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Autore: coldnight    11/11/2014    1 recensioni
Austin Reed ha imparato ad amare la musica sin da quando era un marmocchio; sin da quando camminava a gattoni e gemeva tentando di dire parole senza senso. La musica era il suo sole, il venticello fresco che scompigliava i capelli e l'aria buona che entrava nelle sue narici.
Non temeva la pioggia, i tuoni od i lampi, ma non gli piacevano le nuvole. Grigie o bianche che fossero. Non le amava specialmente se erano lattee o sembravano lucide. Gli ricordavano le mozzarelle, e lui odiava le mozzarelle.
Austin Reed ha diciannove anni e infondo vorrebbe saper sognare. Sa parlare - fin troppo - e si regge sulle proprie gambe meglio di quanto egli stesso possa credere. Ama il sole, il vento, la pioggia. Ma si ritrova ancora ad odiare le mozzarelle e le nuvole, quelle nuvole fastidiose che non gli permettono di vedere.
[Momentaneamente sospesa]
Genere: Fluff, Triste | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Scolastico
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Prologo.
 

    Fece rumore giocando con la mozzarella che giaceva nel suo piatto, martoriata dalla forchetta che la spintonava da una parte all’altra, talvolta lambendola. Odiava le mozzarelle, sia di colore, che di sapore, che di consistenza. Le uniche accettabili erano quelle a lunga scadenza, che rimanevano compatte. Altre, invece, si scioglievano in bocca, lasciando troppa acqua nella lingua. Gli davano il voltastomaco. Ed erano così bianche, così lucide. Non gli piacevano nemmeno un po’. « Austin, finisci di mangiare e poi sparecchia, per favore. Sto andando al lavoro » si perse negli occhi nocciola di sua madre, annuendo. Non era molto diversa da lei: stessi capelli, stesso portamento, stesse lentiggini, ma occhi diversi. Gli sarebbe piaciuto avere gli occhi di sua madre, erano scuri ma non troppo, dolci ed espressivi.
    Tornò alla sua mozzarella, insultandola mentalmente. Era solo un inutile latticino, non sarebbe di certo finito nel suo stomaco. Aspettò che sua madre varcò la soglia di casa, dopo di che la gettò nella spazzatura. Era uno spreco, e un po’ si sentì in colpa, ma quell’alimento che sembrava creato dal demonio non avrebbe mai trovato il suo palato. Non durante quel giorno, comunque. « Ho scordato le chiavi, scus- Austin » la voce improvvisa di sua madre gli fece cadere il piatto, che si ruppe in vari pezzi sul pavimento. Diciannove anni e ancora aveva una paura tremenda dei rimproveri di sua madre. « L’hai buttata anche oggi. Austin, io non so davvero cosa fare con te. Si può sapere il motivo per cui ancora ti rifiuti di mangiarle? Mi pareva che l’avessi superata » gli chiese, avvicinandosi e guardandolo intensamente. Tuttavia le diede la schiena, raccogliendo i cocci del piatto rimasti ed evitando gli sguardi compassionevoli e al contempo irritanti. Ed ecco che sua madre ripeteva il solito discorso, tentando di fargli tornare su un morale che mai era esistito, facendola arrivare in ritardo all’ospedale e urlandogli dalla porta di salutare Heather da parte sua.
    Stupida mozzarella, pensò, dirigendosi in camera della sua sorellina. Almeno lei riusciva ad avere sogni tranquilli, con gli occhi chiusi e l’aria serena. Si chiese se stesse sognando, toccandole delicatamente i capelli. Le diede un bacio sulla fronte, notando che teneva stretto tra le braccia un portafoto. Lo sfilò dalle sue mani, preoccupato potesse svegliarla. Gli occhi grandi di suo padre lo fissavano sorridente, circondato dalla sua famiglia: la mamma, Heather, e lui, Austin. I capelli neri erano spettinati e il viso esposto al sole. Suo padre gli mancava come l’aria, e a quanto pareva non solo a lui. Gli occhi di Heather nella foto erano chiari, come i suoi, come quelli di suo padre. Erano tutti così felici e spensierati. Invidiò molto il bambino con i capelli rossi e gli occhi acquamarina, con la faccia imbronciata e un braccio attorno al piccolo corpicino della sorella.
    Il corpo di Heather non era cambiato poi così tanto, ma lei sì: era cresciuta, maturata. Guardandola in quel momento, così tranquilla ed innocente, gli venne da sorridere. Le accarezzò una guancia, stando sempre attento a non svegliarla, studiando ogni centimetro del suo viso. Sorrideva spesso, Heather, e rideva a crepapelle, fino alle lacrime. Fino a quando gli occhi non le facevano male, così male da piangere di dolore. Sua madre le diceva sempre che i suoi occhi avevano un pezzo di cielo, che aveva preso da suo padre. La mamma si era innamorata del signor Reed, suo padre, soprattutto grazie a quegli occhi.
    « Amore, adesso nei tuoi occhi si vedono anche le nuvole, sai? » sussurrava la mamma, agli inizi dei suoi pianti silenziosi, baciando entrambi gli occhi della sua bambina. Non troppo tardi le nuvole sovrastarono completamente il cielo, promettendo tempesta, una tempesta che mai sarebbe finita. La cecità non era una cosa facile da combattere.
    Era costretta ad affinare gli altri suoi sensi, a non distinguere i colori, a vivere nel buio. I primi mesi furono un vero strazio, Heather era come isolata dal resto del mondo, dentro una bolla personale nella quale nessuno riusciva ad entrare. Piangeva spesso, troppo spesso, e gli occhi le facevano sempre più male.
Il suono dei singhiozzi continui della sua sorellina fece sentire ad Austin un sapore amaro in bocca. Era così piccola, e così fragile. Ma era anche molto bella. Si sentiva un po’ come un combattente pronto per andare in missione, cercava di smorzare sempre più la tensione. D’altronde erano solo due anni che non vedeva più nulla, e alcuni malintesi potevano sempre capitare. Si faceva forte di fronte agli altri, e più il tempo passava più la sicurezza, pensò lui, le sarebbe entrata nelle ossa, compensando agli occhi spenti ed inutili.
    La cosa di cui Heather aveva più paura era dimenticare il volto dei suoi cari, gli oggetti che la circondavano, i posti che frequentava. Prendeva sempre in mano le foto, tastava la superficie liscia e cercava di ricordare in che posizione erano: a destra o a sinistra, che facce facevano, le loro espressioni, se avevano gli occhi chiusi oppure no. E Austin l’aiutava, quasi giocando insieme.
    « Sei tu? » chiese lei con la voce impastata dal sonno, stringendo la mano che Austin sbadatamente aveva poggiato nel suo viso. Si scusò, sedendosi accanto a lei. « Che ore sono? Hai mangiato? » chiese, girandosi dalla parte opposta al suo viso, dandogli le spalle. Sorrise, cogliendo la sua ingenuità. Le diede un colpetto nella spalla sinistra, facendola voltare nella sua direzione, vedendola arrossire. « Mi giochi sempre qualche scherzo, tu » rise, allargando le braccia per stringersi nel suo petto. Austin annuì, attirandola a sé.
    « Mi suoni qualcosa? » gli chiese, alzandosi di scatto. Quelle domande lo lasciavano sempre perplesso. Non tanto per il fatto di vergognarsi o di non riuscire a suonare bene in presenza di qualcuno, non era un suo problema. Ma per lei. Aveva paura di poterla farla piangere, in qualche modo. Di ricordarle quando era lei a suonare per lui. « Vorrei che non suonassi la chitarra, però » aggiunse, stringendo le lenzuola. A quel punto rimase interdetto, a metà tra l’alzarsi ed il rimanere seduto, con parole morte in gola e lo sguardo perso nel vuoto. Sussurrò di non saper suonare nessun’altro strumento, risedendosi al suo fianco. Rimasero in silenzio, uno a guardare le sue scarpe rosse e l’altra a voler strappare il lenzuolo, sull’orlo delle lacrime.  « Devi smetterla » disse d’un tratto, facendolo sussultare. Il suo tono era pacato, ma l’affermazione era inaspettata.
« Non chiedermi di fare cosa, Austin, perché lo sai benissimo. Devi smetterla, e subito. Non per me, non per mamma. Per te » sospirò le ultime due parole, lasciando andare le lacrime. « E se ci tieni, anche per papà » aggiunse, infine.



Angolo autrice:
eccomi, con questo parto  questa storia appena sfornata: Clouds.
Sembrerà un po' strano il fatto che questa storia si apra parlando di mozzarelle, eppure una mente contorta come la mia ha sognato una scena molto simile, ed ora eccola qui.
Come riportato nella trama, Austin Reed è un ragazzo che ama la musica, che durante la sua vita ha cambiato idee parecchie volte, che ha conosciuto avvenimenti belli e brutti, come penso capiti a ciascun essere umano. Sono molto affezionata al personaggio di Austin, un po' perché è il primo personaggio maschio tra le mie storie e un po' perché è grazie a lui se sono riuscita a voler pubblicare qui questa storia, poiché Austin rappresenta una persona molto importante.
Heather Reed è una ragazzina di cui ancora l'età non è specificata, ma si scoprirà presto. Non vedente, il suo cielo è continuamente offuscato dalle nuvole. A tal proposito, spero che il paragone sia attinente al discorso, poiché sarà importante nella storia.
Spero possa piacervi, essendo un prologo non dice molto, e la fine è inconcludente. Chiedo venia: è da molto tempo che non scrivo, il capitolo è corto e devo riprendere bene.
Accetto le critiche poiché sono sicura mi aiuteranno parecchio, e se volete o potete vi prego di lasciare una recensione: ne sarei molto felice. 
Bene, vi saluto. Un abbraccio,
Haruka.
   
 
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