Fumetti/Cartoni americani > A tutto reality/Total Drama
Segui la storia  |       
Autore: Angelo_Stella    03/11/2014    1 recensioni
1941, Berlino.
Duncan, un ventiduenne tedesco particolarmente fedele al Fuhrer, è un nazista perfetto. "Deutschland, uber alles!" è la frase che ripete al mattino, quando si alza per mirarsi allo specchio e crede fermamente nel suo significato. Ma le convinzioni che gli sono state trasmesse con tanta foga andranno a infrangersi.
È Trent che, tra un soffio di voce e una nota di una chitarra malandata, gli insegna la bellezza dell’amore.
Tratto dal testo
“Cosa ci sarebbe di sbagliato? Che ne sappiamo noi di che cosa sia o cosa debba essere l'amore? Solo perché il matrimonio è tra uomo e donna diamo per scontato sia così sempre? O è perché ci hanno abituato? Perché siamo ancora giovani per capire o perché semplicemente il pensiero … ci fa schifo?"
“Io … Insomma … E' così che va avanti il mondo, o no? Con l'amore di un uomo e una donna."
-
Siamo nel 1941 e Hitler trova in Ernst Röhm una minaccia.
Siamo nel 1941 e: “ [...] Tutto ciò richiede l'adozione di più incisive misure contro queste malattie nazionali. “
Siamo nel 1941 e: "Dobbiamo sterminare la radice e i rami di questa gente... gli omosessuali devono essere eliminati!".
....................................
Baci, Angelo e Stella
Genere: Sentimentale, Storico, Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: Shonen-ai, Yaoi | Personaggi: Duncan, Sorpresa, Trent
Note: Lime | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Contesto generale
Capitoli:
 <<    >>
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A
§ L'Angelo racconta §
 
Ehi! Ma ciao! ^_^"
Non dite niente, so già tutto: sono in ritardo di un giorno, mi dispiace molto, davvero!
Ma ora vi metto subito il capitolo! ;)
 
Con questo si apre una questione nuova, che però può essere vista come più o meno importante, a seconda dei punti di vista.
Spero vi piaccia! :D
 
White Tiger, giuro che appena posso, metto a posto quegli errori. Ti chiedo ancora scusa se ne troverai in questo chappy e ti ringrazio, per avermeli fatti notare <3
 
Buona lettura, un bacio <3
 
Angelo





Capitolo 7
 


COLLABORAZIONE CON Stella_2000

Impararono presto come stare vivi, perlomeno, poiché stare "bene", era assolutamente impossibile: ogni giorno s'alzavano all'alba (se erano stati così fortunati da dormire), con l'apertura dell'enorme portone del capannone in cui stavano. Da lì entrava gelida aria e voci crudeli in quella lingua barbara. Ancora più crude, solo per quello.
I più intelligenti, scattavano in piedi, consapevoli fosse la cosa più saggia da fare, nonostante il dolore in tutto il corpo, il freddo pungente come uno sciame di vespe, sotto la veste leggera. La debolezza la vincevano ogni giorno con semplice paura malcelata nello sguardo e nel volto ormai pallido e magro. Le gambe li sostenevano sempre.
Altri, forse perché più giovani, ancora scioccati per i trattamenti ricevuti, se ne stavano accovacciati in un angolo, stringendo le ginocchia al petto, coi vicini che cercavano di tirarli su, sussurrando che avrebbero ricevuto altri colpi, se non si fossero alzati. E così scatenavano ancora più terrore in loro, che serravano di più la stretta. Allora venivano scossi per le braccia, lasciando lividi a volte.
Poteva anche essere non li capissero, c'erano mille lingue diverse.
Quei poveracci guardavano arrivare i tedeschi con terrore e poi continuavano a scuotere i piccoli corpi a terra, a volte implorando, piangendo, perché gli ariani arrivavano, con le fruste e i manganelli! Dicevano che gli avrebbero fatto ancora del male, se non si alzavano!
Ma quelli se ne stavano in una muto silenzio, nonostante si vedesse sempre il movimento delle labbra, in quel viso con gli occhi chiusi. Le orecchie sentivano benissimo i gemiti di alcuni, picchiati già, là in quel capanno e sentivano le lingue e le parole dette da voci imploranti ed impaurite di fianco a loro.
Infine, quando gli ariani erano a meno di due metri, si rinunciava: chi aveva il coraggio si tirava in piedi, iniziando a deglutire e tremare, piangendo ancora qualche lacrima, perché accanto a sé, c'era uno che non si era alzato. E perché lui aveva tentato di alzarlo.
Tra i tedeschi, al mattino, c'era sempre quello dai capelli rossi, il più crudele, che non mancava mai di guardarli ognuno negli occhi, rivolgergli una smorfia di disprezzo, per poi sputare su coloro che vedeva più terrificati. Dare botte ai più giovani, intralciare la camminata ad altri, mentre si dirigevano fuori e farlo cadere. Quelli non si vedevano per tutto il giorno, poi.
Quella mattina, Scott s'era alzato di cattivo umore, anche se il perché non lo sapeva o meglio, lo rifiutava categoricamente, per cui, appena vide i soliti vermi terra, scaricò su di loro tutta la sua ira, gli altri costretti a guardare ed ascoltare.
Sia per Duncan che per Trent, dal primo giorno, era difficile dormire: negli occhi rimanevano immagini orrende e rumori ancora più strazianti, per cui spesso stavano svegli, schiena contro schiena. Mormoravano un poco, sempre le solite domande e risposte.
"Stai bene?"
"Sì e tu?"
Risatina sarcastica. "Ormai è routine!"
"Beato te che la pensi così."
E poi lasciavano cadere le palpebre per un po', senza addormentarsi, però essendo consapevoli del respiro dell'altro e dei mille respiri intorno a loro.
Si alzavano sempre in piedi, al mattino, non appena il primo schiaffo di vento sferzava loro le guance, molto spesso prima di tutti gli altri.
Gli "altri". Era un concetto che portava conforto, in un certo senso: la consapevolezza di non essere soli.
Subito dopo averlo pensato, però, ad entrambi saliva un brivido di ribrezzo lungo la schiena: altri erano nella loro situazione. E loro non avrebbero mai augurato a nessuno di esserlo! Nemmeno alla più odiosa delle creature!
Se poi c'era una cosa che avevano notato, questa era che Scott non andava da loro quasi più: al mattino sparpagliava le sue truppe, di solito quattro uomini, ognuna ad ogni angolo del capanno e da loro mandava sempre qualcun altro. Il più crudele di tutti, sì, ma non lui! Lui se lo ritrovavano solo dietro, quando erano in fila per uscire. Ma a nessuno dei due aveva mai picchiato le gambe.
Giorno dopo giorno, eseguivano ordini, mangiavano miseramente, a volte venivano separati e allora stavano entrambi male. Venivano picchiati e frustati, soprattutto prima d'andare a dormire, così passavano molte notti a guardarsi i lividi.
Più tempo passava, più avevano entrambi fame. E anche gli altri: li vedevano azzuffarsi tra di loro per avere qualcosa di più, prendersi per le vesti, la gola e le gambe, mettendosi a lottare sotto gli occhi degli ariani, che ridevano, indicandoli.
Stavano lontani dalla gente così, sempre. Preferivano tenersi la fame.
Una volta ogni tanto arrivava un tedesco, uno qualsiasi, che diceva che potevano lavarsi e quasi veniva travolto da quella massa di animali, che correvano verso le latrine per un semplice getto d'acqua fredda, che poi andava ad asciugarsi nell'aria gelata, perché loro ordinavano di correre svestiti finché non dicevano di fermarsi. Quando volevano, arrivava un colpo di frusta ai polpacci. Poi urlavano di alzarsi e se non lo facevano, altro colpo. Quando ci si doveva fermare, non erano completamente asciutti e i brutti vestiti s'inzuppavano, facendoli tremare.  
Ognuno parlava sempre meno, per risparmiare fiato e con loro anche Duncan e Trent divenivano sempre più taciturni, gli occhi persi in chissà dove.
Quella notte, però, Trent piangeva, rannicchiato contro il muro. Non lo faceva spesso, anche se avrebbe voluto. In quel momento, tuttavia, non era riuscito a trattenersi.
Fu uno di quei rari momenti in cui Duncan parlò. Gli si accostò di più, fino a far sfiorare le loro braccia.
"Trent, perché piangi?" gli chiese dolcemente, accarezzandogli lievemente il volto con due dita.
"Perché non lo faccio da troppo tempo. Perché ne ho bisogno!" rispose lui, guardandolo un attimo negli occhi, per poi richiuderli e far scorrere le lacrime sulle gote. Scavarono due righe nel viso sporco.
Gli altri dormivano, non l'avrebbe sentito nessuno.
"Trent … Ti prego!" fece Duncan, mettendosi davanti a lui e facendo toccare le loro fronti.
"Di cosa, mi preghi?" gli rispose, con tono sorprendentemente dolce.
"Di non fare il loro gioco, amore!" Lo fece sedere sulle sue gambe e lo abbracciò.
"Amore." disse ironico il ragazzo, con un risolino. "In un posto come questo riusciamo a ricordare che cos'è? Ancora per poco, credimi!" Si guardarono negli occhi e lui scosse la testa. "Non è il posto, questo! Non c'è il tempo, qui! Non c'è modo! E tu …"
"Non dirlo!" lo bloccò, dilatando le pupille, impedendogli d'infierire. "Non dirlo, non accadrà, mai! Te l'ho promesso!" Lo disse prendendogli il volto tra le mani e guardandolo negli occhi.
Trent annuì, per poi accoccolarsi contro di lui. "Non è neanche il luogo delle promesse!" pensò. Non lo disse.
 
Le porte si spalancarono, il vento entrò e schiaffeggiò tutti i loro corpi, mandando brividi freddi lungo le loro gambe e schiene.
Duncan spalancò gli occhi e si rizzò in piedi, giusto in tempo per vedere i tedeschi scortare un giovane, legato per i polsi dietro la schiena e con un secchio in testa, che impediva agli altri di vedere chi fosse in volto.
Sbarrò gli occhi: lui non lo sapeva. Gli ariani si erano stancati di vedere che certa gente aveva ancora il coraggio di stare in ginocchio o seduta, quando loro ordinavano di stare in piedi. Erano loro a dare ordini, ma alla gente non entrava in testa.
"Sempre che abbiano un testa!" aveva detto di loro, una volta, uno di quegli individui, facendo scoppiare gli altri in un'orrenda risata.
Così, ne avevano preso uno completamente a caso ed avevano deciso di mostrare cosa sarebbe successo se avessero osato di nuovo disobbedire. E l'avrebbero fatto sempre, con o senza ordini, ai più giovani come agli adulti. Agli ariani e agli altri.
Un po', Duncan non mancò di pensarlo, volevano solamente divertirsi ancora, semplicemente aggiungere terrore al terrore.
Scott non era con loro e questo, il ragazzo lo notò e gli sembrò quanto mai strano: vedeva i suoi occhi, ogni volta divertiti e sprezzanti, incuranti delle lacrime. Freddi come l'inverno che contenevano e lui era la tempesta, quella incessante che altro non fa, se non sfregiarti di continuo, fino a farti cadere.
Urlarono in tedesco di andare a vedere e sotto l'esempio di uno come lui, che capiva la lingua, gli altri lo seguivano cecamente, fidandosi, anche se non lo conoscevano.
Avessero saputo chi era, come l'avrebbero trattato? Non poteva far a meno di chiederselo, forse l'avrebbero ammazzato loro, di botte, per il semplice fatto d'aver fatto parte di quel popolo. O forse sarebbero stati clementi? Era là con loro, dopotutto!
Alcuni, invece, sempre per la difficoltà nel capire o per la paura, ancora non si muovevano. I vicini non li aiutavano più, gli occhi già fissi su quel poveraccio, in mezzo al capanno, mezzi morti, le bocche serrate. Forse pregavano per lui, forse no. Forse pregavano che non succedesse anche a loro.
E i tedeschi li bastonavano, come sempre, facendoli gemere. Sulla pelle, lividi su lividi, erano sempre gli stessi.
Duncan si chiese se desiderassero la morte. Lui aveva un motivo per cui vivere, una persona da abbracciare ancora, da vedere, con cui parlare durante le notti insonni. Ma cosa poteva sapere, di loro? Cosa avevano perso e chi. Se lo chiedeva e alla tentazione di aiutarli, stava zitto, a volte chiudeva le palpebre e ascoltava.
Andò a vedere, insieme alla maggior parte degli altri, che però dovettero aspettare gli ultimi, quelli che arrivarono a gattoni, poi costretti a tirarsi in piedi. Le gambe tremavano a tutti.
Non dissero più nulla, gli ariani, semplicemente gettarono via i manganelli e presero delle fruste con piccoli ganci di ferro. Fecero un cerchio, intorno a lui e poi, a turno, iniziarono a colpirlo dove preferivano, ogni volta in una parte differente del corpo.
Urlava ogni volta. Si girava sulle proprie gambe. Quando veniva colpito alle caviglie, cadeva a terra sulle ginocchia. Allora le mani venivano colpite. La schiena, lo stomaco e il bassoventre. Uno colpì il secchio, ad un certo punto e il suo rumore dentro rimbombò, facendolo urlare più forte ancora. Le grida sbattevano tra i muri.
Veniva la pelle d'oca.
Si potevano vedere certi punti della veste da cui usciva sangue, perché tagli più profondi di altri. Ma quando gli uncini entravano ed uscivano rapidi, lo strazio era più potente.
A chi era concesso guardare i palmi delle mani e le dita, vedeva semplici graffi rossi, da cui colava una riga di sangue rosso fine. Le gambe parecchio scoperte e i piedi nudi, erano inguardabili, nere e rosse quali erano i colori del loro stemma. Odiata svastica!
Guardarono: dietro ognuno di loro c'era un tedesco, pronto a bastonarli, nel caso non l'avessero fatto. Tremavano e deglutivano; gli ariani ridevano, perché lo facevano. Non pianse nessuno.
Neanche Duncan. Lui non piangeva!
Alla fine gli slegarono le mani e uno di loro gli diede un calcio nella schiena. Lo fece cadere a terra con le mani, che subito cedettero: le braccia erano deboli! L'uomo mantenne il tacco dello stivale lucido su quel graffio che aveva proprio lì, in mezzo, in corrispondenza alla spina dorsale e disse loro di prendere esempio. Che sarebbe successo ad altri, se avessero osato disobbedire di nuovo. Premette leggermente e se ne andò con i compari. Lo lasciarono lì.
Gli altri non lo aiutarono, perché vennero fatti uscire. Doveva aiutarlo lui, uno di quei barbari gliel'aveva imposto. Gli disse di portarlo alle latrine e di lavarlo, anche. Di dargli altri abiti.
Così, Duncan lo fece alzare delicatamente e lui emise un gemito basso e un singhiozzo, per i tagli che aveva sulle mani. Gli tolse il secchio dalla testa. La benda dagli occhi. Lo guardò.
"Trent!" fece in un sussurro appena udibile dal ragazzo dinnanzi a sé.
Lo squadrò da capo a piedi, con le labbra leggermente aperte: si vedeva che aveva pianto, ma non lo faceva più, in quel momento.
Alzò le spalle. "Non fa quasi più male." mormorò. Per quanto gli fosse difficile ammetterlo, il bruciore era meno crudele che il dolore.
Il tedesco scosse la testa, per poi accarezzargli il labbro sanguinante, sbattuto più volte contro il bordo del secchio, probabilmente. Ricordò quando gli aveva riservato lui quel trattamento. Lo abbracciò senza stringerlo troppo. Senza chiedere di ricambiare.
"Vieni, andiamo a lavarti!"
Annuì, mentre s'avviavano, silenziosi. Solo Duncan digrignava i denti: Scott non era venuto, ma sicuramente l'ordine era suo.
Arrivati, gli tolse la maglia a righe e guardò con ancora più sdegno il suo corpo sfregiato con un labirinto di mille tagli, profondi e superficiali, che si sovrapponevano tra loro, a volte. Come fatti con un taglierino.
Non aveva mai avuto pudore con lui, Trent, ma in quel momento, avrebbe voluto coprirsi. Di più gli salì quel desiderio, quando fu completamente svestito. Mentre lo lavava, pianse.
Duncan lo sentì.  
 
Non in molti sapevano che c'era una piccola porta, nascosta bene sia fuori che dentro, per cui non ebbe alcun problema ad usarla senza farsi sentire né far entrare quel vento del mattino che avrebbe svegliato tutto il capanno.
Si mosse naturalmente, con passi felpati, che si sentivano appena e gli si avvicinò, fermandosi a guardarlo, addormentato per davvero: aveva pianto, si vedeva dalla debole luce che entrava dalle finestrelle alte. Il volto rotto. Ghignò.
Poi guardò alla sua sinistra e il suo ghigno compiaciuto scomparve, di fronte al ragazzo dagli occhi di cielo che gli dormiva accanto: quanto lo disprezzava, in quei momenti più che mai! Non riusciva a credere che fosse stato sul serio il suo migliore amico, mesi addietro. Scosse la testa.
Dopodiché, decidendo d'ignorarlo, prese in braccio il più piccolo con delicatezza e lui, forse percependo il suo calore, gli si fece più appresso, lasciando uscire dalle labbra qualche lamento di dolore.
"Sh! Sta buono!" gli mormorò in un orecchio, con un sorriso quasi divertito.
Forse lo sentì, anche se il nome che mormorò, non gli piacque affatto. "Duncan." Il fatto che dopo averlo fatto, parve più sereno, gli fece ancor meno piacere.
Iniziò a camminare, lasciandosi dietro il corpo dormiente di quella creatura, sempre che così si potesse chiamare, curandosi invece e soprattutto di non farsi sentire e che non si svegliasse la creatura che aveva tra le braccia. Si scosse nel gelo notturno, per poi tornare tranquillo quando entrarono negli appartamenti della volpe.
Era leggerissimo, non doveva davvero mangiar molto!
Il ragazzo lo posò su una branda che aveva fatto portare, chiuse la porta con noncuranza e ciò provocò un rumore sordo. Accese le luci, facendolo mugugnare e aprire a tutti gli effetti le palpebre, dopo averle strofinate molte volte, con piagnucolii di disapprovazione.
Nemmeno riposava! Debole, magro e pieno di graffi!
Gli ci volle un minuto per mettere effettivamente in chiaro chi aveva dinnanzi, vide anche sfocato, al principio, ma poi, quando distinse perfettamente i suoi capelli rossi e la sua figura, appoggiata allo stipite della porta, braccia incrociate e sorrisaccio in viso, gli occhi pieni di lussuria, spalancò gli occhi ed iniziò a tremare, senza vergogna di mostrarlo.
Scott scoppiò a ridere. Gli si avvicinò e sedette sul bordo del lettuccio, sorridendogli a poca distanza dal volto. "Rilassati!" mormorò a fior di labbra, con voce falsamente morbida. Quasi dolce. Gli carezzò con un dito il labbro offeso. "Oh!" fece, inclinando il viso da un lato. Ghignò. "Così sei anche meglio!" Alzò un sopraciglio.
Trent si tirò istintivamente indietro, senza il coraggio di parlare ancora e guardandolo con gli occhi fuori dalle orbite, sull'orlo delle lacrime. L'immagine della paura.
"TI HO DETTO DI RILASSARTI, DANNAZIONE!" s'infuriò allora il rosso, avvicinandosi di più e facendolo cadere all'indietro, sotto di sé.
Tremò di più.
La volpe sorrise. "Oh, bé, infondo hai ragione tu! Chi si fiderebbe di uno come me, giusto?" Aspettò un cenno che non venne. "Sappi che io non c'ero, oggi, quando ti hanno offeso, Trent. E non vengo mai a farti del male, al mattino, o no?" Era vicino al suo orecchio.
Impaurito, fece no col capo.
"Questo, perché tu mi piaci, Trent!"
Gli si dilatarono le pupille, mentre gli afferrava un polso e se lo metteva sotto gli occhi, leccando le ferite sul palmo della mano, per poi intrecciare le loro dita. Si mise in ginocchio sulle sue gambe, ma senza toccarlo, per poi calarsi nuovamente su di lui, l'altra mano sul suo petto. Il cuore batteva forte.
Scott chiuse gli occhi e gli diede un bacio. Trent li tenne spalancati.
Si guardarono: il moro stupito ed ancora tremante, non diceva una parola né mai l'avrebbe fatto, si ripromise.
Il rosso ghignava, divertito da quel gioco col suo cuore, con le sue speranze. Sarebbe rimasto vivo più facilmente, sì. Ma sarebbe appartenuto a lui, sempre. Era così convinto d'avere ogni vittoria in tasca, Scott! Ogni premio. Lui era uno dei tanti, ma era anche vero che gli uomini erano le sue bambole preferite.
Il suo giocattolo favorito!
"Mi piaci!", ancora. Un bacio, ancora. E poi altri ed altri.
 
Venne il vento.
Spalancò gli occhi e si guardò intorno. Scattò in piedi, non vedendolo, perché l'ultima volta non aveva visto che mancava ed era finito nudo davanti a lui, il corpo martoriato. Lo cercò con gli occhi per tutto il capanno, sul punto di piangere. Non c'era, non lo vide. Non s'era accorto l'avessero portato via e non sapeva se l'avrebbe rivisto.
Cercò di ricordare l'ultima volta che gli aveva detto che lo amava. Forse l'aveva fatto quella notte? Non lo ricordò. Si sentì uno schifo.
Le urla in tedesco, non le sentiva più, anche se nessuno era più seduto a terra, dopo quel trattamento pubblico che avevano mostrato. Avrebbe solo voluto vederlo.
Lo cercò anche in fila, con lo sguardo. Ma la gente correva, aveva fame, voleva mangiare e di certo non si sarebbe curata se lui fosse finito sotto e loro l'avessero ucciso a furia di calpestarlo. Non se ne sarebbero nemmeno accorti.
Corse anche lui, allora e non lo trovò a mangiare, nemmeno agli altri tavoli.
Non c'era! Non lì e non fuori, non a correre o nelle latrine, non era da nessuna parte e un dubbio terribile s'impadronì del suo stomaco, quasi lo fece vomitare.
Fu in quel momento, che lo vide, che non faceva nulla e passava totalmente inosservato. Stava accucciato a terra, ma era sorprendentemente pulito, anche se gli abiti erano come i suoi.
Quasi gli venne da andargli incontro. Abbracciarlo, baciarlo e proporgli di morire. Sì, di morire insieme ed essere più liberi, nell'aria. Di girare il mondo, come aveva rivelato essere il suo sogno, di girarlo insieme, vagando come fantasmi per sempre. Insieme e sempre, dovunque avessero voluto.
Ma poi vide anche l'altro, che gli si accostò e si sedette tra la polvere con lui, che gli sussurrò qualcosa e rise pianino.
Ricevette un cenno, gli occhi vacui di Trent non guardavano niente. Sussultò solo quando Scott gli sussurrò qualcosa all'orecchio. Si risvegliò.
E allora, Duncan lasciò perdere: poteva morire, sì. Ma da solo! Lui non era una bambola di carne tra le preferite, Trent sì. Lui avrebbe vissuto sempre. Duncan no.
Scott c'era riuscito: l'inferno iniziava da lì.
Mai insieme e mai per sempre.

WRITTEN BY Angelo Nero
   
 
Leggi le 1 recensioni
Segui la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
 <<    >>
Torna indietro / Vai alla categoria: Fumetti/Cartoni americani > A tutto reality/Total Drama / Vai alla pagina dell'autore: Angelo_Stella