofia, piuttosto mi sparo in bocca. Mi guardo introno ancora avvolto nel buio della stanza. Mentre appoggio la testa fra le mani e mi stropiccio gli occhi penso a quanto mi faccia cagare l’orario di quest’anno. Mi striscio le mani sul viso fino ad arrivare al mento. Rimango così, a fissare il soffitto nero per l’oscurità e a pensare a come affrontare la giornata. Orami vivo così, alla buona, giorno per giorno, senza farmi troppi problemi, altrimenti sarei dovuto impazzire da tempo. Strano. La sveglia non è ancora suonata, o forse sì? Prendo di fretta il telefono e leggo l’orario: mancano cinque minuti alle otto. Secondo i miei calcoli, non ho il tempo di pisciare. Guardo i pantaloni che indosso: sono quelli della tuta, non assomigliano ad un pigiama, posso andarci a scuola e nessuno noterà nulla. Nel caso potrei portarmi dei jeans di riserva nello zaino. Mi tolgo la felpa bucata che uso per dormire e me ne infilo una pulita, che sarà comunque sporca. Infilo le scarpe come fossero pantofole, metto il giubbino e parto. Quando parcheggio sono le 8.01. corro a perdi fiato su, per due piani di scale, e spalanco la porta. Il prof non è ancora in classe. Tiro un sospiro di sollievo e lancio lo zaino ai piedi del banco. Dopo una frazione di secondo, ecco il professor Falcinelli, un omaccione di 120 chili, più largo che alto: fai prima a scavalcarlo che a passargli in parte, sembra disegnato col compasso. Avete presente una di quelle persone odiose, che sembra nata solo per laurearsi in filosofia e farti scartavetrare le balle nelle sue ore? Ecco: Falcinelli. Siamo una delle uniche classi che hanno lui come insegnante di filosofia e insieme con noi, in questo incubo, ci sono la 4^M, scienze applicate, la 3^P, linguistico, e la 5^D, anche quella di linguistico. Ho un caro amico che frequenta la 5^B, scientifico, e come ha saputo che avrei avuto Falcinelli ha detto che avrebbe pregato per me. All’inizio, non ne capivo il senso: era fine estate, stava per ricominciare la scuola e io avrei studiato filosofia per la prima volta. Avevo preso lezioni da amici di famiglia, perché non stavo nella pelle, non vedevo l’ora di cominciare a conoscere i grandi filosofi greci e contemporanei. Verso l’inizio di settembre, era stato esposto, nella bacheca scolastica, l’organico delle varie classi, i rispettivi docenti, per intenderci. Come lesse il nome Falcinelli, il mio amico trasalì. Il commento che ne seguì fu “Cazzo.”
                Da quel momento, capii tutto. Oggi, era vestito peggio del solito: indossava un completo giacca e pantalone color pesca, con una camicia nera. Apre il libro e parla, parla, parla fino allo sfinimento. Spara nomi di filosofi totalmente a caso, facendo collegamenti che non stanno né in cielo né in terra. Prima di crollare per la noia, guardo Anna. È bella, bella come un fiore, bella come sempre, bella come Anna. Ha i capelli raccolti in una treccia che scende sulla spalla sinistra, il dolce viso appoggiato sul palmo della mano, una blusa bianca abbottonata fin all’ultimo bottone e una gonna azzurra con dei fiori bianchi. Le gambe magre traspaiono un poco attraverso le calze nere. Non mi degna di uno sguardo, è attentissima alla lezione. Decido che è meglio seguire e prendere appunti. Non faccio in tempo a formulare questo pensiero, che sento vibrare il cellulare. La potente voce del professore ha completamente coperto il suono prodotto dal messaggio. Lo leggo, è da parte di Anna.
Sappiamo qualcosa sul supplente di scienze.
 
Tenendo la testa bassa le lancio un’occhiata. Lei mi sta guardando e ne approfitto per fare cenno di aver capito. Esamino ancora una volta il testo. “Sul supplente”: è un maschio, o forse non lo sanno. Spero solo non sia quello che insegna allo scientifico altrimenti, davvero, possiamo spararci in bocca. Mi spremo le meningi ma non mi viene in mente assolutamente nulla.
                “Ragazzi! Fate silenzio,- (e c’è silenzio, cazzo) dice Falcinelli- state buoni, perché, come diceva Seneca, vuoi ottenere la vera libertà? renditi schiavo della filosofia diceva Seneca! E se voi non vi comportare bene, io a ricreazione, non vi mando! Perché se io non vi insegnerei- insegnerei. I N S E G E R E I- quello che so? come facciamo? Infatti, Platone diceva quando insegni, insegna allo stesso tempo a dubitare di ciò che insegni, diceva. Non era mica scemo! - Ed era Ortega y Gasset a dirlo, ma la vedo come licenza poetica.-. Io ora devo, perché lo dice il codice della scuola, io ora devo leggervi questa circolare, tocca a me farlo, non può mica andare quello dell’ora dopo no! devo farlo io perché fortuna vitrea est; tum cum splendet, frangitur! E voi, che siete latini–precisamente-,  dovreste saperlo no? cosa vuol dire, giusto? Ora vi leggo la circolare. Si comunica alla presente che, avete visto come è impaginata bene? Non come alcune verifiche che mi arrivano… si comunica che in data lunedì 23 dicembre inizieranno le vacan… ma tanto lo sapete già no?, le vacanze di Natale. Per chi non lo sapesse -non ci credo che sta per dirlo- il Natale è la festa del compleanno di Gesù, ma che non è come la tua, Chiodini, che vai a ballare, no!, qui è seria la cosa, infatti, come diceva Marx, che io oggi ho spiegato benissimo, la religione è l'oppio del popolo!, mentre tu, Chiodini, l’oppio te lo danno al compleanno capisci -e allora questo prof qua cosa assume per fare discorsi del genere?-. Quindi, da lunedì 23 non ci si vede più. Ciao.” Ed esce. 
                “Prof, abbiamo due ore oggi.” Lo richiamiamo dentro.
Quando mi risveglio, sono le 10.05. La professoressa di italiano non è ancora entrata in classe e non prevedo lo farà prima di qualche minuto, perciò mi alzo e vado verso Anna e May. Do un bacio ad Anna e batto il cinque a May, che sembrano tanto svegli e pimpanti, mentre io sto dormendo in piedi. Mi siedo sul banco davanti ai loro, che sono in terza fila e mi stropiccio gli occhi.
“Novità?” Mi chiede May.
“Nulla di che. Voi cosa sapete?” ribatto sbadigliando.
“Il supplente è un esterno, un ragazzo, è molto giovane, dicono. Abbiamo sentito Falcinelli e Ponzinibio che ne parlavano, ma sai, sono solo voci, non abbiamo certezze…”- mi informa. Le informazioni sono poche ma sufficienti: sicuramente, non avendo molta esperienza, non sarà uno di quei professori col pugno di ferro, sarà semplice piegarlo ai nostri voleri, in teoria. Per le verifiche non prevedo che sarà un problema, abbiamo metodi abbastanza ingegnosi per distrarre i professori e copiare: funzionano anche con quelli più esperti, figuriamoci coi novellini.
                Anna non parla. Sta scrivendo su un quaderno, che cosa non si sa. È la prima volta che la vedo intenta a farlo. Faccio un cenno con la testa a May, chiedendogli cosa stesse facendo Anna, e lui alza le spalle e le sopracciglia, spiegandomi che non ne sapeva nulla. Intanto lei continuava imperterrita a scrivere, e non se ne sapeva nemmeno il perché. Continua a scrivere anche durante l’ora di italiano, scrive, scrive, scrive. Durante la ricreazione, durante l’ora di inglese, quella di storia e di religione, imperterrita. E io la guardo, incantato, fantasticando sul contenuto di quelle pagine, senza che spiaccicasse parola di quello che stava scrivendo, senza che nessuno ne sapesse nulla, nemmeno May, nemmeno io. La giornata passava così, con questo dubbio, con questa domanda: cosa scrive?
                Arrivo a casa distrutto. Non c’è ancora nessuno, meglio. Mangio qualcosa racimolato in frigo, qualche avanzo, poi mi butto sul divano e cerco di dormire. Quando riapro gli occhi, sono le 15.34. Decido di farmi una doccia. Metto a lavare i pantaloni che al tatto sono sudici. Mi tolgo il maglione e lo appoggio sulla sedia in camera mia, mi tolgo la t-shirt che tenevo sotto e la canottiera. Prendo le mutande pulite dal cassettone e dei calzini. Prima di uscire, non posso non passare davanti allo specchio. I segni dell’abbronzatura se ne sono andati via ormai da tempo e la mia pelle è tornata chiara come quella dello scorso inverno. Devo dire che mi sono alzato di qualche centimetro, rispetto all’ultima settimana. Sulla spalla vedo ancora il graffio rosso della caduta in bici di quest’estate, che speravo fosse scomparso con la bella stagione, ma purtroppo non è così. Mentre richiamo alla memoria i ricordi della epica scivolata, entro in doccia. Io la doccia la faccio con l’acqua fredda, è un mio problema, lo so. Quale pazzo si lava così? Mi gratto bene la testa mentre mi lavo i capelli: forse sono troppo lunghi, dovrei tagliarli un po’. L’acqua gelida mi scorre lungo la schiena e sento un brivido. Dopo qualche minuto, sono già uscito ed asciutto. Infilo la mano del cassetto e afferro una maglietta: la annuso per capire se è pulita a meno. Quando mi sono rivestito, torno in salotto. La serata si conclude senza grosse novità.
                Il giorno seguente[R2] , me ne riserva più del previsto. Durante le prime quattro ore la solfa era la solita, la stessa di tutti gli altri giovedì. Ma quell’ora, l’ora di scienze, ha cambiato tutto. Al cambio dell’ora, come penso accada in qualsiasi scuola e in qualsiasi istituto, vige la legge del caos. Noi, del classico, le chiamiamo le ore Dionisie, in onore del Dio Dioniso, che rende molto bene l’idea. Si mangia, si beve, si gioca a carte, si copiano i compiti, si preparano le sigarette per la giornata, si falsificano le firme. Ciccio, la nostra vedetta, è l’unico a mantenere un minimo di contegno. Rimane li affacciato alla finestra e, di tanto in tanto, alla porta che dà sul corridoio, per avvistare gli insegnati per tempo e darci la possibilità di farci trovare seduti ai banchi. Gironi e Chiodini erano appena usciti dall’aula, probabilmente dirigendosi al bar per prendere qualcosa da mangiare; Campana stava intrattenendo gran parte delle mie compagne di classe con le sue simpatiche barzellette che, per la cronaca, non fanno ridere, ma quelle oche sghignazzano solo perché lui è un Don Giovanni coi fiocchi. I più studiosi ripassano, con la testa curva sui libri, sicuri di un’imminente interrogazione. Ciccio è appollaiato alla finestra e scruta l’orizzonte. Anna sta scrivendo, May sta copiando i compiti da me, che sto svuotando un pacchetto di patatine, con i piedi appoggiati sulla sedia e seduto sul banco. Sono le 12.03: Gironi e Chiodini sono appena rientrati. Ciccio non vede nulla. Tutto d’un tratto, un ragazzo entra nella nostra classe. Nessuno di noi lo nota: rimane li sull’uscio, ad esaminare la situazione, poi si avvicina alla cattedra.
“Buongiorno.” Dice appoggiando la tracolla in pelle sulla sedia. Il suo tono è caldo e affascinante. Come lo sente aprir bocca, Anna alza di scatto lo sguardo e lo fissa incantata. Piano piano, tutte le ragazze che gravitavano intorno all’innato talento comico di Campana iniziano ad azzittirsi e a sedersi ai rispettivi banchi. Ciccio scende dal cornicione della finestra e si accomoda al suo posto; Campana si mette a sedere; Gironi e Chiodini smettono di mangiare. Rimango solo io, con le spalle verso la cattedra: mi giro lentamente e rimango stregato a mia volta. Mi alzo con calma e senza abbassare lo sguardo, mi dirigo al mio posto. Il silenzio.
“Buongiorno, ragazzi!” Saluta il professore.
“Buongiorno.” Mormoriamo.
“Bene, finalmente il silenzio. Siete sempre così rumorosi al cambio dell’ora?”
Nessuno fiata.
“Va bene, allora io mi presento: sono il professor Fermi. Sarò il vostro supplente di scienze. Voglio essere estremamente franco con voi. Non sono qui per farmi prendere in giro da nessuno, tanto meno da una classe come la vostra. Mi sono informato: non siete proprio degli stinchi di santo, giusto? Quindi vi conviene mettervi subito in riga, perché i piedi in testa, io, non me li faccio mettere. Sono giovane e inesperto, ma non sono due buone ragioni per comportarsi come degli animali. Io pretendo: silenzio, ordine, disciplina, attenzione, studio e rispetto. C’è da mettervi un due? Ve lo metto senza problemi. Gli altri professori mi hanno messo in guardia riguardo a voi, ho già avuto modo di inquadrarvi quasi uno per uno.”
Un brivido freddo mi scorre lungo la schiena, mi pare ancora di essere sotto la doccia.
“Fate il liceo classico, e allora? Volete un premio? Pensate di essere meglio e più intelligenti di quelli la fuori? Se volete saperlo, io non ho mai capito l’utilità dello studiare il greco e latino, le ragazze e i ragazzi che frequentavano questo corso, ai miei tempi, erano degli sbruffoni con la puzza sotto il naso e, a vedervi, voi non sembrate da meno. Ma voglio darvi una possibilità, quindi, per ora, siete solo una classe di studenti del quarto anno.”
Questo ci ha appena ricoperti di merda con un badile.
“Io ho studiato alla scienze applicate, sono uscito con voti altissimi e sono un uomo di scienza. Non voglio cose filosofiche, battute latine o citazioni greche. Nulla di questo schifo: qui conta la matematica, la scienza. Sono delle scienze esatte, perfette nel loro essere astratte e completamente e assolutamente razionali. Non ci sono interpretazioni, la verità è una e una sola, come le rette passanti per due punti. Immaginatela così, la mia materia: una retta passante per due punti, unica e sola, senza variazioni o possibilità. È, come di te voi ragazzi, una forza! Infatti la forza, come diceva Archimede, si applica! Il greco e il latino, mi dispiace dirvelo, ma no, rimangono utili a loro stesse. Ecco perché io amo le scienze e mi definisco un uomo di scienza. Sono figlio della ragione e dalla precisone, dei calcoli e delle formule, vi ho dedicato una vita, come dovrebbero fare tutti, e non ho seguito la strada della letteratura, così fragile e così aperta alle interpretazioni e, di conseguenza agli errori. La musica è una scienza perfetta, la cucina anche, la costruzione di una casa, la trasmissione del patrimonio genetico, tutte scienze perfette.”
“Non gliel’ha mai data nessuna, a questo.” Bisbiglia quello dietro di me. Scoppio in una risata che riesco a stento di trattenere.
“Mi scusi,- comincia Anna dopo aver alzato la mano- mi scusi se la contraddico ma, vede, io penso che si sia sbagliato nel affermare che la musica, la cucina, la costruzione e il patrimonio genetico sono delle scienze esatte.- Il professore sobbalza. È visibilmente spiazzato.
“In realtà…” prova ad incominciare.
“In realtà, professore- riprende Anna- lei ha ragione, in teoria. L’errore è basilare, dal mio punto di vista, e, se mi permette, si nota che lei è un uomo di scienza: non osserva la realtà, ma si affida essenzialmente al calcolo matematico.”
“Ma…”
“Ma lei ha ragione, e non glielo nego, ma ha sbagliato nel considerare tutto quello che ha elencato prima solamente come una scelta esatta. Infatti, senza l’idea, senza un testo, senza dei sentimenti, la musica cos’è? Un insieme di suoni sintetizzati in onde sonore? E la cucina, senza un sapore, un colore, senza dei condimenti, senza una scelta accurata riguardo la freschezza degli ingredienti, rimane solo una reazione chimica? La costruzione di una casa è solo miracolo dell’ingegneria, o dietro di essa si trova un progetto? E la genetica? Mi sta veramente prendendo in giro? Vuole che le spieghi come avviene la creazione di un nuovo individuo, con un suo codice genetico particolare? Non credo assolutamente, e mi corregga, la prego, se sbaglio, dato che lei ha studiato, che uno spermatozoo si metta a fare un’equazione prima di fecondare un ovulo, o è così? E soprattutto, per un nuovo codice, chiamato anche vita umana, ma non penso che lei ne sappia qualcosa, ci vuole più che una semplice formula matematica: ci vuole una decisione, ci vuole determinazione, due persone e dell’amore. In caso contrario, sarebbe solo un ammasso informe di cellule e le sei è fiero di definirsi tale, buon per lei, davvero. Si ricordi, che prima di essere scienziati o letterati, si è persone, e che dietro formule, scoperte, libri e poesie si trovano idee vincenti e sentimenti, non nati certo grazie alla successione di Fibonacci, ma cullati da una delle più grandi conquiste del genere umano: il pensiero. Il greco e il latino sono il pensiero dell’uomo, oltre che a essere lingue morte, però vive nel significato. Perché esistono le parole? Perché dietro di essere ci sono concetti, idee, modi di vivere.”
Il professor Fermi è esterrefatto, come me del resto. È seduto sulla cattedra, con le gambe, infilate in un paio di pantaloni color ocra piuttosto stretti, a penzoloni. Si accarezza il mento e le guance scavate, coperte da un velo leggero di barba, gli occhi marroni rimangono spalancati e guardano Anna, che si sta battendo per quello in cui crede. I capelli, neri e corti, sono tenuti in ordine da un leggero strato di gel che brilla al sole. Il braccio sinistro è appoggiato nella zona dell’addome, a contato con un morbido maglione grigio, dal quale sporge un colletto di camicia bianco a righe blu. Ora che lo guardo bene, devo dire che ha certamente il suo fascino. Gli occhi grandi, il naso sottile, le labbra rosse. Poi è magro, terribilmente magro, e alto, smisuratamente alto.
“Quindi, professor Fermi, nonostante io la ritenga uno dei professori più carini, più affascinanti e più seducenti mai entrato da questa porta, in virtù di quello che penso e di quello che studio, la invito a prendere la sua bellissima laurea in chimica  e buttarla nel cesso.”
Anna riceve una standing ovation. La classe è un applauso generale: c’è chi fischia, chi fa cori. Ma lei no, è seduta composta, con lo sguardo fisso sul quel docente, così giovane e così attraente, ma allo stesso tempo così lontano dai nostri pensieri. Fermi non ribatte, la classe è in delirio ma lui non ribatte, non fiata, non dice di stare buoni. Si sta mangiano le unghie. Di colpo, come preso da un qualche istinto, si precipita dietro la cattedra, apre la sua borsa e ne estrae un fascicoletto.
“Nome e cognome.” Dice, indicando Anna.
“Anna Traversi.”
Il professore sfoglia le pagine nervosamente. Si ferma su una e la legge attentamente, poi alza lo sguardo verso Anna. Aspettiamo una sua prossima mossa, come una selvaggia interrogazione a sorpresa. Ma lei è li, vincitrice e in toccabile.
“Traversi, lei non mi piace.”
“Perché le ho fatto vedere un aspetto dell’esistenza che non aveva considerato, perché le ho risposto a tono mentre ci insultava? Mi illumini.”
“Tu non mi piaci.”
Anna incrocia le braccia: si sta scaldando parecchio.
“Me ne farò una ragione.” Ribatte lei.
“Voi,- riprende dopo una lunga pausa di riflessione- voi siete degli alunni, e io sono il professore. E io… io non tollero, non tollero un tale comportamento. Per questo motivo, ho deciso di non fare nemmeno un ripasso, no. Faremo una verifica, appena rientrati dalle vacanze. Martedì spiegherò un nuovo argomento, e vi conviene capirlo al volo, perché non ho voglia di rispiegare nulla.”
                Bestemmie volano dal fondo della classe, sussurrate piano, quasi impercettibili, ma si fanno sentire lo stesso. C’è chi inizia già a disperarsi; i secchioni nelle file centrali ci guardano con un’aria quasi di disprezzo, con la faccia da saputelli. Nessuno, e sottolineo nessuno, se la prende con Anna. Siamo tutti arrabbiati col professore: entra in classe e ci insulta come fosse la norma. Lei ha solo fatto presente che esistono altri modi di vedere la realtà, nulla di più. Ma il libero pensiero, ormai, è visto come un’arma troppo potente per essere lasciata in mano a dei ragazzini come noi, un privilegio che nessuno dovrebbe avere, secondo qualcuno. Più siamo ignoranti, meglio è. Purtroppo mi hanno sempre insegnato a pensare, qui al classico. Che sia forse un reato? Questo io non lo so. Ormai l’illegalità è legale, ma pensare viene visto come una colpa, esprimersi come una  mancanza di educazione. E sono stufo, stufo marcio, di questi professori, col sapere e con pochi soldi in tasca, che si sfogano su di noi, incapaci di capire le nostre esigenze e la nostra natura, sia di studenti che di ragazzi, docenti che credono che il mondo noi sia cambiato da quando andavano a scuola loro, che pensano che la materia che insegnano sia l’unica al mondo e la verità assoluta. Con l’amaro di questi pensieri in bocca, sento suonare la campanella. Le lezioni sono finite e si può finalmente tornare a casa. Basta rotture di palle, per oggi.
                La settimana finisce in fretta, come le poche giornate di bel tempo che l’hanno accompagnata e seguita. Inizia a scendere la neve, ormai. Natale è sempre più vicino e sento gli abbracci caldi di mia sorella Costanza stringermi sempre più forte. Manca solo qualche giorno alla mia partenza e sono sempre più impaziente: lunedì passa in fretta, martedì lo trascorro raccontando a Gio, rientrato dalla sospensione, del professore di scienze tanto a lungo che è già mercoledì, quando mi accorgo che è giovedì e che non avevo ancora preparato la valigia, che avrei finito di riempire con le ultime cianfrusaglie venerdì, trascorrendo sabato aspettando l’imminente partenza nella mattinata di domenica. Sono le 6.50 di domenica 22 dicembre. Cammino con tranquillità, trascinando la valigia dietro di me. L’ampio corridoio è gremito di gente e di cartelloni pubblicitari, che costeggiano le pareti di marmo giallastro; il soffitto è ricurvo, in lamiera, bianco, e le luci accese lo fanno sembrare luminosissimo. Raggiungo una scala, numerata col numero 7, e salgo i gradini, sollevando la valigia con forza. Mi trovo sotto un piccolo portico in metallo brunastro, non so se per la ruggine o per la vernice e aspetto il treno delle 7.01. Mi siedo in seconda classe, in un posto vicino al finestrino. Mi sparo la musica a tutto volume nelle orecchie. Il treno si ferma a Bologna, nella stazione centrale alle 8.25: scendo e aspetto la coincidenza, che passerà introno alle 9.18 e ne approfitto per fare colazione. Risalgo sul treno quasi un’ora dopo, a causa dei ritardi. Arrivo a Pisa, nella stazione centrale, alle 11.34, dopo essermi fermato a Firenze per un’altra coincidenza. Percorro i corridoi luminosi al contrario, destreggiandomi tra i tanti pendolari di fretta. Esco dalla stazione e mi ritrovo in piazza. Passo attraverso le arcate di pietra dell’edificio, guardando la fontana difronte a me. Cerco con lo sguardo tra le persone che affollano l’entrata e mi dirigo verso il centro della piazza. Le rotelle della mia valigia saltellano tra un sanpietrino e l’altro. La vedo. È li, davanti a me, seduta su una panchina di marmo, ad aspettarmi. Le corro incontro. Finalmente, Costanza.  
   
 
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