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Autore: Vale11    03/11/2014    7 recensioni
Una chiazza di blu scuro su una panchina, un cappello calato sulla testa, capelli più lunghi che mai che ormai hanno passato le spalle. Non vede le gambe, ma immagina siano rannicchiate contro il petto per ripararsi dal freddo. Gli da le spalle. Steve vede che ha addosso la solita felpa blu, i soliti jeans e Dio, si congela e quell'uomo non ha nemmeno una giacca addosso.
p.s. anche Steve Rogers è uno dei personaggi principali, ma il mio computer ha deciso che non sono degna di selezionare due voci nemmeno con il ctrl. E sia.
Genere: Introspettivo, Malinconico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: James 'Bucky' Barnes
Note: Movieverse | Avvertimenti: Tematiche delicate
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Dopo aver praticamente avuto un crollo di nervi guardando Star Wars (e pensarci lo imbarazzava ancora, anche se sapeva che vergognarsi di una cosa del genere era decisamente stupido) Bucky si era volontariamente rassegnato a passare almeno sei mesi chiuso in casa, alla ricerca di ciò che poteva farlo crollare in un attacco di panico e dei metodi per uscirne. Non si aspettava che Steve lo invitasse a mangiare una pizza fuori dopo appena tre giorni dal suo ultimo crollo psichico, e due dalla fine di quella che gli era sembrata una febbre praticamente infinita. L'idea della pizza, però, lo attraeva parecchio (soprattutto dopo che Steve si premurò di spiegargli che ce n'erano di tutti i gusti, tipi, grandezze eccetera ad libitum sfumando), Washington era una città tutta nuova per lui, e quindi in teoria non ci sarebbero stati momenti di "ohmiodioquelpostomeloricordo" e aveva Steve a controllare che andasse tutto bene. L'idea di uscire di casa lo terrorizzava e lo galvanizzava nello stesso momento: aveva una paura folle di tornare ad essere il Soldato d'inverno, di fare del male a qualcuno, di essere riconosciuto, ma allo stesso tempo aveva fisicamente bisogno di uscire: altri due giorni chiuso in casa e sarebbe impazzito sul serio. Si trattenne dal ricordare a Steve che non aveva più tre anni e che il suo braccio funzionava bene, anche se non era esattamente biologico, e lasciò che il suo migliore amico gli chiudesse la zip della giacca di pelle e gli infilasse i lembi della sciarpa dentro il maglione per tenerlo più al caldo. Non era esattamente preparato ai rumori che gli arrivarono addosso tutti insieme, e se ne rese conto troppo tardi. In un modo talmente istintivo da essere quasi infantile, si strinse a Steve nel momento in cui la prima moto di grossa cilindrata gli passò vicino. Amava le moto, aveva invidiato quella che avevano dato a Steve fin dal primo momento. Quando era il Soldato d'Inverno aveva guidato qualsiasi cosa, ed ora era spaventato dal loro rumore. Si chiese se anche questo facesse parte del suo processo di riumanizzazione, come lo chiamava Steve, o se si stesse semplicemente rincoglionendo. La verità però era un'altra, e lo sapeva. Ogni rumore troppo forte o improvviso lo mandava nel panico, viveva in uno stato di quasi costante agitazione e paura, era convinto che in qualsiasi momento un agente dell'Hydra sarebbe sbucato da un angolo per trascinarlo di nuovo nelle grinfie dell'organizzazione che l'aveva ridotto a un pupazzo di carne, i flashback che gli scoppiavano nel cervello erano a volte positivi, ma il più delle volte terrificanti, e faceva incubi da record. Non ricordava di aver dormito più di tre ore filate da quando stava da Steve, e tre ore era un record personale. Tre ore erano una benedizione. Spesso si svegliava urlando, piangendo o senza nemmeno respirare, e ogni volta Steve era li, con in faccia un'espressione mista fra la preoccupazione e quella di un fratello maggiore terrorizzato. Non sapeva come fare a tornare ad essere il Bucky Barnes di prima, quello che si lanciava a testa bassa in qualsiasi cosa, quello che le ragazze facevano a gara ad accaparrarsi per un ballo. Non ricordava più come si ballasse, non sapeva più in cosa avrebbe potuto gettarsi. Inconsciamente, si avvicinò a Steve ancora di più. Pochi centimetri e gli sarebbe praticamente salito in collo.


Quella che a Bucky arrivò come una sorpresa era in realtà frutto di patemi d'animo e meditazione da parte di Steve: aveva paura di portarlo fuori, per lui e per gli altri, ma si rendeva sempre più conto che stare chiuso in casa l'avrebbe fatto uscire di testa più del dovuto. Aspettò che la febbre gli fosse passata da almeno un paio di giorni prima di proporgli di uscire, e fu piacevolmente sorpreso quando Bucky gli disse di si senza pensarci troppo. Sospettò che la pizza fosse stata la causa principale del fatto che ora erano in strada insieme, imbacuccati fino al naso per non essere riconosciuti, a guardare con un certo interesse le luci di Natale che iniziavano ad apparire per le strade e nelle vetrine dei negozi. Era già dicembre. Non sapeva dove fosse andato a finire novembre. Da quando avevano iniziato a camminare, Bucky gli si era gradualmente avvicinato, fino a camminare con la spalla praticamente attaccata alla sua, il braccio metallico affondato nella tasca della giacca quasi fino al gomito. Gli sembrava teso, forse lo era. Tolse la mano sinistra dalla tasca e la passò sulle spalle del suo migliore amico, lasciandolo entrare senza problemi nel suo spazio personale. Gli sorrise, indicandogli con la testa l'ingresso della pizzeria.


Bucky si fermò davanti all'entrata del locale, coi piedi piantati sul tappetino che diceva "welcome". Non era una novità, ogni tappetino diceva la stessa cosa, ma Bucky si chiese se quel tappetino avesse detto la stessa cosa se avesse saputo chi aveva sopra. Non era più tanto convinto che uscire fosse stata una buona idea, che vedere altra gente fosse stata una buona idea. Aveva paura di un tappetino, figuriamoci del resto del mondo. Il braccio di Steve, ancora appoggiato sulla sua spalla, lo strinse un po' di più.
"Tutto bene, Buck? Se vuoi torniamo indietro".
Si voltò verso il so migliore amico, che stava iniziando ad esibire la sua migliore espressione preoccupata, e fissò di nuovo il locale. Scosse la testa, la sciarpa tirata su fin sopra il naso.
"No, entriamo. Hai prenotato. Entriamo"
"Possiamo disdire"
Bucky scosse la testa di nuovo e staccò i piedi dal tappetino gravido di minacce, facendo il passo avanti più incerto della sua vita.


Steve sorrise alla schiena di Bucky e alla cameriera che si avvicinava per chiedere se avevano prenotato. L'avevano fatto? Molto bene, perchè quella sera erano davvero pieni. C'era il football in tv, sperava non desse loro fastidio. Gli avrebbe portato dei menù a breve, intanto volevano ordinare qualcosa da bere?
Steve rispose che dell'acqua naturale sarebbe andata bene. Lei sorrise e se ne andò. Bucky rimase imbambolato, sepolto sotto una valanga di parole sparate alla velocità della luce. Erano secoli che non parlava pacificamente con qualcuno che non conosceva. E quel qualcuno parlava a raffica. E lui si era sentito un po' disorientato, ecco. Si sentiva la mano sudata.
Steve lo precedette verso il tavolo e si sedette, aspettando che anche lui facesse altrettanto prima di passargli un menù da studiare. Bucky si sorprese a controllare il perimetro, a registrare la posizione di tutte le uscite, a cercare eventuali minacce che giustificassero la sua paranoia. Quando non ne trovò, non sapeva se essere sollevato della loro assenza o se mettersi a piangere per lo stato in cui si trovava. Era un rottame. Steve non avrebbe dovuto essere obbligato a portarsi dietro un relitto come lui. 


Bucky era a disagio, si vedeva. Gli occhi gli schizzavano da un lato all'altro del locale, avrebbe scommesso che aveva già memorizzato e analizzato ogni faccia, ogni corporatura delle persone li attorno. Gli prese la mano destra, lasciò la sinistra attorno al menù, ancora dentro al guanto che nascondeva le dita metalliche. La strinse e sorrise quando gli occhi di Buck si sollevarono dalla lista e si fissarono nei suoi. Erano enormi.
"Stai facendo la lista delle uscite e quella delle minacce. Stai controllando che non ci sia niente di pericoloso intorno, e stai pure calcolando quali percorsi sarebbe meglio utilizzare in caso di fuga d'emergenza da qui".
L'espressione che si stampò in faccia a Bucky gli spezzò il cuore in due. Di netto.


Bucky si sentì perso. Steve l'aveva letto perfettamente, e ora avrebbe finalmente realizzato che razza di crepe aveva il suo cervello. Gli avrebbe detto che era pazzo, che non era razionale fare così, e avrebbe avuto ragione. Aveva voglia di scappare, o di mettersi a piangere sotto il tavolo. Magari sarebbe scappato sotto un tavolo, e poi avrebbe iniziato a piangere. Invece, Steve gli sorrise. Strinse le sue dita un po' di più, e gli sorrise.


Steve vide tutta la paura di Bucky arrivargli in faccia in pochi millesimi di secondo. Gli sorrise, cercando di calmarlo, e lasciò che le sue dita stringessero quelle del suo migliore amico. Erano fredde. Bucky era sempre troppo freddo.
"E' normale, Buck, lo facevo anch'io dopo essere tornato. Ho continuato a farlo per tanto tempo, a volte lo faccio anche adesso." 
Continuò a tenere le dita di Buck fra le sue anche mentre gli versava un bicchiere d'acqua, glielo spinse davanti.
"Si chiama sindrome da stress post-traumatico, Buck. Non c'è niente di male, non devi vergognarti di niente. E' normale che la tua mente, o la mia se è per questo, reagiscano in un certo modo dopo essere state sottoposte a quello a cui sono state sottoposte. Ci sono tanti modi per controllare la cosa, o anche per eliminarla completamente."
Gli indicò il bicchiere con un cenno della testa, Bucky non diede segno di voler bere.
"Io la controllo al meglio che posso, ma non sono mai riuscito a eliminare del tutto certi pensieri o un buon numero di fobie, Buck. Non preoccuparti, ne verremo a capo insieme. E, se vorrai, posso sempre sentire se Sam ha tempo per darti una mano. Non credo che si rifiuterà"
Il nome di Sam sembrò scongelare qualcosa in Bucky, gli angoli della bocca scesero considerevolmente.
"Sam - ripetè - Sam, ovvero il tuo amico con le ali? Quello che ho praticamente fatto cadere da una fortezza volante dello Shield? Quello che ho provato a fare fuori? Oh si, credo che avrà proprio voglia di vedermi, quel Sam."
Finalmente strinse le dita attorno al bicchiere e tirò giù una sorsata d'acqua. Gli bruciò la gola. Steve scosse la testa.
"Sam lavora coi veterani, Buck. Aiuta le persone a tenere la paura sotto controllo, a distinguere la realtà da ciò che non è vero. E sa che non è colpa tua. Sa cosa ti hanno fatto. E lo so anch'io. La domanda, Buck - gli disse, toccandogli il polso sinistro quando si accorse che le dita metalliche di Bucky stavano stringendo il bicchiere troppo forte, Bucky allentò subito la presa - la domanda è se lo sai tu".
Bucky lo fissò come se gli avesse dato un pugno. 


Se lo sapeva lui. Come faceva a saperlo, lui? Non si ricordava il cinquanta percento della sua vita, e quello che si ricordava era diviso in bene e male con un accidente di pennarello nero. Non c'erano grigi. Come poteva assolversi da ciò che aveva fatto? Intellettualmente sapeva di essere stato condizionato, usato, forzato, ma le mani che avevano fatto quelle cose erano le sue. Sapeva ancora come spezzare un collo a mani nude, quali vene recidere per dare una morte veloce piuttosto che indurre una lenta agonia. Sapeva come chiudere la bocca di un bambino perchè non urlasse. Sottrasse la mano alla stretta di Steve, cercando di ignorare come le sue dita sembrassero più fredde, appoggiando i gomiti al tavolo e piantandosi i palmi delle mani negli occhi. Non sapeva cosa dire. Non ci riusciva. Non voleva dire niente.  


Steve ringraziò l'intuito che gli aveva suggerito di chiedere un tavolo particolarmente appartato: fra le piante e quell'acquario (seriamente, che razza di pesci erano?) erano praticamente invisibili. La mano gli rimase a mezz'aria quando Bucky rischiò di collassare sul tavolo, con gli occhi coperti dalle mani e le spalle che tremavano. Si era alzato e l'aveva raggiunto ancora prima di gettarsi un'occhiata intorno. Fu sollevato nel vedere che nessuno li guardava. Non c'era niente da osservare, li, per loro. Si accovacciò accanto a Bucky e iniziò a passargli le mani sulle braccia.
"Buck, Buck. Ascoltami. Ehi - gli mise i capelli dietro le orecchie, appoggiò le mani ai polsi del suo migliore amico e iniziò a disegnare cerchietti col pollice sulla pelle fredda. E sul guanto di pelle marrone - Scusami, Buck. E' colpa mia, non dovevo chiedertelo. E' solo che voglio che tu ti renda conto che non devi vergognarti. Non devi pensare che sia tutto sulle tue spalle. Mi senti?"
Si chinò per cercare di entrare nel suo campo visivo, Bucky tolse le mani dagli occhi e appoggiò la fronte sul taglio della mano destra, creando un effettivo scudo dal mondo esterno che gli permetteva comunque di vedere Steve. Annuì. Gli scappò un sorriso quando vide Steve appollaiato così sulle sue ginocchia. Per un qualche motivo sconosciuto, gli ricordò terribilmente un gatto troppo curioso. Quando lo vide sorridere, Steve gli sorrise di rimando.


Vide Bucky srotolarsi letteralmente, ruotando le spalle e gettando la schiena contro lo schienale della sedia. Lo vide sbuffare, far uscire la tensione con l'aria. Restò accovacciato accanto a lui finchè gli disse: 
"Guarda, puoi stare piegato li finchè vuoi, ma io un pezzo della mia pizza non te lo do"
Scoppiò a ridere.


Steve rideva. Aveva fatto ridere Steve. Allora qualcosa di buono era ancora in grado di farlo. Sorrise mentre lo guardò alzarsi e riguadagnare la sua sedia.
"E io che pensavo di offrirti la cena"
"Dovrai, biondo. Non ho un soldo in tasca"
Steve annuì, diventando serio tutto d'un colpo.
"Bene, mi ripagherai stasera. E' da una vita che non ti disegno, Buck."
Oddio, no. Essere disegnati da Steve significava dover rimanere immobili per un sacco di tempo, ed era noioso, e non ne aveva voglia, e poi ora aveva un sacco di cicatrici che non ci teneva davvero a veder immortalate, e si sarebbe annoiato e…oddio. Anche Steve magari aveva un sacco di cicatrici,adesso. E comunque, quando l'aveva letteralmente raccattato in quel parco l'aveva infilato in vasca. Non è che non le avesse mai viste.
Ma comunque, l'idea di dover stare fermo immobile per ore lo deprimeva a tal punto che gli uscì di bocca un grugnito malamente mascherato da parola di senso compiuto.
"Oddio, sul serio?"
Steve gli scoppiò a ridere in faccia per la seconda volta.


Era dagli anni '40 che non sentiva Bucky lamentarsi dopo avergli chiesto di fargli da modello. E si lamentava esattamente nello stesso modo. Dio, quanto gli era mancato.
"Un disegno per una pizza. E contando anche la pizza di qualche giorno fa, me ne devi due. Di disegni."
Bucky sbarrò gli occhi. La cameriera che si era avvicinata in quel momento per prendere le ordinazioni lo guardò come se avesse visto un alieno, poi gli chiese come mai aveva la faccia di una lepre davanti a un tir.
Steve dovette ammettere che quella ragazza non avesse un filtro dal cervello alla bocca, ma che fosse stata assolutamente divertente.
Bucky spostò gli occhi sulla cameriera e boccheggiò per qualche secondo, prima di sputare un "No, è che la mia faccia è così", nascondendo il viso nel menù e ordinando in tutta fretta una quattro stagioni. Steve chiese la stessa pizza, pensando che gli sarebbe venuto un infarto. 


Fu quando stavano rientrando a casa, camminando per le vie quasi deserte di un martedì sera di Washington, che Bucky gli rispose.
"Non lo so"
Steve lo fissò con un sopracciglio alzato, perplesso.
"Non lo sai, cosa?"
Gli occhi di Bucky si spostavano ovunque tranne che sulla faccia del capitano.


"Non lo so se ho capito che non è colpa mia, Steve. Devo ancora pensarci. Devo capire."
Steve annuì, riprendendo a fissare il marciapiede, le mani affondate nelle tasche. Poi, miracolosamente, disse quello che Bucky aveva bisogno di sentirsi dire.
"Sappi che, a qualunque decisione arriverai, non mi perderai, Buck"
Bucky pensò di aver ricominciato a respirare solo in quell'istante.

  
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